Attacco Agli Dei

Attacco Agli Dei
Stephen Goldin
Durante una missione commerciale su un pianeta remoto, il capitano di una navicella spaziale Ardeva Korrell si ritrova a fronteggiare una battaglia; con il suo scarno equipaggio deve combattere un esercito di robot e sconfiggere gli esseri tirannici e divini che hanno schiavizzato la popolazione nativa. Il compito che si trovano di fronte è inequivocabile: prendere d'assalto le porte dello stesso Paradiso!
Il capitano della navicella spaziale Ardeva Korrell è abituata a combattere i pregiudizi, sia perché è una donna in quello che è un tipo di lavoro maschile, sia perché viene da un mondo con una religione incompresa. Ma ora durante una missione commerciale su un pianeta remoto, si ritrova a fronteggiare una battaglia di tutt'altro genere; con il suo scarno equipaggio deve combattere un esercito di robot e sconfiggere gli esseri tirannici e divini che hanno schiavizzato la popolazione nativa. Il compito che si trovano di fronte è inequivocabile: prendere d'assalto le porte dello stesso Paradiso!



ATTACCO AGLI DEI
Un romanzo di
Stephen Goldin

Pubblicato da Parsina Press (http://www.parsina.com/)

Versione in italiano pubblicata da Tektime
Attacco agli Dei Copyright 1977 di Stephen Goldin. Tutti i diritti riservati.
Immagine di copertina art © Lunamarina | Dreamstime.com

Titolo originale: Assault on the Gods
Tradotto da: Paola Ligabue
Dedicato a Dorothy Fontana,
Per tanti e tali motivi che servirebbe un altro libro solo per elencarli
“Spero per il Suo bene che Dio non esista –
Perché se esistesse, dovrebbe rispondere di un sacco di cose.”

—Philip K. Dick

CAPITOLO 1
Proprio come un bambino ha bisogno dei genitori, una società immatura ha bisogno dei suoi dei. La libertà è sempre difficile da reggere e si può sostenere il peso delle proprie responsabilità solo dopo aver raggiunto un certo livello di sofisticazione.

- Anthropos – La bontà dell’uomo



La strada, se così si poteva chiamare, era una semplice pista lungo la quale animali a sei zampe, chiamati daryeks – l’equivalente locale dei cavalli - tiravano dei carretti in legno traballanti. I solchi scavati dalle ruote dei carri scendevano nell’acqua per diversi centimetri, mentre il resto della strada era puro e semplice fango. Senza traffico notturno, Ardeva Korrell aveva tutto il sentiero a propria completa disposizione. Il pianeta Dascham non aveva la luna, e il cielo nuvoloso bloccava le stelle al di sopra di esso, così il suo universo era un’oscurità interrotta solo dalla luce di una piccola torcia elettrica che portava con sé mentre arrancava faticosamente a piedi.
“Nel mondo ideale,” disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare, “il capitano di una navicella spaziale non dovrebbe svolgere anche le funzioni della propria pattuglia.” E sospirò. Dascham era lontano anni luce dal mondo ideale così come lei sperava di trovarlo. Poteva anche desiderare un’astronave di sua proprietà, un equipaggio competente, e il rispetto dovutole per rango ed esperienza. Erano tutte cose lontanissime dalla sua realtà.
Le nubi nere sopra di lei minacciavano pioggia – non inaspettata, dato che pioveva ogni notte nelle zone abitate di questo pianeta. Un vento pungente accompagnava le nuvole e gelava il suo spirito, nonostante l’uniforme spaziale che la isolava tutta, tranne la testa.
“Spero che Dunnis e Zhurat siano ubriachi,” disse. “Mi farà un enorme piacere domattina urlare loro nelle orecchie con i postumi della sbornia, e dare loro una multa!” Il pensiero la riscaldò per un attimo, poi se ne andò, lasciando il posto alla sua formazione religiosa, che veniva per prima. “‘La vendetta facilita le frustrazioni solo nelle menti insicure,’” enunciò. “‘La saggezza non ha bisogno della serata di disequilibri naturali.’ Lo so, lo so. Ma a volte penso che la vita sarebbe molto più divertente se io fossi un po’ meno saggia.”
Pensò alla sua cabina calda, anche se minuscola, a bordo della Foxfire, e ai libri che la stavano aspettando là. Questo arrancare nel fango, verso una baraccopoli, per recuperare due componenti dell’equipaggio ubriachi, non era esattamente la sua idea di un modo piacevole di passare una notte fredda e umida su un mondo alieno. Ma era necessario. Avrebbe detto loro che li voleva indietro entro quattro ore; quando ne fossero trascorse sei senza che fossero rientrati, sapeva che avrebbe dovuto prendere delle misure disciplinari. In quanto capitano donna, era già in una situazione abbastanza precaria per permettere anche che l’equipaggio se ne approfittasse.
Almeno non avrebbe dovuto tornare indietro a piedi. I Daschamesi avevano generosamente fornito all’astronave un carretto per il trasporto verso e dal villaggio, ma i due membri erranti dell’equipaggio lo avevano preso per andare in città. Il solo altro trasporto, senza contare le proprie gambe, era la scialuppa di salvataggio della Foxfire, sprecata per una gita di due chilometri.
Così, lei camminava, con il fango attaccato agli stivali ogni volta che sollevava il piede, pensando alternatamente al suo letto e ai libri a bordo dell’astronave e a quello che avrebbe potuto fare a Dunnis e Zhurat se fosse stata una persona meno saggia e in cerca di vendetta.

***

Si trovò improvvisamente di fronte alla città. Un momento il fascio di luce della torcia non mostrava nulla intorno a lei, se non campi aperti, e poi, subito dopo, veniva circondata da rozze capanne che servivano da casa ai Daschamesi. Il terreno sotto i suoi pedi, niente di meglio, per essere all’interno del villaggio, era stato battuto dalla quantità di traffico che lo attraversava quotidianamente.
Per Dev, l’insediamento aveva un aspetto disordinato, squallido, e medievale in modo depressivo – in breve – identico agli altri tre che aveva visto da quando la Foxfire era arrivata su Dascham una settimana prima. Tuguri, più che case, erano stati costruiti con delle canne che assomigliavano al bambù; grosse fessure nelle pareti erano state riempite di fango – probabilmente il sistema che teneva più caldo possibile. Nessuna sorpresa quindi che i Daschamesi indossassero abiti grezzi e pesanti. Dovevano fare qualcosa per impedire che la polmonite estinguesse la loro razza. I tetti, coperti da qualcosa che aveva l’aspetto di parrucche, tenevano probabilmente fuori solo il novanta per cento dell’acqua. Dev si chiese se i Daschamesi sarebbero morti se si fossero spostati verso un clima temperato; anche i loro larghi piedi piatti sembravano adatti per camminare nel fango.
Dev scosse la testa. La deprimeva vedere esseri intelligenti vivere in una povertà fisica così grave. Qualcosa mancava nelle loro caratteristiche razziali, un senso di orgoglio e di completamento. Probabilmente dovuto a quegli dei che adoravano; i tabu religiosi erano così severi da consentire a malapena alle persone di sopravvivere. “Gli dei riempiono le menti di coloro che li servono,” aveva osservato una volta Anthropos. Questo la faceva dubitare della sanità mentale dei Daschamesi.
Il villaggio era buio e straordinariamente silenzioso. Dev stimava che la popolazione contasse diverse migliaia, eppure col calare dell’oscurità sembrava persino che la zona non fosse nemmeno abitata. Ancora gli dei, naturalmente – severi tabù sul fatto di non dovere essere fuori con l’arrivo del buio, tranne in determinate circostanze. Veramente, persino i tetri Daschamesi avevano una loro vita notturna, ma era un magro piacere rispetto a quelli della civiltà umana.
Era una regola dell’universo che creature protoplasmatiche a sangue caldo potessero essere colpite da bevande fermentate. Un’altra regola era anche che menti intelligenti spesso cercassero sollievo da realtà opprimenti indulgendo in qualche forma di alterazione mentale. La combinazione di queste due regole significava che ci sarebbe stato l’equivalente di un bar su qualsiasi mondo un essere umano potesse tollerare.
I bar Daschamesi, costruiti nello stesso stile architettonico – o meglio, senza stile – delle case, erano solo leggermente più grandi. Sarebbero stati accesi di notte, in contrasto con i tuguri oscurati per dormire, e avrebbero teso ad essere leggermente più rumorosi – sebbene, da quello che Dev aveva visto dei nativi, avrebbe scommesso che i Daschamesi fossero ubriachi tranquilli. I bar sembravano essere il solo posto sull’intero pianeta ad offrire una tregua dalla monotonia della vita locale – e sarebbe stato in uno di questi bar che probabilmente avrebbe potuto trovare Dunnis e Zhurat.
Non c’erano strade nel villaggio. Le capanne erano costruite ovunque il proprietario pensasse che fosse opportuno, il che significava che un residente doveva trovare la sua strada grazie al suo istinto.
Dev arrancò nel pantano, cercando gli uomini del suo equipaggio nella città casuale. Cominciava a piovigginare quando trovò il primo bar – una pioggia pesante e monotona che offuscava i contorni degli oggetti intorno a lei. I capelli castani tagliati cortissimi erano completamente bagnati, e le si incollavano alle tempie e al collo. Ma, a parte la vaporizzazione della pioggia mentre colpiva il suolo, non si udiva alcun suono – nessun pianto di neonato, nessuna voce di persona, nessun rumore di animale domestico. Sembrava come se il villaggio si stesse accovacciando per la paura di qualche orrore senza nome. Infine, avvistò una capanna più grande, con luci che brillavano fra le fessure – un bar. Aumentò il passo iniziando una leggera corsa. Non voleva muoversi troppo velocemente e cadere nel fango; avrebbe dato a quei due pagliacci qualcos’altro di cui ridere se fosse entrata in condizioni così disgraziate.
Entrando nel bar, diede un’occhiata all’illuminazione tenue fornita dalle candele nei candelieri alle pareti. Dopo essere stata fuori nel buio pesto della notte Daschamese, ci volle un po’ di tempo perché i suoi occhi si adattassero. Inoltre, c’era uno strano fumo nell’atmosfera, che Dev indovinò fosse prodotta da qualche droga locale, oltre che dall’alcool. Il fumo le bruciava gli occhi e la costrinse a sfregarsi le lacrime con il dorso delle mani.
Quando riacquistò la vista, ispezionò l’interno. Quattro tavolini erano sparsi a caso, ognuno con quattro sedie intorno, Il proprietario stava in piedi dietro ad un tavolo leggermente più lungo – più un banco da lavoro che non un bancone da bar. Il pavimento era di legno puro e le pareti – eccezion fatta per i candelieri da parete e alcune coperte che coprivano le fessure – erano prive di decorazione.
Diversi Daschamesi occupavano i tavoli. Dev, dall’alto del suo metro e ottanta, torreggiava sui nativi, che erano invece in media un metro e cinquantacinque. I Daschamesi sembravano degli orsacchiotti animati. Una pelliccia spessa, opaca, di vari colori copriva i loro corpi. Camminavano sui loro larghi piedi piatti ed indossavano abiti di lana pesante. Le loro corte, tozze mani, avevano ognuna tre dita ed un pollice opposto. Era impossibile per un umano leggere qualsiasi espressione nelle loro facce ursine, ma i loro occhi non avevano la brillantezza vibrante delle persone vive e vivaci
Alla sua vista, i nativi si alzarono velocemente in piedi, Dev non poteva dire se per rispetto o per paura. Probabilmente un po’ di entrambi, suppose. Dopo tutto lei era uno di quegli strani esseri venuti dal cielo. Molti Daschamesi potevano non avere mai visto un umano da vicino, dato che il loro pianeta era molto al di fuori delle rotte tradizionali del commercio, e poche navi si erano avventurate in questa zona. Ai locali, con la loro tecnologia primitiva, gli umani dovevano sembrare potenti quasi come gli dei.
Toccandosi la guancia, accese il suo traduttore. “Vi prego di non spaventarvi,” disse nel microfono e udì la sua voce uscirne nella ringhiosa lingua Daschamese. “Sto solamente cercando due miei amici. Qualcuno di voi li ha visti?”
Silenzio per un attimo, poi due bassi ringhi, che il computer la informò essere un coro di NO. Ringraziò le persone e con un sospiro si avventurò fuori di nuovo.
La pioggerella era diventata un temporale nel poco tempo che era rimasta all’interno del bar. Dev rimpianse di non avere portato con sé il suo casco, ma avrebbe dovuto portare alcune bombole di ossigeno con sé, in questo caso, e i negozi della Foxfire potevano a malapena affrontare quella spesa. Così i suoi capelli castani divennero stopposi e l’acqua le sgocciolò dalla nuca, mentre arrancava pesantemente attraverso il villaggio al buio per trovare il prossimo bar.

***

Era stata una più asciutta, se non più disperata, Capitano Korrell, quella che aveva camminato fino alla porta della Elliptic Enterprises due mesi prima alla ricerca di un lavoro. Il pianeta era New Crete e la situazione era critica. Il suo padrone di casa l’aveva guardata intensamente mentre lasciava l’appartamento; poteva quasi sentirlo chiedersi quanto tempo gli ci sarebbe voluto per fumigare il luogo e fare entrare un nuovo inquilino – uno che avrebbe pagato l’affitto alla scadenza giusta. I suoi magri risparmi erano completamente svaniti, e le prospettive di un lavoro per il capitano di una nave che era sia una donna che una Eoana erano quanto mai scarse.
La porta si aprì quando suonò, ed entrò nell’ufficio. Il panorama era meglio di quanto si aspettasse. Veramente l’ufficio era situato nella parte della città meno alla moda, ma era stato fatto uno sforzo per preservare la dignità e il comfort. I pavimenti erano ricoperti di moquette, e le pareti erano dipinte di un blu riposante e piacevole. Frammenti di scultura interessanti erano ficcati nelle fessure e un paio di cellulari in argento pendevano dal soffitto. La scrivania della segretaria sembrava essere vero legno e la superficie era piena, ma ordinata. Nella stanza nulla si abbinava pienamente a nient’altro, ma almeno era stato fatto qualche sforzo per renderla abitabile. Dev aveva presentato domanda in alcuni uffici che avevano pareti e pavimenti spogli, e grandi insetti che strisciavano con non-chalance sui ripiani. Questo era un notevole miglioramento.
La segretaria – una simpatica donna di mezza età – si annotò il suo nome, la invitò a sedersi e andò nell’ufficio interno per informare il suo capo dell’arrivo di Dev. Dev iniziò a sfogliare alcune riviste mentre aspettava – inizialmente per calmare il nervosismo, ma dopo solamente un minuto era assorbita nell’argomento. Considerò quasi un’intrusione il fatto che la segretaria ritornasse per dirle che il signor Larramac l’avrebbe vista di lì a poco.
Seguì la donna nell’ufficio interno, un tributo all’eclettismo. Larramac era evidentemente un collezionista di soprammobili, perché la stanza era addobbata con dei piccoli gadget particolari: un idrante dei vecchi tempi, un assortimento di rocce colorate, un set di vasi da fiori in porcellana e molti piccoli oggetti che i suoi occhi non riconobbero immediatamente. Dei manifesti coprivano le pareti: “Il lavoro è quello che fai affinché un giorno non lo dovrai più fare” “credo che entrare nell’acqua bollente – mi manterrà pulito.”
Poi Dev notò l’uomo dietro la scrivania. Era magrissimo, e il suo corpo sembrava composto interamente di angoli acuti. I suoi vestiti erano di colori violenti sul rosso e sul blu, e i suoi pantaloncini erano solo una sciocchezza super imbottita. Aveva un pizzetto grigiastro e capelli che si stavano diradando - sebbene non abbastanza da giustificare un trapianto. La striscia rasata dalla fronte al retro della testa – un’affettazione che indicava che sperava di unirsi alla società un giorno - era tatuata con un disegno di numeri abilmente intrecciati per formare un motivo intrigante. I suoi occhi non erano mai fermi, ma dardeggiavano nella stanza, come se avesse paura di perdersi qualche evento speciale.
“Lei è Ardeva Korrell?” le chiese mentre si stringevano la mano.
“Esatto.”
“Non ci sono molti capitani di navicelle spaziali donne, giusto?” Il suo discorso era veloce quanto senza filo. Dev non riusciva a decidersi se fosse un tratto buono o cattivo.
“Ce n’era un’altra oltre a me nella mia classe di laurea, su centodieci,” rispose formalmente. “Tuttavia, in questa professione ci sono ancora meno nani con i capelli rossi e mancini.”
“Suppongo di sì. Da dove viene?”
“Da Eos.”
Larramac alzò un sopracciglio senza dire nulla, un gesto che rendeva impossibile a Dev interpretare i suoi pensieri. “E lei vuole essere il capitano di una navicella spaziale.”
“Io sono un capitano. Le mie credenziali e licenze sono tutte in ordine. Quello che cerco è una nave.”
Larramac annuì. “Il mio problema è che ho una nave e al momento nessun capitano. Fa un sacco di domande di solito?”
“In che senso?”
“Lei deve sapere ogni singola cosa che succede a bordo della sua nave?”
“Sta nei doveri di un capitano sapere tutto quello che succede—”
“Io ho licenziato il mio ultimo capitano perché era troppo inquisitorio.”
“—Ma ci sono alcune cose che non sono così importanti da sapere rispetto invece ad altre,” prese tempo Dev rapidamente. Le preferenze personali devono a volte piegarsi davanti al vento della necessità, dopo tutto. “Il mio compito principale sarebbe quello di condurre la nave in modo sicuro da un porto all’altro. Tutto quello che riguarda questo compito è di mia responsabilità, dalla manutenzione alla astrogazione Altri argomenti possono essere solo marginali rispetto alla conduzione della nave, e su questi posso camminare molto delicatamente.”
Larramac ruminò per un attimo, accarezzandosi il pizzetto. Si avvicinò ad una pila di carte ed estrasse un foglio che Dev riconobbe essere la domanda che aveva inviato la settimana precedente. “Secondo il suo curriculum, ha fatto un sacco di lavori diversi. Non è mai rimasta sulla stessa nave più di un anno. Perché?”
Dev sospirò. C’era sempre qualcuno che faceva questa domanda, sebbene la risposta sembrasse sempre così ovvia. “Pregiudizio. Un sacco di uomini non amano servire sotto un capitano donna. Quelli a cui non interessa, sono a disagio per il semplice fatto che io sia una Eoana. Lei noterà, se controlla la mia presentazione, che i miei datori di lavoro hanno dato in genere il massimo delle referenze. Sono un buon capitano che è stato vittima delle circostanze.”
“Io non pago molto; non posso permettermelo. Seicento galacs al mese, più benefit standard.”
Per un capitano con la sua formazione e la sua esperienza, si trattava di un importo ridicolo; sfortunatamente, la sua situazione finanziaria non lo era. “Dovrei guadagnare almeno il doppio di questa somma,” disse. “Ma gli affari, immagino siano tirati.”
“Non sono proprio nella stessa categoria di Lenning TransSpacial o deVrie Shipping,” ammise Larramac. “Vado sui piccoli pianeti che loro scartano, quelli con il rapporto profitto-costo più basso. Devo leccare la ciotola che mi porgono, per così dire. Tiro avanti e sono stato in grado di costruire. La società è cresciuta negli ultimi due anni, e non vedo alcuna ragione per cui questa crescita non dovrebbe continuare. Tengo le persone se riescono a fare il lavoro che chiedo loro, e sono abbastanza bravo con gli aumenti. Se mi piace il modo in cui farà il primo viaggio, possiamo parlare di un aumento.”
Dev guardò il suo futuro datore di lavoro. Sembrava un tipo onesto; un po’ sopra le righe in quanto a sincerità, un po’ troppo entusiasta e spavaldo, ma molto lontano dal capo peggiore per cui le era capitato di lavorare.
“Mi sono permesso,” continuò Larramac, “di guardare il suo nome sul mio schema.”
“Schema?”
“Sì, i modelli delle lettere hanno tutti dei significati, che tu lo sappia o no. Lei ha un bel nome; si fonde bene con tutto.”
“Sono sicura che i miei genitori La ringrazierebbero: è stata una loro scelta,“ rispose lei seccamente. Lei si chiese brevemente se qualcuno che inseriva il nome di una persona in uno schema prima di decidere se assumere o meno, potesse essere sano di mente. Oh, bene, chiunque gestisca la Elliptic Enterprises deve avere alcune eccentricità.
“C’è solo una cosa che vorrei specificare,” continuò lei. “Devo avere autorità disciplinare completa sul mio equipaggio.”
“E perché?”
“Per prima cosa, è tradizione. Ma più ancora di quello, l’equipaggio deve sapere che voi mi sostenete su tutta la linea. Come ho detto, alcuni uomini si risentono di prendere ordini da una donna. La mia parola deve essere legge – legge assolutamente applicabile – diversamente non posso garantire il funzionamento della nave senza problemi.”
“Sembra ragionevole. Affare fatto, quindi?”
Dev annuì. “Affare fatto. Quando le serve che io cominci?”
“La Foxfire deve partire fra due settimane. Suppongo che vorrà venire a vederla di prima mano, prima di allora.”
Solo due settimane per conoscere una nave cargo da cima a fondo? “Spazio, sì! Sarebbe meglio che io parta già domani a familiarizzare con lei, ad imparare le sue capacità e le sue idiosincrasie.”
Larramac la guardò in modo strano. “Pensavo che voi Eoani non giuraste sullo Spazio.”
“Convinzione errata popolare. Non siamo particolarmente rispettosi dei mistici poteri dell’universo, è vero; ma quando parlo Galingua devo arrangiarmi con le frasi che esprimono i miei pensieri, ivi compresi i cliché conversazionali. La purezza ideologica non è un sostituto della comprensione.”
“Lei è una strana donna, Capitano Korrell.”
“Lo prenderò come un complimento Signor Larramac.” Sorrise. “Qualsiasi cosa che non sia un insulto diretto è più facile da accettare come complimento.”
“Insisto per essere chiamato Roscil.”
“E personalmente, per quanto riguarda me preferisco Dev.”
“E Dev sia! Vorrebbe pranzare con me?”
Dev esitò. Quello, anche se non ne aveva fatto parola, era un altro dei motivi che l’aveva fatta passare da un lavoro all’altro – dipendenti eccessivamente amorosi che pensavano che i doveri di un capitano donna fossero orizzontali oltre che verticali. Non era una puritana e nemmeno una vergine, ma aveva imparato, per esperienza personale molto amara, che il sesso frequentemente incasinava le relazioni di lavoro. D’altronde, la sua situazione finanziaria era tale da non poterle consentire di rinunciare a un pasto gratis. La sincerità di Larramac era una boccata di aria fresca, ma sarebbe potuta diventare proprio detestabile come una pacca sul sedere da parte di qualcuno. Suppongo che dovrò sapere qualcosa su di lui, presto o tardi, pensò. Potrebbe essere anche prima che non dopo. “Mi sembra una buona idea,” disse lei.

***

Mentre arrancava nella pioggia Daschamese, Dev pensava con ardore a quel pranzo. L’aspetto spavaldo esterno di Larramac poteva intimidire la maggior parte della gente, ma lei aveva visto oltre a questo. Larramac, un uomo solo dentro di sé, avrebbe rifiutato piuttosto che essere rifiutato. Lui non fece un solo passo verso di lei quella volta, e lei gli era stata grata per quello. Ne aveva fatto uno circa una settimana dopo, che lei era stata in grado di respingere abilmente, senza ferirlo. Stabilite in questo modo le regole di base, lui si era tenuto all’interno di esse.
Naturalmente, c’erano altre cose per cui lei avrebbe potuto strangolarlo – come ad esempio la sua insistenza nell’unirsi a loro nel primo viaggio per “vedere se ti saresti comportata bene”. Nonostante questo, lei era ragionevolmente soddisfatta di lui.
Le luci di un altro bar Daschamese luccicavano debolmente di fronte a lei, mentre si voltava. Mentre si avvicinava, poteva vedere di fianco all’edificio il carro che i Daschamesi avevano prestato alla nave – un piccolo segnale che i suoi ribelli uomini dell’equipaggio erano proprio lì. Allungò il passo.
I due uomini erano facilmente identificabili nell’istante in cui lei entrò nel bar – erano la sola macchia di colore sul posto. Gros Dunnis, il tecnico, era un uomo mastodontico, due metri buoni di altezza e vestito con una tuta spaziale di colore verde scuro e argento. I capelli rossi e il barbone, anch’esso rosso, erano abbinati – al momento – ad una faccia altrettanto rossa, che dichiarava la sua intossicazione. Dmitor Zhurat, il mandriano robot, era un uomo molto più basso, nativo abusivo —infatti, aveva circa la stessa altezza e la stessa forma dei nativi. Tuttavia, la sua uniforme rossa e blu spiccava facilmente fra i colori grigiastri e ocra usati per i vestiti Daschamesi.
Zhurat fu il primo a scorgerla. “Bene, se non è la nostra piccola graziosa capitana che sta arrivando qui, scesa dalla sua torre per unirsi a noi. Gros, abbiamo un visitatore onorevole. Dobbiamo mostrarle stima.”
Dunnis, un ubriaco più simpatico, le sorrise. “Salve, Capitano, le va di bere qualcosa con noi?”
“Voi due dovevate tornare alla nave due ore e mezzo fa,” disse Dev in modo piatto. “penso che sarebbe meglio che veniste via con me.”
“Dobbiamo avere dimenticato l’ora,” sogghignò Zhurat. “Ma unisciti a noi per una bevuta e poi andiamo.”
“Sai che non bevo.”
“È vero. Tu sei troppo brava per bere con noi, giusto?”
“‘La mente sana non ha bisogno di stimoli esterni per rilassarsi,’” citò Dev.
“Mi accusi di essere pazzo?”
“Ti accuso di essere ubriaco e scombinato. La tua paga sarà decurtata, e riceverai una mansione punitiva. Ti suggerisco di venire con me in modo pacifico, prima che si scateni qualche guaio.” Stese i piedi leggermente, in una posizione accovacciata, preparata per qualsiasi evenienza.
In un angolo, il proprietario mostrava segni di agitazione. Continuava a ripetere qualcosa, ripetutamente. Senza togliere gli occhi di dosso a Zhurat, Dev accese il suo traduttore nel casco ancora una volta. “…troppi qui dentro, ce ne sono troppi qui,” continuava a dire il barista.
“I miei amici ed io ce ne andremo in un secondo,” gli disse lei.
Il proprietario, tuttavia, fu poco confortato dalla sua promessa. Batté le mani diverse volte in quello che Dev aveva capito essere il gesto Daschamese di nervosismo. “Gli dei saranno offesi, ce ne sono troppi,” disse lui.
Dev lo ignorò e continuò a parlare a Zhurat. “Te lo dirò solo un’altra volta. Andiamo.”
“Dannati boriosi Eoani,” biascicò Zhurat. “Pensano di essere migliori di tutti gli altri...”
Dev si mosse plasticamente attraverso la stanza e strinse con una mano la spalla del suo subordinato. “Andiamo, Zhurat, é ora di andare. Starai molto più comodo se torni alla nave. Non vogliamo offendere gli dei di questa gente, vero?”
“Lasciami stare!” urlò Zhurat. Alzò la spalla per liberarsi della mano del capitano, ma le dita si strinsero ancora di più, dolorosamente, e non si mossero. Lui fissò il viso di Dev e lo trovò severo e rigido come una statua di marmo. Lui abbassò rapidamente lo sguardo sul suo bicchiere mezzo pieno.
“Non vorrai fare arrabbiare nessuno,” ripeté Dev in tono gentile ma fermo, “né gli dei né me!”
“Dei!” sbuffò Zhurat. Si alzò e Dev gli tolse la mano dalla spalla. “Non ci sono Dei.” Lui mandò indietro la cuffia per la traduzione e ripeté le sue osservazioni. “Non ci sono Dei!” disse ad alta voce. Barcollò verso il centro della stanza. “Siete tutti delle pecore. Tutti!” disse. Dev presunse che il computer aveva tradotto “pecore” con un riferimento locale adeguato. “Non avete fegato, non vi divertite, non avete una vita. Vivete in quelle miserabili capanne perché avete paura di afferrare la vita da soli, e create questi grandi Dei, cattivi, come giustificazione per non fare nulla. Siete dei ciarlatani, tutti voi, e i vostri Dei sono i più grandi ciarlatani di tutti.” L'atmosfera nella stanza era diventata mortalmente silenziosa. Tutti gli occhi, sia quelli degli umani che quelli dei Daschamesi, erano rivolti a Zhurat. Il silenzio era come quello fra l'ultimo ticchettio di una bomba a tempo e la sua detonazione. Dev si schiarì la gola. “Penso che potresti avere ferito i loro sentimenti,” disse. L'osservazione tuttavia ebbe il potere di buttare benzina sul fuoco. “Vi farò vedere,” urlò lui. “La farò vedere a tutti.” E si fiondò fuori dal bar. “Andiamo,” disse Dev a Dunnis. “Aiutami a prenderlo prima che si faccia del male.” La pioggia scendeva anche più violentemente quando uscirono per inseguirlo, una pioggia fredda e battente che offuscava la vista e colpiva la testa. Il ritmo delle gocce che cadevano riusciva quasi ad annegare i suoi pensieri. Dev si sentiva disorientata e il riverbero della sua lanterna illuminava solo alcuni metri davanti a lei prima di essere assorbito dalla coperta dell’oscurità. Zhurat non si vedeva da nessuna parte. Lei non aveva idea della direzione che avesse preso, ma dritto davanti a lei sembrava essere l’opzione più probabile. Afferrò la mano di Dunnis e lo spinse dietro di sé come se fosse un bimbo piccolo. Venti metri più avanti, videro Zhurat in piedi in una piccola radura fra alcune capanne. “Andiamo, bastardi,” urlava. “Dove siete? Fatemi vedere il potere dei grandi Dei di Dascham!” Dev si accorse di occhi che sbirciavano attraverso fessure nelle capanne, come se fissassero increduli questo strano essere che sfidava gli Dei. Era coraggioso, sciocco o lui stesso un Dio, per potere parlare in questo modo? “Io vi sfido!” urlava Zhurat. “Io, Dmitor Zhurat, sfido gli Dei!” Questa scena sarebbe rimasta nella memoria di Dev per l’eternità. Zhurat che stava eretto nella radura, le braccia alzate verso il cielo, con i polsi contratti e gesticolanti in aria. Poi un’esplosione assordante, ed un veloce lampo, accecante nella sua intensità, fece chiudere gli occhi sia a Dev che a Dunnis. Dev avrebbe potuto giurare di avere udito un crepitio e …era forse un grido che squarciava la pioggia battente? Non lo sapeva. Quando Dev riaprì gli occhi, Zhurat era scomparso—e solo la sua tuta fumante restava al suolo, fra un cumulo di ceneri che si stavano rapidamente inumidendo.

CAPITOLO 2
Potete misurare l’immaturità di un popolo dallo spessore dei suoi testi giuridici.
—Anthropos, Integrità mentale e Società



Dev e Dunnis rimasero in piedi sotto la pioggia, incapaci di muoversi per diversi secondi. I loro occhi erano fissi sui pietosi resti di quello che solo pochi secondi prima era stato il loro compagno. L’aria era carica di elettricità ed un sottile, sgradevole odore arrivava alle loro narici, portato dall’aria nonostante il temporale – lo sgradevole odore di carne bruciata.
Lentamente, si scossero accorgendosi di movimenti intorno a loro. Nel buio della notte Daschamese si stava raccogliendo una folla di nativi, che emergevano dalle loro capanne per vedere almeno i postumi dell’incredibile scena. Troppo timidi, arrivavano fino al bordo più esterno del cerchio di luce delineato dalla torcia di Dev. Tutto quello che lei poteva distinguere erano le sagome dei loro corpi grassottelli. Si raccoglievano in un semicerchio dietro a Dunnis e a lei, e fissavano i resti bollenti di Dmitor Zhurat. I nativi ondeggiavano leggermente avanti e indietro, saldi sui loro piedi, tutti allo stesso ritmo, e l’aria sembrava animata dal suono di una cantilena a bocca chiusa – o di un canto – da parte di un bel numero di gole ursine.
Dev chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie con fare pensieroso con la mano sinistra. Si sentiva intirizzita e leggermente nauseata e ancora una volta desiderò di essere potuta restare a bordo della nave a leggere qualche libro interessante.
I desideri valgono solo nelle favole, si disse con fare tagliente. Questa è la vita vera, e hai dei doveri da compiere. Muoviti, donna.
Era sicura che fossero passati non più di trenta secondi dalla morte di Zhurat. Riaprendo gli occhi, si scosse dalla paralisi dovuta allo shock ed iniziò a fare un passo avanti quando un altro suono la raggiunse. All’inizio era a malapena udibile sotto la cantilena della folla intorno a lei e il battere della pioggia sul suolo fangoso, ma aumentò rapidamente fino a che l’aria riverberò con il suo volume. Era un brusio superiore ad un rumore bianco; era piuttosto il preludio a qualche altro suono che sarebbe seguito a tempo debito.
Ad accompagnare il brusio c’era una luce che ammorbidiva l’oscurità della notte Daschamese. Veniva dall’alto e diventava più chiara ad ogni secondo che passava. Un oggetto brillante stava scendendo dal cielo – una discesa ordinata e lenta, destinata ad impressionare la platea con la sua maestosità. Non appena l’oggetto scese abbastanza in basso per essere visibile attraverso la pioggia battente, Dev si trovò a doversi schermare gli occhi dalla totale lucentezza della creatura davanti a lei.
Come forma, assomigliava ai nativi del pianeta, con due braccia e due gambe ed un corpo peloso rotondo, con un naso simile a un muso. Ma sulla schiena aveva un enorme paio di ali, che sbattevano dolcemente mentre la creatura si librava nell’aria di fronte alla folla. Molto più grande del doppio rispetto ai nativi, Dev stimò la sua altezza in tre e mezzo, forse quattro metri, con una apertura totale delle ali che era facilmente cinque metri o più. La creatura emanava un bagliore freddo blu-bianco che illuminava la zona per un raggio di 24 metri, e in una mano impugnava una lunga spada che risplendeva, con uno sfolgorio oro brillante tutto suo. Gli occhi incassati della creatura brillavano di un rosso splendente, come due tizzoni ardenti in un caminetto buio.
Un orsetto vendicatore, fu la prima reazione di Dev, ma il suo umorismo era trattenuto all’interno della sua mente. L’essere che fluttuava nell’aria a dieci metri di distanza e cinque metri dal suolo era impressionante, e molto diverso da un peluche con cui giocare.
Dev era in piedi con la mano appoggiata leggermente alla cintura – a pochi centimetri dall’impugnatura della sua pistola laser – in attesa di vedere cosa sarebbe accaduto poi.
L’essere luminoso girò la testa e il suo sguardo osservò l’intera folla davanti a sé, raccoltasi sotto la pioggia. Poi infine aprì la bocca per parlare. Le cuffie di Dev erano pronte per tradurre.
“Gli dei sono onnipotenti,” ringhiò la creatura.
Dalla folla di Daschamesi si levò un coro di ringhi di risposta. Il computer di Dev tradusse i ringhi come un giro di Amen (così sia).
“Gli dei sono ovunque” affermò la figura splendente e la folla rispose con un altro coro di Amen.
“Gli dei sono buoni,” disse la figura e la risposta dalla folla fu la stessa. Dev decise di pronunciare a sua volta un “Amen” a titolo di sicurezza.
Finita la litania, la creatura splendente iniziò a parlare. “Gli dei hanno potere di vita e di morte su tutti coloro che abitano su Dascham,” disse. “Gli dei rendono buona la caccia e ricco il raccolto, a loro discrezione. Oppure, per punire, possono rovinare i raccolti e diffondere pestilenze attraverso la foresta. Come scritto nei vecchi accordi, gli dei sono i signori supremi di Dascham, e di tutte le persone sul pianeta, e di tutte le cose esistenti al suo interno.”
“Amen,” disse la folla e – a scoppio ritardato – Dev. Dunnis le scoccò uno sguardo buffo con la coda dell’occhio, ma non disse nulla.
“Le regole degli dei sono assolute,” continuò la gigantesca creatura. “Gli dei sanno tutto. Non c’è modo di fuggire dal loro regno, dalla loro saggezza e dalla loro rapida giustizia. Non ci si può opporre alle loro regole caritatevoli. Ricordate, tutti voi il tempo del Rogo, e sappiate che “ricompensa” possono infliggere gli dei per la ribellione contro il loro regime.”
La creatura tacque per un secondo, e Dev si fece quasi scappare un altro “Amen” prima di rendersi conto che nessuno lo stava dicendo. Soffocò la parola prima che le sfuggisse dalle labbra e attese in silenzio con il resto della folla, fino a che l’angelo decise di parlare ancora.
“Quando arrivarono fra voi questi esseri dal cielo, non ci siamo opposti a loro. Sebbene molti di voi temessero che fossero i demoni che combattemmo anni fa, gli dei sapevano che erano creature mortali, proprio come voi, capaci di fare del bene e anche del male. Non obiettammo quando vi portarono commercio e merci, scambiandoli con i vostri minerali, ma quando portano anche l’eresia, allora gli dei devono fare qualcosa per difendere il mondo che è loro di diritto.”
La creatura terminò il suo discorso fissando direttamente Dev, consapevole della sua posizione di capitano, e persona responsabile del comportamento degli umani. Lei sapeva che ci si aspettava da lei una reazione, il destino della missione commerciale della Foxfire qui poteva essere proprio in pericolo. Soffocando le sue emozioni per prevenire che qualsiasi nervosismo trasparisse dalla sua voce, avanzò e si rivolse al messaggero divino.
“Oh, santissimo, ascoltami,” disse. La voce assunse i toni accuratamente modulati che di solito riservava alle emergenze nella sala di controllo. Non c’era assolutamente nessun eccesso di sarcasmo o di irriverenza. “Gli esseri umani sono individui, come i Daschamesi. L’individuo chiamato Zhurat, era continuamente irrispettoso dell’autorità. Era anche ubriaco stanotte, come sicuramente tu sapevi. Nella tua saggezza, la saggezza di colui che vede tutto, sei consapevole che ho cercato di dissuaderlo dalle sue azioni avventate ed eretiche; è colpa mia ed anche mia vergogna non essere riuscita a fermarlo. Hai trattato Zhurat secondo le vostre leggi ed abitudini, come è tuo diritto. Gli dei sono veramente i signori di Dascham, e possono trattare i trasgressori nel modo che ritengono giusto. Ma gli dei di Dascham sono conosciuti in tutta la galassia per l’equità della loro giustizia; io mi appello a questa giustizia e ti chiedo di non condannare tutti gli umani per la trasgressione di uno come Zhurat.”
L’ultimo pezzo era una balla colossale. Almeno il novantanove percento della razza umana non aveva nemmeno mai sentito nominare Dascham; e la distinta minoranza che lo conosceva, considerava gli dei un pittoresco pezzo di folklore. Ma dalle tante letture sull’argomento della religione che aveva fatto Dev, sapeva che tutti gli dei avevano una caratteristica in comune: erano terribilmente sensibili all’adulazione. In una situazione così critica, non le avrebbe certo fatto male il fatto di giocare con l’ego delle divinità di Dascham.
Non appena terminò di parlare, retrocesse e chinò la testa umilmente aspettando la risposta dell’angelo. La creatura splendente sembrò riflettere sulle sue parole per un mezzo minuto, prima di parlare di nuovo. “Gli dei sono giusti” annunciò, ad un coro di “Amen” che sembrava essersi risvegliato in quel momento. “Hanno deciso che Zhurat ha agito da solo nel suo tentativo di diffondere l’eresia fra i veri credenti. È stato punito in modo adeguato, e gli dei hanno mostrato così il loro potere a tutti i dubbiosi. Una morte veloce sarà la fine di tutti coloro che si opporranno agli dei.”
Altri “Amen.”
“Gli altri umani sembrano innocenti della colpa di eresia. Gli dei hanno deciso che essi vivranno e continueranno con la loro missione commerciale come prima – ma la morte di questo uomo dell’equipaggio dovrà servire da esempio. Tutti coloro che si opporranno agli dei, moriranno.”
Questa volta, Dev, avendo ora acquisito familiarità con il Sistema, guidò il grido di “Amen” degli spettatori.
“Grandi sono gli dei, perché loro sono il potere e la gloria nei secoli dei secoli.”
“AMEN!”
Con quest’ultima dichiarazione, l’Orsacchiotto Vendicatore risalì serenamente al cielo, battendo le ali di tanto in tanto. La sua spada splendeva come oro brillante mentre lui la muoveva in modo minaccioso. Dev non riusciva ad allungare troppo il collo per vederlo salire in cielo perché la pioggia torrenziale le colpiva gli occhi. Rivolse invece lo sguardo al posto dove erano state le ceneri di Zhurat. La divisa carbonizzata, ora sepolta nel pantano, rendeva impossibile distinguere i resti del suo uomo dell’equipaggio dalla melma naturale di Dascham.
Scuotendo leggermente la testa, distolse lo sguardo. Sicuramente hanno messo in piedi uno spettacolo pazzesco, pensò—ma si guardò bene dall’esprimere questo pensiero ad alta voce.

***

Dev e Dunnis tornarono alla Foxfire utilizzando il piccolo carro che i nativi avevano dato loro. Il daryek che lo trainava era un animale vecchio e dall’aspetto malato, probabilmente l’unico che i locali potevano permettersi di prestare.
L’animale, per niente contento di essere obbligato a lavorare di notte, mostrava il suo risentimento arrancando a fatica con un passo che era appena più veloce di quello che gli umani avrebbero avuto a piedi. Il carro brontolava e avanzava a scatti attraverso i solchi sconnessi della strada, in un modo che sembrava fatto apposta per produrre i lividi peggiori al posteriore dei passeggeri. Eppure, Dev ricordava la camminata spiacevole lungo questa stessa strada per arrivare in città, e decise che queste scomodità erano assolutamente preferibili.
I due restarono in silenzio per metà del viaggio, pensando a quello che avevano visto. Infine, Dunnis emise un lungo sospiro. “È stato spaventoso,” disse. Tutti i segni di ubriachezza nella sua voce erano scomparsi; la morte di Zhurat lo aveva reso sobrio all’improvviso.
Dev sorrise debolmente. “Non posso dissentire.”
“Cosa pensi che sia successo là, comunque?”
“Gli dei hanno disintegrato Zhurat per la sua blasfemia ed un angelo è sceso sulla terra e ci ha detto di non peccare più.”
Dunnis le scoccò uno sguardo inquisitorio. “Credi davvero a questa storia senza capo né coda?”
“È quello che è sembrato anche a me. Sono aperta a spiegazioni migliori, se ne hai.”
“Pensavo che voi Eoani non credeste in niente a parte voi stessi.”
“Stai cercando di dirmi in cosa io credo?” Dev era molto cauta nel dirlo. Sarebbe stato troppo facile interpretare la sua affermazione come sarcasmo. Invece, si assicurò di incurvare gli angoli della bocca in un largo, caldo sorriso, affinché il tecnico potesse vedere che dietro la sua osservazione non si nascondeva nessuna difensiva ostile.
Il grande rosso alzò le mani. “Francamente Capitano, non so cosa pensare. Eri così sicura inchinandoti e dicendo tutti quegli amen ovunque di fronte a quel …. quel…”
“‘Angelo’ penso sarebbe il termine appropriato. E non mi sono inchinata una volta – anche se visto che tutti gli altri intorno a me lo facevano, avrei dovuto farlo anche io. Educazione e buone maniere ti faranno sempre acquistare dei punti, se saranno applicate nel modo giusto.”
“Ma ti sei arresa così facilmente a quella cosa, praticamente leccandogli i piedi e scusandoti”
“I miei genitori non mi hanno allevata per essere un parafulmine,” disse semplicemente Dev.
“Sì, ma ...beh, se ci sono gli dei, perché sono solo qui, su questo pianeta così fuorimano? Perché non sono nello spazio o su qualsiasi altro mondo?”
“Non posso rispondere. Semplicemente, non ho abbastanza informazioni. Sicuramente sembra che nello spazio non ci siano, e so che non sono su Eos. Se ci fossero, la popolazione sarebbe stata incenerita molto tempo fa. Ma mi dicono che gli dei lavorano in modi misteriosi. Questo è un universo grande e variegato; tutto è possibile.”
“Ma—”
“Ascolta, molto tempo fa, un poeta di nome Alexander Pope osservò una volta, ‘Una verità è chiara: qualsiasi cosa sia, è giusta.’ In sostanza, quello è ciò che io credo. Quello che è vero per il resto dell’universo qui non ha nessuna importanza; quello che è vero su Dascham è che ci sono degli dei che hanno dei poteri incredibili. Per tutto il tempo che resterò qui, intendo tenere ben presente questo fatto, prima di fare o dire qualsiasi cosa. Ti suggerirei di fare lo stesso – gli dei sanno tutto quello che si fa e possono udire tutto quello che viene detto su questo mondo”
“Ma stiamo parlando Galingua ora; di sicuro essi non possono capirlo.”
“Non sottovalutarli. Ho già perso un componente del mio equipaggio, non posso permettermi di perderne un altro.” E con ciò, smise di parlare. Dunnis, rendendosi conto che non intendeva dire altro, si sedette imbronciato di fianco a lei e cercò di osservare la strada davanti a loro, attraverso la pioggia e l’oscurità mentre il loro daryek arrancava faticosamente.

***

Fortunatamente, Dev aveva acceso alcune luci esterne prima di lasciare la nave, altrimenti sarebbero passati oltre, avventurandosi nei campi, al buio. La Foxfire era piccola per essere una navicella cargo – essendo solo un proiettile di trenta metri di altezza e dodici di diametro alla base — sebbene qui su Dascham sembrasse gigantesca. Ma, pur mastodontica com’era, paragonata agli edifici di piccole dimensioni di questo pianeta, avrebbe potuto essere completamente inghiottita dal buio totale della notte Daschamese.
Dev legò lo stanco daryek ad un’aletta stabilizzatrice della navicella nella remota possibilità che la patetica creatura potesse cercare di vagare, allontanandosi durante quello che rimaneva della notte. Poi, tenendo in mano la divisa spaziale fradicia che era tutto quello che rimaneva di Zhurat, seguì Dunnis salendo la scala ed entrò nella camera stagna. Una volta all’interno, continuò a salire fino a raggiungere la prua, facendo segno silenziosamente al tecnico di seguirla. Passarono le zone del soggiorno ed andarono invece nella sala dei comandi, dove Dev camminò in modo deciso verso la console del capitano e azionò un paio di interruttori. Sospirò leggermente e chiuse gli occhi. “Penso che staremo bene adesso.”
Dunnis l’aveva guardata con crescente curiosità. Con le sue azioni aveva acceso gli schermi deflettori intorno alla nave. “Temevi che le meteoriti potessero colpirci qui?” le chiese.
“No, ma il campo delle schermature dovrebbe essere sufficiente per disturbare le eventuali trasmissioni a bassa potenza che provengano dall’interno della nave. Possiamo parlare liberamente adesso.”
“Di cosa?”
“Degli dei. Avevi ragione a pensare che non credessi in nessun essere sovrannaturale. Ma la verità è che c’è qualcuno – o un gruppo di qualcuno – che gestisce lo spettacolo qui intorno, e questo qualcuno è davvero potente.”
“Ma gli schermi deflettori cosa …?”
“Cominciamo dal principio,” disse Dev. “Presumiamo che questi dei siano mortali come noi, e tecnologicamente avanzati rispetto ai nativi. Per una razza primitiva come i Daschamesi, le meraviglie della scienza sembrerebbero magia, e potrebbero essere sfruttate da chiunque desideroso di fare lo sforzo di farlo. Ad esempio, gli dei affermano di essere in grado di udire tutto quello che si dice in tutto il mondo. Tu sei un tecnico: come si potrebbe fare questo?”
“Microfoni e trasmettitori,” disse lentamente il gigante. “ci sono dei dispositivi di intercettazione così piccoli che i nativi non li noterebbero nemmeno per quello che sono.”
“Esattamente.”
“Ma farlo su larga scala, a livello di pianeta—”
“Dimenticatelo per il momento. Presumi un conto spese illimitato e parla in termini di possibilità tecnologiche.”
Dunnis fece una smorfia. “Sì, è possibile —ma coordinare tutte le conversazioni casuali sarebbe una rottura di palle.”
“Noi sappiamo che possono udire quello che si dice, perché evidentemente hanno udito Zhurat,” continuò Dev, ignorando il commento di Dunnis. “Quindi dovremmo considerare la possibilità che le nostre conversazioni sono tenute monitorate. Perché pensi che io sia stata così attenta su quello che dicevo mentre tornavamo qui? Non eravamo ancora fuori pericolo, e tu continuavi a volerci confrontare su quello che era successo. Fino a che non potevamo parlare in modo sicuro, non volevo dire nulla che mi potesse fare diventare un candidato per le loro esercitazioni eteree di tiro al bersaglio.”
Dunnis lanciò uno sguardo sopra al pannello di controllo, dove la luce blu della spia degli schermi deflettori stava splendendo freddamente. “E tu pensi che abbiano qualche spia qui? Come? “
“Non posso esserne sicura, ma abbiamo caricato un bel po’ di cose la settimana scorsa. Qualcuno di quei piccoli diavoli potrebbe essersi infilato ed avere vagato per tutta la nave. Ma se sono così piccole, non possono essere davvero potenti nel trasmettere, e gli schermi del deflettore dovrebbero emettere abbastanza interferenze da bloccarle.”
“E cosa dici dell’angelo? Come lo spieghi?”
“Era un robot,” disse Dev, sedendosi sul suo divano di accelerazione e tastando svogliatamente la divisa di Zhurat. “Doveva esserlo per brillare in quel modo. Mi hanno detto che alcuni pesci nelle profondità dell’oceano hanno una loro naturale fosforescenza, ma è il loro modo di adattarsi all’ambiente. Quest’angelo non ne aveva bisogno – e non aveva nemmeno bisogno di quelle ali.”
“E quindi come riusciva a volare?”
“Nello stesso modo della nostra Foxfire —spinta gravitazionale. Non hai notato come stava abbastanza in alto e abbastanza lontano da tutti per evitare di ucciderci con la risacca della propulsione? Quando sbatteva le ali, i battiti non erano mai veloci o forti abbastanza per sollevare qualcosa così solido nel cielo. Poi si è librato nel cielo per molto tempo senza mai battere le ali. Con le attrezzature adatte, probabilmente anche tu potresti costruirne uno simile in un paio di giorni.”
Il tecnico annuì. “Sì, ora che lo spieghi così, tutto sembra davvero semplice Ma non riesco ancora a capire lo scopo dell’operazione.”
“Quando vuoi controllare un pianeta, devi pensare in grande,” sottolineò Dev.
“Suppongo di sì,” ammise Dunnis. “Bene, allora cosa facciamo?”
“La nostra priorità è rimuovere le cimici dalla nave – sempre presumendo che sia infestata, prima di tutto. Lasciare accese le schermature per i meteoriti consuma le nostre riserve di potenza. C’è qualche modo in cui tu possa preparare un rilevatore per trovare i trasmettitori?”
“Adesso, Capitano? Non ho chiuso occhio dalla notte scorsa—”
“E nemmeno io. Da quanto ricordo, è stato il fatto che tu e Zhurat eravate fuori fino a più tardi di quanto avreste dovuto che ha iniziato tutta questa catena di eventi. Mi chiedevo quale potrebbe essere una punizione adeguata — forse un’ulteriore perdita di sonno sarebbe appropriata.”
Non aggiunse che per fare in modo che non si staccasse dal lavoro, anche lei avrebbe dovuto perdere il sonno, e lei non aveva fatto nulla per meritarsi la punizione. La responsabilità arriva con l’autorità, si ripeté dentro di sé. Ecco perché tu sei un capitano e lui solo un tecnico.
Dunnis scosse la testa. “Anche se non fossi stanco sarebbe difficilissimo identificarle. Non ho la benché minima idea della frequenza a cui trasmettono, o della potenza del loro segnale. Ci impiegherei una vita.”
Dev rifletté sulle sue parole. “Allora ne dovremo trovare una, prima, ed esaminarla. Questo dovrebbe darci abbastanza indizi per costruire qualcosa.” Dev si alzò. “La zona di carico è il punto più logico da cui partire a cercare. Andiamo.”
Dunnis era chiaramente scocciato di dovere lavorare mentre era così stanco, ma era altrettanto chiaro che rispettava l’autorità di Dev. Lei si era creata almeno quello nelle sei settimane in cui aveva condotto la nave. Zhurat era stato il solo a mancarle di rispetto – ed ora lui non avrebbe più causato problemi. Anche se la sua perdita significava più lavoro per tutti, inclusa lei, poteva almeno ringraziare gli dei di Dascham per questo piccolo favore.
Gli angusti quartieri dell’equipaggio erano dietro alla sala di controllo. Roscil Larramac dormiva dietro ad una di quelle porte chiuse e Lian Bakori, l’astrogatore della nave, era sicuramente nell’altra stanza. Il resto dell’equipaggio della Foxfire era composto da robot, che erano stati sotto la responsabilità di Zhurat; erano stati spenti per la notte e riposti in una stanza speciale proprio davanti alla zona di carico. Una nave di queste dimensioni avrebbe dovuto avere davvero almeno il doppio dell’equipaggio, ma Roscil Larramac aveva tagliato ogni angolino che poteva, nei suoi sforzi di ottenere un utile; Dev aveva discusso con lui per aumentare il numero dei membri dell’equipaggio di almeno una o due persone, ma lui aveva rifiutato. Ora, alla loro prima fermata planetaria erano già sottodimensionati.
“Non dà gioia fare pesare alla gente quando hai ragione,” citò uno scrittore del ventiduesimo secolo di nome Mellers, “almeno quanto loro gioiscono nel fare pesare a te quando hai torto.” Nonostante questo, le sarebbe piaciuto avere quei membri dell’equipaggio in più.
Subito dietro la zona soggiorno, c’erano le zone comuni, che comprendevano la cambusa, la mensa, la lavanderia, il ponte con le scialuppe di salvataggio, la stanza del riciclaggio e della ricreazione. Poi veniva la zona di stoccaggio dei robot, e infine la stiva, con i motori nell’estremità posteriore della nave. La disposizione era quella standard per la maggior parte delle piccole navi commerciali. Sebbene Dev fosse a bordo da solo due mesi, si sentiva come se vi avesse vissuto la maggior parte della sua vita.
Mentre si avvicinava alla stiva, Dev pensò di udire un rumore provenire dall’altro lato della porta. Guardò immediatamente Dunnis, e l’omone annuì indicando che l’aveva sentito anche lui. In silenzio, i due percorsero il resto del corridoio fino al portello della stiva. Dev estrasse la pistola laser dalla cintura e la tenne pronta, indicando a Dunnis di fare lo stesso. Quando entrambi furono pronti, premette un pulsante che avrebbe fatto aprire il portello scorrevole nel pavimento.
Dentro alla stiva c’era buio, la sola luce era quella che filtrava dal corridoio dove loro stavano in piedi. Nessun movimento, niente sembrava fuori posto, ma Dev non abbassò la guardia. Allungò il braccio verso il pulsante successivo, e accese le luci all’interno della stiva.
Qui—dietro una fila di scatole coperte—vide un movimento, ne era sicura. Calandosi prudentemente attraverso il portello nel pavimento, atterrò a ginocchia piegate e guardò in quella direzione. Oltre la cima delle scatole, riuscì a scorgere un ciuffo di pelliccia marrone.
C’era un clandestino a bordo della Foxfire.

CAPITOLO 3
La moralità migliore si riduce ad un semplice rispetto per gli altri.
—Anthropos, La Bontà dell’Uomo



Dev restò leggermente accovacciata, pistola nella mano, e passò in rassegna rapidamente la lista delle alternative. Sarebbe stato un suo diritto – come capitano di questa nave – aprire immediatamente il fuoco sull’intruso, ma questa linea d’azione sarebbe stata insensata nelle attuali circostanze. I proiettili della sua pistola laser potevano danneggiare parte della merce che era impilata e stipata tutto intorno a lei, e comunque, i nativi non sembravano essere pesantemente armati, dato che il livello della loro tecnologia non andava molto più in là del coltello e della lancia.
Le attraversò la mente il pensiero che questo potesse non essere un nativo ordinario, e che la sua apparizione qui potesse avere dei collegamenti con gli eventi della sera precedente. Forse era una spia degli dei, venuta a verificarli personalmente. Ma lei aveva appena ipotizzato che gli dei fossero esseri con una competenza tecnica molto alta; mandare un nativo a spiarli per conto loro non sarebbe stato per niente in linea con la loro indole. Dev escludeva quella possibilità al momento, sebbene tenesse la pistola in mano. Era la sua politica personale, quando trattava con altri esseri pensanti, quella di usare la coercizione fisica solo come ultima spiaggia.
“Dunnis,” chiamò a bassa voce il tecnico che stava ancora in piedi nel corridoio sopra di lei, guardando preoccupato giù nella stiva. “Sveglia Larramac e Bakori. Dì loro che abbiamo un clandestino nella stiva e falli scendere qui. Potrei avere bisogno del loro aiuto.”
L’omone esitava a lasciarla. “Sei sicura che starai bene da sola? Una donna sola con un intruso sconosciuto—”
Avere pazienza con i benintenzionati, si disse severamente. Spesso non riescono a farne a meno. “Vai adesso. È un ordine.”
Dunnis andò.
Dev tornò a rivolgere la sua piena attenzione al nativo. Non si era mosso dalla sua posizione iniziale dietro una pila di casse. Dato che doveva essersi accorto che lei si era calata nella stiva con lui, probabilmente non era sicuro che lei lo avesse visto e non voleva tradirsi con ulteriori movimenti. Inoltre, avrebbe usato il silenzio per ascoltare qualsiasi suono da parte di Dev che indicasse che si muoveva nella sua direzione.
Tenendo pronta la pistola, Dev accese le cuffie di traduzione che stava ancora indossando. “Chiunque tu sia, so che sei qui,” disse con un tono calmo e tranquillo. “Mi chiamo Ardeva Korrell, e sono il capitano di questa nave. Come ti chiami?”
L’altro continuava a non muoversi. Forse pensava che lei stesse bleffando, o forse era troppo spaventato. Doveva placare qualsiasi paura che potesse avere.
“Non sono assolutamente ostile,” continuò lei. “Voglio solo sapere perché hai scelto di nasconderti a bordo della mia nave. So esattamente dove sei, ma ti prometto di non avvicinarmi fino a che parliamo. Se non vuoi fare del male né a me, né al mio equipaggio, né alla mia nave, ti garantisco che non succederà niente di male nemmeno a te.”
La zazzera di pelliccia che aveva originariamente adocchiato, sparì dalla sua vista mentre il nativo si accovacciava ancora più in basso dietro alle scatole.
“Ti prego, non cercare di nasconderti; non ti farà bene. Questa è una piccola nave, e ci sono solo pochi posti dove puoi nasconderti prima che ti troviamo. Mi rendo conto che questo è uno strano posto, spaventoso per te, e io sono una creatura sconosciuta e odiosa venuta dalle stelle. Però ho trattato in modo corretto e giusto con la tua gente per i due giorni che sono stata qui nel tuo villaggio. Tutto quello che chiedo è sapere perché sei venuto.”
La voce di Dev echeggiava in tutta la grande stiva, ma il silenzio ritornò mentre le tracce delle sue ultime parole svanirono. Guardò lo stanzone da un punto di vista tattico, chiedendosi esattamente cosa fare se si rivelasse necessaria un’azione. La stiva non era riscaldata; le fredde pareti di metallo sembravano riflettere il freddo clima umido esterno e causarono un brivido che la fece tremare anche se il tessuto della sua divisa spaziale teneva il suo corpo alla temperatura giusta.
Scatole e casse di varie dimensioni erano impilate strettamente insieme per la necessità di sistemare un grande numero in un piccolo spazio; le corsie fra le pile di contenitori erano necessariamente strette, e non favorivano una caccia frenetica. Sperava che non sarebbe stato necessario.
Il nativo continuava a non muoversi e a non mostrarsi. Pensa, si disse lei. Cerca di ragionare in base alla psicologia di questa gente. Sai abbastanza di loro per indovinare in modo ragionato. “La mia pazienza è grande, ma non infinita,” disse finalmente. “Sto iniziando ad essere un po’ stanca di fare un monologo. Se non mi rispondi alla svelta, dovrò agire in modo molto più diretto.”
Poi ebbe un’ispirazione. “E dopo che ti avremo preso, ti butteremo fuori dalla nave alla mercé degli dei.”
Quest’ultima minaccia colpì nel segno. Lei udì un suono che il computer non riuscì a tradurre; sembrava più un piagnucolio involontario che non un discorso. Ma almeno era una reazione. Dev era sulla strada giusta.
“Non voglio farlo,” continuò. “Non obbligarmi a farlo. Parlami, adesso.”
Una voce bassa ed esitante ringhiò da dietro le scatole. “Mi … mi prometti che non mi manderai fuori?” tradussero le cuffie.
“Non posso promettere niente, non fino a che non saprò perché sei qui e che intenzioni hai. Raccontami la tua storia e lasciami decidere da sola.”
“Non posso dirtela. Gli dei mi ucciderebbero.”
Un fuggitivo. Più che essere una spia per conto degli dei, questo nativo stava scappando da loro. Non sembrava ostile o belligerante, però. Dev indovinò che il suo crimine fosse più di natura eretica che altro.
“Qui sei al sicuro. Gli dei non possono sentirti mentre sei dentro alla nave.” Prese abbastanza coraggio da muovere un passo verso il nativo, e lui non si allontanò. “Dimmi perché sei qui e vedrò cosa posso fare per aiutarti.”
Il nativo si alzò lentamente e la guardò. L’espressione sulla sua faccia ursina era impossibile da decifrare, ma Dev si concesse di immaginare che fosse dispiaciuta e supplicante.
Proprio in quel momento una voce tuonò dall’alto del portello sopra di lei. “Non ti preoccupare, Dev, stiamo arrivando. Lo prenderemo per te.” Ci fu un leggero sferragliamento ed un pesante tonfo mentre l’alta figura di Roscil Larramac piombò al suolo di fianco a lei. “Dov’è?” chiese. Le sue parole rimbombavano forte in tutta la stiva.
Il nativo, che aveva iniziato a fidarsi dei toni calmi e ragionevoli di Dev, andò nel panico. Girandosi come meglio poteva nello stretto passaggio fra le due corsie di scatole, il clandestino corse nella direzione opposta, verso la parete più lontana della stiva. Dev presunse che il clandestino si fosse sentito tradito.
Dev si girò verso il suo datore di lavoro, senza neanche cercare di trattenersi. “Dannazione, perché l’hai dovuto fare? Era quasi pronto ad arrendersi. Ho sputato sangue per cercare di ragionare con lui, e stava iniziando a fidarsi di me, quando ti sei fiondato giù dal soffitto come un intero branco di quadrupedi in calore. Adesso è di nuovo terrorizzato, doppiamente terrorizzato, e dovremo darci da fare tutti quanto per tirarlo fuori di qui.”
Larramac rimase inchiodato al suolo. Come uomo d’affari, aveva al suo attivo anni di esperienza nelle trattative di argomentazione. La sua tecnica di trattativa in caso di confronto era quella di urlare di rimando. “Pensavo di essere in procinto di salvarti. Pensavo che fossi nei casini. Avrei dovuto sapere che una Eoana sarebbe stata troppo orgogliosa per ammettere di avere bisogno di aiuto.”
Quell’esplosione di rabbia aveva liberato la frustrazione dal corpo di Dev. Si sentiva colpevole per la manifestazione, ma solo un pochino. Anche gli Eoani riconoscevano l’effetto catartico degli scatti emotivi. “Le emozioni violente possono purificare l’anima,” aveva detto Anthropos. “Come le droghe, possono essere usate ad effetto terapeutico – ma si deve evitare la dipendenza.”
Di nuovo calma, guardò il suo datore di lavoro con uno sguardo a livello. “Possiamo andare avanti a incolparci a vicenda tutta la notte, ma la nostra preoccupazione principale al momento è di prendere il clandestino. Sembra che sia un fuggitivo; sospetto che abbia fatto qualcosa da offendere gli dei locali, e che voglia nascondersi qui. Probabilmente è solo impaurito da noi, così come lo è degli dei. Non penso che possa essere armato di qualcosa più serio di un coltello, ma una persona messa all’angolo è sempre pericolosa.”
Dall’espressione sorpresa sul viso di Larramac, Dev si convinse che fosse preparato per una battaglia a suon di urla. “Cosa suggerisci di fare?”
“Siamo a corto di personale a sufficienza così come siamo; non voglio rischiare che qualcuno di noi si ferisca nel tentativo di catturare il nostro visitatore. In più, quattro persone non sarebbero probabilmente sufficienti per farlo – non con una creatura così spaventata come è lei adesso. Penso che faremmo meglio a farlo fare ai robot.”
“Quattro persone?” Larramac sbatté gli occhi e si guardò intorno. “Dov’è Zhurat?”
“Questa è una lunga e angosciosa storia dell’orrore.” Dev si diresse verso la scala e si arrampicò verso la stanza di deposito dei robot. Dopo avere aperto la porta iniziò a riattivare i robot e ad istruirli su cosa fare. “Il nativo deve essere preso vivo e incolume” insistette. “Siate gentili, ma fermi. Ha paura, ma il suo coltello non dovrebbe essere una vera minaccia per voi.”
La compagnia della Foxfire conteneva venti robot del tipo molto robusto, per servizio pesante. Erano cilindri altissimi e sottili del peso di oltre cento chili l’uno e vagamente umanoidi come forma, ma con maggiore forza e resistenza. I robot avevano una intelligenza limitata, e per questo avevano bisogno di un supervisore; ma gli ordini di Dev – per catturare l’intruso alieno – erano stati semplicissimi.
Dev spiegò le sue truppe meccanizzate, inviando quattro robot giù per ogni corsia fino all’estremità opposta della stiva. I robot si muovevano lentamente e con molta prudenza; nel guardarli, a Dev vennero in mente monaci medievali che camminavano a tempo con i canti gregoriani. Provò una fitta di dolore e di pietà per il povero nativo spaventato che avrebbe visto queste gigantesche macchine procedere minacciosamente contro di lui, ma non c’erano alternative. L’intruso doveva essere catturato al più presto e nel modo più sicuro possibile.
Mentre i robot si avvicinavano inesorabilmente alla loro preda, Dev raccontò a Larramac e Bakori quello che era successo precedentemente quella sera stessa nel villaggio. Entrambi rimasero sbalorditi nell’udire della morte di Zhurat a causa di un fulmine divino e del discorso dell’angelo. Senza scendere troppo nei particolari di quelle che erano le sue supposizioni sulla natura degli dei, Dev raccontò loro che accendendo le schermature contro i meteoriti le loro conversazioni all’interno della nave sarebbero rimaste al riparo da orecchie indiscrete.
I robot si avvicinarono al nativo all’estremità della stiva. Il piccolo essere, che assomigliava ad un orsetto, era in trappola, ma rifiutava di arrendersi agli schiaccianti avversari. Rendendosi conto che il suo coltello sarebbe stato inutile contro le grandi macchine, si guardò intorno cercando qualche altra arma da usare. Colto da disperazione, prese una grande cassa con entrambe le mani e la lanciò contro il robot più vicino. La macchina alzò una mano per difendersi e deviò facilmente il missile che arrivava. La cassa si frantumò contro una pila di scatole e le capovolse tutte sulla corsia vicina, sul percorso di altri robot che stavano arrivando, rallentando gli inseguitori e riversando tutto il contenuto al suolo.
Mentre i robot facevano una pausa per raccogliere la merce caduta e farsi strada girando intorno alle scatole rovesciate, il clandestino vide un’apertura momentanea. Muovendosi ad una velocità quasi inadeguata al suo corpo tozzo e rotondo, il nativo sfrecciò attraverso il gruppo di robot in una corsia evitando le braccia che questi agitavano in modo selvaggio. Arrivò dietro alle macchine che avevano cercato di catturarlo, facendo una corsa pazza verso la libertà – sebbene fosse un mistero per Dev dove si aspettasse di scappare.
Per il momento comunque si dirigeva direttamente verso il suo tecnico. “Dunnis!” gridò lei—ma era superfluo. L’omone aveva già visto il nativo che stava arrivando.
Dunnis dovette fare solo tre passi alla sua destra per essere in posizione per intercettare l’alieno. Mentre la creatura pelosa correva verso di lui, il rosso tecnico si accovacciò ed allargò le braccia per accogliere il fuggitivo. Il Daschamese era così intento a scappare dai robot che non notò nemmeno l’umano fino a che non fu a soli quattro metri di distanza da lui, e a quel punto era troppo tardi per deviare il suo volo in avanti. I due esseri si scontrarono con un tonfo irritante che Dev poté udire rimbombare al centro della stiva.
Il tecnico chiuse le grandi braccia intorno al nativo, che lottò fieramente per sfuggirgli. Gli altri tre umani si gettarono in aiuto di Dunnis, e Dev fischiò chiamando in aiuto diversi dei robot, che stavano in piedi intorno a lui, chiedendosi cosa fare. Sebbene l’alieno avesse ingaggiato una energica lotta, fu sopraffatto velocemente e consegnato a due robot.
“Portatelo nella cabina di Zhurat e chiudetela a chiave. Poi montate una guardia sui lati della porta per assicurarvi che non scappi,” ordinò Dev alle macchine. “Dobbiamo sistemare questo casino prima di interrogarlo.”
Mentre i robot si muovevano per obbedirle, diede uno sguardo al caos della stiva. Diverse decine di grandi scatole erano state scaraventate dalle loro pile ordinate e sparse al suolo. Dev notò con interesse che questa sezione della stiva era sempre stata un mistero per lei; Larramac si era rifiutato di dire cosa ci fosse in quelle casse particolari e a quale pianeta fossero destinate. Dev non aveva insistito, consapevole di come il suo predecessore aveva perso il lavoro; ma ora sarebbe stato impossibile per il suo capo impedirle di scoprire il segreto del loro carico.
Mentre camminava sulla merce rovesciata, dovette fare uno sforzo enorme per tenere sotto controllo la sorpresa. Il pavimento era disseminato di armi di tutti i tipi, dalle pistole laser a fucili, granate, armi automatiche che potevano radere al suolo villaggi – un’attrezzatura sufficientemente letale da rifornire un piccolo esercito. E questo era solo il contenuto delle casse che si erano rotte. Quanto arsenale c’era ancora nei contenitori sigillati?
Roscil Larramac era un trafficante di armi.

***

Sebbene Larramac sapesse che lei aveva visto il carico, nessuno dei due disse una parola in proposito. Dev aveva diversi altri problemi che richiedevano la sua attenzione immediata, e lei si concedeva il lusso di lavorare su uno alla volta. Archiviò quindi la questione delle armi in un angolo del cervello, per futura considerazione – ma era ben lontano dall’essere dimenticata.
“Voi tre uomini, potete mandare i robot a fare le pulizie?” chiese a Larramac. “ho pensato che dato che ho iniziato già a parlare col nostro prigioniero prima, potrei continuare il lavoro, se non avete obiezioni.”
“No, no, procedi pure. Ci occuperemo noi delle cose qui sotto, se sei sicura che starai bene di sopra.” Il proprietario della nave parlava velocemente, cercando di coprire qualche latente senso di colpa circa il carico.
Dev lasciò volentieri le pulizie agli uomini e alle macchine, mentre saliva attraverso il centro della nave fino al livello dei quartieri dell’equipaggio. Come da sue istruzioni, i robot avevano chiuso a chiave la porta di Zhurat, e c’erano due robot ai lati della porta.
“Sto entrando,” disse ai robot di guardia. “Se l’alieno cerca di scappare, prendetelo e trattenetelo – ma non fategli del male.” E con questo, aprì la porta ed entrò.
L’alieno sedeva sulla brandina pieghevole all’estremità della piccola cabina, facendosi piccolo piccolo contro la paratia e guardandola con aria truce. Dallo stile del suo abbigliamento e dalla struttura corporea generale, lei concluse che il suo prigioniero fosse un maschio della sua specie.
“Salve, di nuovo,” disse lei in modo calmo, chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandosi ad essa in modo studiato, per rafforzare in modo sottile il concetto che lui era suo prigioniero. La pistola era nella fondina, ora; le mani erano vuote e distese in avanti, separate in un gesto di pace. “Nonostante tutta l’eccitazione dell’ultima mezz’ora, non è cambiato praticamente niente. Non vogliamo farti nessun male. Avremmo potuto ucciderti, ma non l’abbiamo fatto. Questo dovrebbe testimoniarti le nostre buone intenzioni. Adesso tu devi provarci le tue. Ti ho già detto il mio nome. Tu come ti chiami?”
L’alieno la fissò per un lungo momento. Alla fine, rendendosi conto di non avere alternative, se non quella di fidarsi di lei, disse “Grgat Dranna Rzinika.”
“Benissimo, Grgat Dranna Rzinika, ti dispiacerebbe dirmi perché ti sei nascosto a bordo della mia nave?”
“Stavo scappando.”
“Da chi?”
“Dagli dei.” Il computer tradusse le parole in un modo neutro, ma non ci voleva una laurea in alienologia a Dev per capire l’amarezza e il disgusto nella voce della creatura.
“Perché?” Quando il nativo esitò per un attimo, Dev aggiunse, “Ricorda che loro non possono sentirti mentre sei su questa nave. Puoi parlare liberamente.”
“Li odio!” esplose Grgat improvvisamente. “Sono crudeli e insensibili. Preferirei dare il mio sostegno ai demoni dei cieli esterni che vivere ancora sotto la dominazione di questi dei.”
“Sono un demone io quindi?”
Grgat la guardò accuratamente. “No, sembri un essere mortale come me, sebbene tu abbia poteri mistici. Ma tu vieni dal reame posseduto dai demoni, e …. e io speravo che mi avresti riportato laggiù con te.”
Dev si spostò dalla porta verso la brandina su cui sedeva il prigioniero. Si sedette all’estremità opposta, attenta a non fare movimenti improvvisi e minacciosi. “Non sto cercando di essere polemica,” disse, “ma devo sapere le tue ragioni. Perché odi gli dei? Perché stai rischiando la tua vita per sfuggire a loro?”
Le mani fatte a tenaglie dell’altro fremevano nervosamente. “Perché hanno ucciso mia moglie, Sennet. L’hanno uccisa senza pietà solo perché lei aveva seguito i suoi istinti naturali. Loro—”
Dev interruppe la sua diatriba incipiente. “Sennet ha parlato contro di loro?”
“No, e questa è l’ironia. Lei era una credente leale e sincera. Mi rimproverava sempre, spingendomi ad essere più riverente.”
“E allora, perché l’hanno uccisa?”
“Perché era rimasta incinta. Il nostro villaggio aveva già raggiunto la sua quota assegnata, ed anche dopo che alcuni erano morti – ivi compresa la nostra unica figlia – hanno rifiutato di permetterci di aumentare. Doveva essere il nostro turno, ma quando Sennet era rimasta incinta, gli dei mandarono uno dei loro messaggeri per rimuovere il bambino dalla sua pancia. Di fronte all’intero villaggio, lei pregò e supplicò l’angelo di non prendere il nostro bambino. Lei era rispettosissima mentre lo supplicava, ma anche così – solo per mostrare quanto sia futile e inutile discutere con gli dei – loro l’hanno uccisa. Poi, dato che il nostro villaggio era molto al di sotto della quota, hanno dato la concessione alla coppia successiva nella lista.”
Quando ebbe terminato di parlare, Grgat si guardò i piedi, evitando completamente gli occhi di Dev. “Non posso adorare degli esseri che possono fare una cosa così crudele ad un loro seguace leale come lo era Sennet. Non mi interessa se sono dei, o se possono uccidermi con solo un singolo pensiero – non posso adorarli.”
“No,” disse sommessamente Dev—così sommessamente che il suo computer per poco non capì le parole da tradurre. “No, io non mi aspetterei che lo facessi.” Tutti i suoi istinti le suggerivano di circondare le spalle di Grgat in un abbraccio confortante – ma aveva paura che l’alieno potesse fraintendere il gesto. Così tenne le mani in grembo.
Grgat continuò come se non l’avesse udita. “Ecco perché quando la vostra nave è arrivata alcuni giorni dopo, ho deciso di nascondermi a bordo e di viaggiare su fino al reame dei demoni. Di sicuro non potrebbero essere peggio degli dei che ho dovuto sopportare. Quando avete caricato una partita di minerali grezzi a bordo della nave oggi pomeriggio, mi sono nascosto lì dentro. Sarei rimasto nascosto lì fino a che non mi aveste trovato. Non volevo farvi alcun male, lo giuro.”
“Ti credo,” disse Dev. Poi, come se avesse avuto un retro-pensiero, aggiunse: “Devi essere tremendamente affamato, però, se sei rimasto qui dentro tutto il giorno senza cibo.”
“Lo sono. Ma mi aspetto di soffrire.”
“Non ha senso. Anche i prigionieri peggiori hanno il diritto di mangiare – e qualunque sia il tuo stato, sei a un livello superiore ad essi. La chimica del tuo corpo non è troppo diversa dalla nostra – penso che possiamo trovare qualcosa di nutriente, anche se non esattamente quello a cui sei abituato.”
Dev si alzò, andò alla porta e la aprì. “Bakori,” chiamò, sporgendo la testa.
L’astrogatore apparve sotto. “Sì, Capitano?”
“Il nostro prigioniero non mangia da un po’. Vai nella cambusa e trova qualcosa che lo faccia sopravvivere fino a quando decidiamo cosa fare di lui.”
“Sissignora.”
Mentre l’astrogatore si muoveva per eseguire il suo ordine, anche Roscil Larramac apparve di sotto. “Ha iniziato a parlare?”
“Abbastanza,” rispose Dev. “È in un mare di guai fuori di qui.”
“È nei guai anche qui dentro. Voglio parlargli. Arrivo subito.” Larramac iniziò a salire la scala per raggiungerla.
Dev informò Grgat che il proprietario della nave voleva parlare con lui, e che Larramac non voleva fargli alcun male. Il nativo sembrava nervoso – si era appena adattato all’idea di parlare a Dev – ma evidentemente non era nella posizione di obiettare.
Quando Larramac entrò, Dev lo mise al corrente di quello che Grgat le aveva detto fino a quel momento. Dopo che Dev ebbe finito, Larramac restò in silenzio per un attimo, passandosi una mano sul pizzetto in modo pensieroso. Infine, disse, “Se lo prendiamo a bordo, potremmo incorrere in problemi con queste divinità locali, chiunque esse siano. Ne vale la pena, Dev?”
“Non ho ancora abbastanza informazioni, ma intendo procurarmele.” Rivolgendosi a Grgat, disse, “Dovremo sapere qualcosa in più prima di poterti aiutare. Dicci assolutamente tutto quello che sai degli dei.”

CAPITOLO 4
Corri con il momento. Anche se non é piacevole ce ne sarà sempre un altro a breve.
—Anthropos, La mente sana



Prima dell’inizio, spiegò Grgat, non c’era nulla se non la foschia primitiva a permeare l’universo. Era omogenea e senza forma. Quindi, dopo un lasso di tempo pari a vere e proprie ere, iniziò a fondersi in entità distinte, che poi divennero gli dei e i demoni. All’inizio queste due razze coesistevano in un’armonia pacifica. Insieme crearono le stelle e i mondi dai resti della foschia primitiva ed imposero ordine in un cosmo caotico.
Ma dopo molti secoli, le due razze litigarono. Gli dei volevano creare creature mortali con cui condividere le meraviglie dell’universo; i demoni egoisticamente cercavano di evitare altra vita e di conservare i loro segreti per sé stessi. Le due filosofie si rivelarono incompatibili e la naturale conseguenza fu la guerra.
I cieli stessi esplosero in fiamme mentre le due specie di divinità lottavano per la supremazia. Le stelle esplosero, i pianeti furono devastati dalle battaglie che ne seguirono. Infine, per prevenire ulteriori distruzioni, gli dei chiesero e ottennero una tregua. Il pianeta Dascham fu creato come un posto dove gli dei potevano fare esperimenti con la vita e con quello che c’era nelle loro anime, mentre i demoni concordarono di girovagare nei cieli e di non interferire con le questioni su Dascham.
Gli dei costruirono una montagna chiamata Orrork, dove elessero la loro casa e dove continuano a risiedere anche ai giorni nostri. Una volta insediatisi, fecero i membri della razza Daschamese a loro immagine per assisterli nello studio dei misteri dell’universo.
Inizialmente, gli dei e i mortali si mescolarono come esseri uguali. Ma poi, alcuni malvagi Daschamesi iniziarono a sentirsi presuntuosi ed a pensare di essere meglio degli dei. Iniziarono una rivolta che gli dei con i loro poteri ben superiori domarono velocemente – Il Tempo del fuoco.
Ma gli dei sapevano che le loro creazioni, i Daschamesi, erano difettosi. La loro caparbia arroganza li avrebbe sempre portati a sfidare i loro creatori. Alcuni degli dei pensavano di distruggere tutti i Daschamesi e iniziare di nuovo i loro esperimenti con la vita, ma altri loro colleghi non erano d’accordo.
Infine, gli dei decisero che i Daschamesi dovevano essere tenuti, ma come schiavi, adatti solo per adorare gli dei e per eseguire lavori domestici per servirli. Gli dei avrebbero tenuto costantemente sotto controllo i loro servitori disobbedienti, sempre in allerta per recepire ulteriori segni di ribellione. Inoltre, gli dei crearono gli angeli per ricordare ai Daschamesi il loro stato corrotto e per reprimere e punire tutti coloro che avessero trasgredito la volontà degli dei.
Fu definito un severo codice di regolamenti. Nessun Daschamese poteva dire o fare qualsiasi cosa che potesse indicare ostilità verso gli dei. Sacrifici di cibo sarebbero stati raccolti ad intervalli da ogni villaggio e portati dagli angeli al monte Orrork. i Daschamesi, oltre a produrre il loro cibo, dovevano lavorare ai vari doveri per gli dei – estrarre minerali e rocce specifiche che ponevano in grandi contenitori che venivano poi raccolti a loro volta dagli angeli.
La libertà era limitata in mille modi. Era imposto severamente il controllo delle nascite. I Daschamesi non erano autorizzati a riunirsi nello stesso luogo e nello stesso momento in più di sedici per volta. I Daschamesi non avevano una lingua scritta e gli dei ascoltavano tutte le loro conversazioni, indipendentemente dal fatto che fossero sussurrate a bassa voce o meno. Il castigo (come Dev aveva già visto) era veloce e definitivo per chiunque decidesse di disobbedire alla volontà degli dei.
Gli dei erano invincibili, e governavano Dascham con una volontà di acciaio.

***

Dev e il suo capo ascoltarono in silenzio mentre Grgat spiegava la teologia di Dascham. Quando il nativo ebbe finito, nella cabina cadde il silenzio. Infine, Larramac allungò il braccio e spense il traduttore delle cuffie di Dev, affinché Grgat non sentisse cosa stessero dicendo. “Cosa ne pensi?” le chiese.
“È una bella storia.”
“Ma ci credi?” Larramac guardandola di sottecchi.
“Presumo dal tuo strano sguardo che Dennis ti ha imbottito delle mie teorie sugli dei. No, non gli credo alla lettera. Ha molto in comune con i miti della creazione dei popoli primitivi in tutta la galassia. Penso però che ci sia più verità in questo di quanta ce ne sia nella maggior parte di loro. E credo fermamente nei poteri degli dei; li ho visti fin troppo bene questa sera.”
Larramac rimase in silenzio per un attimo e poi allungò il braccio verso le cuffie di Dev. Dev gliele porse e accese di nuovo il sistema di traduzione. “Dimmi, Grgat, cosa ti aspetti da noi esattamente?”
“Vorrei che mi portaste via da Dascham, nel Cielo, nel reame dei demoni.”
“Ma tu ci hai appena detto che i demoni sono il contrario della vita. Perché dovresti volere andare a raggiungerli?”
Il nativo esitò e poi infine decise di fidarsi dell’umano. “Io...Io volevo chiedere il loro aiuto per distruggere gli dei. Solo quando gli dei saranno sconfitti, Dascham potrà essere veramente libero.”
“Ma i demoni ti ascolterebbero? Come puoi aspettarti di guadagnarti la loro simpatia o il loro sostegno quando sono così contrari alla vita?”
“Gli dei affermano di essere buoni, ma li ho visti fare cose che anch’essi dicono essere cattive. Affermano di essere saggi, e invece a volte agiscono in modo sciocco. Sto imparando rapidamente a non credere a tutto quello che gli dei mi hanno detto.”
“L’inizio della saggezza,” mormorò Dev—ma in modo molto sommesso, affinché il traduttore non la sentisse.
Grgat continuò, ignaro della sua osservazione. “Gli dei dicono che i demoni non tollererebbero la vita – eppure voi arrivate dal Cielo e siete tollerati, eppure non siete né demoni né dei. Gli dei affermano di sapere tutto su Dascham, eppure evidentemente non sanno cosa stiamo dicendo ora oppure ci avrebbero colpiti molto tempo fa.”
“Come proponi di trovare i demoni?” chiese Dev.
“Non so,” ammise il nativo. “Non ne avete mai incontrato nessuno?”
“Ho incontrato una quantità di esseri che sarebbero in linea con questo termine, ma probabilmente non sono loro quelli che hai in mente tu.”
“Mi aiutereste forse a cercarli? Sareste ben pagati!”
Nel sentire parlare di pagamento, Larramac si raddrizzò improvvisamente. Si concentrò molto di più sulla forma ursina di Grgat, mentre diceva, “Pagare? Come? Non sapevo che voi Daschamesi disponeste di che pagare. Non sembri particolarmente ricco.”
“Dovrebbe accadere dopo che gli dei saranno distrutti, naturalmente. Se non lavoreremo più per loro, potremmo fornirvi manodopera per compensare il nostro debito. Ci sono minerali che gli dei considerano preziosi, ed alcuni che anche voi desiderate commerciare. Potremmo fornirvene molti di più, in cambio della nostra libertà.”
In quel momento l’astrogatore della nave, Lian Bakori, entrò con un vassoio di cibo per il prigioniero. Dallo sguardo avido sulla faccia di Grgat mentre adocchiava il cibo, Dev giudicò che sarebbe stato meglio fare una pausa momentanea nell’interrogatorio. Erano tutti stanchi e avevano bisogno di riposo. Dopo che Bakori posò il vassoio, lasciò la cabina, spingendo fuori il proprietario e l’astrogatore davanti a lei.
Di nuovo fuori, Dunnis l’avvicinò. “Guarda cosa ho trovato, Capitano.”
Il sottile pezzo di metallo che teneva nella mano tesa era lungo meno di due centimetri. Sebbene avesse un piccolo kit di gambe per la mobilità, era ovviamente artificiale.
“Dove l’hai trovato?” gli chiese.
“Nella stiva, mentre stavamo pulendo. Avevi ragione, penso sia una di quelle cimici che usano quegli dei.”
Dev era troppo stanca per provare piacere nel sapere che le sue supposizioni erano corrette. Si limitò ad emettere un profondo sospiro e disse, “Puoi scoprire a che frequenza sta trasmettendo?”
“Può volerci un po’, ma... ma sì, posso.”
“Bene. Fallo immediatamente. Poi voglio che tu costruisca un dispositivo di disturbo così che io possa spegnere i deflettori per i meteoriti. Stiamo consumando la potenza della nave.”
“Sì, Capitano. Può volerci un po’ di tempo.”
“Prenditi tutto il tempo che ti serve, fino alle 7:30 di questa mattina. Poi faresti meglio ad essere pronto.”
“Ma Capitano, non ho dormito per nulla, e i test?”
“Se non fossi andato fuori a farti una bevuta con Zhurat, niente di tutto questo sarebbe necessario. I test sono relativamente chiari – ho qualche conoscenza di ingegneria. Potrei fare i test e costruire il dispositivo di disturbo io stessa in quindici ore; mi aspetto che tu, con la tua particolare esperienza in questa materia, lo faccia in metà del tempo.”
Dunnis aprì la bocca per protestare ancora, ma Dev lo interruppe. “Ogni minuto che stai qui a discutere con me significa un minuto in meno da dedicare al lavoro. Suggerirei che tu iniziassi adesso.”
Con un’alzata di spalle, il massiccio tecnico si mosse pesantemente per andare ad eseguire i suoi ordini, lasciandola sola con Larramac e Bakori. “Sarò nella mia cabina se avete bisogno,” disse ai due uomini. “Ho il grande sospetto che le attività di questa notte siano solo un preludio a qualcosa di molto peggio, e vorrei riposare almeno per qualche ora prima di dovermene occupare.”
Bakori accettò il suo annuncio con lo stesso silenzio di pietra che usava per tutte le occasioni. L’astrogatore era un Neo-Buddista ortodosso e, in quanto tale, accettava l’intero universo esattamente come si presentava. Dev non ricordava di avere mai incontrato un uomo più passivo, ma faceva il suo lavoro ragionevolmente bene e non le causava problemi, sicché lei non aveva di che lamentarsi.
Roscil Larramac, invece, era tutta un’altra cosa. La sua espressione pensierosa ed astratta su quello che aveva detto Grgat non faceva presagire nulla di buono. Vorrei sapere cosa sta succedendo all’interno di quel suo cervello troppo impaziente, pensò Dev. Qualunque cosa sia, so che non mi piacerebbe.

***

Nonostante la sua annunciata intenzione di volere dormire un po’, non ci riusciva. Si sdraiò sulle coperte della brandina pieghevole, girando continuamente gli occhi intorno a sé nella stanza. Un wc e un lavandino erano stipati insieme in un angolo, con una serie di cassette incassate che contenevano la maggior parte dei suoi effetti personali. Le pareti di metallo nudo avevano degli anelli per legarvi l’amaca a gravità zero di solito piegata in un cassetto. C’era un cronometro, una fotografia dei suoi genitori e una del dormitorio in cui aveva passato i suoi primi sette anni, alcune immagini dei pianeti che aveva visitato ed un ricamo con la sua citazione preferita di Anthropos. “Non pregare per i miracoli – creali!”
Si chiese se sarebbe stata all’altezza del compito questa volta. Nell’arco di poche ore, i suoi problemi erano aumentati in modo esponenziale, e non le avrebbero concesso facilmente di riposare la mente.
Aprì un libro e lo sfogliò; ma persino leggere, il suo passatempo preferito, le pareva poco interessante dopo le attività della notte scorsa. Disturbata dal non riuscire a estraniarsi così facilmente, posò il libro sul pavimento di fianco alla brandina.
Tutti i problemi hanno delle soluzioni, ricordò a sé stessa. Bisogna solo mettere in ordine la testa. Determinata a fare questo, suddivise i suoi pensieri nelle varie componenti e le esaminò individualmente.
Prima, gli dei. Il suo discorso all’angelo sembrava avere calmato la loro rabbia per l’esplosione di Zhurat, ma sarebbero comunque stati ancora in guardia verso gli umani. L’equipaggio della Foxfire poteva avere un’influenza dirompente in un mondo che essi facevano in modo di tenere statico – e la sua azione di accendere le schermature dei deflettori avrebbe solo fatto aumentare i loro sospetti. Gli umani sarebbero stati sotto stretto esame da ora in poi; tutti i loro comportamenti verso l’esterno avrebbero dovuto essere più che perfetti, oppure avrebbero attirato più dell’ira divina.
Secondo, il passeggero clandestino. Gli dei potevano anche non sapere ancora che era sparito, ma una volta che l’avessero saputo, sarebbero potuti saltare subito alla conclusione giusta che si poteva essere nascosto nella nave degli umani. Come avrebbero reagito? Avrebbero chiesto agli umani di consegnarlo alla loro giustizia? Se l’avessero chiesto, lei avrebbe acconsentito? L’etica di questa situazione era incredibilmente ingarbugliata, e la sua risposta avrebbe potuto influenzare negativamente i rapporti d’affari fra gli umani e i Daschamesi per secoli.
Terzo, le armi. Larramac glielo aveva deliberatamente nascosto, così come le aveva tenuto segreto il loro itinerario. “Ti dirò dove andiamo quando dovrai arrivarci,” le aveva detto, e tutti i suoi sforzi per ottenere maggiori informazioni erano stati vani. Sapeva che non aveva cercato di venderle sul pianeta; gli dei non l’avrebbero mai tollerato. Ma le armi la preoccupavano comunque. Il traffico di armi non era illegale; niente lo era nello spazio, dove le leggi umane non valevano. Ma questo avrebbe causato delle complicazioni a questa missione commerciale, complicazioni che lei avrebbe dovuto tenere in considerazione.
Inoltre, lei considerava immorale il commercio di armamenti. A un Eoano fregava ben poco se gli altri sceglievano di farsi scoppiare e di perdere le loro vite – ma era considerato di cattivo gusto aiutarli a farlo.
Avendo così elencato i problemi di cui doveva occuparsi, iniziò un elenco delle risorse a sua disposizione.

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Attacco Agli Dei Stephen Goldin
Attacco Agli Dei

Stephen Goldin

Тип: электронная книга

Жанр: Современная зарубежная литература

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Durante una missione commerciale su un pianeta remoto, il capitano di una navicella spaziale Ardeva Korrell si ritrova a fronteggiare una battaglia; con il suo scarno equipaggio deve combattere un esercito di robot e sconfiggere gli esseri tirannici e divini che hanno schiavizzato la popolazione nativa. Il compito che si trovano di fronte è inequivocabile: prendere d′assalto le porte dello stesso Paradiso!

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