Se Non Farai Del Sogno Il Tuo Padrone…
Stephen Goldin
Wayne Corrigan e i suoi colleghi della Dramatic Dreams possono trasmettere i Sogni direttamente nella mente altrui, durante il sonno. In seguito a un malfunzionamento, Wayne deve trovare il modo di salvare decine di migliaia di persone - inclusa la donna che ama - dalla morte o dalla follia, lottando per riprendere il controllo di un Sogno dalle mani di un genio folle...
In un futuro non lontano, la trasmissione dei Sogni è diventata il passatempo ricreativo più alla moda. Indossare una Calotta Onirica durante il sonno permette alla stazione trasmittente di inviare i Sogni direttamente alla mente priva di coscienza, provocando un'esperienza ricreativa tanto intensamente reale da sembrare vissuta di persona. Wayne Corrigan è un attore ingaggiato dalla Dramatic Dreams, uno degli studi di trasmissione più piccoli dell'area di Los Angeles. Janet Meyers è una sua collega, la donna che Wayne ama, ma a cui non si dichiara per timidezza. Il terzo attore è Vince Ronder, un genio del settore, ciò che si definisce un ”Padrone dei Sogni”, una persona dotata di immaginazione tale da creare nella propria mente interi mondi, da popolare e proiettare poi ai suoi spettatori. Vince è la superstar dello studio, anche se non sembra vantarsene. Lui ha altri problemi... una madre dominante, religiosamente fanatica. In seguito a un misterioso malfunzionamento, Wayne viene chiamato per entrare in un Sogno iniziato da Vince. All'interno, l'uomo troverà una situazione impazzita con ostaggi che Vince, avviato all'autodistruzione, tiene in pugno. Decine di migliaia di persone, inclusa Janet, che quella notte è in mezzo al pubblico, rischiano la vita o la pazzia se Wayne non riuscirà a trovare il modo di sottrarre il Sogno a Vince. Se non farai del Sogno il tuo Padrone è un viaggio selvaggio e creativo nella mente da incubo di un pazzo...
SE NON FARAI DEL SOGNO IL TUO PADRONE…
di
Stephen Goldin
Publicato da Parsina Press (http://parsina.com/)
Traduzione italiana pubblicata da Tektime
And Not Make Dreams Your Master. Copyright 1981 by Stephen Goldin. All Rights Reserved.
Cover art copyright © Yvonne Less | Dreamstime.com
Titolo originale: And Not Make Dreams Your Master
Dedico esplicitamente questo libro
(perché tutti i miei libri gli sono dedicati, almeno implicitamente) a
ROBERT A. HEINLEIN
che ha sognato il Sogno per tutti noi…
e a Virginia Heinlein
perché lo ha aiutato a diventare la persona che è
INDICE
Capitolo 1 (#ud3b9909a-3651-5514-a6c2-ef5c338d874b)
Capitolo 2 (#u19d5432a-851e-5b4b-a5ba-fa7431108e2d)
Capitolo 3 (#ub2e987db-ebd0-5c9c-86ff-b2c2e3892d97)
Capitolo 4 (#ue3d6fa89-b382-503e-bda5-98b4f7d7fc86)
Capitolo 5 (#ud382a65c-b11c-50ea-b32b-1ef8bb9a6bba)
Capitolo 6 (#litres_trial_promo)
Capitolo 7 (#litres_trial_promo)
Capitolo 8 (#litres_trial_promo)
Capitolo 9 (#litres_trial_promo)
Capitolo 10 (#litres_trial_promo)
Capitolo 11 (#litres_trial_promo)
Capitolo 12 (#litres_trial_promo)
Capitolo 13 (#litres_trial_promo)
Capitolo 14 (#litres_trial_promo)
Capitolo 15 (#litres_trial_promo)
Capitolo 16 (#litres_trial_promo)
A proposito di Stephen Goldin (#litres_trial_promo)
Per contattare Stephen Goldin (#litres_trial_promo)
CAPITOLO 1
Il corridoio si estendeva a perdita d’occhio; contro le pareti bianche e liscie e sul pavimento spiccavano brillanti i tubi fluorescenti. Nell’atrio, fino ad allora deserto, arrivarono correndo un uomo e una donna. Si sarebbe dovuto percepire lo scalpiccìo delle scarpe sul linoleum lucido, ma quel loro inquietante passaggio non produceva alcun suono – se non l’immagine delle pareti vuote che sfrecciavano via. Il tempo era contro di loro, il tempo era loro nemico. Se non avessero raggiunto presto l’obiettivo, i terroristi avrebbero distrutto Los Angeles con la loro rudimentale bomba atomica. Ma il corridoio proseguiva, proseguiva, l’uomo e la donna correvano, correvano, mai una pausa per riprender fiato, mai una sosta per riposare. Sembrava attenderli un tragitto infinito lungo quel cunicolo silenzioso, mentre attorno a loro il mondo tratteneva il fiato. Non si guardavano mai l’un l’altro; i piedi planavano silenziosi sul pavimento liscio. Spasmodici.
D’un colpo davanti a loro si parò la fine del corridoio. Girato un angolo comparve un uomo vestito di nero, armato di fucile, che sfoggiava l’emblema dei terroristi: un cobra rosso cucito sulla spalla sinistra. Lentamente, molto lentamente, sollevò il fucile per sparare alla coppia in avvicinamento.
L’uomo che correva affrettò il passo per affrontare la minaccia, lasciando indietro la compagna. E in quel mentre il terrorista… si modificò. Il suo corpo tremolò, si fece sfocato: la figura singola della persona si divise per formare due immagini separate, distinte, due gemelli siamesi che imbracciavano fucili identici, in posizione minacciosa. Lui/loro sbarrarono il passo all’uomo in avvicinamento, impedendogli di proseguire oltre.
L’uomo che correva si arrestò con una velocità impensabile per fronteggiare quella minaccia sdoppiata; in realtà il terrorista sembrava essere più un pericolo per se stesso che per chiunque altro. I suoi contorni si sfocarono ancor di più e toccarono il pavimento, cercando poi letteralmente di ricompattarsi. Le luci si affievolirono e i muri del corridoio iniziarono a vibrare, sparendo per poi ricomparire. Il fragile filo conduttore della realtà era sul punto di sbriciolarsi.
Poi improvvisamente tutto fu di nuovo normale. Le pareti si stabilizzarono, le luci si rischiararono. C’era un solo terrorista con un solo fucile, ben deciso a tenere alla larga i due intrusi – assolutamente ignaro del fatto che proprio pochi secondi prima la sua persona si era spezzata in due.
L’uomo che correva assestò un pugno al terrorista, allontanando il braccio e poi ripiegandolo, come un arco allentato, direttamente sul volto dell’altro. Fu un colpo ben sferrato; il contatto parve nulla di più dell’impatto con un cuscino. Il viso del terrorista esplose in una pioggia di scintille che ricaddero sul pavimento come polvere di fata. Il corpo privo della testa cedette lentamente verso il suolo, si sciolse in una pozza color carne e poi evaporò.
Si udì un debole scampanellìo che solo l’uomo e la donna percepirono. “Andiamo” disse lui alla compagna. “Non ci resta molto tempo. La bomba esplode fra cinque minuti.”
La donna acconsentì senza parlare e voltò sull’incrocio del corridoio da cui era apparso il terrorista. Iniziò di nuovo a correre e l’uomo l’affiancò proprio mentre attorno a loro il mondo svaniva…
Wayne Corrigan era sdraiato nella sua cabina, fiocamente illuminata: ansimava per lo sforzo. Era il momento di disorientamento che sperimentava sempre nel passaggio dal Sogno alla realtà, l’istante in cui non distingueva il vero dalla finzione; poi il mondo si solidificava di nuovo e lui tornava “a casa”.
Strano pensare a questo posto come casa mia, rifletté. Resto qui soltanto poche ore ogni tre giorni, per giocare alle illusioni. Eppure, a volte tutto ciò che per lui contava ed era reale si trovava in quel minuscolo cubicolo, mentre il mondo di fuori svaniva e si faceva insignificante.
Aprì lentamente gli occhi per fissare il fievole candore del soffitto. Il cranio gli formicolava, infiammato nei ventiquattro punti in cui era stato punzecchiato; quella sensazione gli ricordò che c’era ancora del lavoro da terminare. Era solo un intervallo – l’ultimo della serata. Poi sarebbe stato di nuovo intrappolato nella realtà fino allo spettacolo successivo.
Wayne tornò in fretta alla sua routine post-transazionale. Fletté le dita delle mani e dei piedi e lasciò che ritrovassero il sapore della realtà. Gli arti riprendevano vitalità e lui risucchiava la sensazione su per tutto il fisico, nei muscoli delle braccia e delle gambe; il calore nel petto si riaccese e fluì nuovamente nella testa, sul collo. Pochi esercizi isometrici per informare il corpo che disponeva di nuovo del pieno controllo e per allontanare la rigidità che glielo aveva sottratto mentre lui era via, nella terra dei Sogni.
Ogni volta si stupiva di quanto il suo corpo si stancasse, anche se in realtà rimaneva disteso immobile e pacifico su un lettino. Aveva visto gli studi, però, aveva letto le schede tecniche. Nel Sogno il cervello continuava a inviare comandi silenziosi ai muscoli, ma di solito gli elementi inibitori impedivano al corpo di obbedire. Ed era naturale che il suo fisico ne risentisse, visto che lui proiettava una quantità di Sogni maggiore rispetto alla gente comune.
Ernie White, l’operatore di turno quella notte, si affacciò nel cubicolo.
“Si è svegliata, la Bella Addormentata?” domandò.
Wayne sorrise e lo sforzo lo fece sussultare; erano induriti anche i muscoli facciali.
“Mi sa che intendevi riferirti alla signora qui a fianco.”
“Anche se fosse, è scortese notarlo.” E il viso di White, nero come una scultura d’ebano, svanì dalla soglia.
Wayne si drizzò lentamente gemendo per lo sforzo e rimase seduto. La testa quasi gli sfiorava il soffitto della cabina – che, comunque, non era stata concepita per restare seduti o in piedi. Sollevò allegramente la sua personale corona di spine, la Calotta Onirica, se la tolse dal capo e la poggiò sul lettuccio accanto a sé; poi si mosse verso l’uscita.
Dopo l’oscurità del cubicolo, le luci brillanti della stanza esterna gli fecero lacrimare gli occhi. Scivolando fuori dal suo bozzolo, Wayne ricacciò indietro gocce di pianto e guardò verso sinistra: lì, White aiutava Janet Meyers a uscire dal proprio alloggiamento. Janet sbatté le palpebre per la luce, proprio come Wayne; ma Wayne si era già ripreso e approfittò della momentanea cecità della donna per osservarla nei dettagli.
Da un punto di vista prettamente tecnico Janet Meyers non era una bellezza. Era un po’ troppo alta con l’ossatura un po’ troppo grossa. Aveva il viso tondo e, sulle guance, delle lentiggini appena percettibili. I capelli castani erano secchi e mai perfettamente in ordine; qualche ciocca riusciva sempre a volar via da qualche parte, di solito in mezzo alla fronte. Era ben proporzionata; qualsiasi uomo dotato di gusti normali le avrebbe donato una lunga, persistente occhiata anche se forse non si sarebbe voltato al suo passaggio per dargliene una seconda.
Non c’era nulla di speciale in lei che non si potesse trovare in centinaia di altre donne. E allora perché quando le sto intorno mi comporto come un orribile adolescente vergine? Si domandò Wayne, arrabbiato.
Lei si abituò alla luce e lo fissò. Wayne voltò rapidamente lo sguardo verso l’orologio sopra la porta della cabina di regia; poi si inquietò con se stesso per quel senso di colpa che aveva provato guardando la donna. Giochetti stupidi da ragazzini, pensò, dovrei esserne fuori da anni.
“Problemi?” domandò White. “Per un secondo mi è sembrato di veder saltare gli indicatori.”
Questo ricordò a Wayne quel casino orribile con il terrorista, nel corridoio.
“Ho avuto solo un problemino a coordinare un’immagine” rispose. “Stavamo inquadrando il personaggio in modi diversi, lui si è sfocato ed è saltato un po’ qui e un po’ lì prima che riuscissi a riprendere il controllo.”
“E’ stata colpa mia” disse Janet. “Era un personaggio tuo, eri tu che dovevi gestirtelo. Avrei dovuto lasciarti il controllo completo nel momento in cui è apparso ma non ci ho pensato. Scusami.”
“Non è stata colpa tua,” insistette Wayne, sentendosi molto protettivo. “Come ci si può aspettare la perfezione quando ci cambiano i copioni all’ultimo momento? Non abbiamo fatto neanche in tempo a leggerli, che possibilità avevamo di recitare…”
“E’ stato soltanto un piccolo sbalzo durato un secondo o due” continuò Janet. “Potremmo anche averlo fatto apposta per ottenere un intermezzo comico rilassante, nel caso qualche spettatore se ne fosse accorto. Se poi gli spettatori c’erano, oltretutto.”
“Ce n’erano ventiduemila, secondo il computer” affermò White.
Wayne lo guardò severo. Mort Schulberg non sarebbe stato contento di un indice così basso; ma, d’altra parte, raramente era contento di qualcosa, quello.
“E Janet ha lavorato proprio due giorni fa” continuò lui per difenderla. “Sarà esausta. E’ una di quelle cose che potrebbe succedere a chiunque.”
“Mica devi chiedermi scusa” sorrise l’operatore. “Io mi limito a giocare con le manopole, non lo sai?”
“Abbiamo dieci minuti” interruppe Janet, lanciando anche lei un’occhiata all’orologio. “Questo errore ormai è fatto, ma se vogliamo evitarne altri faremmo bene a coordinarci.”
Lei e Wayne entrarono nella stanza Sala Tattica, dove era stato preparato in tutta fretta un abbozzo della loro scena perché se la studiassero prima di ricominciare.
“Il corridoio è lungo venti metri,” esordì lei, quasi meccanicamente. “Ci sono uomini appostati qui, qui e qui. Un cancello a griglia metallica, tipo le serrande che si usano per chiudere i negozi la notte, proprio qui, manovrato da un pulsante qui. Due uomini dietro la serranda. Pensi di riuscire a disinnescare la bomba da solo?”
A quella domanda Wayne si sentì improvvisamente insicuro. Anche se era il Sognatore più giovane dello staff locale, aveva già fatto esperienza in altre sedi. Cercò di dissimulare i suoi sentimenti con una battuta leggera.
“Tanto devo farlo comunque, no? Ormai è tardi per cambiare il copione. E poi tu avrai il tuo bel da fare, con tutti quei terroristi.”
“Ah questo è sicuro. Voglio proprio chiedere a Bill come mai ogni volta ce ne sono di più. Mi sta facendo passare per un’accidente di Amazzone!”
“Forse, se gli sorridi con dolcezza, la prossima volta ti ingaggia per una storia romantica.”
“Oh Cielo spero di no!” Wayne si sorprese della veemenza della voce di lei. “Se c’è qualcosa che non voglio è un cumulo di immondizia sdolcinata per casalinghe frustrate. Piuttosto preferirei combattere con una mano sola contro orde di Mongoli.”
Poi guardò Wayne e gli notò una strana espressione in viso.
“E ora, che hai?” gli domandò.
Wayne distolse rapidamente lo sguardo.
“Nulla,” disse lui. Dalla reazione di lei aveva capito fin troppo chiaramente quali erano le sue opinioni del romanticismo al momento.
“E’ meglio decidere chi dovrà gestire cosa nella scena, così evitiamo ulteriore confusione. Non vorrei rovinare il finale.”
Rimasero alcuni minuti a esaminare la sceneggiatura punto per punto, discutendo chi sarebbe stato responsabile della visualizzazione di quali parti e di quali personaggi. Alla fine arrivò Ernie White che interruppe la discussione per farli tornare alle proprie cabine e poter iniziare in tempo. Mentre risalivano nei rispettivi cubicoli, inaspettatamente Janet rivolse a Wayne un sorriso e una rapida V di VITTORIA con le dita. Ciò in qualche modo sollevò l’uomo dalla depressione che lo aveva attanagliato; e si adagiò nella cabina.
Seduto sul lettuccio, afferrò la Calotta Onirica e se la tenne in grembo per un attimo, rigirandola e osservandola dappertutto. Non c’era molto da vedere: due archi di plastica incrociati, con il bordo stondato, che formavano l’intelaiatura di un casco craniale; fili che partivano dal retro e finivano sul pavimento. I diversi quadranti della Calotta erano occupati da una rete di fili quasi invisibile che si congiungevano in ventiquattro punti nodali corrispondenti ad altrettante aree cerebrali. Eppure quel semplice congegno aveva creato intere nuove industrie e aveva rivoluzionato il settore dello spettacolo ricreativo.
Le prime vere ricerche sui meccanismi del cervello erano iniziate decenni prima. L’elettroencefalogramma tracciava l’andamento delle onde cerebrali per poterle classificare e identificare: gli studiosi avevano scoperto che esistevano diverse aree del cervello responsabili di diverse funzioni corporee e avevano imparato che era possibile stimolare diverse porzioni della mente dall’esterno e ottenere modifiche di comportamento. L’esempio migliore era il classico esperimento in cui dei topi avevano elettrodi piantati nei cosiddetti centri del piacere del cervello: erano topi pronti ad attraversare una barriera che impartiva forti scosse elettriche pur di arrivare a premere una barra che stimolava i loro centri del piacere. I topi affamati non affrontavano volontariamente la barriera elettrica per ottenere cibo, ma ratti altrimenti sani rischiavano praticamente di tutto per una scossa nei centri del piacere.
Gli esperimenti per mappare le aree del cervello si erano raffinate finché psicologi e neurologi non erano riusciti ad individuare con estrema accuratezza la posizione delle funzioni mentali più comuni. Questo, per la scienza medica, era già di per sé un enorme passo avanti. Si dimostrò che molte malattie invalidanti erano causate da disfunzioni nel tessuto cerebrale interessato; in molti casi la microchirurgia riuscì a correggere o alleviare la patologia, salvando milioni di persone dalla debilitazione.
Le aree che maggiormente interessavano gli psicologi, però, erano quelle che controllavano le funzioni cerebrali più elevate: l’apprendimento e il ricordo, il richiamo della memoria, i processi del pensiero, l’immaginazione e così via. Molti neurologi già sospettavano che alcune forme di schizofrenia fossero causate non già da traumi emozionali infantili, ma da semplici squilibri chimici all’interno del cervello. Utilizzando l’insieme delle conoscenze sui meccanismi mentali accumulato, fu provato che, a causa di tali squilibri, i pazienti percepivano il mondo in modo letteralmente diverso dagli altri: e che, di conseguenza, si comportavano diversamente. Parallelamente, grazie alla ricerca si scoprì anche in che modo la gente “normale” percepisse l’universo.
Con gran sorpresa di molti, tutto ciò si rivelò estremamente facile da tracciare. Ad eccezione dei soggetti con patologie fisiche, dunque facilmente identificabili, tutti gli altri riponevano lo stesso tipo di immagini nello stesso scomparto del cervello. Stimolando il medesimo punto in due persone diverse era possibile evocare nelle loro menti lo stesso tipo di immagini. Inizialmente questi esperimenti furono realizzati soltanto con il metodo tradizionale di impiantare chirurgicamente elettrodi nel cervello – ma poco dopo si trovò il modo per stimolare quelle aree utilizzando onde elettromagnetiche al posto degli elettrodi. Il nuovo metodo offriva degli ovvi vantaggi; era realizzabile dall’esterno, quindi non c’era bisogno di ricorrere alla chirurgia; poteva essere guidato da un computer che individuava con accuratezza l’area mentale desiderata, lasciando intatte tutte le altre zone attorno al sito prescelto. Si progettò un casco – il diretto progenitore della Calotta Onirica – che il soggetto avrebbe dovuto indossare. Stimolando le aree giuste nel cervello del soggetto era possibile produrre nella sua testa una serie esatta di immagini, tutte controllate da un fattore esterno.
Inizialmente la conoscenza delle nuove tecniche fu esclusiva per i neurologi specializzati; le applicazioni furono prevalentemente nel campo della psicoterapia. Scansionando le emissioni cerebrali, gli analisti stessi potevano visualizzare ciò che vedevano i loro pazienti. Per i pazienti in sofferenza per delusioni o percezioni fisiche erronee, il terapista poteva sostituire le false immagini con rappresentazioni corrette. Era letteralmente possibile cambiare il modo in cui una persona pensava alterando il modo in cui percepiva la realtà.
Ma le implicazioni di questa scoperta erano troppo vaste per essere confinate in laboratorio. Nei paesi a regime totalitario di tutto il mondo la Calotta Onirica divenne presto strumento primario di lavaggio del cervello e di controllo del pensiero. Se un dissidente non collaborava con il governo, il potere costituito poteva carcerarlo in un istituto mentale – una copertura che l’ex Unione Sovietica e altre dittature avevano usato per molti anni – e imprimergli in testa i propri pensieri. Se la mente del dissidente accettava le percezioni come proprie, la persona veniva dichiarata “guarita” e tornava nella società. Se la mente del dissidente si rifiutava di accettare le nuove percezioni i suoi carnefici insistevano, bombardando di continuo il cervello con nuove immagini finché la mente del soggetto non riusciva più a discernere l’influenza esterna dal proprio pensiero personale. Il prigioniero diventava allora pazzo certificato, il che giustificava il protrarsi della detenzione. In entrambi i casi la sua capacità di fronteggiare il potere di stato era, di fatto, distrutta.
Utilizzare in quel modo la tecnica fu proibito e ampiamente aborrito in tutto il mondo libero, anche se, secondo voci persistenti, la CIA e altre agenzie governative di spionaggio mantenevano in piedi le proprie “cliniche” per il lavaggio del cervello. La libera impresa, intanto, non intendeva certo lasciarsi scappare un strumento tanto potente senza metterlo a punto – non quando c’erano potenzialmente miliardi di dollari da guadagnarci.
Si sottolinea spesso che l’individuo medio trascorre un terzo della vita dormendo. Il sonno, di per sé, non è particolarmente raccomandato, se non perché permette al corpo di disfarsi dell’accumulo giornaliero di veleni e perché sognare è una necessità di cui la mente normale non poteva fare a meno. Una colossale perdita di tempo. Le ore trascorse a dormire rappresentarono quindi una vasta risorsa inesplorata in attesa di essere perfezionata e sfruttata: e la Calotta Onirica offrì lo strumento ideale per la perlustrazione.
Uno degli utilizzi toccò il campo educativo. Certo, nulla poteva soppiantare l’esperienza di apprendimento scolastico tradizionale tra insegnante e studente, ma la Calotta Onirica era una mano santa nel campo dell’istruzione per gli adulti. Chi lavorava sodo tutto il giorno poteva comunque trovare il tempo, dormendo, di imparare una seconda lingua, oppure di mettersi in pari con le più recenti teorie sul giardinaggio organico. “Riviste informative” sul sonno mantenevano i cittadini informati su vari articoli disponibili a livello mondiale. L’utilizzo di gran lunga più comune, però, era nell’industria dello spettacolo. Dopo aver affrontato problemi terreni durante il giorno, gran parte della gente era ben lieta di lasciarsi alle spalle le occupazioni e di perdersi in un mondo di fantasia. L’industria di trasmissione Onirica offriva il meglio degli svaghi d’evasione.
In tutti i tipi di passatempo già esistenti era proprio il mezzo di comunicazione a porsi tra il narratore e gli spettatori - la pagina stampata nel caso dei libri, uno schermo nel caso dei film e della televisione. Il pubblico doveva fare affidamento sulle immagini artificiali fornite dal narratore e tradurle in simbologia personale nella propria mente. Con Onirica, tutto ciò cambiò radicalmente. Le immagini venivano inviate direttamente nel cervello dello spettatore, che percepiva proprio di vivere realmente quelle esperienze. Si poteva trascorrere la notte nelle vere vesti di una spia, o di un detective, o del più grande spadaccino della Francia del Diciassettesimo Secolo, per poi risvegliarsi al mattino con la memoria piena di ricordi di quanto era accaduto. Si poteva uscire e affacciarsi al nuovo giorno con l’impressione di essere più grandi di quanto non si fosse in realtà, avendo vissuto un’avventura senza correre personalmente alcun rischio.
Wayne Corrigan era una componente importante della nuova industria d’evasione, una delle poche persone selezionate perché disponeva di un’immaginazione abbastanza vivida da poter lavorare come Sognatore. Lui, Janet Meyers e gli altri Sognatori proiettavano le immagini che i Dormienti, a casa, ricevevano attraverso le loro Calotte Oniriche. I Sognatori impersonavano un ruolo e lo trasmettevano attraverso il proprio casco. Le immagini venivano amplificate e trasmesse attraverso i fili nelle case di tutta Los Angeles e, attraverso le Calotte Oniriche, venivano impresse nella testa dei singoli spettatori, permettendo loro di vivere l’avventura insieme agli attori. Di rimando, ciascuna Calotta Onirica nelle case inviava un segnale allo Studio a cui era collegata, permettendo di monitorare e tariffare con precisione per poi emettere la relativa fattura ai singoli clienti.
Uno dei primi problemi che si erano presentati era stato l’identificazione dei ruoli secondo il sesso. La maggior parte degli uomini nei Sogni desiderava identificarsi in ruoli maschili, mentre la maggior parte delle donne desiderava ruoli femminili (c’era un’aberrante minoranza che sembrava preferire un’identificazione “cross-gender” ma la maggior parte delle industrie di trasmissione Onirica la ignorava). In alcuni casi era possibile che, in una determinata avventura, il protagonista fosse un eroe senza un’identità sessuale specifica, che poteva attirare entrambi i sessi; ma storie di quel tipo risultarono avere un ambito più limitato e non erano tanto popolari come quelle in cui subentrava un’identificazione completa.
Una soluzione al problema fu la creazione del “Sogno Superiore.” In tale contesto, il Sognatore o Padrone dei Sogni creava non uno, ma diversi personaggi in cui gli spettatori potevano identificarsi, a scelta. Il Padrone dei Sogni muoveva i personaggi nel mondo del Sogno perché si coordinassero nella storia che stava raccontando. E, potendo creare simultaneamente ruoli maschili o femminili, chiunque poteva sintonizzarsi in quel Sogno senza rimanerne deluso.
Ma i Padroni dei Sogni erano merce rara. Dovevano essere in grado di visualizzare tutto un mondo globalmente, mantenere i singoli personaggi in movimento simultaneamente e senza far confusione. Il Padrone dei Sogni occupava l’intera scena e muoveva gli altri come burattini. Era un’arte difficile da padroneggiare e lo staff della Dramatic Dreams aveva soltanto un Padrone dei Sogni – un genio, Vince Rondel.
La soluzione più comune era quella di separare i Sogni per uomini da quelli per donne. Di solito i due tipi di Sogni dovevano essere completamente distinti anche se nell’emergenza – come accadeva spesso in una trasmittente piccola come la Dramatic Dreams, con uno staff di sceneggiatori e attori ridotto – i due ruoli potevano coesistere nello stesso mondo di un Sogno. Era ciò che stava accadendo quella notte: Wayne e Janet interpretavano una coppia di agenti governativi, che lavorava insieme allo stesso caso. Gli uomini del pubblico ricevevano gli impulsi di Wayne, si identificavano con lui e pensavano che Janet fosse soltanto un altro personaggio principale; per le donne del pubblico era esattamente l’opposto.
Per la maggior parte dei Sognatori questo era un tipo di Sogno facile da realizzare; più facile che ingaggiare un Padrone dei Sogni, perché esisteva una relazione diretta uno a uno tra Sognatore e spettatore. Lo spettatore vedeva solo ciò che vedeva il Sognatore, e il Sognatore non doveva preoccuparsi di dover mantenere in piedi porzioni di mondo non rappresentate nella scena.
C’era lo svantaggio che con due Sognatori operanti nello stesso Sogno si potevano verificare incidenti. Come l’esempio del terrorista nel corridoio, che Wayne e Janet avevano visualizzato in modo diverso: il risultato era stata un’immagine confusa e incerta almeno finché Janet non aveva ceduto il controllo del personaggio a Wayne. Entrambi i Sognatori avevano la stessa capacità di partecipare all’azione nel Sogno, dunque la coordinazione tra di loro era essenziale.
Wayne era lieto che i Sogni non fossero a getto continuo. Gli studi avevano dimostrato che i Sogni erano efficaci soprattutto se frammentati in scene da quattordici minuti, con intervalli di altri quattordici. Sognare era un’esperienza talmente intensa che il corpo aveva bisogno di tempo per rilassarsi da una sessione prima di entrare in un’altra. Gli sceneggiatori avevano imparato a regolare la lunghezza delle scene di conseguenza; e tutti i Sognatori consideravano gli intervalli una mano santa perché così avevano il tempo di riprendersi dalla scena precedente, sgranchirsi i muscoli, ricordare a loro stessi cosa stessero facendo, discutere i problemi tecnici con l’operatore di turno e, nel caso di due o più Sognatori ausiliari che lavoravano in tandem, avere la possibilità di rivedere gli errori e migliorare la coordinazione.
Wayne respirò profondamente e poi lasciò andare il fiato mentre si sistemava la Calotta Onirica sul capo. Da quel che aveva detto Ernie White c’erano ventiduemila Dormienti sintonizzati su quel Sogno. Non erano poi tanti, non in una città grande come Los Angeles. Sicuramente perché lui era una nuova star di una stazioncina locale: ci voleva tempo per accumulare una cerchia decente di fan. Janet era una Sognatrice migliore di lui, questo lo sapeva; una tra gli artisti più consolidati della Dramatic Dreams, con ammiratori tutti suoi. La sua presenza in questa sceneggiatura avrebbe dovuto apportare un bel po’ di spettatrici come rinforzo sulla quantità di pubblico sintonizzato, forse persino coinvolgere nuovi spettatori nel suo stile. Invece sembrava averla trascinata ai suoi minimi.
Accidenti lo so che sono bravo! Pensò con risentimento. Forse non sono un altro Vince Rondel, ma posso fare meglio di così. Come faccio a tirarmi fuori da questa melma?
Sul soffitto lampeggiò una luce blu, l’avviso che mancavano trenta secondi. Wayne si distese sul lettuccio, si mise comodo e iniziò la routine di autoipnosi che tutti i Sognatori imparavano per entrare in uno stato di trance e ottenere una proiezione ottimale. Forzò la sua mente a eliminare tutti i pensieri estranei. Era prima di tutto un professionista. Aveva una storia da raccontare. Non si portava problemi e pregiudizi con sé nel Sogno; quello era il modo più sicuro per farsi licenziare. Durante il Sogno, non gli importava se dall’altra parte dei fili c’era una sola persona oppure un milione. Gli indici erano un problema della vita reale; per qualsiasi Sognatore coscienzioso, contavano esclusivamente i sogni stessi.
CAPITOLO 2
Il cubicolo svanì dalla sua mente, sostituito pian piano dal corridoio che aveva lasciato al termine dell’ultimo atto. Janet gli era di nuovo accanto ed entrambi correvano la loro disperata gara contro il tempo. Ricordò a se stesso – e agli spettatori – che lui e Janet erano una coppia di esperti agenti governativi a caccia di terroristi urbani. La Dramatic Dreams non intendeva essere accusata di utilizzare Onirica per fare propaganda contro le convinzioni più profonde di chicchessìa, dunque la filosofia degli avversari era mantenuta volutamente vaga, anche se di solito optava per l’omicidio di innocenti e per la distruzione di quei valori sociali che tutti invece avevano a cuore.
Dai terroristi che avevano catturato e interrogato, Wayne e Janet avevano saputo che i componenti della banda avevano costruito una rudimentale bomba atomica ed erano pronti a farla detonare a Los Angeles se non fossero state soddisfatte le impossibili richieste che avanzavano. Non c’era tempo di chiamare la Polizia o gli artificieri; era un lavoro da portare a termine immediatamente e Wayne e Janet erano i soli in grado di salvare milioni di vite.
I terroristi, però, non avrebbero ceduto senza combattere. Avevano posizionato nel corridoio una squadra suicida scelta tra le loro fila per sorvegliare il loro strumento di distruzione. Quegli uomini sapevano che, se la bomba fosse scoppiata, sarebbero morti: ed erano preparati a sacrificare le loro vite per la causa. Avrebbero combattuto come indemoniati per proteggere la bomba; non avevano niente altro per cui vivere e quindi non si sarebbero risparmiati in nulla.
Appena giunti nel corridoio dove era stata piazzata la bomba, Wayne e Janet afferrarono immediatamente la situazione. C’erano venti metri di pericolo a separarli dal loro obiettivo. Nel momento in cui apparvero nel campo visivo dei tre uomini di guardia del corridoio, fu allerta immediato. I tre, che già avevano i fucili spianati e puntati per una simile evenienza, con gesto spontaneo spararono immediatamente agli agenti governativi.
Wayne sentì l’aria calda del raggio laser del fucile di un terrorista sfrigolargli a pochissimi millimetri dalla guancia per poi perforare superficialmente l’intonaco del muro. Sfruttò il tempo guadagnato con lo scatto e con una spinta si gettò pancia a terra, col fucile in mano, scivolando per poi fermarsi sul pavimento liscio; puntellò i gomiti al suolo, mirò rapidamente, ma con cura; fece fuoco. L’avversario che gli aveva sparato urlò dal dolore mentre il raggio ustionante della pistola di Wayne gli vaporizzava il tessuto della spalla destra.
Dopo Wayne era entrata in azione anche Janet. Entrando nel disimpegno era rimasta un passo dietro di lui, allertata in tempo dal rumore degli spari. Gettandosi d’un lato finì in ginocchio con il fianco sinistro al sicuro, contro il muro. Anche lei aveva il fucile in mano e aprì il fuoco sul nemico.
Avvantaggiandosi dalla copertura, lui strisciò come un serpente per dodici metri lungo il corridoio e arrivò al pulsante che controllava il cancello di metallo che ostruiva la via per proseguire. Attorno a lui un susseguirsi di colpi laser, ma li ignorò, concentrandosi esclusivamente sul pulsante.
Per ottenere un effetto drammatico, Wayne rallentò un pochino il suo senso del tempo. Come tutto il Sogno, anche il corso del tempo era controllato dai Sognatori. Wayne poteva allungare un istante fino all’eternità per far accadere tutto al rallentatore, oppure poteva comprimere un certo numero di avvenimenti in un singolo istante. Allungare il flusso del tempo era un effetto artistico per accrescere la suspence nel pubblico, facendo sembrare più lenta la sua avanzata e ingigantendo la minaccia dei laser dei terroristi. Tutti gli uomini che si identificavano con lui nel Sogno si sarebbero sforzati per raggiungere quel fatidico pulsante, eppure avrebbero dovuto agire nella vischiosità che Wayne imponeva. Naturalmente aveva discusso il cambio del flusso del tempo con Janet e anche lei aveva rallentato la sua percezione del tempo; altrimenti per Wayne i movimenti di lei non sarebbero stati altro che una rapida azione sfocata e così sarebbe stato per tutti gli spettatori di sesso maschile che vivevano l’azione attraverso i suoi occhi.
Finalmente Wayne raggiunse il pulsante. Lo premette e, obbediente, il cancello metallico si avvolse sul soffitto. Contemporaneamente Wayne tornò al flusso di tempo normale. Ora sembrava avere la strada spianata per potersi impossessare della bomba. Ma proprio mentre veniva sommerso da un’ondata di trionfo fu colpito al polpaccio desto da un raggio laser avversario.
Era un effetto alquanto complicato e Wayne si era sentito lusingato quando il direttivo della stazione trasmittente gli aveva permesso di realizzarlo. Tutta l’industria aveva adottato regole molto severe riguardo al dolore percepito nel corso dei Sogni. Sensazioni del genere avrebbero potuto avere effetti traumatici su un utente tranquillamente addormentato nel letto di casa sua. Agli inizi dell’attività i Sognatori avevano perduto diverse battaglie legali contro accuse di danni mentali e fisici causati da traumi. Ecco perché ora ci andavano coi piedi di piombo, toccando l’argomento stress nei Sogni con estrema cautela.
Correndo, durante un Sogno, Wayne non aveva mai il fiatone; anche in imprese estenuanti non si stancava mai, mai aveva uno stiramento muscolare; ora che il copione prevedeva che venisse ferito, non poteva soffrire alcun vero dolore. Se si fosse lasciato sfuggire una cosa del genere attraverso le connessioni sarebbe stato licenziato immediatamente.
Invece doveva gestirsi la ferita a livello mentale. Invece di trasmettere la lacerante agonia causata da una vera bruciatura di laser doveva inviare il pensiero freddo e razionale della gamba colpita dal fuoco nemico e del dolore che provava. L’arto non sarebbe riuscito a sopportare tutto il suo peso e avrebbe mostrato visivamente tutti gli effetti della ferita; l’unico ingrediente mancante sarebbe stato proprio il dolore. Portare a termine con successo quella manovra significava conferire al Sogno un tocco da esperto; Wayne era contento dell’occasione, perché poteva dimostrare le proprie capacità.
Urlò il suo “dolore” proprio mentre il laser di Janet sbaragliava l’ultimo terrorista rimasto. Wayne, però, non poteva permettersi di subire rallentamenti. Mancavano pochi minuti all’esplosione programmata della bomba ed era lui, non Janet, l’esperto artificiere. Ora il cancello era sollevato e sembrava non ci fosse nulla che gli impedisse di raggiungere l’obiettivo. Con la gamba in quelle condizioni non riusciva a stare in piedi: ma con la forza della disperazione iniziò a trascinarsi sul pavimento con i gomiti per arrivare alla fine del corridoio.
I due terroristi sembrarono apparire dal nulla accanto al cancello. Fino a quel momento erano rimasti nascosti senza abbandonare le proprie postazioni, sperando che i loro compagni riuscissero a gestire la minaccia da soli. Rappresentavano l’ultima linea difensiva e indubbiamente erano i migliori uomini di cui la banda disponesse.
Wayne sentì dietro di sé il laser di Janet terminare la carica e lei mormorare imprecazioni soffocate; ma rifiutando di arrendersi e con una precisione da far invidia a un battitore di serie A, la donna lanciò l’arma dritta sulla mano armata di uno degli avversari rimasti. Ora toccò a lei dover allungare il senso del tempo; il fucile si librò al rallentatore in aria, verso il suo obiettivo. L’avversario avrebbe avuto tempo di sparare prima di farsi colpire? No! All’ultimissimo secondo Janet accelerò di nuovo il tempo. La sua arma colpì quella del terrorista con forza sufficiente a scaraventarla lontano.
Anche l’altro avversario era armato: proprio come Wayne, che aveva avuto tempo sufficiente per mirare al secondo uomo grazie alla manovra diversiva di Janet. Wayne aprì il fuoco, ma nel frattempo l’altro si mosse appena e il colpo lo raggiunse solo di striscio ad una mano senza mettere veramente fuori combattimento il terrorista ma provocandogli dolore sufficiente a fargli cadere l’arma per scuotere la mano e alleviare la sensazione di bruciore. Che fosse un avversario a provare dolore nel Sogno andava bene: era solo una figura fantasma creata da Wayne e Janet, e nessuno spettatore si sarebbe identificato nelle sue sensazioni.
Wayne si preparò a colpire ancora, ma si accorse che anche lui era scarico. Disgustato gettò via l’arma e ricominciò a strisciare lungo il corridoio. Tra lui e la bomba c’erano otto metri e due avversari con istinti suicidi, ma non poteva far altro che strisciare e sperare che fosse Janet a occuparsi degli avversari.
Il terrorista, perduto il fucile grazie all’accurato colpo di Janet, si guardò attorno per cercare la sua arma ma ad una prima, frettolosa ricerca attorno a sé non riuscì a trovarla. Rendendosi conto che era più importante fermare la missione di Wayne, l’uomo interruppe la perlustrazione e si mosse verso l’agente che avanzava sul pavimento. A quel punto arrivò Janet a salvarlo di nuovo. Balzò in aria con il suo corpo delizioso – modificato nel Sogno perché fosse più sensuale che nella realtà, con le gambe svettanti un poco più di quanto ci si potesse aspettare nel mondo reale - attaccò il robusto uomo e lo stese a terra. Colpendolo, fece roteare lateralmente le gambe e si trovò a precipitare sull’altro avversario che si dirigeva verso Wayne.
Wayne non ebbe l’opportunità di godersi la rissa; era troppo impegnato a raggiungere la bomba prima che esplodesse. Avendo letto il copione sapeva esattamente cosa stava accadendo: Janet era impegnata in uno scontro tutto personale, anche se il risultato era inequivocabile. Le donne che si identificavano in lei si sarebbero divertite parecchio prima di riuscire a mettere a tappeto i due avversari. Ma nel frattempo lui aveva un’atomica da disinnescare.
Mantenne un senso del tempo placido e piacevole; non c’era scopo di velocizzare l’azione e un po’ di suspence in più non avrebbe fatto male a nessuno. Con la coda dell’occhio teneva conto attentamente dei progressi di Janet: era la sua scena madre e lui non aveva il diritto di rovinargliela arrivando alla bomba troppo presto, prima che lei mettesse bene al tappeto tutti gli avversari.
La tempistica fu perfetta; raggiunse l’obiettivo proprio mentre l’ultimo terrorista cadeva a terra incosciente. Janet non ansimava neppure.
Lo guardò chiedendo: “Quanto tempo?”
Wayne guardò il timer su un fianco della scatola. “Tre minuti” rispose. Con cautela esagerata si poggiò al muro, tirò fuori di tasca la scatola degli attrezzi miniaturizzata e iniziò a lavorare.
Con calma, senza permettersi fretta, svitò i quattro bulloni che tenevano fermo il timer nell’alloggiamento. E poi lentamente, molto lentamente, tirò fuori il dispositivo di controllo del tempo fuori dalla scatola contenente la bomba e lo mise con cautela in terra accanto a sé. Si permise alcune gocce di sudore sulla fronte come tocco artistico; le tirò via pulendosi poi la mano sui pantaloni. Il timer segnava due minuti.
Il dispositivo a tempo era collegato alla bomba vera e propria da un groviglio di fili colorati – un ingarbuglio tale che sicuramente un principiante si sarebbe confuso; ma Wayne aveva instillato nei suoi spettatori la fiducia di sapere ciò che stava facendo. “Devo disconnetterli con una sequenza particolare” disse a Janet, informando di conseguenza anche il suo pubblico. “Se faccio uno sbaglio la bomba esplode immediatamente.” Studiò l’ordine dei fili per alcuni lunghi secondi. “Qui non sfugge nulla” disse alla fine.
Tirando fuori un cacciavite elettrico dal piccolo kit iniziò ad allentare alcuni fili dal corpo del timer. Si guardò le dita che diventarono più affusolate e agili – un altro effetto artistico per far apparire le mani più abili. Separò l’ultimo filo dal timer quando non mancava che un minuto: ma la bomba restò innescata. La guardò incredulo per un momento e poi disse: “Ci deve essere un dispositivo ausiliario”.
Ora il tempo era prezioso. Fece sentire meglio il ticchettio della bomba, tanto da farlo quasi echeggiare nello corridoio stretto. Controllò in fretta la superficie del dispositivo cercando un secondo fusibile. “Devono averlo messo da qualche parte a portata di mano” disse alla sua partner. “Per poterlo disinnescare loro stessi se avessimo acconsentito alle loro richieste. E’ solo questione di…. ah, eccolo qui.” Indicò una protuberanza su un fianco della bomba.
Quaranta secondi. Il timer era attaccato con una sola vite. Riprendendo in mano il cacciavite elettrico lo allentò. Venti secondi. Cauto, usò le lunghe dita sottili per staccare il timer dalle connessioni e esaminarlo. C’era soltanto un gruppo di fili.
Dieci secondi. Non c’era tempo per fare i delicati. Wayne lasciò il cacciavite e prese la tronchese e con due movimenti precisi recise la coppia di fili. Il forte ticchettìo si arrestò di colpo a cinque secondi dalla detonazione.
Si fletté contro il muro con un gran sospiro di sollievo. Janet era seduta accanto a lui e anche sul suo viso il sollievo era evidente. Tese le braccia verso di lui e lo baciò lievemente sulle labbra; lo sguardo nei suoi occhi prometteva altre ricompense a seguire.
Poi si alzò e aiutò anche lui a rimettersi in piedi. Wayne le mise un braccio sulle spalle e si appoggiò a lei per non dover sforzare la gamba “ferita”. La posizione costringeva il suo corpo a restare a distanza ravvicinata dalla donna e fece godere agli spettatori – e se stesso – della sensazione.
“E vediamo cosa ha da dire ora il Capo per come gestiamo le situazioni esplosive” disse sorridendo Janet riferendosi a una frase pronunciata all’inizio del Sogno. Anche Wayne sorrise e insieme zoppicarono per il corridoio.
Attorno a loro le pareti iniziarono a sbiadire, annerendosi. Il Sogno era finito; era tempo di tornare alla vita reale.
CAPITOLO 3
Mentre il biancore inerte del cubicolo gli si materializzava di nuovo attorno riprendendo vita, sentì la Calotta Onirica bruciare e pizzicare sul cranio. Wayne lotto contro l’impulso di strapparla via; invece la alzò delicatamente dalla testa e la poggiò sul lettino accanto a sé, sedendosi per controllare le letture isometriche. A volte mi chiedo come faccio a sopportarla pensò, sapendo allo stesso tempo che senza di lei avrebbe odiato vivere. Come Sognatore era assuefatto a quella Calotta – emozionalmente se non fisicamente – come un drogato può assuefarsi all’eroina. C’era una sensazione speciale che ben conoscevano tutti i Sognatori; sognare faceva parte di loro; era per questo che era entrato in Onirica.
Lo stomaco gli brontolava pure; così, giusto per informarlo di quanto avesse fame. Aveva mangiato prima di iniziare il Sogno, ma non pesante; avere la pancia troppo piena distoglieva dalla prestazione. Sognare assorbiva molto e anche se la stazione amplificava i suoi segnali per poter raggiungere le migliaia di spettatori sintonizzati, occorreva comunque proiettare nel ruolo gran parte di se stessi. Qualsiasi buon attore conosceva la sensazione di immergersi completamente nel lavoro e risalire da quell’esperienza prosciugato, come per aver trascorso un’intera giornata alle prese con un faticoso lavoro manuale. Di solito Wayne arrivava alla fine di un Sogno con una gran fame; si chiedeva costantemente come potesse, una persona come Vince Rondel, farlo sembrare un lavoro sempre privo di sforzi.
Ernie White bussò al telaio della porta della cabina e esclamò: “Chiuso, Wayne.” Il Sogno era ufficialmente finito e non c’erano problemi tecnici di cui preoccuparsi. Se fosse stata una delle reti più importanti, sarebbero stati tutti pronti a iniziare un altro Sogno dopo l’intervallo minimo di quattordici minuti, semplicemente introducendo un altro Sognatore per iniziare una nuova storia. Ma la Dramatic Dreams era soltanto una stazioncina locale di Los Angeles; non avevano personale a sufficienza per mantenersi operativa fino al mattino. A volte erano fortunati e riuscivano a ottimizzare le risorse per riuscire a far qualcosa ogni notte. Si sarebbero potuti utilizzare Wayne e Janet separatamente, invece che insieme nel medesimo Sogno, ma questo avrebbe comunque abbassato l’ascolto per via del diverso fattore di identificazione tra uomini e donne. Bill DeLong, il coordinatore dei programmi, aveva puntato a rafforzare gli indici utilizzando i due Sognatori insieme. Una scommessa che, apparentemente, aveva perduto.
Gli spettatori a casa non dovevano svegliarsi per regolare le impostazioni della loro Calotta Onirica e cambiare stazione durante la notte. Ogni stazione pubblicava delle sinopsi e i tempi dei propri Sogni per la serata, sia nei quotidiani che sul Web; lo spettatore poteva programmare la selezione e i programmi desiderati da casa sua, così da poter cambiare canale in automatico senza doversi svegliare successivamente. Era esattamente ciò che stavano facendo in quel momento a Los Angeles esattamente ventiduemila Calotte Oniriche. Alcune si spegnevano completamente, la maggior parte però si sarebbe sintonizzata sul programma di un’altra stazione.
Allungandosi fuori dalla cabina Wayne si trovò faccia a faccia con un uomo basso e pelato, con crepe di preoccupazione scolpite indelebilmente sulla fronte. “E’ andato tutto bene?” domandò Mort Schulberg, il Direttore della stazione. “Ernie mi ha detto che nel penultimo atto abbiamo fatto una piccola papera...”
“‘Piccola’ è la parola giusta” rispose Wayne irritato. Guardò White ma l’ingegnere finse di giocare con il pannello comandi e non se ne accorse. “Non devi prendertela così.”
“Certo, facile da dire per te” Schulberg camminava per l’ufficio come un giocattolo in tilt. “Per te è solo un lavoro. Non hai mica il fiato sul collo della Commissione Federale per le Comunicazioni, tu. Quel tipo, Forsch, sarà qui dopodomani per controllare quella cosa di Spiegelman. Quand’è che inizierai a preoccuparti? Dopo che ti avranno tolto i permessi?”
“E’ stato solo un erroretto” ripeté Wayne. Sembrava che, ancora una volta, lo paragonassero, anche se implicitamente, alla perfezione di Vince Rondel. Rondel era un Padrone dei Sogni. La tempistica di Rondel era perfetta. Rondel non faceva mai errori. Certo —Rondel era bravo e Wayne era l’ultimo arrivato alla stazione, oltretutto con un passato da ripulire. Ma questo non dava loro il diritto di criticare ogni piccola cavolata che faceva.
“So di non essere Vince Rondel, ma qui alla Dreaming faccio un buon lavoro” continuò, mentre la voce gli saliva di volume. “Io e Janet abbiamo avuto bisogno di meno coordinazione e avremmo potuto fare anche di meglio avendo il copione con un giorno o due d’anticipo, per potergli dare una letta.”
“Noi lavoriamo bene insieme, Mort” disse Janet emergendo dalla sua cabina. Era rimasta ad ascoltare la discussione ed il tono freddo interruppe a metà la sfuriata di Wayne. Lui capì che lei stava cercando di placare la situazione e le fu grato. “L’ultimo atto è filato liscio come un treno.”
Schulberg si era preparato per rispondere a Wayne urlando a sua volta ma ora si rabbonì, voltandosi verso la donna. Janet sapeva come risultare graziosa e femminile, e riusciva a tirar fuori da Schulberg i suoi istinti più paterni. “Sicura?”
“Volevi forse che fermassi tutto e chiedessi al pubblico?” disse Janet facendo il verso all’accento di Schulberg.
Wayne vide Ernie White ridere nella cabina di regia, anche se dava loro le spalle e non avrebbe dovuto ascoltare la conversazione. Rosso in viso, ma senza rancore, Schulberg replicò: “Certo, andate avanti, ridete pure di me tutti quanti. Ma che sono io, il tipo divertente che vi firma la busta paga. Vorrei proprio vedere se riderete quando la Commissione Comunicazioni ci farà chiudere e voi la busta paga non la prenderete più. Allora vedrete com’è l’isteria da disoccupazione.”
Lasciò la stanza scuotendo la testa e percorse il corridoio fino all’ufficio, mormorando sufficientemente forte perché potessero sentirlo: “Se non ci fossi io, qui dentro, a gestire le cose, riderebbero fino a perdere il lavoro…”
Wayne rivolse un debole sorriso a Janet. “Grazie per avermi disinnescato prima. Mi stavo facendo prendere un po’ troppo.”
“Capita a tutti.” Janet scosse le spalle. “Specialmente appena usciti da un Sogno—siamo tutti un po’ sensibili. Però non dovresti farti sopraffare da Mort. Non ce l’aveva con te, è soltanto uno che si preoccupa per professione.”
“Lo so ma mi sentivo l’ultimo arrivato del quartiere.”
“E allora stagli fuori dai piedi fino a che non è finita questa storia della Commissione Comunicazioni. E’ questo che lo rivolta sottosopra, non lo critico se si preoccupa. Starà meglio quando sarà tutto finito.”
Wayne annuì. In ufficio, quel che veniva definito l’affare Spiegelman e le indagini della Commissione Comunicazioni che ne erano seguite erano ancora l’argomento principale delle conversazioni, anche a un mese di distanza. In un certo senso Wayne doveva esser contento: era stato assunto proprio grazie a Spiegelman. Ma forse proprio per quel motivo ad ogni suo gesto veniva guardato con sospetto da chiunque gli fosse accanto.
Elliott Spiegelman era stato un Sognatore impiegato alla stazione; ancor peggio, era il genero di Mort Schulberg. Un mese prima circa Spiegelman aveva recitato in un Sogno che doveva essere una storia poliziesca di serie ambientata negli anni ‘30, nello stile del detective Marlowe. La sceneggiatura era abbastanza innocua ed era stata approvata sia da Bill DeLong che dalla Sezione Legale—ma qualsiasi Sognatore sapeva che, per quanto la sceneggiatura potesse essere rigida, chi recitava aveva un’enorme libertà d’azione da ricavarne.
Apparentemente era proprio ciò che aveva fatto Spiegelman. Sin dal giorno successivo erano iniziate ad arrivare alla stazione telefonate e lettere che accusavano Spiegelman di aver utilizzato il Sogno per esporre le proprie teorie economiche e politiche, evidentemente di centrosinistra. Spiegelman aveva aggiunto benzina sul fuoco della controversia, dichiarando a un giornalista che negli anni ’30 i movimenti socialisti erano assai popolari e che lui si era solo limitato a rappresentare accuratamente quel periodo storico. Questo aveva sollecitato ulteriori lettere e telefonate.
Obiettivamente non c’era un modo imparziale di determinare cosa era successo perché era impossibile registrare un Sogno e visionarlo in un secondo momento. Ogni Sogno era realizzato dal vivo e svaniva nella memoria alla chiusura. Diventò uno scontro tra la parola di Spiegelman e quella di chi recriminava. A quel punto era entrata in scena la Commissione Federale Comunicazioni, sempre sensibile al tema della manipolazione politica dei media.
Spiegelman era stato sospeso immediatamente, in attesa di una revisione del caso. Per un po’ era sembrato che sarebbero stati sospesi pure Schulberg, Bill DeLong e lo sceneggiatore; alcuni tra i cittadini più inviperiti avevano chiesto che fosse revocata l’intera licenza dello Studio. La Commissione Comunicazioni aveva deciso di non fare un passo tanto lungo, ma aveva nominato un proprio uomo, Gerald Forsh, critico navigato dell’industria Onirica, perché indagasse sull’incidente.
Quando Wayne era stato assunto per sostituire Elliott Spiegelman lo Studio era in pieno fervore. L’industria in generale, e la Dramatic Dreams in particolare, temevano che il caso potesse avere ripercussioni serie. Per attenuare le paure peggiori, le indagini di Forsch erano avanzate con deliberata lentezza. Lo stesso Forsch sarebbe arrivato di lì a un paio di giorni per sentire la versione dei fatti fornita dallo Studio. Dietro consiglio del suo avvocato, Spiegelman non rilasciava dichiarazioni pubbliche. Nell’industria Onirica era opinione unanime che Spiegelman sarebbe stato gettato in pasto ai lupi come vittima sacrificale. Gli avrebbero addossato tutte le colpe; sarebbe stato bandito per sempre da Onirica e la Dramatic Dreams ne sarebbe uscita con un semplice rimprovero duro. Ma il povero Mort Schulberg non l’avrebbe avuta vinta in nessun caso; anche se avesse salvato la sua attività il genero sarebbe stato disonorato e sbattuto fuori dalla professione per sempre. Sì, non c’era da stupirsi che Schulberg fosse abbattuto dall’affare Spiegelman.
Eppure la persona per cui Wayne si sentiva veramente dispiaciuto era Elliott Spiegelman. I Sognatori diventavano professionisti perché avevano delle visioni interne che dovevano esprimere. Nei tempi andati avrebbero potuto essere sacerdoti o scrittori, artisti, attori o insoddisfatti —quelli che vedevano le cose in modo diverso e cercavano di impregnare gli altri con le loro visioni. Nel lungo termine Sognare era un modo di compiere perfettamente quella missione comunicativa. Una volta assaporata quella perfezione, quale Sognatore avrebbe potuto accontentarsi di meno? La vita di Spiegelman comunque non era finita; c’erano altri modi in cui poter esprimere sensazioni ed emozioni. Ma nulla gli avrebbe donato la gloria e il potere che il Sogno portava con sé. Un Sognatore non più in grado di sognare era meno di un intero: il resto della sua vita avrebbe risuonato a vuoto.
Wayne rabbrividì e quel movimento involontario ricondusse i suoi pensieri al presente. Janet stava per uscire dall’ambiente, probabilmente per andare nel proprio ufficio. “Ehi” la chiamò Wayne mentre usciva. “Non so tu, ma io ho una fame da lupo. Perché non ce ne andiamo di sotto a vedere se è rimasto qualcosa nei distributori?”
Janet si fermò e si voltò per guardarlo con l’occhiata più strana possibile, come se cercasse di leggere un qualche significato segreto delle sue parole. “Ah, grazie Wayne” disse infine, “ma veramente io non ho tutta questa fame al momento. Forse un’altra volta.”
“E’ quel che dici sempre”. Le parole gli scivolarono fuori prima di poterle fermare.
Janet sospirò. “Lo so. Scusami. Apprezzo l’invito, davvero, ma…”
Si guardò i piedi evitando il contatto col suo sguardo. “Davvero, non penso di essere una compagnia adatta per nessuno, in questi giorni. Ho un sacco di cose personali da risolvere e non sarebbe giusto fartele pesare.”
Wayne rimase in piedi, incerto su come rispondere. Più di ogni altra cosa avrebbe volute dire: “Ti prego, vorrei che tu mi piangessi sulla spalla, vorrei che tu mi confidassi i tuoi problemi” —ma non sapeva come avrebbe reagito la donna a quell’invasione della privacy. E dicendole che i suoi problemi non lo disturbavano sarebbe parso che non li reputava tanto seri da preoccuparsene; e lei lo avrebbe ritenuto un cinico.
Era ancora impietrito per l’indecisione quando Bill DeLong arrivò lentamente nella stanza. Il coordinatore dei programmi era un uomo alto e dinoccolato, sulla cinquantina. I segni dell’età che portava sui capelli grigi a spazzola contrastavano con la scintilla di giovinezza che portava negli occhi. Vestiva casual, maglione e calzoni; era amichevole e alla mano, ma ciò non nascondeva la mente acuta che celava in sé.
“Coordinatore dei Programmi” era un titolo generico che copriva una moltitudine di peccati. DeLong era capo sceneggiatore, capo censore, responsabile della programmazione e consulente dello Studio a tutto tondo. Mentre Schulberg gestiva la parte finanziaria dell’attività, DeLong era il gerente della parte creativa. DeLong non era un Sognatore, ma era amico di tutti i Sognatori dello staff. Nel caso fosse richiesto, fungeva anche da padre confessore per chiunque avesse bisogno di un orecchio amichevole. Se Schulberg era il capo della Dramatic Dreams, DeLong era la sua anima.
“Janet, sono contento di averti trovata” la chiamò DeLong. Il suo accento aveva tracce riconducibili al Texas e all’Oklahoma. “Ho pronta per te la tua prossima sceneggiatura.” Le tese un blocco di carta fermato da una molla.
Sollevata per averla passata liscia, lei tornò rapidamente al suo solito carattere chiacchiericcio. “Non ci posso credere. Una volta tanto una sceneggiatura in anticipo? So che non è un regalo di compleanno perché il mio compleanno è stato tre mesi fa…. Cos’ho fatto per meritarmelo?”
“Accidenti, mica lo so. Oggi pomeriggio è arrivata Helen e ha detto che aveva avuto un’ispirazione che l’aveva fatta sbrigare. E’ pure buona. Qualcuno dovrebbe ispirare quella donna più spesso: quando ci si mette d’impegno è una buona scrittrice.”
“Bene. La guardo subito. Grazie.” Janet sorrise a DeLong poi si voltò e lasciò la stanza allontanandosi dal disagio che era rimasto nell’aria tra lei e Wayne.
“Jack ha promesso che la tua sarà pronta per domani pomeriggio” disse DeLong, voltandosi verso Wayne. “E’ un Western se ricordo bene.”
“Oh no, un altro” gorgogliò Wayne.
“Beh, non è che possiamo fare sempre l’Amleto. Perlomeno i Western sono veloci e apolitici.”
“Lo so. E’ che mi sembra di segnare il passo. Mi piacerebbe avere la possibilità di allungarmi un po’, di mostrare ciò che posso fare, invece di sprecare tempo ed energie su roba da scribacchini.”
“Ascolta me che ne so qualcosa,” disse con cortesia DeLong. “In qualsiasi professione creativa i migliori sono quelli che iniziano col lavoro sporco e poi fanno carriera. Shakespeare, Dumas, Dickens, Michelangelo e da Vinci erano tutti scribacchini. Prima di poter costruire cose più grandi hai bisogno di fondamenta solide. Ho visto un sacco di superstar accendersi dal nulla e abbagliare tutti per un po’; alla fine finiscono per spegnersi altrettanto rapidamente. Così forse sei lento, ma cavalchi un cavallo su cui scommettere.”
“Ma nel frattempo è tutto talmente frustrante” disse Wayne.
“Sì lo so. Senti, ma non stavi proponendo di andare a mangiare qualcosa mentre arrivavo? Non sono carino come Janet, ma mandar giù un boccone ci starebbe proprio bene, se ti va di aver compagnia.”
Wayne sogghignò. “Certo perché no? Andiamo.”
I due lasciarono lo Studio e uscirono dall’androne. L’edificio che ospitava la Dramatic Dreams non era ne’ nuovo ne’ particolarmente antico. I quadrati di linoleum bianco e marrone del pavimento avevano perduto splendore ma non erano ancora talmente malconci da dover essere cambiati. I muri bianchi e nudi erano graffiati e rigati ma erano danni a cui ci si abituava presto e poi non si notavano più. I pannelli di plastica chiara sul soffitto mostravano delle crepe e i tubi fluorescenti che arrivavano all’ascensore per due terzi della lunghezza lampeggiavano un pochino. Ormai, dopo un mese, erano dettagli che arrivavano a malapena alla mente di Wayne. Era semplicemente un luogo di lavoro; anche meglio di altri dove era stato.
Ciò che veramente lo toccava era il silenzio. La maggior parte delle società ospitate nell’edificio seguiva orari normali e ormai tutti gli impiegati erano tornati a casa. La Dramatic Dreams, al sesto piano, era l’eccezione. Non c’era modo di registrare i Sogni per poi trasmetterli in un secondo momento; dovevano essere realizzati dal vivo. E ad eccezione degli sceneggiatori, che potevano lavorare quando desideravano, chi si guadagnava da vivere con Onirica si trovava incastrato in un ritmo di vita sottosopra. I Sognatori che non riuscivano ad abituarsi a un ritmo di lavoro notturno e ai palazzi vuoti dovevano trovarsi immediatamente un altro impiego.
Eppure Wayne odiava quel silenzio opprimente. Era una cortina tra lui e il resto dell’umanità. Forniva Sogni per far trascorrere ore e ore di sonno a moltitudini di persone in città, eppure man mano che il tempo passava aveva sempre meno contatti con loro.
I passi dei due uomini echeggiarono lungo il corridoio e DeLong gli disse: “Posso darti un consiglio non richiesto?”
“Mmm? Su cosa?”
“Su Janet. Sta uscendo da un brutto periodo. Non starle addosso. Siete entrambi giovani, hai un sacco di tempo per far crescere la cosa.” Arrivarono all’ascensore e DeLong spinse il pulsante di chiamata per scendere.
Wayne arrossì. “Non mi ero reso conto di essere così trasparente.”
La cabina arrivò in fretta e i due entrarono. “Forse non se ne accorgerebbe un cieco” disse DeLong “ma io devo prendere nota di tutto ciò che succede qui. Non posso lasciare uno dei miei Sognatori – tra parentesi uno dei più promettenti – a vagare con la testa irrimediabilmente tra le nuvole per una collega. Fa male al morale e ti distoglie la mente dal lavoro. Per non parlare del fatto che se ti dà alla testa io finisco per perdere l’uno o l’altro, il che è una cosa che non voglio. Siete entrambi troppo bravi.”
“Io non lo chiamerei restare con la testa fra le nuvole” obiettò Wayne.
“Beh chiamalo come vuoi, l’effetto è lo stesso. Quando mio figlio aveva 15 anni e cercava di strappare il suo primo appuntamento aveva più savoir-faire di te. Non sei un ragazzino adolescente che deve collezionare punti. Qual è il problema?”
Wayne scosse le spalle. “Non so. E’ una Sognatrice più brava di me; forse temo che lei pensi di essere sopra la mia portata. O forse ho paura che mi guardi dall’alto in basso per quel che ho fatto prima di venire qui.”
DeLong gli dette una tirata d’orecchie. “Figlio mio, Janet è una professionista. Lei sa cosa bisogna fare per sopravvivere, agli inizi. Non penso proprio che ce l’abbia con te per quella roba porno.”
“Sicuramente è un qualcosa che me la tiene a distanza.”
“Sì,” ammise DeLong, “ma non ha nulla a che fare con te.”
L’ascensore li depositò al piano terra e si incamminarono nel corridoio scuro arrivando alle macchinette del cibo. La “mensa” consisteva fondamentalmente in una serie di distributori automatici in una grande sala, illuminata, a quell’ora, soltanto da una fila di faretti. Dal pavimento spuntavano come funghi spettrali dei tavoli in plastica con gli sgabelli attaccati come anelli fatati. I passi dei due risuonarono ancor più a vuoto mentre si avvicinavano alle macchinette per vedere cosa c’era a disposizione.
“E allora il problema qual’è?” domandò Wayne.
Per un attimo DeLong finse di non aver udito e ispezionò con aria critica il distributore. “Accidenti! Gli addetti alle macchinette dovrebbero capire che se vogliono guadagnarci un po’, la notte ci devono lasciare qualcosa di decente da scegliere. E invece guarda qui, tutta roba avanzata di quelli del turno di giorno – e tutta roba vecchia!”
Alla fine il coordinatore dei programmi si decise per un patetico panino prosciutto e formaggio e una tazza di caffè nero, ma Wayne aveva più appetito, anche se il cibo a disposizione era tutt’altro che invitante. Finì per scegliere un barattolo di zuppa al pomodoro calda, un’insalata avvizzita, un Chinotto e un piatto con un dessert spugnoso dentro, come companatico per il proprio panino prosciutto e formaggio. Tenendo in allegro equilibrio il carico su un vassoio, giunse al tavolo dove DeLong si era già accomodato.
DeLong prese il panino e lo guardò a lungo prima di osare avvicinarlo alla bocca. “Lo sai, vero” disse noncurante “che Janet ha avuto una storia con Vince Rondel?”
Wayne si fermò con il cucchiaio a metà percorso dalla bocca. “Io, beh, sì, l’avevo sentito dire.”
DeLong scosse la testa. “Questo non è un sentito dire. Non solo era risaputo alla Stazione ma tutta la storia mi è anche arrivata all’orecchio di prima mano durante una lacrimosa cena con Janet. La relazione è durata un anno e mezzo circa e si è interrotta proprio prima della faccenda di Spiegelman. Forse se non avessi avuto tanto da fare a cercare di rimettere in piedi Janet, avrei fatto più attenzione a quel che faceva Elliott – anche se non penso che sarei riuscito a fermarlo…”
“Ma perché mi dici queste cose?” domandò Wayne. “Non stai tradendo la sua fiducia?”
“Probabilmente sì,” acconsentì DeLong, affatto preoccupato. “Ma penso di potermi fidare di te, che non userai nulla contro di lei: e penso che è veramente necessario che tu sappia.”
“Perché?”
“Perché ti farà capire ciò che può succedere quando due Sognatori della stessa Stazione si lasciano sfuggire le emozioni di mano. Quando è arrivata, qualche anno fa, Janet era una giovane donna molto impegnata – perché non esistono Sognatori equilibrati? Aveva un sacco di potenziale. Vince lavorava con lei e l’ha fatta diventare un grosso talento; professionalmente per lei è stato grandioso ma non sono certo di quel che ha fatto per lei come persona.”
“Alla fine, un mese fa viene da me in lacrime dicendo che non ce la fa più e che deve star lontana da Vince. Devo ammettere che avevo delle motivazioni egoistiche; è una Sognatrice stramaledettamente brava e non voglio perderla. Poi è venuta fuori questa cosa di Spiegelman e non ci potevamo permettere che Janet se ne andasse. E allora l’ho persuasa e lusingata e convinta a rimanere qui, anche se questo vuol dire che deve ancora vedere Vince praticamente tutti i giorni. Per lei non è facile; penso che buona parte di lei ancora lo ami.”
“E allora cosa ha interrotto la relazione?” domandò Wayne.
DeLong riuscì a dare un morso al panino e si appoggiò alla sedia masticando pensosamente. “La madre di Vince” disse alla fine. “La signora Rondel è la causa di molte cose infelici, una delle quali Vince stesso…. Ma questo non c’entra per nulla e probabilmente non avrei neanche dovuto sollevare la questione. Questa roba fa veramente vomitare, non trovi? Me ne accorgo ogni volta che vengo a mangiare qui. A quest’ora dovrei averlo capito…”
Poggiò il panino nrl piatto di plastica e guardò Wayne dritto negli occhi. “Ma dopo aver già aiutato Janet una volta a restare sana di mente dopo una relazione sfortunata, capisci che non intendo farlo di nuovo. Se qualcosa andasse storto o uno di voi se ne andasse… come ho detto siete entrambi troppo bravi. Non penso che vorrei perdere ne’ l’uno ne’ l’altro. Dovresti sentirti lusingato.”
“Sì, ma…”
“Io non sono uno di quei capi che non vuole che gli impiegati socializzino dopo l’ufficio. Non dico che non puoi vederti con Janet, o fare amicizia, o sposartela e farci diciassette figli. Dico soltanto: non andare di fretta. Fallo succedere. Ci sono ancora dei pezzi che non ha incollato al posto giusto. E anche se hai le migliori intenzioni del mondo, se la rivolti sottosopra potrebbe non riprendersi più. Siete due persone molto interessanti, e al momento giusto potreste davvero finire insieme…”
“Eccoci di nuovo” disse Wayne. “Prima mi dici di essere paziente con la carriera, adesso devo essere paziente con Janet…”
“Inizia a suonare come un disco rotto, vero?” sorrise DeLong. “Però è tutto vero. Pensa che ci sono persone che hanno scalato le montagne più alte dell’Himalaya, correndo grandi rischi personali e con grande fatica, per consultare il Grande Saggio e ricevere esattamente lo stesso consiglio che ti ho dato io ora. Ti sei guadagnato la saggezza degli Antichi, gratuitamente... abbi almeno un po’ di riconoscenza!”
CAPITOLO 4
Vince Rondel entrò in mensa proprio mentre Wayne tentava di decidere come rispondere ai commenti semiseri di DeLong. Rondel era di statura media, massiccio: pareva un ex giocatore di football liceale ancora non abbastanza grande per passare al professionismo e quindi lasciato a marcire. La maggior parte dei Sognatori vestiva in modo casual – Wayne era in jeans, maglietta a maniche corte e scarpe da ginnastica – ma Rondel indossava sempre completi. Wayne aveva notato che il suo guardaroba ne comprendeva due; entrambi di stoffa da poco prezzo, ma sempre accuratamente stirati. Il taglio della giacca esaltava il corpo massiccio e la testa di Rondel, ma pareva sempre una mezza taglia troppo piccola. Manteneva il viso rasato di fresco; aveva i capelli biondi pettinati con cura, appena più radi verso la fronte, ma non era ancora stempiato. Le unghie erano sempre ben curate e le mani sempre pulite.
Rondel scrutò DeLong e disse “Ah eccoti Bill. Mi serve una cortesia.”
Wayne vide le dita di DeLong stringersi sulla tazza di caffè Styrofoam; ma oltre a ciò il suo atteggiamento restò immutato. “Che c’è, Vince?”
“E’ mia madre. Ha chiamato… c’è qualcosa che non va. Devo tornare da lei.”
“E’ la terza volta questa settimana, Vince” disse calmo DeLong.
“E’ anziana, sta male. Che ci posso fare? Non vuole che prenda una badante, non vuole ricoverarsi in un ospizio dove potrebbero prendersi cura di lei come si deve. Non puoi darmi uno strappo fino a casa?”
“Lo sai che abito da tutt’altra parte! Perché non ti chiami un taxi?”
Rondel ignorò il suggerimento e per la prima volta guardò verso Wayne. “Corrigan, tu hai la macchina vero? Dove abiti?”
“Van Nuys,” disse Wayne con riluttanza.
Rondel sorrise. “Ecco qua. Io sto a North Hollywood, proprio di strada. Mi puoi dare uno strappo, vero?”
“Beh…”
“Bene. Prendo le mie cose e torno.” Rondel corse fuori dalla sala in direzione dell’ascensore.
“Devi imparare a dire di no un po’ più velocemente” lo consigliò DeLong.
Wayne guardò l’altro, stupito. “Vuoi dire che non ha la macchina? E come va in giro?”
“Con l’autobus di solito—quando non scrocca un passaggio da qualcuno.”
“Ma guadagna più di me, penso.”
“Quasi il doppio” ammise DeLong.
“E che ci fa con tutti i soldi?”
“Quello che non va per il mutuo, le bollette o i viveri, finisce nelle parcelle dei dottori della madre. E il resto alla chiesa. La Mamma insiste su questo punto.”
Wayne scosse la testa, incredulo. Avrebbe potuto vivere agiatamente col doppio dello stipendio – e poi c’era Vince Rondel, la star della Stazione, ridotto a mendicare passaggi appena poteva. “Ti spiace se me ne vado?” domandò. “Comunque ero libero per stanotte e mi hai detto che fino a domani la mia sceneggiatura non è pronta…”
“Certo, vai” sospirò DeLong. “Dobbiamo far felice la nostra star.”
Rondel tornò un paio di minuti dopo con la valigetta, ma dovette aspettare ancora perché Wayne doveva tornare nel proprio ufficietto a riprendere la giacca. Wayne si trovò a muoversi con deliberata lentezza e se ne domandò il perché. Forse perché Rondel aveva avuto una storia con la ragazza che voleva lui? L’idea gli pareva infantile e lui si forzò a accelerare il passo.
Finalmente furono pronti. Wayne accompagnò Rondel fuori, al parcheggio, verso la sua ammaccata vettura con quattro anni di vita alle spalle. “Non è molto” si scusò “ma mi porta dove voglio.”
“L’aspetto è buono” disse Rondel. “Odio impormi in questo modo, ma a quest’ora di notte non ci sono molti autobus in giro e il taxi costa.”
“Come hai detto tu, mi è proprio di strada” disse Wayne scuotendo le spalle. Accese il motore e uscirono nella notte.
Inizialmente viaggiarono in silenzio. Anche se Wayne lavorava alla Dramatic Dreams da un mese circa, lui e Rondel si conoscevano a malapena. Rondel aveva cercato una volta di intavolare con minimo entusiasmo un discorso religioso, ma Wayne lo aveva evitato. Sapeva soltanto ciò che gli aveva raccontato DeLong. Rondel era la star della stazione; non era soltanto un Padrone dei Sogni superiore al resto dello staff; era anche un talento a tutto tondo, si scriveva le sceneggiature e le rappresentava pure. Wayne aveva potuto saggiare alcuni dei lavori di Rondel prima di arrivare alla stazione e doveva ammettere che erano notevoli.
“Ti spiace se ti faccio una domanda personale?” tentò dopo un paio di minuti.
“Dipende, di che si tratta?”
“Beh mi sono chiesto…. perché perdi tempo qui in una stazioncina locale. Potresti andare nelle reti grandi a fare le cose serie.”
Rondel guardò fuori dal finestrino. “Sì, ho avuto delle offerte. Buone offerte. Ma mi dovrei trasferire verso Est e al momento non posso.”
“Perché no?”
“Mia madre non reggerebbe il clima. Ha la salute fragile.”
“Che cos’ha?”
“Apparentemente, di tutto. Ha invalidità per l’artrite, un rene non le funziona, il cuore è malandato, l’apparato digerente, i polmoni…. Qualsiasi parte nomini c’è qualcosa che non va.”
“Mi spiace.”
Rondel scosse le spalle. “Volontà Divina—non ci si può far nulla. Tutto ciò che posso fare è farla stare più comoda possibile.”
Sull’auto discese nuovamente il silenzio mentre proseguivano per la strada vuota. Wayne distolse diverse volte gli occhi dalla guida per guardare l’uomo che gli sedeva accanto. Da vedere c’era soltanto un profilo in penombra, ma Wayne, con la sua immaginazione da Sognatore, aggiunse dettagli da come ricordava Rondel alla luce. Cercò di immaginare Janet tra le braccia di quell’uomo, Janet che gli baciava le labbra, Janet nuda e gemente di passione sotto il corpo di Rondel…
I pneumatici stridettero sui dossi catarifrangenti mentre la vettura si immetteva gradualmente nella corsia d’emergenza. Wayne, sovrappensiero, si risvegliò e sterzò bruscamente verso la parte opposta raddrizzando lo sterzo. Tieni la mente alla guida ammonì severamente se stesso.
Accanto a lui anche Rondel reagì. “Ehi non ti addormentare su di me, se muoio in un incidente a mia madre non gliene verrà alcun bene.”
“Scusa” disse Wayne. “Mi ero perduto nei pensieri. Sai come succede.”
“Certo è il nostro lavoro. E che farai la prossima volta?”
“Bill dice che sarà un Western. Prendo la sceneggiatura domani.”
“Ehi, i Western vanno sempre forte. La classica sfida del bene contro il male. Non so più quanti Western ho fatto da quando ho cominciato. E’ un buon terreno di prova per affinare il talento.”
E perché il mio talento dovrebbe essere affinato? Pensò aspro Wayne, ma disse a voce alta: “Sì è quel che dice anche Bill. Ma non è così semplice. Mi piacerebbe un’azione un po’ più difficile.”
“E’ semplice perché così hai deciso di farla. Hai una copia di La Via del West di Ronson?”
“No. Che roba è?”
“E’ il materiale migliore che ho trovato sul periodo. Costa ottantacinque dollari ma ne vale la pena. Migliaia di figure e anche vecchie foto dell’epoca. E’ la cosa migliore per visualizzare i vestiti, gli edifici, tutta l’ambientazione del vecchio West. Te lo leggi un paio di volte e il tuo Western sarà così reale che quando gli spettatori si sveglieranno parleranno con l’accento.” Fece una pausa. “Ce l’ho a casa. Puoi venire su e te lo presto.”
“Non vorrei invadere…”
“Nessun disturbo. Ci vuole solo un secondo.”
Wayne non voleva farselo piacere, quell’uomo. Rondel era la superstar, lo standard con cui Wayne si era sempre misurato trovandosi in difetto. Rondel aveva fatto l’amore con la donna che Wayne desiderava, le aveva sconvolto talmente la testa che Bill gli aveva suggerito prudenza per un’eventuale relazione che al momento Wayne potesse avere in mente con lei. Rondel poteva creare un Sogno Superiore, qualcosa che Wayne non sarebbe mai riuscito a fare perbene. Rondel possedeva tutto ciò che Wayne desiderava e Wayne aveva veramente bisogno di odiarlo. Quell’uomo invece era pateticamente amichevole e Wayne non poteva far altro che accettare quelle aperture, a modo suo. “Oh. D’accordo Vince. Grazie.”
Ancora silenzio. Rondel si schiarì la voce un paio di volte come per parlare, poi ripensandoci. Alla fine trovò abbastanza coraggio da entrare nel vivo dell’azione. “Dato che mi hai fatto una domanda personale, ti spiace se ti rendo il favore?”
“Suppongo di no.” Wayne cercava di reagire il meno possibile. La vicinanza forzata a Rondel lo metteva sempre più a disagio.
“Ma tu…. Voglio dire ho sentito dire che tu…. prima di arrivare alla Dramatic Dreams…. lavoravi nel porno. E’ vero?”
Le mani di Wayne strinsero forte il volante. “Sì. Perché?” L’ultima cosa di cui aveva bisogno al momento era una predica di moralità e Rondel era conosciuto per le sue aperte convinzioni religiose. “L’ho fatto perché era l’unico lavoro che ho trovato come principiante. Come hai detto tu è un grande terreno di prova per affinare il talento.”
“Oh, beh…. sono sicuro di sì. Non è che ti sto criticando. Tutti dobbiamo cominciare da dove si può, di questo mi rendo conto. Almeno Dio ha ritenuto giusto sollevarti dal letame. Solo che… volevo solo sapere…. com’è.”
“Eh?” Wayne guardò sorpreso Rondel che fissava rigidamente davanti a sé, asciugandosi nervosamente le mani sui pantaloni. “Che intendi dire?”
“Beh, tutto quel sesso. Deve essere stato eccitante.”
Eccolo lì, aperto a tutto. Piccolo signor Perfettino, l’uomo che donava fette cospicue di stipendio alla chiesa, un ipocrita da cesso. Wayne fu quasi accecato da un flash improvviso, la visione interiore dell’anima di Rondel: in qualche modo conoscere la debolezza dell’altro accese in lui un caldo bagliore. Stette ben attento a non far trasparire l’emozione però, mentre rispondeva: “No. Veramente era piuttosto noioso.”
L’annuncio sortì l’effetto desiderato: Rondel lo guardò stupito. “Noioso? Davvero, non capisco come…”
“Ma sì, se ci pensi un attimo. Parlando in soldoni, l’atto sessuale fisico è solo un’azione ripetitiva. Certo quando lo fai ti perdi nelle sensazioni del corpo, ma ricreare i sospiri, i suoni e gli odori diventa molto clinico. La maggior parte della grande letteratura erotica mondiale è fatta di preliminari e il sesso vero e proprio ha un ruolo molto limitato. E poi possiamo soltanto eccitare: non ci permettono mai di consumare nulla.”
“E perché no?”
“Per lo stesso motivo per cui non ci è permesso ferire o uccidere nessuno, suppongo. Anche nei Sogni normali nessuno completa mai l’atto. Ci si può avvicinare molte volte ma succede sempre qualcosa che ti impedisce di terminare l’azione.”
Scosse la testa. “Forse è il metodo che ha il corpo per eliminare la tensione – la Commissione Comunicazioni però ci ha imposto regole piuttosto severe. Assolutamente senza consumare, così hanno detto. Se solo cercassimo di fare una cosa del genere ci starebbero talmente addosso che la storia di Spiegelman al paragone diventerebbe un tè con le amiche.”
“E allora che cosa si fa?”
“Perlopiù roba di routine. Uno a uno, fantasie di harem, orge. Io mi sono tenuto fuori dalla roba più eccitante, i trip sadomaso, la disciplina, scat e così via. Una volta ho provato un Sogno con un gay, un uomo, ma è stato orribile; non mi ci trovavo, il capo mi ha detto di limitarmi alle cose normali. Una volta ho fatto delle scene lesbiche ma è stata una cosa diversa. Le fantasie lesbiche sono esclusivamente per gli uomini, quel che posso dire è che la maggior parte dei gay non sono interessati. E’ curioso però che…”
Rondel lo interruppe. “Usciamo qui per Laurel Canyon.”
Nei minuti successivi Rondel si impegnò a dare indicazioni a Wayne guidandolo per le strade che portavano a casa sua e la conversazione languì. Quando l’automobile giunse di fronte alla destinazione era troppo tardi per riprendere il dialogo sulla precedente occupazione di Wayne; cosa di cui fu contento.
“Entra che ti prendo il libro” lo invitò Rondel.
“Me lo puoi dare pure domani alla riunione.”
“Ci vuole solo un minuto. Accomodati.”
Riluttante, Wayne scese dalla macchina e seguì Rondel fino a casa.
L’abitazione era straordinariamente insignificante; un modesto edificio di un piano, rannicchiato timidamente lontano dalla via. Il giardinetto all’entrata era circondato da una siepe continua di media altezza, contorta e ripiegata perché usata da molti anni dai bambini del quartiere. In molti punti il prato arrivava alle caviglie, in altri era quasi nudo. Forse Rondel aveva altri pregi, ma sicuramente non eccelleva nel giardinaggio.
Sul portoncino d’ingresso era accesa una fioca lampadina nuda. Anche nella luce tenue Wayne riuscì a notare, salendo le scalette del portico, che la vernice si staccava dalle trascurate pareti in legno, e che il frontale della finestra davanti era consumato e rappezzato in diversi punti. Squallido, pensò schifato. Quest’uomo è una delle star della nostra professione e vive in queste condizioni. Perché?
Se era rimasto sbigottito dall’esterno della casa, l’interno lo strabiliò letteralmente. Mentre Rondel apriva la porta il naso di Wayne fu assalito dall’odore acre di lettiera per gatti non cambiata da settimane. Il pavimento era letteralmente cosparso di giornali e riviste; le librerie che riempivano le pareti erano costipate non solo di libri ma anche di piatti sporchi, bicchieri e altri oggetti assortiti poggiati lì in un momento frettoloso e mai spostati; i mobili erano vecchi e la tappezzeria in broccato era consunta e aperta a mostrare l’imbottitura in numerosi punti.
“Scusa il disordine” disse Rondel semi-consapevole, mentre camminava con cautela sulla sporcizia del pavimento. “Non ho molto tempo per fare le pulizie, e mia madre non ci riesce, quindi tutto si accumula…”
Wayne non fece commenti e seguì Rondel all’interno. Il suo disagio si faceva sempre più acuto ad ogni istante; avrebbe voluto non accettare l’invito dell’altro. Come aveva detto DeLong, doveva imparare a dire “no” un po’ più in fretta.
“Vince, sei tu?” chiamò una voce acuta dall’interno. “Grazie al Cielo ce l’hai fatta, mi sembrava che non dovessi mai arrivare.”
“Sì Mamma un attimo e sono da te.”
“C’è qualcuno con te? Sento che parli con qualcuno.”
“Sì Mamma. E’ Wayne Corrigan, un collega. Ti ho parlato di lui. Mi ha dato un passaggio fino a casa.” Si volse verso Wayne. “Scusami un istante, vado a vedere come sta. Torno subito.” Si diresse verso il fondo del corridoio e svanì lasciando Wayne da solo.
Qualcosa gli si strusciò su una gamba e lui uscì quasi di sé: in una casa come quella quale creatura poteva mai girare liberamente? Ma era solo un gatto, a pelo corto, grigio e bianco, con l’aria smunta e disordinata. Aveva qualcosa in bocca ma scappò via prima che Wayne potesse vedere cosa fosse. Guardandosi attorno, Wayne scoprì di essere diventato oggetto degli sguardi di diverse altre paia di occhi felini, celati in angoli bui della stanza disordinata.
Nella stanza accanto, Rondel e sua madre parlottavano tra loro, discutendo su quale potesse essere una parola più appropriata: Wayne non distingueva molto delle parole – la signora Rondel diceva qualcosa su “sconosciuti in casa” ma erano evidenti gli alti e bassi della conversazione. Era sempre a disagio nel trovarsi testimone di una qualche disputa familiare e la tentazione fu quella di voltarsi ed andarsene - ma non sarebbe stato cortese scappar via dopo aver accettato l’invito di Rondel di entrare. Doveva aspettare almeno il ritorno di Rondel per potersi accomiatare.
Più restava nella stanza, più lo squallore sembrava peggiorare. Wayne riuscì a notare palline di tessuto arrotolate tra le cartacce sul pavimento e gli sembrò di vedere un grosso scarafaggio scappare in un angolo e svanire sotto lo zoccolo della parete. I piatti, che gli ricordavano la porcellana di Limoges che la madre tanto amava, erano stati impilati a caso sulla libreria e contenevano ancora avanzi di cibo, alcuni dei quali iniziavano a formare la muffa. Accanto ad un piatto c’era una piccola opera di Steuben, una balena di cristallo con la coda arcuata in aria – ma la coda era incrinata e una pinna si era spezzata. Alla finestra c’erano tendine in merletto che però mostravano i segni di anni di unghiate di gatto. C’era una fila di piante morte e avvizzite sul davanzale, talmente rinseccolite che era impossibile capire che tipo di piante fossero state. Accanto alla porta che conduceva in cucina c’era una busta marrone da droghiere piena di immondizia, in cui Wayne riuscì a vedere lo scintillìo di vassoi di plastica usati, di quelli utilizzati per i pasti surgelati. Dalla cucina arrivavano vaghe zaffate di un odore a metà tra una fogna e una bara aperta.
Se debbo stare qui ancora per molto, pensò Wayne, mi sentirò male. Ma come si fa a vivere in questo modo?
Rondel sbirciò nella stanza. “Corrigan, ce l’hai un minuto? Vorrei presentarti mia madre.”
“Beh veramente dovrei proprio andare…”
“Ci vuole un minuto e comunque ti devo andare a cercare il libro. Vieni.”
Chiedendosi perché si lasciava intrappolare in impicci del genere, Wayne camminò gaiamente nel disordine cercando di evitare di calpestare un gatto o altro oggetto spiacevole tra i detriti del pavimento del soggiorno. Nel corridoio non c’erano cartacce ma questo rendeva visibili al passaggio i punti del pavimento in parquet in cui erano state spente sigarette. I mozziconi, gettati in un angolo, formavano una piccola piramide di filtri.
C’era una porta appena socchiusa che conduceva fuori dal corridoio. La stanza su cui si affacciava era di una semplicità cruda: pavimento in legno vuoto; un letto in ferro battuto a due piazze rifatto con cura; un ricamo religioso sul muro, che proclamava: “Il Signore è il mio Pastore”. La stanza era un’oasi di pulizia in quel letamaio di casa. Wayne immaginò che fosse la camera di Rondel, in linea con la nettezza personale della persona. Ma la camera era vuota e Wayne proseguì.
Riuscì a riconoscere la stanza della madre di Rondel ancor prima di entrare: glielo annunciò con notevole forza il tanfo che emanava. L’aria era pesante per l’odore di scadente profumo Devon alla violetta, misto al fetore di fumo di sigaretta stantìo e di urina. Uno solo degli odori sarebbe già stato nauseante ma in qualche modo la combinazione di tutto triplicava l’effetto spiacevole. Wayne dovette fermarsi prima di entrare per ricacciar giù il pasto veloce che aveva mangiato alla Stazione. Non intendeva vomitare lì, di fronte a Rondel; anche se vista l’ambientazione generale, dubitava che lo avrebbe notato.
La stanza da letto della signora Rondel non lo deluse. La toletta in noce rivestita di marmo presentava chiazze di caffè e aloni di sigaretta; i fianchi del mobile erano stati ampiamente utilizzati dai gatti per affilarsi le unghie. In un angolo c’era un paravento stile Coromandel; una volta forse era stato di valore cospicuo, ma ormai la maggior parte della lavorazione a intarsio era sparita. C’erano dei vestiti, nessuno dei quali troppo pulito, gettati alla rinfusa sulle sedie e sul pavimento. Alle pareti fotografie di una donna assai attraente – ma qualsiasi somiglianza tra lei e la signora Rondel attuale rappresentava a dir poco un’illazione.
Al centro della stanza, contro la parete più lontana, c’era il letto della signora Rondel. Era un letto matrimoniale grande; ai quattro lati si ergevano delle colonne intarsiate, in legno, che sostenevano quanto rimaneva di un baldacchino; da cui pendevano brandelli di merletto, come malinconici souvenir di glorie passate. Persino il copriletto di broccato orientale parlava di giorni migliori da tempo tramontati; scolorito, lacero, coperto di grosse, brutte macchie. Attorno al letto mozziconi di sigarette non calpestati.
La signora Rondel era mezzo seduta, poggiata su un cumulo di cuscini. Era una donna grassa con un viso rubicondo e occhi scuri e porcini. Aveva la pelle puntecchiata di macchie da fegato e i capelli bianchi raccolti in bigodini; il viso era coperto di trucco spesso, quasi da clown. Aveva alla gola una forma grigia, scura, che inizialmente Wayne pensò essere un altro gatto; poi si rese conto che si trattava di un marabù sporco, pendant di un vestito da sera che una volta forse era stato di un qualche colore – ma non voleva neppure tentare di immaginare quale.
“Questa è mia madre” disse Rondel, imperturbabile.
La signora Rondel emise dalla gola un suono disgustoso e tossì del catarro in un fazzoletto che poi gettò a caso in un angolo. Guardò Wayne con sguardo analitico e disse: “Corrigan, sì? Irlandese?”
“Sono americano. Da quattro generazioni.”
“Cattolico?”
“Non molto.” Wayne era irritato per quel maleducato controinterrogatorio.
La signora Rondel guardò il figlio. “Gli hai già mostrato la Via del Signore?”
Rondel era evidentemente imbarazzato. “Mamma, lo conosco appena.”
“Non ha importanza. Tutti gli uomini sono fratelli per il Signore.” Si rivolse a Wayne. “Vuoi essere salvato?”
Guardandola bene Wayne non ne era tanto certo; almeno non se lei ne era un esempio…. “Non è una cosa di cui mi preoccupo e francamente, signora Rondel, non penso che siano affari che la riguardino.”
La donna sbuffò e si rivolse al figlio. “Hai degli amici in questo posto di lavoro. Lui è il peccatore che mi dicevi, dei Sogni sporchi?”
“Mamma!”
“Infedele senza Dio!” gli occhi della signora Rondel fiammeggiavano fissandosi su Wayne. “Schiavo del Maligno, che adeschi gli uomini dal cammino di Giustizia con la tua sporcizia e la tua lussuria. Ma verrà il Giorno del Giudizio e in quel giorno ti sarà reso il dovuto. Le viscere della Terra si apriranno e ingoieranno i peccatori come te. E allora come godrai della tua lussuria, se brucerai rotolandoti nelle fiamme e soffocando nel puzzo dello zolfo? Temi il Verdetto del Signore, temi la punizione dei peccatori. Gesù perdona ma tu devi andare da Lui a confessare i tuoi peccati. Tu devi supplicare in ginocchio...”
“Mamma,” implorò Rondel “è nostro ospite.”
La signora Rondel non prestò attenzione. “Prega per la tua anima, o verrai ingoiato dalla dannazione eterna.”
Wayne era rimasto in piedi, senza parole, di fronte a tanta sfrenata ostilità, senza sapere come reagire. Era scioccato, infuriato, imbarazzato e anche un po’ impaurito: tutto insieme. Mentre la vecchia farneticava Rondel prese Wayne sottobraccio e lo portò fuori, in corridoio. La signora Rondel non si accorse quasi che se ne erano andati; era in pieno sproloquio e la sola assenza di un bersaglio non l’avrebbe arrestata.
“Mi spiace, davvero,” disse Rondel. “A volte queste cose le prendono la mano. Il cervello non è più come una volta.”
Wayne respirò profondamente per un po’, per ricomporsi. “Mi avevi detto che venivi a casa perché non sta bene.”
Rondel scosse le spalle. “Penso un falso allarme, a volte succede. Alla sua età e nelle sue condizioni non voglio rischiare assolutamente. Senti, posso farti un caffè?”
Un breve ricordo dell’odore proveniente dalla cucina gli stuzzicò la mente e lo stomaco di Wayne fece un rapido salto mortale. “Ah, no grazie. Davvero, devo andare a casa.”
“Almeno ti cerco il libro.”
“No!” disse, un po’ brusco, poi forzò la calma nella voce. “Domani va bene, davvero. Puoi portarlo alla riunione, ci sarò anche io.”
“Ma ci metto solo un paio di minuti…”
“Scusa… io… devo andare.” Senza ulteriori esitazioni Wayne ritornò sui suoi passi verso il soggiorno e poi alla porta d’ingresso. Tanta era la fretta di allontanarsi da casa di Rondel che inciampò sui gradini del portico.
Riuscì a raggiungere la macchina e le si premette contro per alcuni minuti, contento di respirare a grandi sorsate l’aria fresca della notte. Gli ci vollero alcuni minuti per far fermare il tremore della mano, per poter pescare le chiavi dalla tasca. E anche guidando continuò a sentire la voce stridula della signora Rondel che pontificava il suo sermone nell’indifferenza della notte.
CAPITOLO 5
Wayne non aveva mai pensato al suo appartamento come ad un’attrazione: ma dopo aver visto casa dei Rondel, la sua gli sembrò uscire direttamente dalle pagine di A.D. Quello di Wayne era un appartamento monoambiente, decorato in stile assolutamente californiano: la sua funzione primaria era un’efficienza cruda e squallida. Le pareti erano pulite, bianche, i mobili economici ma funzionali. Ciò che più lo colpiva però, entrando e accendendo la luce, era che l’appartamento era pulito e senza odori. Wayne non era un casalingo coscienzioso e sugli scaffali c’era polvere, ma almeno era tutto al proprio posto e il tappeto dorato non era cosparso di rifiuti.
A volte ci serve davvero una brutta esperienza per apprezzare ciò che abbiamo, pensò Wayne guardandosi attorno.
Però la sterile qualità del suo appartamento lo annoiava.Volendo essere critico, avrebbe dovuto estendere la critica anche al proprio stile di vita. A parte la TV e un paio di stampe appese per rallegrare le pareti nude, c’era poco che potesse davvero definire di sua proprietà. Fece un inventario e si sentì ancora più depresso. Nel cucinotto aveva i suoi piatti e i suoi utensili, un tostapane-forno e un computer da tavolo che gli appartenevano; nella stanza da letto c’era una Calotta Onirica e un armadio pieno di vestiti. Quelle cose e la biblioteca in continua crescita contenente testi di riferimento – molti dei quali, comunque, conservati anche allo Studio – erano gli unici oggetti che non aveva ereditato assieme all’appartamento.
Pensandoci si rese conto che la maggior parte dei Sognatori che conosceva non erano persone di mondo ne’ materialisti. La cosa più bella che si poteva dire di loro era che, la realtà, la sopportavano; le loro vere vite erano nel Sogno e il mondo era semplicemente un indirizzo dove soddisfare le proprie necessità fisiche. Tutto ciò che contava per loro era vissuto nella loro mente e si propagava ad altre persone attraverso la Calotta Onirica. Wayne si domandò se era così che il fastidioso Rondel riusciva a sopravvivere con sua madre in quella casa – trattandola come un fenomeno temporaneo, da sopportare con quieta dignità finché non riusciva a scappare nel Sogno.
Si sentì pervadere da un’ondata di pietà per se stesso e cercò di fugarla. Forse i Sognatori erano ancor peggio di tutti gli altri? Gli altri, quelle masse senza volto che fungevano da spettatori notturni, non avevano neanche l’immaginazione per creare i propri Sogni. Vivevano le loro vite svolgendo lavori che la maggior parte di loro odiava, e il loro solo sfogo era sintonizzarsi sui Sogni indiretti creati da altri. Almeno la vita dei Sognatori godeva di un’indipendenza liberatrice rispetto alle catene della vita terrena.
Era una razionalizzazione familiare. Aveva sentito le stesse argomentazioni d’élite, o variazioni sul tema, ogni qualvolta i Sognatori si riunivano per parlare della loro esistenza. Era la verità, oppure tutti affermavano pubblicamente la stessa cosa per mascherare le loro insicurezze? Durante le feste, nelle sale degli studi della Dream, sembravano coraggiosi — ma Wayne si chiedeva se quegli stessi Sognatori da soli, la notte, non soffrissero mai quei momenti di calma disperazione che egli stesso aveva sofferto; consapevoli di avere innanzi a loro una vita vuota, consapevoli che le loro realtà più vivide erano fermamente ancorate alla finzione scenica.
Con Marsha tutto era diverso. Allora la vita aveva uno scopo, o almeno così sembrava; se Wayne aveva qualche dubbio sulla validità della sua vita e del suo lavoro, era facile seppellirlo dietro la maschera di una relazione sentimentale. Se non altro, essere impegnato con Marsha lo aveva protetto da verità più spiacevoli su se stesso.
Ma Marsha per vivere vendeva polizze assicurative. Non c’era nessuno al mondo più fermamente abbarbicato alla realtà di Marsha Framingham. La loro attrazione iniziale era sembrata la prova del vecchio detto secondo cui gli opposti si attraggono, ma un anno di convivenza aveva dimostrato che una coppia ha bisogno di avere qualcosa in comune per far crescere una relazione. Marsha aveva poca consapevolezza, o poca solidarietà, per le necessità artistiche di lui, e gli orari di lavoro invertiti del Sognatore gli offrivano sempre meno tempo da passare con lei.
Sei mesi prima, nel disperato tentativo di mantenere la relazione, Wayne aveva commesso un atto imperdonabile: aveva chiesto a Marsha di sposarlo.
Lei l’aveva guardato a lungo prima di rispondere. “No”, aveva detto, “in queste circostanze non funzionerebbe mai, e non acconsentiresti mai alle circostanze che potrebbero permetterlo.”
“Mettimi alla prova.”
“Devi lasciare la Dreaming.”
Si erano lasciati una settimana dopo. Era stata una rottura amichevole, come vanno queste cose. Si erano promessi di rimanere amici ma, con pochi interessi in comune, i loro passi si incrociavano raramente. L’ultima volta che Wayne l’aveva sentita, Marsha era impegnata con un agente di cambio e non era mai stata tanto felice.
Wayne si domandò se uno dei fattori che lo avevano spinto con tanta veemenza verso Janet Meyers non fosse che, fisicamente, lei e Marsha si assomigliavano: nessuna delle due era una bellezza mozzafiato, ma entrambe sapevano radiare un senso di calore e intelligenza che lui tanto ammirava in una donna. La differenza tra le due era che Janet, al contrario di Marsha, era una Sognatrice e sapeva riconoscere quei suoi bisogni speciali, gli umori, i dubbi, perché rispecchiavano i suoi. Lei e Wayne potevano condividere il mondo unico del Sogno e le sue particolari problematiche. I due potevano sostenersi l’un l’altro nei momenti di crisi; insieme formavano un duo che avrebbe potuto sconfiggere le tempeste emotive. Se lui avesse potuto farglielo capire…
Improvvisamente l’appartamento gli parve freddo e solitario. Il mondo attorno a lui era immobile e si sentiva tagliato fuori, isolato dal flusso dell’umanità. Persone più decenti a quell’ora erano addormentate, molte di loro indossavano la Calotta Onirica e vivevano attraverso le fantasie pre-digerite di altri. Wayne era invaso dalla necessità di tuffarsi e di nuotare col branco, di perdersi nell’identità di massa e di arrendersi ai problemi fino al giorno successivo.
Senza neppure pensare, si avvicinò alla TV e accese sul canale dei notiziari. Lo schermo si riempì di linee scritte e i suoi occhi le scandagliarono per diversi minuti senza assorbire alcun dato. Quando alla fine si rese conto di ciò che stava facendo, chiese alla TV di mostrargli la programmazione dei Sogni di quella notte. Se Sognare era problema suo, lo avrebbe fatto diventare anche parte della soluzione.
Lesse attentamente le offerte delle stazioni emittenti più importanti. C’erano un paio di titoli che sembrano interessanti, realizzati da Sognatori che rispettava come professionisti; ma erano tutti già iniziati. Entrare a Sogno iniziato in un certo senso era peggio che arrivare a metà film; lasciava lo spettatore terribilmente disorientato e insicuro di se stesso. Wayne sicuramente non aveva bisogno di una cosa del genere, quella notte.
Continuò a scorrere la lista dei programmi finché non arrivò alle stazioncine più piccole e specializzate. C’erano un paio di trasmittenti di Los Angeles che offrivano esperienze religiose ispiranti; si promuovevano in maniera esplicita così che nessuno potesse reclamare con la Commissione Comunicazioni per esser stato soggetto a propaganda contro la propria volontà. Dopo l’arringa fanatica della signora Rondel, però, certo Wayne proprio non aveva bisogno di un’altra dose di religione.
Restavano le trasmittenti porno. Arrivando a quei programmi Wayne si rese conto che era proprio ciò che aveva cercato. Il senso di amore frustrato per Janet, la solitudine, il buco vuoto nella sua anima – emozioni che crescevano fino a superare il punto di sopportazione. In qualche modo dovevano essere catalizzate. Anche se sapeva complessivamente troppo dell’industria Onirica del porno, anche se sapeva che non era altro che un tormentone gigantesco, aveva bisogno di un modo per scaricare la tensione dal corpo. Questo andava pure bene.
Passò rapidamente in rassegna i programmi. C’era erotismo per assecondare ogni gusto immaginabile, normale, gay o fetish. Wayne era sempre stato considerato uno “rigido” alla Stazione perché non riusciva a coinvolgersi nelle fantasie più stuzzicanti; faceva un buon lavoro con l’erotismo normale, ma la roba esoterica la lasciava agli altri. Il suo gusto funzionava così, eppure di tanto in tanto si era trovato a scusarsene. Era uno dei motivi per cui si era dichiarato insoddisfatto nell’ambiente e per cui aveva abbracciato l’offerta della Dramatic Dreams anche se comportava un lieve calo di stipendio. Almeno non si vergognava più di ciò che faceva – e poi c’era sempre la possibilità di passare a cose migliori.
Quella sera c’era un menu intenso di Bondage e Disciplina. “Mistress Schiava”, “La Signora del Cuoio”, “Fruste nella Notte”: non doveva neppure leggere le sinopsi, sapeva di cosa si trattata già dai titoli. Lo stupiva sempre quanti sottomessi ci fossero tra il pubblico. Si sarebbe immaginato che i sadici, persone in grado di infliggere dolore, fossero di gran lunga in maggioranza rispetto ai masochisti desiderosi di riceverne. Invece la situazione era l’esatto contrario. Le fantasie masochiste avevano sempre indici molto alti, mentre quelle sadiche elemosinavano ascolti. E’ un modus vivendi inculcato pensava lui; la gente era condizionata a sentirsi in colpa per ciò che faceva e sapeva che doveva essere punita. Vivere un Sogno in cui erano
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