Sumalee. Storie Di Trakaul
Javier Salazar Calle
Un viaggio a Singapore per iniziare una nuova vita. Lì, il protagonista conoscerà speranza, tradimento, dolore e vivrà una torrida storia d'amore con una donna sconcertante. Come è finito nell'inferno di Bang Kwang, una prigione di massima sicurezza thailandese? Cosa lo ha fatto diventare un uomo completamente diverso, capace delle atrocità più oscure? Una storia avvincente di mafie, mistero e violenza che trasporterà il lettore attraverso un torrente di sentimenti e avventure che lo cattureranno sin dalla prima pagina. Romanzo ricco di emozioni che, insieme ad un finale sorprendente, non lascerà nessuno indifferente. A volte la vita non offre molte opzioni e quelle che ti offre non sempre sono quelle che ti piacciono di più. Non devono nemmeno piacerti.
I lettori pensano ...
”Fatti catturare da Sumalee e Trakaul”
”Una trama sorprendente”
”Dà assuefazione”
”Una piacevole sorpresa”
”Intrigo, forza, romanticismo e molto altro”
”Non vorresti mai smettere di leggere”
”Mi ha catturato dall'inizio alla fine”
Sinossi:
Un viaggio a Singapore per iniziare una nuova vita. Lì, il protagonista conoscerà speranza, tradimento, dolore e vivrà una torrida storia d'amore con una donna sconcertante. Come è finito nell'inferno di Bang Kwang, una prigione di massima sicurezza thailandese? Cosa lo ha fatto diventare un uomo completamente diverso, capace delle atrocità più oscure? Una storia avvincente di mafie, mistero e violenza che trasporterà il lettore attraverso un torrente di sentimenti e avventure che lo cattureranno sin dalla prima pagina. Romanzo ricco di emozioni che, insieme ad un finale sorprendente, non lascerà nessuno indifferente. A volte la vita non offre molte opzioni e quelle che ti offre non devono per forza essere quelle che ti piacciono di più. Non devono nemmeno piacerti.
Sumalee
Storie di Trakaul
Javier Salazar Calle
Traduzione italiana Valeria Bragante
Disegno di copertina © Marta Fernández García
Illustrazioni interne @Elena Caro Puebla
Foto dell'autore © Ignacio Insua
Titolo originale: Sumalee. Historias de Trakaul
Copyright © Javier Salazar Calle, 2022
3ª edizione (rivista)
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Dedicato a Raquel, la migliore amica che si possa desiderare.
Ringraziamenti:
Ad Antonio Fernández per aver contribuito con la sua vasta conoscenza di Singapore e aver revisionato il libro, a Josele González per il fantastico sito web che ha creato per me (www.javiersalazarcalle.com) e agli altri miei lettori zero per aver migliorato questo libro: mia moglie Elena Costoso; mia sorella, Pilar Salazar e mio padre, José Antonio.
INDICE
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Singapore 1 (#ulink_0c2988ad-1bb1-5d18-83ff-eeda2d791e16)
Singapore 2 (#ulink_02bc2088-7a79-5e20-bb37-4fb6f922b92d)
Singapore 3 (#ulink_514619ba-9bf5-5bdd-8214-fcbdba07ac07)
Thailandia 13 (#ulink_09c55cee-65af-5f10-a2e7-563bdd0c1fb1)
Singapore 4 (#ulink_00b10709-fd8c-5fd5-95e9-1c1f07fa87c0)
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Singapore 7 (#ulink_3c35b218-e35c-5f61-8ea0-7759623f6aed)
Singapore 8 (#ulink_ec5141fa-399a-5d4f-a2b7-1f2d729cf89b)
Singapore 9 (#ulink_911500a6-da91-5391-9f2d-509e41ac2a06)
Thailandia 15 (#ulink_c8a9bce4-deca-5005-8cbc-de58dca5e698)
Singapore 10 (#ulink_ac4bc7f1-e14e-5eba-8cc4-fa6b0361cc11)
Singapore 11 (#ulink_9e3cef30-a73d-5aee-bcef-2990e3c6817b)
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Thailandia 1 (#ulink_bb2b6622-41eb-512b-93ed-32cddb28d314)
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Thailandia 9 (#ulink_a8c40be1-fb8d-55bf-b061-0e1632cf1dec)
Thailandia 10 (#ulink_af69b844-e9a2-5730-92c1-87133b2a5ab8)
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Thailandia 17 (#ulink_39260152-94e6-58a9-8d96-3bd0943d7472)
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Thailandia 20 (#ulink_5a17756a-6272-5816-ac14-b9fa519f2e0a)
Thailandia 21 (#ulink_a4a3a0f9-cc6a-58e1-ac25-6700f7556331)
Thailandia 22 (#ulink_3b5e5160-7d0a-5f07-b356-2b24ee65b654)
Thailandia 23 (#ulink_86b01ceb-30e3-53d7-88b9-1a7905417615)
Thailandia 24 (#ulink_3c0ed0a9-76bb-5c9b-95b4-8c55a0b3700a)
Thailandia 25 (#ulink_a03195d2-1734-5121-9e42-e945df28f33b)
Thailandia 26 (#ulink_d7e0e8ec-5935-56ba-8cf1-c62d7cf5fdef)
Thailandia 27 (#ulink_fa1f3ffa-7d07-5bb4-bb5b-6ac250a61b07)
Thailandia 28 (#ulink_317948fa-ca3d-5f78-bfe0-07796517ad1f)
Thailandia 29 (#ulink_c0270c39-be0f-547d-b8bc-427fff11fe52)
Thailandia 30 (#ulink_b94068e7-7478-5596-a2d7-6b8b856c9ba1)
Altri libri dell'autore (#ulink_8a344fc7-b239-5263-999e-291a02265520)
L'Autore (#ulink_cb688230-4274-58af-9c8f-e8a499f3b554)
Thailandia 12
Il primo pugno mi lasciò mezzo stordito. Il secondo mi fece crollare a terra. Fui inondato di calci per un paio di minuti. Cercai di raggomitolarmi come una palla e coprirmi la testa come meglio potevo. Uno di loro gridò divertito:
«Tu sì che sai come ricevere i colpi.»
Quando furono stanchi se ne andarono come erano venuti, camminando tranquilli, ridendo. La folla si dissolse rapidamente e quando aprii gli occhi tutto sembrava normale intorno a me, come se nulla fosse accaduto. Ognuno preso dalle sue attività. Legge del silenzio.
E non era la prima volta. Ero stato picchiato sui segni di tutte le precedenti percosse, sui lividi con l'intera gamma di colori in tutte le loro fasi evolutive. Una volta, per un colpo all'occhio, mi rimase la vista offuscata per un paio di giorni, ma finii per riprendermi. In quei due giorni ero convinto che sarei diventato cieco per il resto della mia vita. La certezza era orribile, molto più terrificante della ferita stessa. Un'altra volta, in cui mi schiaffeggiarono sull'orecchio, ebbi le vertigini per una settimana. Avevo anche diverse costole danneggiate, non sapevo se fossero rotte, e dolori di ogni genere in ogni parte del corpo. Mi ricordavo i giorni da giovane in cui ero molto stronzo e ogni giorno picchiavo qualcuno. Avevo imparato che proteggersi la testa era essenziale. Il resto si curava; bene o male, ma si curava. La cosa sinistra di questa situazione, la cosa più umiliante, era vedere come le guardie carcerarie fossero spettatori in lontananza in molte di quelle percosse. Ridevano e scommettevano. Su che cosa? Non lo sapevo, perché mi limitavo a ricevere dei colpi desiderando che finissero il prima possibile. Forse sul fatto che quello fosse il pestaggio che mi avrebbe ucciso.
Provai ad alzarmi, ma un forte dolore al petto me lo impedì. Sul pavimento del corridoio, in ginocchio, cercavo di aprire la bocca il più possibile per poter inspirare la massima quantità d'aria che alleviasse la mia sensazione di sopraffazione, di soffocamento. Mi concentravo sul respiro lento e profondo, ma non ci riuscivo. Mi ci volle un po' prima che il mio battito cardiaco rallentasse per riuscire a respirare di nuovo in modo relativamente normale. Con uno sforzo improbo mi alzai in piedi e, barcollando, appoggiandomi ai muri, schivando altri detenuti che mi ignoravano, raggiunsi la mia cella. Una cella che era mia e di altre quaranta persone.
Una volta lì, mi sedetti sul materassino e rimasi fermo per un po', cercando di svuotare la mia mente e isolarmi da tutto ciò che mi circondava, incluso il dolore che mi attraversava il corpo da cima a fondo. Un corpo che gridava che mi sdraiassi e non mi alzassi per ore, ma sapevo che non potevo farlo. Lo sapevo. Ne andava della mia sopravvivenza. Feci quello che dovevo fare. Ciò che era necessario. Mi alzai e iniziai la mia routine di allenamento. Stretching completo, flessioni, squat ... Far lavorare ogni parte del corpo in modo indipendente e insieme alle altre. Il dolore era quasi insopportabile, ma non mi fermai per questo; anche se piangevo silenziosamente, bagnando il pavimento con le mie lacrime. Non dovevo mai mostrare debolezza. Se volevo sopravvivere, se volevo essere in grado di uscire di lì un giorno senza che fosse nella triste bara di cartone che usavano, dovevo continuare. Finii l'allenamento, sia con i movimenti che avevo imparato dal mio vecchio maestro di boxe, sia imitando quello che vedevo fare in cortile dai prigionieri che si allenavano a Muay Thai, imparando a combattere come loro, con la differenza che loro lo facevano davanti a tutti, in pieno giorno, e io mi allenavo solo quando nessuno mi vedeva. Lontano da occhi curiosi. Preparandomi nell'ombra.
Un giorno, cosa che speravo presto, mi sarei sentito pronto e non mi sarei limitato a ricevere i colpi cercando di minimizzare i danni, ma avrei risposto in modo brutale, preciso e senza compassione. Uccidendo se necessario. Sì, avrei ucciso senza esitazione. Quel giorno mi sarei guadagnato il loro rispetto e quella parte dell'incubo che stavo vivendo sarebbe finita. Certo, dovevo essere sicuro di vincere, perché se li avessi affrontati senza trionfare in un modo che non lasciava spazio a dubbi, mi avrebbero ucciso. Questo è certo. Nel frattempo, dovevo solo essere paziente e cercare di rimanere in vita fino a quel momento senza subire danni irreparabili.
Avevo visualizzato nella mia testa quel momento migliaia di volte. Con mille varianti, con finali diversi, in tutti i tipi di scenari, cercando di prevedere ogni possibilità. Presto, molto presto, sarebbe arrivato il mio momento. O sarei morto.
Ma come si era arrivati a questa situazione se solo poche settimane fa ero David, un anonimo esperto informatico negli uffici di un istituto finanziario a Madrid? Quali circostanze mi avevano spinto in questa situazione inconcepibile in così breve tempo?
Mentre combattevo contro la sofferenza, mentre continuavo con il calvario che l'esercizio comportava, passavo in rassegna le terribili circostanze che avevo vissuto. Coloro che mi avevano spinto da una vita tranquilla nel dipartimento informatico di una banca a prepararmi ad uccidere gli indesiderabili che abusavano di me costantemente nella temuta prigione di Bang Kwang, sette chilometri a nord di Bangkok, in Thailandia. Una delle prigioni più pericolose del pianeta. Il pozzo della perdizione dove mi trovavo. La mia fine se non fossi riuscito a inventare un percorso che mi avrebbe salvato.
Singapore 1
Qualche settimana prima...
Mi ci vollero un paio di tentativi per spegnere la sveglia. Il secondo schiaffo la fece quasi cadere dal comodino. Mi sedetti sul bordo del letto e allungai le braccia facendo un lungo sbadiglio. Un altro giorno di lavoro. Come un automa, guidato dalla routine, feci colazione, andai sotto la doccia e mi vestii. Quaranta minuti dopo essermi alzato stavo avviando la macchina.
Sulla strada per il lavoro passai in rassegna i miei ultimi mesi. Segnato dalla rottura con la mia fidanzata di lunga data, non ero ancora riuscito a rialzare la testa. Dopo sette anni, sembrava che si fosse stancata di me e mi avesse lasciato per andarsene con un presunto amico che le avevo presentato io stesso e con il quale, da quanto appresi in seguito, aveva una relazione da molto tempo. Ero stato cieco per tutto quel tempo, senza vedere ciò di cui gli altri mi avevano avvertito. Da allora andavo in giro come un'anima in pena, sempre abbattuto e triste. Desolato. Mi ero rifugiato nella boxe, che praticavo più volte alla settimana. Colpivo il sacco o i miei compagni di allenamento come se quell'adrenalina fosse in grado di restituirmi la mia vita. Inoltre, non mi piaceva il progetto a cui stavo lavorando in banca. A fare dei test tutto il giorno, da solo, con uno strumento noioso e registrazione dei risultati in un documento standardizzato. Risultato corretto, risultato errato, non conformità. A volte guardavo fuori dalla finestra del quarto piano dov'era la mia scrivania e mi veniva voglia di buttarmi di sotto. In senso figurato, ovviamente. Non avevo mai pensato a qualcosa di così drastico come il suicidio. Ero triste, non distrutto. Risultato corretto, risultato errato, non conformità.
Ma ignoravo che quel giorno avrebbe cambiato la mia vita per sempre. Come non avrei mai immaginato.
Dopo mezz'ora di guida e un po' di giri per trovare parcheggio, arrivai al mio posto in ufficio. Accesi il computer e andai a salutare un altro collega. Quando tornai alla mia scrivania feci un veloce riesame, come ogni mattina, delle mail ricevute. Come tutti i giorni: test, test, risultati dei test, domande sui test, richieste di test, rapporti di test e previsioni dei test. Solo un'e-mail era diversa dalle altre. Era del mio responsabile, inviata il giorno prima di notte, chiedendomi di chiamarlo per parlarmi di una questione. Non avevo idea di cosa potesse essere, ma qualunque cosa fosse, qualsiasi cosa implicasse fare un lavoro diverso, anche se solo per cinque minuti, sarebbe stata la benvenuta. Guardai l'orologio. Le nove e mezza. L'ora giusta. Presi il cellulare di lavoro, cercai Valentin nella rubrica e lo chiamai.
«Sì, pronto?» suonò la voce di Valentin.
«Ciao Valentin. Sono David. Ho appena letto la tua e-mail e ti chiamo per sapere cosa volevi dirmi.»
«Buon giorno David. Come stai?»
«Annoiato. Questo progetto che mi hai assegnato mi ucciderà. Dimmi che hai qualcosa per me. Mi serve un cambiamento.»
«Forse. Cosa sai di Singapore?»
«Singapore?» Qui era già riuscito ad attirare la mia attenzione. Mi alzai e andai in una sala riunioni vicina che era vuota. «Beh, non lo so ... Valentin. Un piccolo Paese dell'Asia, con un buon tenore di vita, molto civile, parlano cinese e inglese ...»
«È qui che volevo arrivare!», gridò Valentin. «Parlano inglese, come te.»
Esatto, ero bilingue. Mia madre era americana. Si era innamorata di mio padre ed era venuta a vivere e lavorare in Spagna. Qualche anno dopo la mia nascita, mio padre era scomparso senza dire nulla; mai più avuto sue notizie. Tutti pensavano che avesse abbandonato mia madre, ma lei aveva sempre creduto che gli fosse successo qualcosa perché erano innamorati pazzi. In ogni caso ero cresciuto senza padre da quando avevo due anni, cosa che aveva influenzato molto la mia infanzia e adolescenza, e parlando inglese.
«Allora cosa proponi?»
«David, è nato a Singapore un progetto della durata di circa sei mesi, estendibile a due anni, in cui tu puoi inserirti perfettamente per conoscenze e per lingua. So che è un po' frettoloso, ma ho bisogno che tu mi dica qualcosa tra oggi e domani perché è urgente iniziare a spostare le scartoffie.» Alzai le sopracciglia in attesa. «Ti manderò tutte le informazioni sul progetto e le condizioni alle quali partiresti. Per qualsiasi cosa chiamami e la chiariamo al momento. Cosa ne pensi?»
«Non so cosa dirti, Valentin. Mi prendi un po' alla sprovvista ...»
«Lo so, lo so. Pensaci e domani mi dai una risposta, qualunque essa sia. Non eri stanco di fare i test? Questa è la tua occasione e, se sei bravo, sarà molto di aiuto per la tua possibile promozione quest'anno. Ti mando la mail, ci pensi e domani mi dici. Ehi, se non pensassi che è un lavoro adatto a te, non te lo direi.»
«Va bene, va bene. Domani ti farò sapere qualcosa. In ogni caso, grazie per esserti ricordato di me.»
Quando riattaccai il telefono ero pensieroso. Quando ero arrivato alla mia scrivania avevo già l’e-mail di Valentin nella mia casella di posta. Chiaramente aveva fretta. Aprii la mail e lessi tutte le informazioni. Progetto interessante, Paese con referenze incredibili, buone condizioni economiche che includevano l'alloggio e, soprattutto, andare via da qui per un periodo; lontano dal ricordo della mia ex e da questi fottuti test. Era chiaro. Entro cinque minuti dalla ricezione della chiamata sapevo già quale sarebbe stata la mia decisione. Tuttavia, decisi di aspettare fino al giorno successivo per dare al mio cervello la possibilità di ripensarci, anche se quando prendevo una decisione, e lo facevo molto velocemente, raramente cambiavo idea. Quando tornai a casa, l'unica cosa che controllai era se avevo il passaporto in ordine.
Quello che mi sarebbe mancato davvero era tutto lo sport che facevo: corsa, basket, calcio, paddle tennis, arrampicata... Ero appassionato di tutto ciò che comportava sforzo o rischio, specialmente se era all'aperto. A Singapore invece potevo praticare sport marini che a Madrid erano proibiti e relegati solo all'estate, come le immersioni, la vela o le moto d'acqua. Mi sarebbe dispiaciuto non poterli praticare vivendo su un'isola. Tornai al lavoro. Risultato corretto, risultato errato, non conformità.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, chiamai Valentin e lo informai della mia decisione. Sarei andato a Singapore. Mi inviò i dettagli del viaggio e iniziammo a spostare tutta la documentazione. Personalised Employment Pass, EntrePass, Work Permit ... C'erano tantissime opzioni e visti. Alla fine, si scoprì che ciò di cui avevo bisogno era un Employment Pass. Per questo tipo di permesso, era l'azienda a fare richiesta per conto del candidato, ma dovetti tradurre i miei titoli accademici (anche se successivamente a Singapore dovetti far tradurre gli originali da un traduttore ufficiale del posto e aspettare che fossero approvati dal Ministero Lavoro), compilare moduli per assicurazione medica, fotocopie del passaporto, rapporto di lavoro della mia azienda ... Il fatto che non si trattasse di un cambio di azienda ma di un trasferimento e che l'azienda si occupasse di quasi tutte le pratiche burocratiche rese il processo molto più semplice.
Un paio di settimane dopo ero all'aeroporto di Barajas per prendere un volo Qatar Airways diretto a Singapore. Il resto delle persone del team era già lì da un paio di settimane per preparare il lancio del progetto e leggere la documentazione. L'azienda mi pagava un appartamento con tre stanze condiviso con due colleghi; quindi, non avrei dovuto preoccuparmi di correre in giro alla ricerca di un posto dove vivere e avrei avuto l'opportunità di conoscere persone nuove sin dal primo giorno.
Avevo comprato una guida turistica sul Paese e l'avevo letta durante il volo. Il tempo non mi mancava, sedici ore di volo con scalo in Qatar. Bisognava armarsi di pazienza.
La guida iniziava con la tipica presentazione della storia del luogo. A quanto pare, Singapore era una città-stato che era passata di mano in mano e dove ora coesisteva un miscuglio unico di razze e lingue. In effetti, le lingue ufficiali erano quattro: inglese, malese, tamil e cinese mandarino. Due in più di quanto credevo.
Quello che mi importava era che fosse il quarto più grande centro finanziario del mondo (dopo New York, Londra e Tokyo) e il quinto più grande porto merci data la sua posizione strategica. Sulla carta, quasi un paradiso terrestre e un'opportunità di carriera unica. Vedremo una volta lì. Almeno come partenza, sembrava promettente. La guida era piena di ogni tipo di dati, cosa che mi piacque molto. Amavo le cifre e le curiosità su qualsiasi cosa. Mi immersi nella lettura cercando di assorbire, da buon turista, tutte le informazioni utili.
Alla fine, annunciarono che stavamo arrivando all'aeroporto di Singapore. Un aeroporto costruito sul mare. Mi appoggiai al finestrino per guardarlo bene. Sotto di me si vedeva l'intero agglomerato urbano, anche se rimasi piacevolmente sorpreso dalla grande quantità di alberi. Odiavo i luoghi in cui l'unico colore visibile era il grigio del cemento. L'aeroporto sorgeva in un angolo dell'isola e appena sotto c'era un grande porto navale. Il mare intorno era pieno di imbarcazioni di tutte le dimensioni, ma soprattutto di navi gigantesche che caricavano container. Non ne avevo mai viste così tante insieme e in modo così organizzato, formare lunghe file di imbarcazioni parallele tra loro. La città era disseminata di grattacieli e alti edifici. Ai margini dell'isola c'erano lunghe spiagge con una fitta vegetazione alle spalle. Poi vidi una zona di case basse, come complessi residenziali periferici, che terminavano vicino a un ampio fiume attraversato da ponti.
L'aereo stava già volando molto basso su un prato ben curato e vidi la pista apparire appena sotto l'ala sinistra, dove mi trovavo. Presto sentii il carrello di atterraggio colpire il suolo e l'aereo iniziò a frenare. Sullo sfondo, ad un centinaio di metri di distanza, il nome dell'aeroporto era scritto con dei cespugli: Changi.
L'aereo lasciò la pista, dirigendosi al terminal. Non riuscivo a vederlo dalla mia parte, ma potevo intuirlo attraverso i finestrini dall'altro lato. La hostess annunciò dagli altoparlanti, tra le altre cose, che c'era una temperatura di ventisei gradi. Essendo in una zona equatoriale, le temperature erano costanti con elevata umidità e alcune piogge brevi ma intense.
Quasi subito ci permisero di alzarci e andammo a ritirare i bagagli. Con la valigia e lo zaino in spalla, feci un giro per l'aeroporto. C'erano cose curiose per quello che ero abituato a vedere, come aree con Internet gratuito per laptop e persino computer per chi ne era sprovvisto. C'era anche un'area relax con lettini, simili a quelli delle piscine, che guardavano gli aerei e dove le persone ascoltavano musica, dormivano o leggevano.
Continuai ad avanzare alla ricerca del binario dei treni. Sugli schermi annunciavano arrivi e partenze da tutto il mondo. Finalmente ero arrivato. Si prendeva qualcosa di simile ad un tram chiamato Skytrain che ti portava al Terminal 2, dove potevi salire su un taxi. Quando il treno si fermò sul binario, rimasi colpito dal fatto che non avesse conducente. Mi lasciò subito al Terminal 2. Nel mezzo c'era un giardino tropicale con un piccolo stagno e bellissimi fiori. Poltrone massaggianti gratuite, lacrime di vetro sospese che salivano e cadevano, stagni con pesci arancioni, posti dove fare massaggi asiatici ... Pubblicizzavano persino una piscina nel Terminal 1 da cui, secondo le foto, si poteva vedere la pista di atterraggio! Incredibile. Nei bagni c'erano dei touch panel con la foto della donna delle pulizie del turno in corso dove si poteva votare cliccando su alcune facce come si considerava la pulizia del bagno. Ovviamente era immacolato. Infatti, non a caso era considerato uno dei migliori aeroporti del mondo. La prima impressione per una nuova persona in città era il suo aeroporto e questo era stato curato alla perfezione.
Finalmente raggiunsi l'uscita e presi uno dei taxi in attesa. Gli mostrai un foglio con l'indirizzo della mia futura casa e si diresse lì. Ero arrivato di sabato e l'azienda mi aveva informato che i coinquilini che mi avevano assegnato mi avrebbero aspettato a casa per aiutarmi a sistemarmi e raccontarmi un po' di tutto quello che dovevo sapere per iniziare a adattarmi il prima possibile. Non c'era possibilità di sbagliare il posto perché si chiamava Spanish Village, e dai... Pueblo Español nella lingua di Cervantes. Luogo curioso dove soggiornare per un gruppo di spagnoli. Non so se fosse una coincidenza o fosse stato fatto apposta, ma il nome era perfetto per provare a sentirsi a casa. L'avevo cercato su Internet ed era nel quartiere di Tanglin, anche se al momento non significava nulla per me.
Iniziai il mio girovagare per Singapore.
Singapore 2
In meno di mezz'ora il taxi si fermò davanti all'ingresso di un complesso edilizio e l'autista mi disse che quella era la destinazione che avevo annotato sul foglio. Diedi un'occhiata e vidi che a destra dell'ingresso c'era scritto Spanish Village 56-88 Farrer Road e, quella che supponevo, fosse la stessa cosa in caratteri cinesi. Dopo aver scambiato qualche parola con la guardia ai controlli di sicurezza, entrò nel complesso e si fermò all'interno. Lo pagai con i dollari di Singapore che avevo portato dalla Spagna e lo guardai allontanarsi.
Lessi di nuovo il foglio su cui era scritto l'indirizzo. Ero nel posto giusto. Iniziai a camminare con tutti i miei bagagli al seguito, alla ricerca del portone. Il complesso consisteva in un gruppo di edifici beige e piastrelle rosse su ogni terrazza. Alti quattro piani più il pianterreno, formavano tutti insieme un'ellisse. In mezzo agli edifici trovai una piscina abbastanza grande, un parco giochi, parcheggi esterni, due campi da tennis, una zona barbecue ... Si vedeva che qui costruivano quartieri molto completi, non come il triste appartamento in cui stavo mentre cercavo una casa migliore in cui vivere con la mia ex. La mia ex, Cristina. Adesso era a migliaia di chilometri da me, e anche se c'erano momenti in cui la sentivo dolorosamente vicina, con un'intensità spaventosa; dovevo dimenticarla. Ormai ero stufo di così tanto dolore, autocommiserazione motivata e insolita miseria, che dovevo tornare a godermi la vita. Volevo tornare a essere quel pazzo David che ero prima di incontrarla; apertamente, senza compromessi, senza bisogno di dare spiegazioni a nessuno. Almeno per la parte di incontrare tante donne e godermele senza legami.
Una volta dentro, mentre cercavo la porta del palazzo, un uomo dai lineamenti asiatici mi intercettò e mi chiese in un inglese molto strano dove stavo andando. Pensai che fosse qualcuno della manutenzione o qualcosa del genere. Gli dissi che ero un nuovo inquilino e lo informai dell'indirizzo. Questo sembrò rassicurarlo. Mi strinse la mano con calore e con un ampio sorriso sul volto, mi accompagnò alla porta del mio palazzo, aiutandomi con una valigia. Citofonò lui stesso al mio appartamento e quando qualcuno rispose con una voce che mi risultò familiare, gli disse che era arrivato il nuovo inquilino. Mi fermai un attimo a pensare quanto fosse stato intelligente il custode, senza contraddirmi, ma accompagnandomi alla porta per confermare le mie informazioni ai miei coinquilini. Quando la voce confermò che mi aspettava, fu soddisfatto, mi salutò ed io entrai in quella che sarebbe stata la mia nuova casa per almeno i prossimi sei mesi. O almeno, questo era quello che credevo.
Suonai il campanello e spinsi la porta. Rimasi sorpreso. Mi era sembrato di riconoscere la voce di Josele, che era un collega della mia azienda, un amico con cui avevo lavorato fianco a fianco per tre anni e che, alla fine andò ad occuparsi di un progetto negli Stati Uniti insieme ad un altro collega della banca. Fin dall'inizio eravamo andati d'accordo trovandoci molto bene insieme. Ero molto triste quando il progetto terminò e dovemmo separarci, ma avevamo continuato a mantenere contatti regolari e vederci ogni volta che lui tornava in Spagna.
Josele mi stava aspettando sulla porta dell'appartamento, come avevo sospettato. Non era cambiato affatto, con quei capelli cresciuti come un parrucchino, una brutta imitazione di Elvis Presley. Appoggiai la valigia e lo zaino per terra e lo abbracciai calorosamente.
«Josele? Sei tu?»
«Sorpresa! Entra e ti racconteremo. Guarda chi c'è qui», disse, aprendo completamente la porta.
«Dámaso!»
Entrai di corsa e lo abbracciai sollevandolo in aria. Dámaso era un altro dei colleghi che l'azienda aveva inviato con Josele negli Stati Uniti. Un po' bizzarro, ma un volto familiare, dopo tutto. La giornata non poteva iniziare meglio con questi due personaggi come coinquilini.
«Ma cosa ci fate qui? Non eravate negli Stati Uniti?»
«Sì, c'eravamo», rispose Dámaso «il progetto è terminato e siamo stati entrambi inviati qui di recente. Valentin ci ha detto che saresti venuto, ma non abbiamo voluto dirti niente per farti una sorpresa.»
«E che sorpresa ragazzi! Non potrebbe davvero essere migliore. Di nuovo insieme e questa volta condividendo un appartamento. Singapore preparati!»
«Sì!», urlò Josele con entusiasmo. «Possiamo tornare a fare sport insieme. Dámaso ed io andiamo a correre due volte a settimana e giochiamo in un campionato di basket per espatriati. Ti abbiamo già iscritto alla squadra.»
«Fantastico», risposi «almeno non diventerò grasso come un bue e mi aiuterà a conoscere persone nuove. Bene, raccontatemi com'è la vita qui.»
«Ci sono anche Diego e Tere», puntualizzò Dámaso.
«Anche loro! È fantastico, l'intera banda di nuovo insieme. Non pensavo che avremmo lavorato di nuovo insieme sullo stesso progetto.»
«Sì, e sappiamo qualcosa che tu non sai ...»
«Suppongo che anche Diego faccia parte della squadra di basket.»
«Sì, è iscritto, ma non è questo.»
«Allora cosa?»
«Escono insieme.»
«Che stai dicendo?! Tere e Diego? Da quando?»
«Beh, non lo sappiamo perché non ce l'hanno detto subito, ma sicuramente prima di venire qui, quindi almeno due mesi.»
«Non l'avrei mai sospettato; anche se, in effetti, se ci pensi, sono molto compatibili per via del loro modo di essere. Sono felice per loro! E quindi, adesso?»
Josele e Dámaso mi mostrarono prima la casa. Aveva tre camere da letto e due bagni. Io dovevo condividere un bagno con Josele. A quanto pare, Dámaso aveva insistito per averne uno solo per sé e a Josele non importava. Il soggiorno e la cucina erano spaziosi. La casa aveva internet con wi-fi e una terrazza chiusa da cui si vedeva la piscina. Mi avevano anche detto che il complesso aveva guardie di sicurezza 24 ore su 24. L'uomo che mi aveva intercettato in giardino era di origine cinese e si chiamava Shao Nan ed era l'addetto alla manutenzione durante il giorno. Di notte c'era un malese di nome Datuk Musa. C'erano anche una palestra, una sauna e un campo da squash al piano terra e un giardino con diversi barbecue che avevo visto poco fa in modo da poter fare un picnic senza dover lasciare l'edificio. Sebbene ci fosse un grande televisore in soggiorno, ogni stanza ne aveva uno più piccolo, così come l'aria condizionata, un tavolo da lavoro con una sedia e un grande armadio per i vestiti. Non so se il resto degli abitanti del Paese avesse case uguali a questa, ma il tenore di vita qui sembrava incredibile. Avevamo due centri commerciali a venti minuti a piedi;con tutti i tipi di ristoranti, alimentari e negozi di abbigliamento, banche per fare affari o luoghi per divertirsi. Dai, la nostra posizione era perfetta.
Poi mi diedero alcune informazioni utili sui mezzi di trasporto in città. La metropolitana si chiamava MRT e c'erano quattro linee che attraversavano Singapore da nord a sud e da est a ovest. C'erano anche autobus e l'uso del taxi era molto frequente, dato che era abbastanza economico. La compagnia aveva acquistato per me una carta di trasporto misto che era utile sia per la MRT che per gli autobus. Gli uffici della nostra azienda erano vicino alla foce del fiume Singapore e ad un grande parco urbano chiamato Fort Canning Park. I miei colleghi usavano l'autobus per andare al lavoro. Avevamo una linea diretta e in meno di quaranta minuti arrivavano in ufficio.
Le ore di lavoro erano variabili, come ovunque. A Singapore era normale lavorare quarantaquattro ore alla settimana e avere quattordici giorni di ferie, anche se fortunatamente avevamo mantenuto le ferie dalla Spagna. A Singapore avevano una cultura del lavoro completamente diversa rispetto alla Spagna. Non credevo che in Spagna fossimo in grado di stabilire una settimana lavorativa di quarantaquattro ore e solo quindici giorni di ferie.
Josele mi diede una borsa con dentro una scatola.
«Questo cos'è?»
«Un piccolo regalo dell'azienda. È il tuo cellulare aziendale per Singapore. Dentro ci sono il telefono, la SIM card e le istruzioni per connetterti con tutte le applicazioni dell'azienda, anche se, in realtà, l'unica utile è l’e-mail. Lunedì al lavoro ti daranno il tuo laptop.»
«Okay, grazie mille. Mi spiegherai la questione delle tariffe e delle chiamate verso la Spagna. E per mangiare? Come vi organizzate? Con menù fisso? In ristoranti come in Spagna?»
«Beh, ci sono molte opzioni», rispose Josele. «È molto raro trovare persone che mangiano nei ristoranti perché sono molto costosi. La consuetudine è mangiare nella mensa della palazzina degli uffici, negli hawkercenters, che sono gruppi di cucine con un piccolo bancone che condividono un'area abilitata per mangiare, nei coffee shops, che sono come gli hawkers, ma più cari e belli ...»
«E con l'aria condizionata!», Dámaso lo interruppe. «È dove, di regola, mangiamo noi.»
«Sì, sì, e con l'aria condizionata», continuò Josele. «È che Dámaso soffre molto il caldo e l'umidità. In ognuno di questi posti, puoi sia mangiare che comprare cibo da asporto. Dipende da ognuno e se c'è spazio per sedersi, perché a volte non c'è posto a causa della grande quantità di persone all'interno. Anche i fast food come Burger King, McDonald's o altre catene di ristoranti asiatici che non esistono in Spagna sono abbastanza pieni. Ci sono persone che si portano il pranzo al sacco ma è molto raro vedere degli occidentali. Le persone dal Bangladesh o dalle Filippine tendono a portarselo perché a loro piace mangiare cose tradizionali del loro Paese e se le cucinano da soli ...»
«Bene, bene», lo interruppi ridendo. «Ti ho solo chiesto dove mangi di solito, non di farmi uno studio sulla società di Singapore e sul suo stile alimentare. Che pezza mi hai attaccato! Ho avuto il tempo di sistemare il telefono e renderlo operativo. Aspettate un attimo, chiamo mia madre.»
«Salutala da parte nostra!», esclamarono entrambi all'unisono.
La conoscevano da quando lavoravamo insieme a Madrid, da un giorno in cui erano venuti a pranzo a casa mia. Mia madre era un'ottima cuoca, si era appassionata al cibo spagnolo e amava avere ospiti. Aveva avuto una giovinezza tempestosa, per così dire, ed era felicissima di accogliere nuovi amici che, già a prima vista, sembravano brave persone; niente a che vedere con le amicizie poco raccomandabili della mia adolescenza. Approfittai del telefono aziendale per chiamarla e dirle che mi ero già sistemato e che ero tornato a vivere con i miei amici. Era molto felice di sapere che non ero solo e che avevo già incontrato delle persone. Mi mandò tanti baci per entrambi. Le dissi che l'avrei chiamata per parlare con più calma tra qualche giorno. Quando riattaccai continuai a fare domande su ciò che mi interessava sapere del posto.
«E per divertirsi, cosa si fa da queste parti? Non ho bisogno che tu mi dica tutto quello che c'è da sapere sulla città oggi stesso, eh, Josele? Dovremo anche divertirci un po', qualcosa di particolare?»
«Molte cose», rispose Dámaso. «A Singapore non ti annoierai, questo è certo. Ci sono tutti i tipi di divertimenti: da incredibili simulatori di volo, corse di cavalli, casinò, parchi di divertimento, sentieri escursionistici, musei, molti centri commerciali e, naturalmente, centinaia di pub e club per uscire e incontrare persone, che tu ne hai bisogno, soprattutto qualche ragazza dopo la carognata che ti ha fatto Cristina.» Il mio viso mostrava quanto fossi d'accordo con quest'ultima frase. Volevo tornare ai miei tempi folli, in cui la cosa importante era finire a letto con una ragazza, non importa quale. «Vicino a casa nostra, dall'altra parte del parco, c'è una delle principali zone di festa. Intorno ad una strada chiamata Mohamed Sultan Roadche è piena di locali e discoteche. Venti minuti a piedi da qui. E naturalmente c'è anche il golf dall'altra parte di Marina Bay!»
«Mi sembrava strano che tu non tirassi fuori l'argomento del golf. Sicuramente hai scoperto prima come diventare un socio del campo da golf che hanno qui intorno che dove comprare il pane la mattina. E se hanno lettini abbronzanti a raggi uva, comunque, è perfetto, giusto?» Mi misi a ridere.
«Hai idea di come ci si sente a colpire un ace? Colpire una palla con un solo colpo di partenza? Nemmeno io, ma continuo a provare.»
«Come lo conosci bene, David», commentò Josele tra le risate. «Appena è arrivato, ha chiesto al tassista la strada per venire qui dall'aeroporto. E una volta all'anno hanno gare di Formula 1, ovviamente. Penso che sia verso settembre e ci hanno detto che è incredibile, perché corrono per la città di notte; quindi, se siamo da queste parti dobbiamo andare, anche se non ti piacciono molto le corse, perché anche solo l'atmosfera lo merita.»
«Ma da quanto siete qui? Avete avuto il tempo per fare tutte queste cose?»
«No, amico», disse Josele con un sorriso. «Le informazioni sui bar, sì, naturalmente; ma la maggior parte delle cose ci sono state raccontate dai colleghi che sono qui da più tempo. Ora che sei arrivato tu, ci muoveremo sicuramente di più.»
«Amico, speravo di poter navigare un po' anch'io. Soprattutto se in buona compagnia.»
«Intendi noi o una ragazza carina?»
Tutti e tre ridemmo di gusto. Era chiaro che durante questo periodo che erano stati negli Stati Uniti, non avevamo perso la complicità che avevamo sempre avuto nei nostri progetti insieme in Spagna. Soprattutto quella che avevo con Josele.
I bei tempi si stavano avvicinando.
Singapore 3
Il giorno dopo uscimmo insieme per una passeggiata per la città. Volevo davvero vedere che atmosfera si respirava in questo nuovo Paese.
Siccome volevo sentirmi utile, presi i sacchi della spazzatura per buttarli via, ma Josele mi intercettò all'ingresso di casa.
«Ma dove vai con la spazzatura?»
«A buttarla via. Ho visto un cassonetto là fuori.»
«Santo cielo, dobbiamo spiegarti tutto. Qui ci sono impianti di trattamento dei rifiuti in ogni blocco. Butti la spazzatura nei condotti della cucina sotto il microonde e andrà nel posto giusto. Come la spazzatura pneumatica in Spagna.»
«Grandioso ... e gli appartamenti al piano terra?»
«La lasciano davanti alla porta d'ingresso del servizio e la ritira il personale delle pulizie. Non si porta molto spesso la spazzatura nel cassonetto.»
«E viene riciclata?»
«Ci sono contenitori colorati per riciclare se vuoi, ma quasi nessuno lo fa.»
«Capito. Tutta la spazzatura nel condotto della cucina.»
Buttai via i due sacchetti e uscimmo in strada. Iniziammo facendo un giro per il nostro quartiere, Tanglin. I singaporiani che vedevo per strada mi sembravano per lo più di origine orientale, cinesi, soprattutto, anche se c'erano anche molte persone di aspetto indiano e parecchie che non riuscivo a localizzare
«Sono di origine malese», chiarì Josele. «Qui sono persone più tranquille e chiuse rispetto agli europei. Sono anche molto severi con le leggi. Ci sono infiniti divieti. Alcuni possono essere scioccanti per noi e, se non li rispetti, vieni punito senza esitazione. Tutti imparano presto, con le buone o con le cattive, ad essere rispettosi.»
«Questa cosa dell'ordine mi piace.»
«Beh, lo sappiamo. Quadrato come sei ...»
È vero che lo ero adesso, ma non ero sempre stato così. (Capisco che sia stato il contrario. Che prima fosse quadrato e ora no)
Andammo a destra, lasciandoci dietro un passaggio pedonale ricoperto di piante piene di fiori viola. Poco dopo raggiungemmo una stazione della metropolitana. Cambiò il tipo di costruzione e sul nostro marciapiede comparvero case unifamiliari, come se si trattasse di una zona di villette bifamiliari, ma ognuna diversa dalla precedente, sia nei materiali che nel design. Un po' più avanti c'era un incrocio con un'altra strada importante chiamata Bukit Timah che correva parallela ad un ruscello e con un ponte sopraelevato.
«A sinistra c'è il centro commerciale di cui ti abbiamo parlato, il Coronation Shopping Plaza», indicò Josele. «A destra i giardini botanici.»
«Andiamo a destra allora, ci sarà tempo per vedere i negozi», risposi.
Proseguimmo fino a raggiungere l'ingresso principale del parco botanico o, almeno, uno degli ingressi. Nessuno sapeva quanti fossero. Mi avvicinai per curiosità per leggere le informazioni per entrare. Era aperto dalle cinque del mattino a mezzanotte tutti i giorni dell'anno! Inoltre, era gratuito a meno che tu non volessi vedere la parte delle orchidee. Questo sì che era davvero un buon servizio di assistenza clienti.
«Perché non entriamo qui?», proposi cercando di convincere Josele e Dámaso ad entrare per dare un'occhiata.
«Ci sarà tempo per vedere le cose in modo più approfondito. Per il primo giorno, è meglio n giro più generico. Inoltre, Josele lo conosce già», affermò Dámaso.
«Sei venuto a vederlo?»
«Fermati, bestia», rispose subito Josele. «Non devi farti un'idea sbagliata. I fiori mi potrebbero piacere per scattare foto fantastiche, ma poco altro. Sono venuto perché mi sono messo in contatto con una donna giapponese che era molto bella e ho pensato che portandola qui avrei fatto colpo. E, in effetti, è stato così.» Ci fece l'occhiolino e ci venne da ridere.
La verità è che avevano tutta la ragione del mondo, c'era tempo per vedere tutto, quindi cedetti senza lamentarmi molto.
«Guarda!», gridò Dámaso. «L'autobus sta arrivando, potremmo andare a vedere Little India, il quartiere indiano della città.»
Josele ed io pensammo che fosse una buona idea e trenta minuti più tardi stavamo scendendo dall'autobus in un quartiere completamente diverso. Lì la distribuzione demografica era completamente diversa, con la maggioranza di indiani (o bengalesi, perché la verità è che non ero in grado di distinguere gli uni dagli altri). La prima cosa che attirò la mia attenzione furono le centinaia di indiani seduti per terra in un parco, in piccoli gruppi, a chiacchierare tra loro. Secondo quanto mi raccontarono i miei amici, lo facevano ogni domenica. Era come il loro punto d'incontro per vedersi e raccontarsi cosa era successo durante la settimana. Naturalmente, non si vedeva nemmeno una donna. Solo uomini. Curioso. Tradizione? Maschilismo? Le donne si incontravano altrove? Continuammo a camminare e ci trovammo davanti ad una chiesa, la Foochow Methodist Church come si leggeva su un cartello all'ingresso, che mi sorprese essendo nell'area indiana, dove ci si aspetta di vedere i templi indù. Questo dimostrava l'unicità di questo posto. Vedemmo anche dei ristoranti, questo sì, tipici indiani e, alla fine, arrivammo al Mustafá Center. Era un centro commerciale abbastanza grande aperto 24 ore al giorno. Il marciapiede opposto era fiancheggiato da case a due piani che avevano per lo più ristoranti, gioiellerie e accademie di hindi. C'era anche un tempio chiamato Arya Samaj. Questo sembrava indù, ma non saprei dirlo con certezza. All'ingresso c'erano i manifesti di due uomini: uno barbuto dall'aria bonaria e l'altro con un turbante e un'aureola intorno come se fosse un santo. Ad entrambe le estremità della strada si vedevano sullo sfondo i grattacieli della città, che contrastavano con questa zona di case basse. Tutto era molto diverso da quello che conoscevo.
Josele, che era sempre stato più curioso delle cose ed era anche appassionato di fotografia ed era sempre alla ricerca di location uniche per dare sfogo alla sua vocazione, mi spiegò che queste case si chiamavano shop houses, case-botteghe in spagnolo. Erano vecchi edifici con il piano superiore per la residenza e il piano inferiore per l'attività di famiglia, solitamente laboratori, ristoranti o negozi. Apparentemente erano molto apprezzati, non solo per il loro valore storico o per la loro bellezza, ma anche per la posizione privilegiata che avevano. Venivano affittati da tremilacinquecento a quasi ventimila dollari al mese, a seconda della loro ubicazione e condizione, e il prezzo di vendita si misurava in diversi milioni di dollari di Singapore. Una fortuna.
Entrammo nel centro commerciale per vedere che tipo di negozi c'erano. Si estendeva su due isolati e aveva una passerella di vetro al primo piano sopra la strada che collegava i due blocchi di edifici. All'interno c'erano negozi di ogni genere: supermercato, farmacia, cosmetici, abbigliamento sportivo, elettronica, posta e gioiellerie. Avevano anche un servizio di gestione dei visti per indiani e malesi e uno sportello di cambio valuta. Un euro equivaleva a quasi un dollaro e mezzo di Singapore. Avevo ottenuto un cambio leggermente migliore in Spagna.
All'ora di pranzo, dato che non c'era altra possibilità, mangiammo in uno dei tanti ristoranti indiani della zona. Uno che avrebbe dovuto specializzarsi nel cibo dell'India settentrionale. Come se potessi distinguerla da quella del sud! Seguendo il consiglio di Josele e Dámaso, ordinammo diversi piatti da condividere. Dagli antipasti di Aloo Gobi, che erano patate speziate con cavolfiore, e Chaat, un tipo di gnocchi molto croccanti con diversi ripieni molto piccanti. Poi dividemmo il Chanamasala, che in apparenza sembrava un cocido come quello che facevamo a Madrid, ma con le spezie aveva un sapore completamente diverso, un riso con lenticchie chiamato Khichdi e pollo Tandori, un pollo arrosto con yogurt e spezie che gli davano una tonalità rosso brillante. Il tutto accompagnato da un pane chiamato Kulcha e per dessert dei petali di rosa con zucchero chiamati Gulqand. Molti nomi esotici e cibi a volte eccessivamente piccanti. Se consumato solo saltuariamente, mi sembrava un pasto curioso, ma mangiandolo ogni giorno mi sarei stufato di così tante spezie. Inoltre, non ero proprio sicuro che il mio stomaco sarebbe stato in grado di sopportare questo fatto essendo abituato a un tipo di cibo completamente diverso. Quello di cui era sicuro era che non avrei ricordato nessuno dei nomi dei piatti la prossima volta.
Chiesi del cibo tipico di Singapore e mi dissero che era piccante e anche molto speziato, ma di non preoccuparmi perché c'erano tutti i tipi di ristoranti tra cui scegliere. Mi piaceva il piccante, ma ogni tanto e non troppo. Avevo un amico a cui piaceva il cibo che brucia, ma mi sembrava che con il bruciore in bocca non si potesse davvero assaporare il sapore del cibo. Comunque, c'era anche molta influenza cinese nel loro cibo e questa mi piaceva di più. Dovevo assaggiarlo al più presto.
Dopo pranzo tornammo a casa nostra. Dovevo finire di mettere tutte le mie cose nella stanza e volevo riposarmi. Non sapevo se fosse a causa del jet lag o per quale motivo, ma ero distrutto. In ogni caso avevo ricevuto troppe informazioni da quando ero arrivato in città e volevo davvero un po' di tranquillità e anche iniziare a lavorare il giorno dopo per abituarmi un po' alla routine.
Passammo il resto del pomeriggio a casa, guardando un telegiornale in inglese alla TV e chiacchierando delle cose che avremmo fatto nelle prossime settimane.
Cenammo alla fine della giornata con un po' di quello che avevano in frigo e andai a dormire presto. Il giorno dopo iniziava la mia nuova avventura lavorativa.
Thailandia 13
I pensieri sulla mia permanenza a Singapore furono interrotti quando sentii qualcuno che mi osservava. Interruppi la serie di pugni che stavo facendo e guardai verso la porta della cella. C'era un uomo di nome Channarong che mi osservava con curiosità. Lo conoscevo per aver sentito altri prigionieri parlare di lui, sempre con rispetto. Il suo nome, mi era stato detto, significava qualcosa come "lotta per vincere", che era proprio quello per cui mi stavo preparando. Non era molto chiaro perché la gente lo tenesse in così grande considerazione. Non sapevo se fosse un membro della mafia, un famoso lottatore o il figlio di un ricco uomo d'affari che poteva pagare qualcuno per ucciderti se disturbavi la sua prole. Il fatto è che mi stava osservando in silenzio da non so quanto tempo. Cercai di far finta di niente allungando le braccia e facendo dei movimenti stupidi, cercando di imitare quello che nella mia testa sarebbe stato il tai chi. Ero sicuro che fosse tardi e che per Channarong sarebbe stato chiaro che mi stavo allenando nelle arti marziali. Doveva essere molto stupido per credere che quello che stavo facendo fosse Tai Chi.
Mi sentivo ridicolo nel cercare di ingannarlo, così mi fermai e lo fissai senza dire niente. Channarong fissò i suoi occhi nei miei e mi scrutò attentamente. Il suo viso era completamente inespressivo. Era impossibile per me sapere cosa stesse pensando. Dopo pochi istanti, che sembrarono ore, fece qualche passo e si avvicinò a me. Istintivamente arretrai e alzai le braccia sulla difensiva. Ero abituato a tutti quelli che mi si avvicinavano per picchiarmi, anche se questa volta erano troppe botte di fila, dato che l'ultima batosta mi era stata data meno di un'ora prima.
Channarong si avvicinò finché non fu a soli venti centimetri da me e mi guardò con curiosità. Alzò la mano ed io sussultai, aspettando di ricevere il primo colpo, ma invece quello che fece fu afferrare il mio braccio e allungarlo imitando un pugno.
«Non così». mi disse in un inglese stentato mentre scuoteva la testa più e più volte. «Non così. No, no, no.»
Mi prese il braccio e lo allungò di nuovo, questa volta con molta più forza. Costringendomi a torcermi sul fianco per non cadere.
«Muovi i fianchi, colpisci i fianchi. Muovi i fianchi, colpisci i fianchi. Sai come chiamano questa prigione? La Grande Tigre perché si dice che "caccia e mangia". Vuoi essere una preda o un cacciatore?»
Ripeté questa frase come se fosse un mantra, più e più volte, mentre mi muoveva il braccio e mi dava dei colpi alla vita. Stava correggendo il mio movimento! Non solo non voleva colpirmi, ma mi stava insegnando a colpire correttamente. Mi lasciò il braccio e con un gesto della mano mi incoraggiò a continuare a provare. Lanciai una nuova serie di pugni cambiando braccio e usando i miei fianchi nei pugni mentre Channarong continuava a correggere i miei movimenti.
«Muay Thai decima lezione», mi disse molto seriamente dopo un po' di tempo, «allenati ed esercitati regolarmente. Tu sii costante, io osservo. Molto bene. Muay Thai è essere dei guerrieri con otto braccia. Pugni, gomiti, ginocchia e piedi. Allena tutto, cerca l'equilibrio.»
Quindi mi aveva guardato allenarmi senza che me ne rendessi conto. Era chiaro che non lo stava nascondendo così bene come pensava. Un momento! Aveva detto la decima lezione? E le nove precedenti? Non importa, eseguii un'altra serie di pugni concentrandomi sul rendere tutto perfetto, come mi aveva insegnato, ponendo tutta la mia attenzione su ogni dettaglio del movimento, cercando di non lasciarmi influenzare dal dolore del mio corpo. Mi voltai soddisfatto per vedere cosa ne pensava, ma Channarong se n'era già andato. Scomparso nello stesso modo in cui era apparso. Silenziosamente e senza preavviso. Restai del tutto sconcertato. Perché mi aveva aiutato? Perché se n'è andato senza avermi dato il tempo di ringraziarlo? Non avevo risposte e nessuna possibilità di ottenerle in quel momento; quindi, feci quello che ci si aspettava da una persona pratica come me. Continuai ad allenare i miei pugni, sì, aiutandomi con i fianchi a colpire con più forza. Cercando di superare il dolore che ogni movimento mi provocava nelle parti del corpo colpite dal pestaggio.
Il giorno dopo cercai Channarong per ringraziarlo, ma non riuscii a trovarlo. Ma non mi dedicai alla ricerca nell'intero complesso, perché con i miei precedenti era meglio non farsi vedere molto in giro per evitare problemi. Quando ti usavano come sacco da boxe, la cosa più saggia da fare era non farsi trovare. Continuai ad allenare i pugni ed il resto dei movimenti. Mi sarebbe piaciuto che decidesse di essere il mio mentore come il signor Miyagi in Karate Kid o come Ángel, l'insegnante di boxe che mi aveva insegnato cos'è il rispetto per gli altri e per sé stessi, ma dubitavo molto che quest'uomo così benvoluto e al quale non avevo mai rivolto la parola, avesse molto interesse per me. Ma d'altra parte, mi aveva aiutato, no? In ogni caso, nessuno mi parlava; quindi, ero grato almeno per questo.
Un paio di giorni dopo mi imbattei in Channarong nella fila di detenuti in sala da pranzo. Mi avvicinai per ringraziarlo del suo interesse, ma mi ordinò di allontanarmi con rapidi movimenti delle mani e un suono simile a quello di un serpente.
«Seconda lezione», gridò mentre me ne andavo confuso, «rendersi utili agli altri.»
Mentre mangiavo cercavo di decifrare il significato di quelle parole. Voleva che aiutassi le persone in prigione? Voleva che pensassi a me stesso? Alle persone orientali a volte piaceva cambiare le cose. Non sarebbe stato più facile dirmi di cosa si trattava? Rendersi utili agli altri ... difendere gli altri dalle botte al posto mio? Filosofia a buon mercato. Quanto è utile dire le cose direttamente. Guardai Channarong e lui stava indicando il mio tavolo, dicendo qualcosa ai suoi compagni, che ridevano di cuore. Non sapevo cosa pensare. Ero completamente perso. Forse stava solo ridendo di me, ma allora perché aiutarmi?
Notai che il gruppo che ce l'aveva con me stava entrando nella sala da pranzo, quindi mi alzai, misi al suo posto il vassoio con tutto ciò che mi restava ancora da mangiare e uscii velocemente dalla sala. Come diceva mia madre, «Chi evita l'occasione evita il pericolo.» Questo sì era un consiglio davvero utile. E chiaro.
Andai in cella per allenarmi. Non che allenarsi senza a digiuno fosse la cosa migliore da fare, ma era uno dei pochi momenti in cui di solito non c'era nessuno in giro e dovevo approfittarne. Feci quello che dovevo fare. Quello che era necessario. Iniziai la mia routine di allenamento. Stretching completo, flessioni, squat ... Far lavorare ogni parte del corpo in modo indipendente e insieme alle altre. Poi continuai con i colpi in aria, prima i pugni, poi i calci, infine, ginocchia e gomiti come avevo visto fare ai prigionieri che si allevano in cortile. Come aveva detto Channarong, il guerriero con otto braccia. Poiché nessuno mi parlava per paura di diventare un bersaglio per chi mi picchiava, avevo molto tempo per pensare. In una delle mie riflessioni quotidiane avevo considerato che, oltre ad ottenere la migliore forma fisica possibile e cercare di migliorare la mia tecnica e velocità, avrei dovuto anche irrobustire il mio corpo e abituarmi ai colpi. Così aggiunsi alla mia routine una serie di colpi con pugni, gomiti, tibia e dorso della mano al muro, bendandomi prima con pezzi di stoffa e iniziando dolcemente. A volte esageravo con i colpi e avevo qualche parte del corpo infiammata per un paio di giorni, ma ritenevo necessario insegnare al mio corpo a superare il dolore. Quando il mio spirito era debole nell'addestramento, dovevo solo ricordare alcuni dei miei nemici antagonisti della mia giovinezza o una qualsiasi delle percosse che ricevevo; bloccato a terra bersaglio di calci e colpi, raggomitolato come un animale e in attesa che tutto finisse. Allora lo slancio dei colpi aumentava, lo sforzo dell'allenamento traeva forza dalla furia, spirito dalla paura, intensità dalla disperazione.
Dovevo anche aumentare molto la mia resistenza, quindi passavo il tempo a correre senza sosta nel cortile; per questo i miei persecutori mi prendevano in giro ridendo perché pensavano che mi stessi allenando a scappare da loro. Allo stesso tempo, mi serviva come terapia. Non mi era sempre piaciuto correre. Poco dopo aver iniziato a fare boxe a Madrid, dovetti aggiungere routine di corsa per guadagnare resistenza ed essere in grado di sopportare un combattimento completo restando in piedi. Era estenuante, ma necessario. Alla fine, correre per mezz'ora ogni giorno si era rivelato un balsamo per indottrinare il mio corpo e la mia mente.
Presto sarebbe arrivato il mio momento e la situazione sarebbe cambiata completamente. Presto quelle risate si sarebbero trasformate in urla. Urla di dolore. O almeno così volevo credere. Quello o la morte.
Non c'erano altre alternative.
Singapore 4
Finalmente lunedì. Primo giorno di lavoro. Mi alzai alle sei e mezza del mattino, feci colazione con caffè, cereali e un bicchiere di succo d'arancia. Una colazione completa. Intanto i miei coinquilini mi raccontarono che quello che facevano loro di solito, e anche tante altre persone: fare colazione al lavoro nella mensa aziendale, dove c'erano bevande, frutta e pasticcini gratis, o nei locali del palazzo se volevano qualcosa diverso. Così potevano chiacchierare per un po' con i colleghi prima di iniziare la giornata. A volte c'era altra gente a colazione, soprattutto stranieri dall'Asia, come a pranzo: tagliatelle, zuppe, involtini di verdure ... Era molto strano vederli mangiare così a quell'ora del mattino. Mi vestii e aspettai dieci minuti che gli altri fossero pronti.
Tra una cosa e l'altra eravamo poco organizzati e decidemmo di prendere un taxi per andare al lavoro. Per soli dieci dollari singaporiani, pagati da Josele, in un quarto d'ora arrivammo davanti alla porta del nostro palazzo, in una piazzetta all'ingresso come gli alberghi dove le auto si fermano per scaricare le valigie.
L'area era un complesso di quattro grattacieli ottagonali bianchi chiamato RafflesCity Tower. Apparentemente, era un agglomerato con un centro commerciale, uffici, un centro congressi, ristoranti e due hotel che occupavano due delle torri. Ogni grattacielo doveva essere alto quaranta o quarantacinque piani. Era impressionante. A destra dell'ingresso dove eravamo noi c'era un bar chiamato Salt Tapas & Bar, nome premonitore per degli spagnoli, come quello di casa nostra. Il destino, in cui non credevo, sembrava dirmi che ero proprio dove avrei dovuto essere.
I nostri uffici erano al 36° piano della cosiddetta torre degli uffici della Raffles City Tower. I panorami dovevano essere spettacolari. All'ingresso, poiché era il mio primo giorno, dovettero identificarmi e darmi la tessera di accesso permanente. Quando me la consegnarono, salimmo in ascensore fino all'ufficio. Il nostro piano era un open space, quasi senza muri ad eccezione delle sale riunioni. Mentre mi portavano da colui che sarebbe stato il mio responsabile, incontrai Teresa e Diego. Ci salutammo velocemente e ci accordammo per incontrarci più tardi nella caffetteria al piano terra. Più tardi, Dámaso andò al suo tavolo per lavorare e Josele mi condusse da Amit Dabrai, un indiano che era il mio nuovo capo.
Amit era una persona molto magra e presuntuosa. Mi spiegò più o meno in cosa consisteva il progetto come se mi stesse facendo un favore e mi mostrò la mia postazione di lavoro, dove il laptop mi stava già aspettando. Firmai tutti i documenti per la consegna del computer, del cellulare e mi sistemai alla mia scrivania. Amit condivise con me una cartella nel cloud con tutta la documentazione e mi disse che Jérôme, che mi aveva presentato come partner nel progetto che mi era stato assegnato, mi avrebbe detto cosa era prioritario da leggere per cominciare. Naturalmente, insistette sul fatto che dovevo recuperare molto rapidamente e che sperava che quella stessa settimana avrei iniziato a lavorare a pieno regime. Che capo teso e serio che avevo! Mi ricordava uno che avevo avuto in un progetto in Spagna.
Jérôme, che era francese, si rivelò un tipo completamente diverso da Amit. Era come un cavallo, matto come un cavallo. Definirlo estroverso era un eufemismo. Inoltre, aveva un entusiasmo e una vitalità contagiosi e sembrava essere sempre di buon umore. Certo, parlava inglese con un accento francese molto forte per cui feci fatica ad abituarmi ad ascoltare senza ridere. Mi indicò quali erano i documenti principali che dovevo leggere e mi fece una presentazione del progetto della durata di quasi un'ora, sottolineando ciò che era veramente importante: in cosa consisteva, cosa ci si aspettava da noi, a che punto eravamo e quali erano i prossimi passi che dovevamo fare. Tutto questo dopo essere andati alla caffetteria e chiacchierando animatamente con Tere e Diego.
A metà mattinata Josele mi accompagnò in una filiale della banca POSB per aiutami ad aprire un conto corrente. Anche lui ne aveva uno nella stessa banca, che era una banca statale delle Poste e funzionava molto bene. Come mi spiegò, essendo un paradiso fiscale, aprire conti era un processo molto semplice. Mi chiesero il numero FIN, che era come la carta d'identità spagnola. L'azienda me lo aveva fornito con il permesso di lavoro, ma, a quanto pare, potevi anche aprire il conto senza di esso e lo avresti consegnato in seguito. Tutto era facilitato. Mi consegnarono subito una carta bancomat e mi diedero le mie password per operare online e per telefono.
Nelle vicinanze c'era un ufficio esclusivo per il private banking.
«Qui, con una bella mazzetta di banconote, non hai nemmeno bisogno di identificarti», disse Josele guardandomi con una faccia maliziosa. «Anche se questo non può essere detto apertamente, ovviamente. Queste persone sono tutte qui disponibili a ricevere denaro.»
«Beh, niente, spero di poter diventare loro cliente», affermai ridendo. Una volta presi gli accordi, tornammo in ufficio.
Singapore 5
Josele si avvicinò alla mia scrivania di lavoro sorridendo.
«Indovina, indovina.»
«Non lo so, hai delle scocciature da darmi che devi finire prima della fine della settimana? Sto davvero cercando di recuperare il lavoro arretrato, ma ti aiuterò come posso.»
«No! Molto meglio.»
«Dimmi.»
«Questo sabato abbiamo una festa ad Avalon, una delle discoteche alla moda. Quella che ti ho detto che è dall'altra parte del fiume, vicino al Museo delle Arti e delle Scienze.»
«Amico, non è una grande sorpresa. Ho l'impressione che ogni sabato abbiamo una festa.»
«Questa è speciale. È un omaggio agli espatriati spagnoli. Sarà pieno di spagnoli ed espatriati di altri Paesi. È la tua occasione per incontrare persone di ogni genere e luogo!»
«Vi conosco già, non credo di avere bisogno di altri nei prossimi cinque anni ...», sorrisi felice di essere con loro.
«Sì, ma dobbiamo sbarazzarci un po' di te. Sei come quei parassiti che si attaccano agli squali. Va bene essere spulciati, ma a volte hai bisogno di libertà. Non so se capisci quello che voglio dire.»
«Se volete che vi lasci in pace, dovete solo dirmelo, bastardi.»
«Scherzo! Lo sai. Ma non ti farà male incontrare gente nuova e farti una bella scopata.»
«Sì, amico, lo so. Sono stanco di piagnucolare negli angoli come un pezzente. Vediamo se conosciamo un trio di belle australiane bisognose di affetto. Che di spagnole sono a posto per un bel pezzo. Quello di cui ho bisogno è un po' di esercizio pelvico. Mi capisci», dissi, facendo un movimento avanti e indietro per niente discreto.
«Questo è il mio ragazzo! Lo diremo a Dámaso e ci organizzeremo.»
Mi alzai e andammo a raccontare a Dámaso i nostri progetti. Questo sabato avremmo perlustrato Singapore.
Il resto della settimana mi sembrò eterno. Intorno a noi tutti parlavano di quella grande festa spagnola. Tutti facevano progetti e ridevano pensando alle cose che avrebbero fatto. Noi tre andammo a correre con Diego un paio di pomeriggi per cercare di allentare la tensione e concentrarci su qualcos'altro per un po', ma tutti gli sforzi non ebbero successo; e sì che corremmo così tanto che ci fecero male le gambe per tutta la settimana. Anche la partita di basket del campionato aziendale fu solo una scusa per parlare della stessa cosa.
Finalmente arrivò il sabato. La festa era a tarda notte. Così la mattina mi alzai presto e andai un po' in palestra. Le gambe erano muscolose, ma c'era molto da lavorare sulle braccia. Poi andai con Diego a una sessione mattutina di film alla catena di cinema Golden Village, a soli quindici minuti a piedi dai nostri uffici. Erano sale cinematografiche con grandi posti a sedere, molto spazio per sgranchirsi le gambe e di tanto in tanto proiettavano serie di film classici. Stavano proiettando alcuni dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi e Diego ed io avevamo fatto l'abbonamento per vederli tutti. Vedere di nuovo Alien, Star Wars, Dune o Blade Runner su uno schermo gigante non aveva prezzo. Eravamo entrambi fan del genere.
Dopo il film, quel giorno in cui toccava Matrix, pranzammo in un fast food chiamato Mos Burger, che, come suggerisce il nome, era specializzato in hamburger. Era la settimana dell'hamburger giapponese e ne avevano alcuni con ingredienti molto strani come la salsa di soia o il miso. Comunque, non mi entusiasmò molto. Ovunque ci fosse un buon hamburger con salsa barbecue, formaggio, pomodoro e cipolla, lasciavo perdere quegli strani esperimenti. Poi ognuno di noi andò a casa sua per fare una bella doccia e prepararsi per la festa, che iniziava poco dopo, alle sette di sera.
Quando tornai a casa, Dámaso e Josele erano in piena effervescenza per i preparativi. Josele era davanti allo specchio del bagno con il suo parrucchino che gli dava un'aria da "Re" e Dámaso guardava i vestiti nell'armadio con tale concentrazione che sembrava stesse giocando la partita a scacchi più difficile della storia. Ne approfittai per fare la doccia e scegliere un completo elegante, ma non troppo. Non volevo stonare con l'ambiente, ma non volevo nemmeno sembrare un dandy. Quando fummo tutti pronti, scendemmo in strada, dove ci aspettava il taxi che avevamo chiamato, e andammo alla festa. In quindici minuti eravamo alla porta del locale.
L'ingresso era una struttura di vetro con le parole Avalon in lettere fluorescenti. Era attaccato a Marina Bay, quindi la vista sulla baia, incluso il grattacielo dove lavoravamo, era mozzafiato, con tutti quegli alti edifici illuminati. Niente da invidiare ai panorami notturni di Manhattan, a New York, da Brooklyn. Quando entrammo la festa era appena iniziata, quindi non c'erano ancora troppe persone e potevamo scegliere un buon posto in cui posizionarci. Alle feste succedeva la stessa cosa che nell'internet marketing. Le tre parole chiave erano posizionamento, posizionamento e posizionamento. Dentro aveva l'aria di un capannone industriale e con tutte le luci e la musica mi ricordava il movimento cyberpunk, molto simile all'ambientazione del film Blade Runner che Diego ed io saremmo andati a vedere la settimana successiva. In sottofondo, su una piattaforma con molti punti luce sul muro che si accendevano e si spegnevano in modo casuale, c'era il DJ che suonava musica elettronica o come si potesse definire. Il suo nome non significava niente per me, ma è vero che non ero molto aggiornato sulla musica. Anzi, non ne avevo proprio idea. Comunque, sembrava essere conosciuto qui perché quando venne presentato la gente impazzì.
Ci incontrammo con i colleghi che arrivarono un po’ alla volta fino a quando eravamo più di venti. Certo, solo cinque spagnoli: Teresa, Dámaso, Josele, Diego ed io. Era strano per me parlare inglese con i miei amici spagnoli, ma lo facevo per cortesia verso il resto delle persone che non parlavano spagnolo. Ci mettemmo a bere e ballare, ridendo e raccontando aneddoti divertenti che erano successi a loro in quella città. Alla festa, più dell'80% di noi doveva essere espatriato o, almeno, sembravamo occidentali. In molti dei gruppi di persone si sentiva parlare spagnolo.
Il nostro gruppo fu raggiunto da altri spagnoli che non conoscevo affatto. Due ragazzi e due ragazze. Dámaso, ovviamente, conosceva tutti e me li presentò.
«David, lui è Nacho. Non so se hai mai sentito parlare di un fotografo di nome Ignacio Ínsua.»
«No, ma non sono affatto esperto del mondo della fotografia.»
«Beh, non fa niente. è lui.» Josele lo aveva incontrato a una mostra fotografica qualche settimana prima. In Spagna aveva esposto in vari musei e centri d'arte. Poi una famosa attrice locale lo aveva notato e lui era venuto qui con lei per farle un book fotografico e da allora era ancora qui. «È il fotografo dei vip e dei grandi eventi di Singapore. Oltre ad essere un buon giocatore di golf, ovviamente.»
«Piacere di conoscerti, Nacho. Vedo che conosci già Dámaso. Spero di avere successo qui e che tu possa essere il mio fotografo, perché non credo che ci incontreremo sul campo da golf. Mi piacciono di più gli sport d'azione.»
«Certo, sarebbe fantastico. Un cliente spagnolo che possa pagare le mie tariffe per nulla modeste. Piacere di conoscerti, David.»
«Posso sempre pilotare una barca per un servizio fotografico in alto mare e ottenere dei soldi extra.»
«Dici sul serio? A volte facciamo dei book fotografici e spot sulle barche. Di tanto in tanto ho bisogno di un autista.»
«Certo», dissi, sorridendo a me stesso per l'uso della parola autista invece di pilota. «Ho il titolo di Capitano di Yacht. Amo la navigazione. Conta su di me ogni volta che vuoi. Tutto ciò che sia navigare in mare mi sembra fantastico.»
«Non lo dimenticherò.»
Dámaso proseguì con le presentazioni.
«Queste due bellissime brune sono fidanzate e si chiamano Elena e Raquel. Hanno una panetteria con prodotti senza glutine.»
«Ciao, due baci, giusto? Perché siete venute a Singapore?»
«Volevamo conoscere un altro Paese e abbiamo visto che qui avevano gli stessi celiaci di tutte le altre parti, ma pare che non abbiano molti negozi specializzati», spiegò Elena mentre davo due baci a Raquel.
«Avevo un amico celiaco a Madrid. Alcuni dei dolci che mangiava erano buoni quanto quelli normali. Non saprei distinguerli. Un giorno passerò al vostro negozio per provarli.»
«Quando vuoi», disse Raquel. «Ecco il biglietto da visita.»
«Grazie. Vedo che sei preparata. Brava, così mi piace. E tu come ti chiami?» chiesi rivolgendomi al quarto amico. «Sono sempre David ...», dissi sorridendo.
«Mi chiamo Pamos, Juan Pamos», rispose imitando lo stile di James Bond.
«Stai attento con lui, David», mi avvertì Dámaso. «È un playboy. Dovrebbe essere uno specialista di cinema, ma non so se ha mai iniziato la sua professione. I suoi genitori sono ricchi uomini d'affari che si occupano di questioni legate all'esportazione, ma va semplicemente di festa in festa e flirta con tutte le ragazze che può; anche se sono fidanzate. Rinuncia alle feste solo per giocare a golf con me e Nacho.»
«Golf? È chiaro come hai conosciuto i tuoi amici. Beh, sono solo qui, senza una compagna, e non sono una ragazza; quindi, non ho nulla di cui preoccuparmi. Forse puoi presentarmi a una tua bella amica ...», risi di gusto.
Restai un bel po' a chiacchierare con tutti, colleghi e nuove conoscenze. Più tardi, durante una passeggiata verso il bagno, un uomo con un accento inglese mi si avvicinò e mi offrì non so quale sostanza che non conoscevo ma che era senza dubbio una specie di droga. Rifiutai con decisione e proseguii per la mia strada. Non avevo mai preso droghe, nemmeno nei miei giorni più ribelli, né volevo iniziare adesso. Non mi piaceva che qualcosa controllasse la mia vita e quella era la strada giusta diventare schiavo della mia dose quotidiana. In questo ero molto radicale. Non fumavo nemmeno, anche se lo avevo fatto per un po', ma dovetti smettere perché era incompatibile con l'esercizio fisico che praticavo e, anche se bevevo, non avevo mai permesso che l'alcol mi facesse perdere il controllo di me stesso. A volte i miei amici mi prendevano in giro, soprattutto Dámaso, che si prendeva delle sbornie da campionato, ma mi era sempre piaciuto sentire di avere il controllo delle situazioni. Ero un po' ossessivo al riguardo.
Quando tornai, mi offrii di andare a prendere qualcosa da bere a Tere e al mio collega, il matto Jérôme. Mentre ero al bar ad aspettare che un cameriere mi servisse, una ragazza molto carina dall'aspetto thailandese o simile mi si fermò accanto. I suoi lunghi capelli castani erano pettinati in due trecce che le scendevano sul seno. Indossava un berretto di stoffa verde e una canotta verde. Con un viso tondo e un bel sorriso evidenziato con labbra dipinte di un colore rosso molto tenue. I suoi occhi erano marrone scuro, leggermente obliqui, ma non troppo sottili. Abbastanza alta, circa un metro e ottanta ed era magra. Non potrei dire di essermi innamorato a prima vista, sarebbe sciocco, ma i miei ormoni maschili iberici fecero un triplo salto mortale; soprattutto quando si voltò verso di me parlandomi in un inglese perfetto con una voce dolce e musicale che riuscii a sentire solo perché coincideva con un calo del volume della musica.
«Scusa, non ti sarò passata davanti?»
«No, certo che no! Non ti preoccupare. Sto ancora aspettando di essere servito. Ordina per prima, non devi far aspettare il tuo accompagnatore.»
«Il mio accompagnatore? No, sono da sola. Sono venuta con un'amica, ma è dovuta andare via ... Aspetta! Era una strategia per scoprirlo, giusto?»
«Beh, mi hai beccato», ammisi, sorridendole «Anche se trovo difficile credere che una donna così bella non abbia compagnia.»
Sembrò molto divertita dal mio commento e iniziò a ridere con una risata canterina che mi affascinò subito. Per qualche istante restammo in silenzio a guardarci.
«Scusa, non mi sono presentato», dissi, reagendo. «Il mio nome è David, sono uno degli espatriati spagnoli omaggiati da questa festa.»
«Spagnolo? Per il tuo inglese, pensavo fossi un americano...», affermò atteggiando la bocca ad un piccolo broncio.
«Questo perché mia madre è americana. Di Boerne, una cittadina di 10.000 abitanti in Texas vicino a San Antonio. Un paradiso escursionistico ricco di percorsi bellissimi, anche se non belli quanto te, che non ho mai visto in vita mia. Come ti chiami? Penso che ti sia dimenticata di dirmelo, o è un segreto?»
«No, no, non è un segreto. Mi chiamo Sumalee, Sumalee Sintawichai. In thailandese il mio nome significa bel fiore.»
«Bel fiore? Mi risparmierò il facile complimento, ma ovviamente è un nome perfetto per te. Dicono che la Thailandia sia il Paese dei sorrisi. Se tutti hanno un sorriso bello come te, deve essere davvero il Paradiso.»
«È difficile non sorridere ad un ragazzo come te», rispose.
Giuro che il sorriso che mi rivolse valeva una guerra. Era incantevole. Era chiaro che questa donna aveva catturato la mia attenzione.
«Hai detto Simalee Sintawachi?» gridai, cercando di sovrastare il rumore intorno a me. «Faccio fatica a memorizzarlo.»
«No, Sumalee Sintawichai», ripeté, avvicinandosi al mio orecchio per non dover urlare e facendomi venire la pelle d'oca. «Anche se per ora basterà Sumalee. Inoltre, non voglio che la tua testa esploda il primo giorno.»
Il primo giorno? Voleva che ci vedessimo di nuovo? Perché io sì lo volevo, questo mi era chiaro. Tutto il possibile. Una ragazza così carina l'avevo sempre voluta al mio fianco. Non replicai nulla al suo commento e la invitai ad unirsi a noi. Accettò con piacere a condizione che io non la lasciassi mai da sola. Non mi costò affatto accettare le sue condizioni e, una volta ordinato il bicchiere di Jérôme e quello di Tere, e uno che offrii a lei, andammo verso il gruppo. La presentai a tutti i miei colleghi e rimasi stupito di quanto fosse a suo agio di fronte a così tanti sconosciuti. Quando fu il turno di Dámaso, che era già ubriaco per l'alcol, lui cominciò a gridarle complimenti per farsi sentire ed io dovetti fermarlo.
«Stai fermo, bestia! Tieni a posto le mani se non vuoi che te le tagli. Conserva il tuo fascino per un'altra donna. Sumalee è con me stasera. Abbiamo fatto un accordo, giusto?»
«Certo che sì. Solo per te», disse mentre mi strizzava l'occhio maliziosamente e mi afferrava il braccio. «Oggi abbiamo deciso di non separarci nemmeno per un istante.»
Dámaso, Jérôme, Josele e Diego mi guardavano stupiti. Non sapevano se pensare che avessi vinto alla lotteria o se dietro tanta fortuna ci fosse una trappola. A me non importava, volevo solo che quella notte durasse per sempre. Mi sentivo euforico. Ero appena arrivato e avevo già conosciuto una ragazza. Era chiaro che i miei sette anni con Cristina non mi avevano fatto perdere la mia leggendaria abilità con le donne.
Passammo l'intera festa a parlare senza sosta. Ci sentivamo molto a nostro agio insieme, come se ci conoscessimo da sempre. Mi raccontò che lavorava in un'agenzia di viaggi, preparando viaggi organizzati principalmente per la Thailandia, il suo Paese, o per i thailandesi verso Singapore. Aveva dovuto andarsene perché sua madre era malata e lei aveva bisogno di guadagnare molti soldi per pagare le cure. In Thailandia aveva un buon lavoro, ma gli stipendi erano molto bassi ed era venuta a Singapore su consiglio di un'amica. Con quello che risparmiava, riusciva ad inviare a casa abbastanza soldi per le medicine della madre. Era originaria di una zona chiamata Chiang Rai, nel nord del Paese, quasi al confine con Myanmar e Laos. La sua famiglia era povera e aveva dovuto lottare molto per ottenere una borsa di studio e studiare Marketing all'Università di Thammasat. Dopo la laurea, aveva ottenuto un buon lavoro in una grande azienda, ma gli stipendi erano troppo bassi e questo l'aveva spinta a venire a Singapore, fortunatamente per me.
Avevamo molto in comune. Entrambi amavamo lo sport, viaggiare, leggere, provare cose nuove, l'avventura, tutto ciò che riguardava lo spazio ... Come se fossimo due anime gemelle. Non potevo credere alla mia fortuna. Quella notte prometteva di essere una festa.
Non so a che ora della serata arrivammo a quella situazione, ma quando me ne resi conto, continuammo a parlare con la sua mano destra appoggiata alla mia e accarezzata dalla mia mano sinistra. La sua pelle era molto morbida e sentivo un senso di oppressione al petto che mi rendeva difficile respirare. Inoltre, poiché la musica era davvero alta e c'erano molte persone che urlavano, dovevamo parlarci all'orecchio stando vicini, il che rendeva la situazione ancora più eccitante; quando mi diceva qualcosa, il suo respiro mi accarezzava il viso. Sembravamo due amanti che si raccontavano delle confidenze. Era difficile per me non voltarmi e iniziare a baciarla e accarezzarla, scatenando l'ardore che sentivo in tutto il corpo, ma non conoscevo le usanze del luogo e non volevo rovinare la serata.
Parlammo della mia famiglia, di cosa mi aveva portato a Singapore ... Mi fece infinite domande di tutti i tipi. Quanto tempo sarei rimasto a Singapore, se mi piaceva viaggiare... Sembrava un interrogatorio di terzo grado, ma lo accettai volentieri. Si dimostrò molto interessata quando le raccontai l'intera storia con la mia ex ragazza. Disse che le sembrava incredibile che una ragazza potesse lasciarmi per un altro uomo. Sumalee mi piaceva sempre di più. Era decisamente salita in cima alla lista delle mie persone preferite a Singapore.
Avevamo una tale complicità e fiducia che sembrava che fossimo stati insieme per tutta la vita. Mentre mi parlava, sentivo il profumo dei suoi capelli, che avevano una fragranza molto definita che in seguito lei mi disse essere gelsomino, e notai una strana sensazione che non provavo da molto tempo.
Era come se mi stessi innamorando, ma di sicuro non era quello, ma piuttosto l'attrazione sessuale del primo appuntamento. Sarebbe stata una pazzia. L'avevo appena conosciuta poche ore fa, venivo da una storia tragica, ma, anche se sembrava fatta per essere la mia anima gemella, non poteva essere così facile.
Aveva senso?
Singapore 6
La mattina seguente mi incontrai con Sumalee per trascorrere la giornata insieme. Lei si offrì di mostrarmi la città e di essere la mia guida personale, ed io pensai fosse una proposta fantastica. Era una professionista dei viaggi e molto più carina di Josele o Dámaso. Inoltre, i miei colleghi avevano un appuntamento con il fotografo della festa per giocare a golf ed era uno sport che non mi attraeva granché.
Nonostante fossimo rimasti alzati fino a tardi la sera precedente alla festa, ci incontrammo molto presto alla porta del tempio di Leong Nam, nel quartiere di Geyland, perché lei disse che voleva mostrarmi qualcosa che si vedeva meglio la mattina presto. Sabato ci eravamo scambiati i numeri di cellulare in caso di contrattempi e la prima cosa che feci appena sveglio fu guardare il mio telefono con la paura che lei avesse disdetto l'appuntamento; ma non c'era nessun messaggio da parte sua. Quando arrivai, lei stava già aspettando. Indossava un paio di blue jeans corti che non arrivavano nemmeno a metà coscia, una canotta turchese e un maglione molto sottile in un'altra tonalità di blu. Era bellissima e sapeva come mettere in risalto la propria bellezza. Quando mi vide in lontananza, sul suo volto comparve un sorriso incredibile e mi venne incontro di corsa. Mi diede un abbraccio e un bacio sulla guancia.
«Ciao, David! Avevo voglia di vederti.»
Pronunciava la "a" del mio nome con un delizioso mix di "a" e "i". Qualcosa come Daivid che suonava come musica paradisiaca per me.
«Buongiorno. Non hai idea quanto avevo voglia io. Non sono riuscito a pensare ad altro da quando ci siamo salutati ieri sera.»
«Che scemo! Non esagerare.»
«É così, credimi. Cosa mi farai vedere oggi? Mi tieni sulle spine.»
«Questo è il quartiere di Geylang. È uno dei meno evoluti di Singapore e mantiene la cucina più tradizionale della zona. Qui c'è il tradizionale mercato asiatico di Geylang Serai. È pieno di negozi di frutta e altri prodotti freschi, quasi tutti gestiti da malesi. La domenica mattina sono pieni di gente e di rumore, ma se arrivi presto hai tutto il mercato per te», spiegò con entusiasmo. «Amo venire quasi all'alba e passeggiare tra le bancarelle con il via vai degli ambulanti che le preparano e l'incredibile effluvio di un misto di frutta fresca che c'è prima che si riempia di gente e si confonda con il resto degli odori. È come camminare tra i frutteti. Mi ricorda alcune parti della mia terra.»
Si poteva vedere dalla sua espressione che le piacevano davvero quelle passeggiate.
«Mi sembra proprio bello. O forse sei un'ottima venditrice. Dai! Fammi da guida.»
Iniziammo a camminare tra i fruttivendoli lungo le strade principali e attraverso i lorong, come in malese chiamavano i vicoli laterali. Le case erano nello stile di quelle della zona indiana, basse, di due altezze e ciascuna di un colore. Ci fermavamo alle diverse bancarelle e Sumalee mi spiegava i diversi frutti tipici dei mercati di questa zona: la longan, bianca all’interno e che sembrava una patata fuori, il mango che già conoscevo, il mangostano, ancora più dolce del mango, e quello che più attirò la mia attenzione, il durian, con punte verdastre e delle dimensioni di un piccolo melone. Quando ne aprirono uno a metà, sembrava che l'interno avesse una polpa gialla.
«La cosa curiosa di questo frutto», spiegò Sumalee «è che ha un odore molto forte che ne impedisce il consumo sui mezzi pubblici e negli hotel per non dare fastidio alle altre persone. Annusa!», disse mettendomene un pezzo sotto il naso e costringendomi a muovermi velocemente per sbarazzarmi di quella puzza.
«Mi hai macchiato il naso.»
«Aspetta un attimo», disse Sumalee, tirando fuori un fazzoletto dalla tasca e pulendomi accuratamente. Non riuscivo a smettere di fissarla mentre lo faceva. «Ecco, a posto.» Qualcosa dentro di me rabbrividì a quel gesto.
C'erano anche molte bancarelle di pesce essiccato, rospi, razze o anguille. Tutto ciò che un occidentale può aspettarsi da un mercato orientale.
Sumalee aveva ragione. Era una passeggiata rilassante, con un misto di aromi dolci che ti trasportavano in campagna. Col passare del tempo si riempì di persone, pochissimi occidentali, e i rumori e gli odori cambiarono completamente, perdendo tutto il fascino iniziale.
«Beh, cos'altro puoi fare qui intorno?»
«Dipende da quello che ti piace. A sud c'è quello che chiamano il quartiere a luci rosse di Singapore, come quello di Amsterdam.»
«No grazie. Con una donna come te al mio fianco, non credo che potrei trovare niente di simile né nel quartiere a luci rosse né cercando in tutta Singapore. Nemmeno in tutta l'Asia.»
Per un attimo mi fissò senza dire niente. Era come se stesse cercando nella mia mente attraverso gli occhi. Temetti, per un momento, di averla offesa, ma non dissi nulla.
«Ci sono anche molti templi e il Malay Cultural Village. Un museo dove puoi vedere l'artigianato, ascoltare musica tradizionale e gustare la cucina tipica.»
«Dato che siamo in una zona malese, potremmo andare ad ascoltare della musica tradizionale e mangiare qualcosa di tipico, giusto? Sono un tipico turista. In effetti, ho letto una guida turistica durante il viaggio per arrivare qui.»
«Perfetto! Andiamo da quella parte.»
Con la mano destra afferrò la mia mano sinistra e mi spinse a seguirla. Per un istante, le strinsi forte la mano per assicurarmi che fosse lì.
Arrivammo al museo in pochi minuti. Era un complesso di diversi edifici bassi con tetti a coste, in stile molto orientale. All'interno c'erano rappresentazioni di oggetti e strumenti tipici della Malesia come carri trainati da buoi, esempi di artigianato e ogni tipo di informazione sulla loro cultura e gastronomia. C'era anche una casa visitabile allestita proprio come avrebbero dovuto essere quelle tradizionali. Si capiva che le piaceva viaggiare e imparare cose nuove, oltre che per lavoro, perché guardava tutto con la curiosità tipica di un bambino piccolo, stupendosi di tutto, emozionandosi per tutto. La visita mi piacque, ma non tanto quanto lei perché mi concentrai solo sul tocco della mia mano con la sua e sull'osservare affascinato tutte le espressioni sul suo viso. Aveva un volto angelico. Desideravo così tanto baciarla!
Quando finimmo la visita, lei mi disse che mi avrebbe portato a mangiare qualcosa di tipico di Singapore e mi lasciai guidare senza dire una parola. Invece di entrare dalla porta principale, mi condusse nel vicolo e bussò alla porta di uscita della cucina. Ero incuriosito. La porta fu aperta da un uomo panciuto con un grembiule sporco e che urlava con rabbia, ma quando vide Sumalee tacque e rientrò, chiudendo la porta con un forte colpo. Un minuto dopo si riaprì e apparve una ragazzina piccolissima, anch'essa thailandese, che si gettò tra le braccia di Sumalee. Iniziarono a parlare in thailandese e poi Sumalee mi fece cenno di avvicinarmi.
«Lui è David. David, questa è la mia amica Kai-Mook di cui ti ho parlato ieri sera. Anche lei è thailandese e lavora in questo ristorante. Preparerà il cibo per noi.»
«Piacere di conoscerti. Non devi preoccuparti, Sumalee non ha detto niente di male su di te», la rassicurai sorridendo.
«Anche a me. Entrare per scegliere lo Swikee.» Il suo inglese non era molto buono.
«Scegliere cosa?» guardai Sumalee.
«Entra e vedrai.»
La seguii in cucina e mi portarono in un posto dove c'era una ciotola gigante con un coperchio. Kai-Mook lo sollevò e dentro c'erano una dozzina di rane che saltavano per cercare di scappare dalla loro prigione di plastica.
«Rane?!», esclamai guardando Sumalee.
«Sì, sono considerate una prelibatezza tipica da queste parti. Preparano una deliziosa zuppa di rane, la Swikee.»
«Se lo dici tu ... La verità è che non le ho mai mangiate.»
Ero un po' titubante, ma non volevo sembrare schizzinoso, quindi scelsi le rane che volevo, quelle che ritenevo le più belle se possibile, e mi sedetti al tavolo che ci era stato assegnato per aspettare il cibo mentre parlavo con Sumalee di quello che avremmo fatto dopo. Non ci volle molto perché Kai-Mook comparisse con una zuppiera in mano. Quando la aprì e ci servì la zuppa di rane dovetti ammettere che sembrava molto appetitosa. Con strisce di peperoni rossi, qualcosa che sembrava coriandolo, peperoncino e qualcos'altro che non riuscivo a identificare.
Iniziai a mangiarla con un po' di apprensione, ma non appena assaporai il primo boccone tutte le mie paure svanirono. Era buonissima! Divorai avidamente il resto delle rane. Alzai la testa e vidi che Sumalee mi osservava divertita.
«È buona, vero?»
«Devo ammetterlo, questo è un piatto di lusso. Devo portare qui i miei amici. Resteranno stupiti.»
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Lo chef di questo ristorante prepara la zuppa di rana più saporita di tutta la città. Se vieni con loro chiedi di Kai-Mook e avrai il trattamento speciale della casa. Adesso ti conosce e si prenderà cura di te come se fossi io stessa.»
La guardai negli occhi mentre sospirava. Non sapevo che pazzia stessi facendo, ma stavo per dirle cosa cominciavo a provare per lei quandoKai-Mook ci interruppe avvicinandosi per chiedere com'era la zuppa. Le dissi la stessa cosa che avevo detto a Sumalee, che era deliziosa e lei tornò in cucina contenta. Anche il resto del pasto erano piatti sconosciuti, molto gustosi, ma nessuno come la zuppa. Ridemmo tutto il tempo e ci raccontammo storie divertenti che ci erano capitate durante i nostri viaggi.
Al termine del pranzo, Kai-Mook le diede una borsa. Non volle dirmi cos'era. Inoltre, non mi permise di pagare e insistette sul fatto che era il suo giorno come guida e che avrebbe sostenuto le spese. Le presi il viso e, guardandola intensamente, le diedi un bacio delicato sulla fronte mentre le mie dita le accarezzavano le tempie. Potei vedere come tremava quando feci questo gesto, non sapevo se per emozione o per rifiuto. L'importante era che non si allontanò da me. Un brivido di eccitazione attraversò il mio corpo al contatto con la sua pelle. In quel momento, sentii un bisogno quasi irrefrenabile di gettarmi su di lei e baciarla, ma riuscii a trattenermi. Non solo mi piaceva stare con lei e mi sentivo molto a mio agio, ma mi eccitava anche immensamente.
Uscimmo in strada. Lei andò dritta in un piccolo parco proprio di fronte e porse la borsa ad una donna che sembrava una senzatetto. La donna estrasse qualcosa da dentro e vidi che era del cibo. Chiacchierarono un attimo come se si conoscessero da sempre e poi continuammo per la nostra strada.
«È una donna in difficoltà. La conosco da altre volte in cui sono venuta a trovare Kai-Mook. Le porto sempre del cibo caldo in modo che possa mangiare bene almeno un giorno.»
Oltre ad essere carina, era anche una brava persona. Non smetteva mai di sorprendermi.
Le misi un braccio intorno alle spalle e prendemmo l'autobus per l'East Coast Park, nel sud-est dell'isola. Avevamo deciso di cambiare completamente panorama e volevo vedere un po' d'acqua e là c'erano le spiagge, le palme e il mare. Un luogo perfetto per conoscere un po' di più Sumalee.
Quando arrivammo scendemmo per uno dei sentieri che entravano nel parco. Sumalee rimase pensierosa per un momento, poi si voltò verso di me.
«Sai andare sui pattini?»
«No, non ho mai provato. Da bambino ho provato un po' con lo skateboard, ma il mio equilibrio non era molto sviluppato, quindi ho rinunciato presto.»
«Beh, allora un altro giorno ti mostro come si fa. E andare in bicicletta?»
«Questo sì, certo.»
«Beh, noleggeremo delle biciclette per visitare il parco, ti va?»
«Perfetto!»
Detto, fatto. Andammo al noleggio e sebbene si potessero scegliere biciclette tandem e risciò con tettuccio, optammo per due bici rosse tradizionali per il resto della giornata. Apparentemente era un'attività popolare, perché il parco era pieno di ciclisti e persone che pattinavano. C'era una corsia con due direzioni chiaramente contrassegnate. Sumalee mi spiegava tutto mentre pedalavamo con calma.
«Il parco è suddiviso in diverse aree. In base alla zona puoi fare una cosa o l'altra. A Singapore sono molto organizzati, lo scoprirai.»
«Sì, me ne sto rendendo conto.»
«Qui a destra c'è la zona barbecue. Molte famiglie e gruppi di amici vengono qui per lo più nei fine settimana. Ci sono anche molti ristoranti e caffè se preferisci non lavorare. Ma devi prenotare. Può essere fatto online.»
«Come hai detto tu», affermai sorridendo, «molto organizzati. E questa?»
«Questa è l'area degli sport acquatici. È possibile noleggiare kayak, sci nautico, fare immersioni e molto altro ancora. Ti piacciono questi sport?»
«Sì, moltissimo. E a te?»
«Non ho provato molto spesso, ma potremmo provarci insieme.»
«Ce l'ho in programma da quando ho saputo che sarei venuto qui.»
«Ora stiamo raggiungendo l'area abilitata a giocare sulla sabbia. È molto tipico per le persone costruire castelli. Guarda!»
Ci fermammo un attimo per osservare un gruppo di giovani che aveva appena finito di costruire un enorme tempio di sabbia. Doveva essere alto quasi due metri e largo quattro. Nessuno di noi due riconobbe l'edificio, ma Sumalee mi disse che lo stile era molto simile ai templi di Angkor in Cambogia. C'erano parecchie persone che scattavano delle foto. Sumalee mi spiegò che un'altra attività tipica nel parco era la fotografia. Un'altra cosa che abbondava era la gente che correva. Era come il parco del Retiro di Madrid, ma grande quasi il doppio, con il mare e più possibilità. Certo, molto suddiviso e con ogni cosa al suo posto. Anche troppo artificiale. Tornammo in sella e continuammo a muoverci. Passammo davanti ad un edificio con il logo di Burger King. Questo mi fece sorridere ironico. Non importa quanto si creda di essersi allontanati dal proprio ambiente, si scopre sempre che la presunta "civiltà" ci ha preceduti.
«Sumalee, quello cos'è? Un campeggio?»
«Sì, ci sono un paio di aree predisposte per il campeggio. Puoi anche prenotarle online …», mi rispose ridendo.
«Non ne dubitavo», affermai pensando a quanto mi piacesse il suono della sua risata.
Pedalammo per un paio d'ore, percorrendo i quindici chilometri di costa e fermandoci di tanto in tanto per commentare qualcosa, riposare o sostare in un chiosco per bere qualcosa. Uno di questi vendeva ostriche per un dollaro, quindi ne mangiammo un paio a testa. Da bere, consigliato da Sumalee, ordinai un paio di birre Tiger, che avevano una tigre come logo ed erano tipiche del luogo, di colore oro pallido. Era una birra abbastanza leggera e mi piacque. Non poteva essere altrimenti, brindammo a tanti giorni uguali a questo.
Vedemmo persone pescare sui moli, famiglie, coppie innamorate, amici che facevano grigliate, lunghe spiagge sabbiose che andavano da una decina di metri ad uno solo con palme e altri tipi di alberi sullo sfondo, anche se la sabbia non era eccezionale. Comunque, per terra c'erano un bel po' di bottiglie di plastica e il mare era sempre pieno di grandi navi da carico. C'era anche una pista di pattinaggio con ostacoli, aree con attrezzi ginnici, campi da pallavolo, panchine coperte per riposarsi, sentieri stretti di grandi pietre piatte dove si poteva solo camminare ... e tante mappe per guidarti lungo il percorso. Le possibilità erano incredibili, anche se la manutenzione e la pulizia non erano così meticolose come mi aspettavo. Sumalee mi disse che prima era ancora meglio prima ma era peggiorato un po' di recente. Mi divertì molto un cartello che vietava di puntare puntatori laser sugli aeroplani. Gli aerei passavano molto vicini al suolo perché l'aeroporto Changi non era lontano da lì. Un'altra osservazione negativa che si poteva fare al luogo era l'eccesso di persone in quasi tutti i posti, anche se bisognava tener conto che era domenica, giorno di massimo afflusso di pubblico. In teoria, il resto dei giorni doveva essere molto più tranquillo.
Stanchi di andare in giro, ci fermammo in una zona della spiaggia dove non c'era nessuno. Era già tardi e la gente tornava a casa. Domani era lunedì e bisognava lavorare. Ci togliemmo le scarpe, avvicinandoci al mare. Eravamo proprio sulla riva dove l'acqua delle onde di tanto in tanto ci accarezzava i piedi.
«L'acqua in questa zona è solitamente sporca, non è molto consigliabile fare il bagno, anche se abbiamo visto qualcuno farlo», mi avvisò Sumalee. «In ogni caso, non ti permettono di nuotare troppo lontano dalla riva.»
«Sporco? C'è qualcosa di sporco a Singapore? Questa sì che è una novità. Anche queste spiagge hanno bisogno di essere pulite.»
«Vero? È a causa di tutte quelle barche che vediamo lì. Anche così, a volte vengo qui, mi siedo e mi perdo a guardare l'azzurro del mare. So che dall'altra parte c'è la mia terra, la mia casa, mia madre.»
Guardai Sumalee. Per un attimo diventò malinconica e sembrò sul punto di piangere. Le misi un braccio intorno alla spalla e la strinsi delicatamente contro di me.
«Deve essere difficile stare lontano da lei così a lungo e, soprattutto, sapendo che ha bisogno di te. Devi pensare che tutto questo è per lei e che, quando avrai saldato il tuo debito, potrete stare insieme per sempre e sarai stata tu a salvarla.»
«Sì, quando avrò saldato il debito», disse con un sospiro. «Anche se questo significa prendere decisioni che non sempre mi piacciono.»
«Quali decisioni?»
«Eh! Niente, niente. Cose mie.»
Restammo abbracciati per un po', senza dire niente. Sulla riva del mare si vedevano un catamarano e alcuni kayak gialli che noleggiavano nel parco. Più lontano c'erano dozzine di mercantili, tutti grandi o molto grandi. Suppongo che se qualcuno avesse svuotato i propri rifiuti nell'acqua o avesse avuto qualche perdita di benzina, sarebbe stato sufficiente per lasciare l'acqua in cattive condizioni, non importa quanto fossero attenti e quanta pulizia ci fosse.
La luce del sole stava chiaramente iniziando a tramontare. Cominciava a fare buio. Secondo l'orario del parco, c'era solo l'illuminazione dalle sette del mattino alle sette del pomeriggio. Presto saremmo stati al buio e dovevamo tornare indietro perché non volevamo dover rifare la strada percorsa con le biciclette senza luce.
Sumalee si avvicinò un po' di più a me e sentii la sua testa sfiorare il mio corpo. Mi feci coraggio e cercai la sua mano con la mia. Non mi ci volle molto per trovarla e stringerla forte. Lei ricambiò. Non importava la spiaggia sporca, l'acqua malsana o tante barche che rovinavano il paesaggio. Il cielo arancione, il silenzio intorno a noi rotto solo dal canto di un uccellino e dalla sua mano stretta alla mia, era il paradiso.
Mi voltai nervosamente verso di lei e con l'altra mano la presi delicatamente per il mento e le sollevai un po' la testa in modo che ci guardassimo negli occhi a pochi centimetri l'uno dall'altra. Mi guardava seria, intensamente, in attesa. Abbassai la testa e posai le mie labbra sulle sue. Lei le aprì leggermente e io presi il suo labbro inferiore tra le mie. Lo assaporai per un secondo e poi lentamente mi allontanai, lentamente lasciandolo andare. Per un momento pensai che Sumalee mi avrebbe dato un altro bacio, ma improvvisamente l'espressione sul suo viso cambiò.
«Noi ... dobbiamo andare», disse con voce tremante.
«Credo di sì, anche se non sarà perché voglio muovermi da qui. Prolungherei questo momento per sempre.»
Sumalee non rispose. Si voltò e mi tirò la mano per seguirla. Salimmo sulle bici e tornammo all'ingresso il più velocemente possibile. Anche così, gli ultimi minuti li facemmo quasi al buio.
Restituite le bici, andammo alla fermata dell'autobus mano nella mano senza dire una parola. Dovevamo prendere autobus diversi. Il primo ad arrivare fu il suo. Quando l'autobus arrivò alla fermata lei mi diede un bacio morbidissimo sulla guancia, mi accarezzò il viso con una punta di tristezza negli occhi e salì a bordo. Sul predellino si voltò e mi disse,
«Sentiamoci per vederci di nuovo. Abbi cura di te.»
«Anche tu, Sumalee. Tutto bene?»
Si voltò senza rispondere e trovò un posto a sedere. Guardai il suo autobus allontanarsi con una strana sensazione. Un misto di euforia per il bacio che ci eravamo dati e confusione per il suo atteggiamento in seguito. Non sapevo davvero cosa aspettarmi. Non aveva rifiutato il bacio, l'aveva addirittura ricambiato, ma qualcosa l'aveva fermata dopo, non mi aveva più guardato ed era pensierosa, direi quasi che era angosciata. Eppure, aveva detto di rivederci. Come interpretare tutto ciò? Forse non voleva baciarmi perché non provava quello che provavo io, ma non era in grado di dire di no, forse il bacio le aveva ricordato una persona cara del passato che aveva perso ... Forse nella loro cultura era sbagliato baciarsi così presto. Non ne aveva idea.
Dovevo scoprirlo, dovevo sapere. Ora riuscivo solo pensare a come sarebbe stata la prossima volta che ci saremmo incontrati: la solita Sumalee allegra e sorridente o quella sconsolata e rattristata che mi aveva appena salutato.
Non vedevo l'ora di conoscere la risposta.
Thailandia 14
Ero seduto nel cortile a guardare gli allenamenti di Muay Thai. Pensavo che la cosa peggiore della prigione fosse la noia. Tante ore da solo, senza niente da fare, senza nessuno con cui condividere, nemmeno un pensiero, quando fu avvicinato da un uomo grosso, calvo con una faccia sconvolta che avevo visto altre volte andare in giro. Aveva una lunga cicatrice mal guarita che gli correva dall'occhio sinistro fino al centro della testa. Non interagiva molto con il resto dei prigionieri e nessuno sembrava volersi avvicinare troppo a lui. Sembrava che fosse piuttosto malato alla testa. Stava di fronte a me ondeggiando da una parte all'altra e mi fissava con occhi spalancati e fermi. Non sapevo davvero cosa pensare. Se stava per picchiarmi anche lui o se si divertiva a guardarmi. In ogni caso faceva spavento. Dopo alcuni secondi, si rivolse a me con un forte accento australiano.
«Cosa gli hai fatto?»
«Come?»
«Sì, cosa hai fatto a quei maledetti gialli per farti trattare così?» chiese di nuovo, annuendo al gruppo di bulli che chiacchieravano dall'altra parte del cortile.
«Niente, per quanto ne sappia io. Non ho fatto niente a nessuno in prigione. Dato che non sono fratelli di quella puttana che mi ha messo qui...»
«Sì, allora è strano che ti perseguitino in questo modo, no?»
«Penso di sì, ma cosa posso fare?»
«Niente, credo.»
«Non è che mi importi se chiacchieri con me, anzi, lo apprezzo molto, ma non hai paura che se la prenderanno anche con te anche per avermi? Nessuno vuole avvicinarsi a me per questo.»
«Con me? Credo di no. Da quando sono arrivato qui ho interpretato il ruolo di un pazzo pericoloso capace di tutto e, da allora, nessuno si mette contro di me. E sono qui da molti anni.»
«E come ci sei riuscito?» gli chiesi, anche se pensavo davvero che non dovesse essere difficile per lui fingere di essere un pazzo pericoloso. Lo sembrava proprio. «Perché mi farebbe comodo.»
«Il primo giorno in cui un fottuto giallo si è messo davanti a me con arroganza ho iniziato a urlare come un pazzo e gli sono saltato addosso, colpendolo, mordendolo, tirandogli i capelli ... Come se un demone stesse guidando il mio comportamento. Per poco non l'ho ucciso. In effetti, in quella rissa mi sono procurato questa cicatrice quando i suoi amici sono intervenuti per difenderlo. Lui ha avuto la peggio, te lo assicuro» affermò con uno sguardo sadico e un mezzo sorriso sul volto. «Ho passato un periodo in isolamento, ma quando sono uscito fuori, tra la mia faccia poco amichevole e la fama che la lite mi ha procurato, nessuno ha più incrociato la mia strada. Ogni tanto faccio qualcosa di sciocco o ringhio a qualcuno in modo che non dimentichino che sono capace di qualsiasi cosa e basta. Se mi vedono con te penseranno che sia un'altra eccentricità del folle farang. A proposito, mi chiamo James», si presentò allungando la mano.
«David, piacere», risposi, dandogli la mano a mia volta. «Cosa significa farang?»
«È come gli stupidi locali chiamano noi occidentali. Non so se significhi straniero, bianco o demone, ma non mi interessa. E un'altra cosa, non confonderti, solo perché parlo con te non significa che farò qualcosa per aiutarti quando ti attaccheranno. Una cosa è che mi piace rompergli un po' le palle e un'altra che le suonerò a quei cinesi per te; non me ne frega un cazzo di te.»
Era chiaro che il mio nuovo amico non teneva i thailandesi in grande considerazione, per non dire che sembrava piuttosto razzista, ma non che io avessi molta scelta. È stata la prima persona che osava interagire con me da quando ero entrato qui. In una situazione normale gli avrei voltato le spalle dopo avergli detto cosa pensavo dei razzisti, ma non ero in una situazione normale. In effetti, era esattamente l'opposto. E non ero del tutto in disaccordo sul fatto che ci fossero alcuni thailandesi che meritavano di morire. Almeno alcuni.
Continuammo a parlare di banalità per un po'. Rise dei prigionieri che si stavano allenando, urlando loro come se fosse nella finale del campionato mondiale di wrestling e avesse scommesso tutti i suoi soldi sull'esito del combattimento. Alcuni si fermarono per vedere chi gli stava urlando in quel modo, ma quando videro che era lui, continuarono a farsi i loro affari. Non mi andava affatto attirare l'attenzione e mettevo la testa tra le gambe in modo che non mi riconoscessero.
Trascorse anche alcuni minuti imprecando sul numero di neri in prigione. Secondo quanto mi raccontò, quasi tutti erano nigeriani e tutti per spaccio di droga. C'era molto traffico di droga con la Nigeria. Tuttavia, il leader di tutti loro non era nigeriano, questo è certo, anche se nessuno sembrava conoscere la sua origine. Era anche un uomo di colore, grosso e forte, con una curiosa cicatrice a forma di mezzaluna sul viso e che tutti sembravano temere. Anche James. A quanto pare era un mercenario africano, un ragazzo di guerra costretto a combattere e uccidere fin dalla tenera età e non era uno sciocco. Sembrava molto calmo, ma, se necessario, era molto violento e non sembrava temere niente e nessuno. Circolavano molte voci su di lui, anche se nessuno sapeva quali fossero vere o false: che fosse stato costretto a uccidere suo fratello quando era stato arruolato con la forza in un gruppo armato all'età di undici anni, che due anni dopo uccise il capo che aveva ordinato l'attacco e lo nominarono leader, che era un assassino mercenario, che era stato proprietario di schiavi nella guerra del Congo, che aveva mangiato il cuore delle sue vittime, che aveva violentato centinaia di uomini e donne, inclusi minori, che si divertiva a uccidere con le sue stesse mani, che una volta aveva bruciato vivo un intero villaggio solo perché non volevano dirgli dove si nascondeva una persona che stava cercando, che aveva trafficato con tutti i tipi di prodotti illegali... Tante atrocità... E a guardarlo, nessuna di esse mi sembrava inverosimile. Faceva molta paura. Molta. Fortunatamente, mi ignorava completamente.
Quando James si stancò di maledire tutti, si alzò e se ne andò come era venuto, senza dirmi niente. Lo guardai allontanarsi, sentendomi in parte sollevato per essere riuscito a parlare con qualcuno dopo tanto tempo.
In quella situazione ero soddisfatto anche solo per questo.
Singapore 7
Quando tornai a casa, Dámaso e Josele mi chiesero subito dell'appuntamento. Ci sedemmo in soggiorno e raccontai loro cosa avevamo fatto, dove eravamo andati e, soprattutto, cosa era successo alla fine sulla spiaggia. Entrambi pensarono per un momento. Josele fu il primo a parlare.
«Sono sicuro che sia una tua paranoia. Vorrà solo andarci piano.»
«Non lo so, Josele. Voi non c'eravate. C'è stato qualcosa di più. Ad un certo punto sembrava che stessimo per continuare a baciarci e qualcosa le è passato per la mente e si è tirata indietro. Sono sicuro che voleva farlo, ma non riesco a capire cosa abbia potuto fermarla. Forse ha qualche tipo di malattia contagiosa, non so cosa pensare.»
«Ma dai, asino! Di sicuro è qualcosa di molto più semplice di quello. Di solito le cose sono più semplici di quanto pensiamo, siamo noi a complicarle. Di sicuro è quello che dici delle consuetudini nel suo Paese o qualcosa del genere.»
«Sono d'accordo con Josele», affermò Dámaso. «La incontrerai la prossima settimana e vedrai che si sistemerà tutto.»
«Spero abbiate ragione. La conosco da soli due giorni, ma questa ragazza ha qualcosa di speciale che mi fa impazzire.»
«Ti starai innamorando», disse Josele.
«Che stupidaggine! Come posso essere innamorato se l'ho conosciuta ieri? Tutto quello che cercavo era una ragazza con cui divertirmi.»
«Beh, mi dirai», rispose Josele. «La prima sera niente di niente, ieri un piccolo bacio e oggi stai già in ansia ... Amico, hai un problema.»
«Sì, lo so cos'è», sussurrò sarcastico Dámaso. «L'ho notato anche quando ce l'hai presentata ieri ... Ha degli argomenti molto convincenti», disse, scoppiando a ridere.
«Sei proprio uno stronzo!»
Tutti e tre ridemmo di gusto. Un po' di sciocchezze ci volevano. È vero che era una bella ragazza con un corpo incredibile. È chiaro che era la prima cosa che avevo notato quando l'avevo vista al bar. Ma mentre parlavo con lei sabato alla festa, mi ero reso conto che quasi certamente era ancora più bella dentro che fuori e che poteva darmi molto. Mi sentivo dire queste sciocchezze e riso pensando che non poteva essere che mi fossi innamorato in soli due giorni. Forse era a causa dell'umore triste che mi portavo dalla Spagna a causa della mia precedente rottura. Poi Dámaso mi sorprese con la storia di una ragazza singaporiana con cui Josele aveva flirtato.
«E la incontrerai di nuovo?» chiesi.
«Lei? Non solo non ho il suo numero di telefono, ma non so nemmeno il suo nome. Con questi nomi strani...» Josele non riusciva a smettere di ridere.
Ridemmo di nuovo di cuore. Josele era un incurabile Casanova. Dámaso non disprezzava una buona occasione se gli capitava, ma era più attratto dalla festa, da qualsiasi sport in cui si poteva scommettere, abbronzarsi e giocare a golf.
Andai a letto presto perché il giorno dopo era lunedì e bisognava lavorare, ma non riuscii a dormire per tutta la notte. Mi rigiravo nel letto guardando il mio cellulare per vedere se mi scriveva un messaggio o chiedendomi se dovessi scriverle io per primo. Decisi di non farlo perché non volevo sopraffarla, ma il desiderio non mi mancava.
Quando fu ora di alzarsi, avevo dormito a malapena un paio d'ore di tanto in tanto. Ogni volta che mi svegliavo, controllavo rapidamente il mio telefono per qualsiasi novità. Cercai di convincermi che non fosse così male, ma non c'era modo. Andammo in ufficio e facemmo colazione in mensa con Diego, Tere, Jérôme e una timida ragazza di Pechino di nome Aileen Meng. Da quando avevo saputo che Diego e Tere stavano insieme, non riuscivo più a guardarli come prima. Adesso mi sembrava che ci fossero continui gesti di complicità tra loro. Non potevo fare a meno di sorridere quando li vedevo insieme. Invidia, forse.
Jérôme e Diego raccontarono una storia che sembrava molto divertente per il modo in cui tutti ridevano della faccia che un turista americano aveva fatto quando lo avevano multato di mille dollari perché masticava chewing gum. La gomma da masticare era bandita a Singapore. L'uomo aveva cercato di discutere con il poliziotto sul significato del divieto, nominando libertà individuali e molte altre idee più tipiche dei film che della realtà di Singapore. Mi sforzai di sorridere quando notai che gli altri lo facevano, ma ero troppo distratto. Alla fine, mi sembrò un buon momento per parlare con Sumalee. Mi allontanai dagli altri e le scrissi un messaggio sul cellulare, a cui rispose quasi immediatamente.
«Buongiorno.»
«Ciao!»
«Posso chiamarti?»
«Sì, certo.»
Uscii dalla mensa e la chiamai mentre camminavo per i corridoi.
«Come stai?»
«Bene, e tu?»
«Molto stanco, non sono riuscito a dormire.»
«Come mai?»
«Pensando a ieri.»
«È stato bello, vero?»
«Sì, mi sono divertito molto, ma mi hai lasciato un po' perplesso.»
«Come mai?»
Era arrivato il momento della verità. Il mio motto in questi casi era, la sincerità ti porta dove dovresti essere o dove finirai per essere, quindi prima è, meglio è. Con tutte le conseguenze.
«Non lo so, mi piaceva baciarti, lo volevo davvero, ma poi ho avuto la sensazione che qualcosa ti abbia frenata. Forse sono stato precipitoso e non dovevo prendere l'iniziativa così presto. Ci conosciamo solo da due giorni ...»
«No, no, no. A me è piaciuto molto.»
«Allora perché quella faccia dopo?»
«Niente ... Ero stanca e si stava facendo troppo tardi per poter lasciare il parco con la luce. Solo questo.»
«Sicura? Sumalee, non voglio farti pressioni. Possiamo andare al ritmo che vuoi, ma ho bisogno che tu sia sincera. Odio le bugie, nel bene e nel male.»
Per un momento non disse nulla. L'attesa mi faceva impazzire.
«Sumalee?»
«Sì, sì. Non era davvero niente. Ho adorato il bacio. È stata una giornata molto divertente con un finale davvero speciale.»
«Anche a me è piaciuto molto. Tutto, voglio dire. Non solo il bacio. Il mercato, il cibo delizioso al ristorante della tua amica Kai-Mook e il giro in bicicletta nel parco ... e ovviamente il bacio. É stata la cosa migliore. Vuoi che ci rivediamo?»
«Certo!» rispose con la voce gioviale che mi piaceva tanto sentire, «ma non posso fino a mercoledì. Ho molto lavoro.»
«A mercoledì! Va bene, va bene. Cercherò di resistere fino ad allora. Se vuoi, posso invitarti a cena.»
«Mi sembra un'ottima idea. Dove?»
«Beh, te lo dico domani o mercoledì mattina. Devo trovare un bel posto all'altezza del ristorante della tua amica.»
«Ottimo, ne riparliamo. Ti devo lasciare, ho dei clienti stanno entrando in agenzia. Un bacio.»
«Un altro per te.»
Udii il suono del bacio al telefono. Sebbene fosse virtuale, aveva il sapore della vittoria. Non ero sicuro di quale conclusione trarre dalla conversazione perché all'inizio lei sembrava riservata e cauta, ma poi era tornata la Sumalee allegra. Alla fine, uno crede quello che vuole credere. Misi il telefono in tasca e mi avvicinai al mio tavolo con un sorriso da un orecchio all'altro desiderando che il tempo passasse il prima possibile per poterla vedere mercoledì. Quando raccontai ai miei coinquilini di cosa avevamo parlato, subito si congratularono con me per aver capito che non stava succedendo nulla e Josele si assunse il compito di trovare un ristorante dove potevo portarla.
La giornata passò volando. Mi sembrava di galleggiare su una nuvola. Ogni volta che chiudevo gli occhi ricordavo il bacio e rivivevo il tocco morbido delle sue labbra sulle mie. Mi veniva la pelle d'oca solo a pensarci.
Jérôme, Dámaso e altri colleghi andarono a bere qualcosa dopo il lavoro. Dato che non avevo molto altro da fare, mi unii a loro. Eravamo in un pub che sembrava uno di un qualunque angolo di Londra, con la differenza che metà della clientela era di origine asiatica. E che l'alcol era molto costoso. Molte persone bevevano all'aperto, che era legale e si faceva principalmente su uno dei ponti che collegavano l'area di Clark Quay, la zona della vita notturna per eccellenza per i turisti, oppure andavano da un hawker per comprare bottiglie di birra Tiger. In seguito, andavano già in discoteca con l'alcol in corpo, come facevo io a Madrid da giovane. Nel nostro caso, che vivevamo con la casa pagata, i soldi non erano un problema.
Organizzammo subito un campionato di biliardo e freccette che mi fece divertire fino al mio ritorno a casa. Là mangiai qualcosa dal frigo e andai a letto presto. Senza aver dormito la notte prima e con tanta baldoria, il mio corpo crollava dal sonno. Poco prima di andare a letto scrissi a Sumalee per augurarle la buona notte. Lei mi mandò un disegno di una ragazza orientale che manda un bacio che mi fece provare euforia e calore e gliene mandai un altro uguale. Quella notte dormii come un bambino.
Il giorno dopo mi svegliai pieno di energia. Andammo a lavorare, ma scesi dall'autobus un paio di fermate prima. Volevo muovermi un po'. Ne avevo bisogno. Inoltre, in questo modo potevo vedere un po' la città. La strada era piena di occidentali che si recavano al lavoro. Questo non mi stupiva considerando che il 40% della popolazione di Singapore era composta da espatriati.
Trascorsi la giornata a lavorare senza sosta trascinando in giro per l’ufficio con la mia energia il povero Jérôme, che non era andato a letto presto come me e aveva un mal di testa post sbornia. Alla fine della giornata ero ancora iperattivo, ma non riuscii a convincere nessuno a fare qualcosa di interessante tranne Dámaso a giocare a tennis, così tornammo a casa e passammo più di un'ora a correre in campo. Dámaso mi diede una batosta, ma non mi importava. Tutto ciò di cui avevo bisogno era sfogarmi un po'. Lui invece continuò a ricordarmi la sconfitta per diversi giorni, rimpiangendo di non aver scommesso prima di iniziare.
Un collega americano, Sam, mi suggerì un posto che pensavo fosse fantastico per il mio appuntamento con Sumalee il giorno successivo. Avendo risolto il problema del ristorante, non avevo altre cose da fare, così chiamai mia madre, le raccontai come erano stati quei giorni, senza dire niente di Sumalee in modo che non iniziasse con un film con un matrimonio e tanti nipoti, e passammo il resto del pomeriggio-sera, noi tre, giocando a poker Texas hold'em in soggiorno, con Shen, un simpaticissimo singaporiano di origine cinese che era un nostro vicino di casa. Lì riuscii a pareggiare la sconfitta a tennis e, per inciso, a pagarmi parte della cena del giorno successivo. Dámaso non la prese molto bene, era troppo competitivo. Continuava a dire che era da settimane in una serie negativa, anche se non sapevamo di cosa stesse parlando perché era la nostra prima partita. Ovviamente pagò quello che doveva.
Avevo voglia di sentire Sumalee prima di andare a letto, così la chiamai.
«Buonasera, Sumalee.»
«Ciao Davichu!»
«Come fai a sapere di Davichu? Non è nei libri.»
«Credi che io non possa indagare per conto mio?» chiese con espressione innocente. «Ho parlato di te con la mia collega di lavoro portoghese, che parla spagnolo e ha vissuto in Spagna molti anni.»
«Ah, sì? E cos'altro ti ha detto?»
«Delle cose sugli spagnoli. Te ne parlerò quando ci incontreremo. Mi ha anche insegnato a dire ciao in spagnolo: houla.»
«Quasi, quasi», commentai sorridendo. «Dille di correggere la tua pronuncia e vediamo se domani lo dici bene.»
«Sai già dove mi porterai?»
«Sì, non so se ci sei stata, ma mi sembra un posto molto originale e mi ricorda il mio Paese.»
«Dove?»
«È una sorpresa, o almeno lo spero. Lo saprai domani.»
«Non lasciarmi così! Dammi almeno un indizio ...»
«Okay. Dovrai guadagnarti da mangiare.»
«Cosa?»
«Questo è l'indizio, bella. Se ti rendo le cose troppo facili, rovinerai la mia sorpresa.»
«Va bene, va bene. Dove ci vediamo?»
«Che ne dici delle 19:30 alla fermata della metropolitana Seng Kang?»
«Così a nord? La curiosità mi uccide, ma resisterò fino a domani. Per me va bene! Arrivo appena esco dal lavoro.»
«Anch'io. Ci vediamo domani allora. Un bacione.»
«Un bacio, David.»
Sogni d'oro Sumalee, pensai mentre spegnevo il cellulare. Sogni d'oro.
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