Spezia
Robert A. Webster
Un'avventura emozionante, imprevedibile, e a volte esilarante. Vi porta da un ristorante elegante di Londra alle giungle selvagge dei Monti Cardamomi, dove un pasticcere inglese e un rifugiato cambogiano cercano una famiglia scomparsa e tentano di trovare una pianta mitica, fonte di una spezia incredibile e unica. Ben Bakewell è un Maestro Pasticcere presso uno dei ristoranti più pregiati di Londra. Meglio noto come Cake, stringe amicizia con Ravuth, un rifugiato cambogiano fuggito dai campi di sterminio in Cambogia e scappato in Inghilterra negli anni 70 dagli Khmer Rossi che hanno depredato il suo paese. Da ragazzino Ravuth incappò in una pianta sconosciuta, la fonte di una spezia incredibile e unica. Venne separato dalla propria famiglia a causa degli Khmer Rossi, e trascorse la maggior parte della propria vita a cercarla, facendo ritorno in Cambogia insieme a Cake per mettersi sulle tracce della pianta rara e dei propri cari sperduti. Una volta giunti in Cambogia trovano un alleato in uno sventurato ex agente della DEA deciso a vendicarsi, il quale deve trovare la pianta per scopi ben più sinistri. Si addentrano nei meandri più remoti della spietata giungla dei monti Cardamomi, da dove ne escono vivi per miracolo. Troveranno la famiglia di Ravuth e la fantastica Spezia?
SPEZIA
Robert A Webster
SPEZIA
Scritto da Robert A Webster
Copyright © Robert A. Webster 2020
Tradotto da Giulia Bussacchini
Pubblicato da TekTime
Cover design © Robert A Webster 2019
Tutti i diritti riservati.
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Prefazione
L’oscurità scenderà sugli abitanti della Cambogia.
Ci saranno case, ma saranno vuote.
Sulle strade non viaggerà nessuno.
Regneranno i barbari senza religione.
Il sangue scorrerà così a fondo da raggiungere il ventre dell’elefante.
Sopravvivranno solamente i sordi e i muti.
Antica Profezia Cambogiana
-1- Paura e Delirio
Rotha sbirciò dalla porta del capanno. Sorrise, poi si portò alcune ciocche di capelli neri dietro le orecchie e scese i gradini di legno scricchiolanti per raggiungere i suoi figli. “Ravuth, tu e tuo fratello andate a prendere il tror bek per la zuppa” disse.
L’adolescente alzò lo sguardo da dove lui e il fratello minore erano seduti a giocare, quindi grugnì in segno di protesta.
“Adesso, Ravuth” aggiunse la madre, agitando un dito.
“Okay, vieni Oun” disse Ravuth alzandosi in piedi e prendendo il fratello per mano prima di dirigersi verso la giungla.
L’aria era umida, e Ravuth si passò il braccio sulla fronte coperta di sudore. Il ragazzo si voltò verso il villaggio e alzò lo sguardo sui Monti Cardamomi. “Vorrei essere un uccello per poter volare sopra le montagne, sarebbe bello lassù” commentò sorridendo a Oun “e scommetto che ci sia molto tror bek.”
Oun sembrava entusiasta e annuì, dato che gli piaceva molto quella verdura che ricordava un cocomero rotondo, dalla polpa bianca e croccante. A Ravuth venne un’idea.
***
Era il 1975 e la Cambogia era in subbuglio, all’insaputa del villaggio isolato. Il paese viveva la fine di una guerra ma l’inizio di un incubo, un periodo di genocidio che avrebbe sortito effetto su tutti i cambogiani.
***
Diverse perle di sudore rigavano il viso di Ravuth. Le piaghe sulle mani gli pungevano come il sale quando venivano bagnate dal sudore quando il ragazzo stringeva la maniglia usurata del macete. Sollevò nuovamente il braccio dolorante e infierì sul fogliame. La sete e la spossatezza minacciavano di avere la meglio su di lui, ma doveva proseguire per il fratellino.
“Ci siamo persi, vero Ravuth?” La paura nella voce di Oun lo fece tremare.
Ravuth portò lo sguardo sul piccolo volto ricoperto di terra. Era colpa sua se si erano persi; non avrebbe mai dovuto abbandonare il sentiero già battuto. Sua madre gli aveva detto diverse volte di non allontanarsi mai dal percorso, ma Ravuth credeva di saperla più lunga.
I ragazzi conoscevano la giungla attorno al villaggio dove la loro famiglia aveva vissuto per generazioni, cibandosi di diverse piante e animali. Raccogliere frutta e verdura nella giungla rappresentava un compito giornaliero che l’adolescente Ravuth e suo fratello minore Oun portavano avanti da anni. Il percorso era sempre lo stesso. Eppure quel giorno i ragazzi avevano deciso di esplorare una nuova area dove avrebbero forse trovato più verdure.
Ravuth e Oun avevano trascorso più di un’ora ad aggirarsi nel sottobosco denso e spietato. Ravuth raccolse tutte le energie rimaste e sorrise “Ce la caveremo” disse con finta spavalderia. “Possiamo riposarci qui e poi ripercorrere i nostri passi”.
“Guarda, Ravuth” disse Oun indicando una strana pianta incastonata in ridotte formazioni rocciose. “E guarda il buco accanto alle rocce. Potrebbe essere l’entrata di una caverna”.
I due s’avvicinarono alla pianta, quindi Ravuth si piegò per spiare nella grotta.
“Che cosa c’è dentro? Quant’è grande?” Domandò Oun.
“Non lo so, è buio quindi non vedo molto bene” rispose Ravuth con la testa e le spalle all’interno della cavità. “Però posso spingermi all’interno e controllare”.
“Assolutamente no” ribatté Oun preso dal panico “Andiamocene e basta, non sappiamo cosa ci sia lì dentro”.
Ravuth diede retta al fratello minore, quindi si alzò in piedi.
L’attenzione di Oun si spostò poi sulla pianta, la quale era sradicata. La sommità del vegetale era costituita da un baccello tondo a bulbo dorato con disco ondulato. Il suo lungo fusto sottile circondato da grandi foglie verdi assomigliava nella forma e nelle dimensioni alla lattuga cinese, con una piccola radice bianca a forma di carota. “Non ho mai visto questa pianta prima d’ora, che cos'è?” Chiese Oun porgendola a Ravuth.
“Non lo so, nemmeno io l’ho mai vista. La porto a casa, madre lo saprà. Forse ha un buon sapore” disse, annusandone la sommità.
In base a ciò che i genitori avevano insegnato loro sin da piccoli circa l’identificare piante velenose, Ravuth sapeva che il vegetale era commestibile. “È amara” disse Oun prenendone un morso e facendo una smorfia. “Forse sarà più buona cotta”.
Improvvisamente udirono diversi ramoscelli spezzarsi, e la flora circostante si agitò. Un giovane esemplare di maschio di tigre terrorizzò i ragazzi quando avanzò attraverso la sterpaglia solo per fermarsi a qualche metro da loro.
Le Tigri Indocinesi si aggiravano nelle giungle circostanti ai Monti Cardamomi. Si sono mantenute a distanza dagli umani il più a lungo possibile, considerandoli fastidiosi e dall’aspetto non appetitoso. Tuttavia, in quell’occasione, due piccoli esemplari di bestie disturbarono quella tigre nel proprio luogo preferito per prendere il sole.
Ravuth si ficcò subito in tasca la pianta singolare, e lui e Oun brandirono i maceti, puntandoli verso la giovane tigre.
La tigre ringhiò e si spostò avanti e indietro di fronte ai ragazzi.
“Indietreggia lentamente” ordinò Ravuth al fratellino, tutti i suoi muscoli erano pronti a reagire.
I due fratelli terrorizzati indietreggiarono in direzione del fitto sottobosco, tutto mentre la tigre si aggirava ringhiando e guardandoli con disprezzo.
Quando gli umani furono lontani dalla propria caverna, la tigre si diresse verso la stessa, sollevò la zampa e asserì il proprio dominio marcando il territorio. Rivolse poi un’ultima occhiata ai ragazzi prima di rientrare nella grotta.
Ravuth e Oun guardarono la tigre addentrarsi nella cavità prima di affrettarsi nella giungla.
Incespicarono sul terreno della giungla per venti minuti fino a quando raggiunsero una radura dalla vegetazione a loro familiare. Si fermarono per riprendere fiato, sorridendo. “Tror bek! Fantastico, adesso so dove siamo” disse Ravuth con fare sollevato.
“Bene, prendiamone un po’ e andiamo a casa” aggiunse Oun, ancora più felice.
***
I ragazzi raggiunsero il villaggio nel tardo pomeriggio, inzaccherati. Si aspettavano di ricevere un rimprovero dalla madre, invece trovarono tutti i paesani radunati all’interno della grande capanna di legno che fungeva da fulcro del loro villaggio. Confusi, Ravuth e Oun si spostarono con fare furtivo oltre il capanno e andarono a casa. Sapevano che il padre era partito per *Koh Kong di prima mattina per vendere le proprie cianfrusaglie, e si aspettavano che avrebbe fatto ritorno solamente il giorno seguente. Ciònondimeno videro la sua bicicletta fuori dalla baracca di legno antico. Salirono gli scalini, entrarono in casa e notarono una grande borsa di tela nera quadrata sul tavolo. Incerti sulla situazione, riposero la strana pianta e le altre verdure in una ciotola, diretti verso la capanna comune.
“Cosa sta succedendo?” Domandò Oun.
“Non lo so. Sono confuso anch’io. Perché padre è a casa così presto? E mi chiedo che cosa ci sia in quella borsa sul tavolo” chiese Ravuth.
I fratelli si diressero verso la capanna comune. Dall’ingresso videro la madre seduta a terra. Il padre, con espressione terrorizzata e con le lacrime che gli rigavano il viso sporco, si rivolgeva agli abitanti del villaggio, scioccati. Ravuth e Oun si sedettero a terra accando a Rotha.
“Cosa succede? Perché padre sembra così spaventato e perché è coperto di graffi? Perché sta parlando con tutti come se fosse il capo del villaggio invece di Ren?” Domandò Ravuth.
Il ragazzo guardò la madre, la quale sussurrò con fare impaurito “Ren è morto, e tuo padre sta raccontando ciò che è successo a Koh Kong, quindi fa silenzio e ascolta. Ha quasi finito, e ve lo spiegherà più tardi”. Nonostante Rotha fosse intimorita, cercò di sembrare calma per il bene dei propri ragazzi.
Ravuth si guardò attorno con fare perplesso, e vide i figli di Ren dall’altra parte della stanza, raccolti attorno alla loro madre in lacrime, nel tentativo di consolarsi l’un l’altro. Allo stesso modo si erano radunate altre famiglie i cui cari non erano ritornati. Ravuth e Oun si erano persi la maggior parte di ciò che il padre aveva detto ai compaesani, ma in base alle espressioni dei presenti si resero conto che doveva trattarsi di qualcosa di serio. Una volta terminato, il padre dei ragazzi raggiunse loro e Rotha.
“Padre, cos’è successo?” Domandò Ravuth.
“Abbiamo tutti molto lavoro da fare” disse suo padre, Tu, sconvolto. “Andiamo a casa così vi spiego”.
La famiglia uscì dalla capanna comune nello stesso momento in cui anche gli altri presenti fecero lo stesso.
***
I fratelli e il padre sedettero su un Kam-ral, un tappeto di paglia, e mentre Rotha medicò le ferite dell’uomo, Tu raccontò la storia terribile ai figli.
“Sono andato con Ren e gli altri al confine tra la Tailandia e la Cambogia per vendere la bigiotteria che abbiamo realizzato. Inizialmente sembrava tutto normale. Ci siamo fermati al valico di frontiera, dove solitamente lasciamo le nostre biciclette”.
Tu trasalì quando Rotha gli applicò del balsamo urticante su un graffio profondo, quindi proseguì con il racconto.
“Al valico non c’erano militari. Solo diversi giovani uomini e donne che indossavano il kheaw aeu chout e krorma (pigiama nero con sciarpe rosse e bianche abbinate). Erano immobili in prossimità del cantiere di una grande barriera al posto di blocco. Imbracciavano dei fucili e ordinavano ai lavoratori di costruire una palizzata. Dalla parte tailandese del confine i soldati armati sembravano agitati, quindi sono rimasto a sorvegliare le biciclette mentre Ren andava a controllare di che cosa si trattasse; allo stesso tempo gli altri si sono spostati alla fermata dell’autobus turistico. Ho visto Ren avvicinarsi a un ragazzo che quando l’ha visto gli ha puntato il fucile contro.
Ren sembrava spaventato, e il ragazzo gli ha detto di essere un soldato degli Khmer Rossi, che ora governano la Cambogia”.
Tu guardò i propri figli e disse loro
“Il ragazzo sembrava avere la tua età, Ravuth.”
Oun e Ravuth videro il padre tremare quando disse “Un altro giovane soldato ha urlato qualcosa quando si è avvicinato un autobus turistico, quindi gli Khmer Rossi si sono affrettati in direzione del mezzo, in attesa che si fermasse. Hanno spinto giù dal bus un gruppo di stranieri terrorizzati, colpendoli e facendo cadere a terra alcuni dei loro effetti personali. Gli stranieri sono riusciti a riaproppriarsi di alcuni di essi prima che gli Khmer Rossi li spingessero al di là del confine cambogiano, verso la terra di nessuno. Ho visto poi i soldati tailandesi puntare le armi al gruppo di stranieri, agli Khmer Rossi e al gruppo di nostri paesani che sono accorsi in loro aiuto, quindi sono rimasto dov’ero”.
Tu prese la borsa nera dal tavolo e disse “Ho visto che i turisti avevano abbandonato diversi oggetti, quindi mi sono avvicinato all’autobus vuoto e li ho raccolti. Ne ho già visti di questo tipo, li avevano altri turisti”.
Aprì la borsa da cui estrasse una fotocamera Polaroid, mostrandola ai figli incuriositi.
“Sono tornato alla mia bicicletta, ho sistemato la borsa sul manubrio e ho continuato a osservare ciò che stava succedendo al confine. Il gruppo si è avvicinato ai soldati tailandesi, poi si è fermato. Gli Khmer Rossi hanno spinto in avanti gli stranieri tremanti e hanno urlato qualcosa ai tailandesi, ma non sono riuscito a sentire di che cosa si trattasse. I turisti sono corsi verso i soldati, i quali, senza abbassare le armi, li hanno lasciati passare prima di chiudere i ranghi, correndo dietro agli Khmer Rossi. Tutti loro si sono poi voltati e hanno ripreso a marciare attraverso la terra di nessuno, diretti al territorio cambogiano, ridendo e scherzando”.
“Stai bene papà?” Domandò Ravuth quando il padre si fece silenzioso e si sfregò gli occhi.
Tu annuì e disse loro
“Ren e i paesani sembravano andare d’accordo con gli Khmer Rossi. Ridevano e scherzavano tra loro nel ritornare dalla parte cambogiana del confine. Mi sono sentito sollevato, e stavo per unirmi a loro, sperando che non mi avessero visto prendere la macchina fotografica.”
Tu poi disse con voce tremante “Il mio sollievo è mutato in terrore quando il giovane soldato Khmer si è spostato dietro Ren, gli ha puntato la canna del fucile alla nuca e ha premuto il grilleto”.
Ravuth e Oun trasalirono.
Tu scosse il capo “Ren non si è accorto di nulla; stava parlando con un altro Khmer Rosso quando gli è esplosa la faccia. Ho visto la pallottola uscirgli dalla testa e cadere a terra” disse Tu, asciugandosi le lacrime.
Rotha gli portò un bicchiere d’acqua, e mise le mani sulle spalle del marito.
Tu bevve l’acqua in un unico sorso, si ricompose e poi proseguì
“Mi sono nascosto dietro il capanno delle guardie di confine, e sentivo i soldati Khmer Rossi ridere e chiacchierare, mentre i nostri amici e vicini li supplicavano affinché non li uccidessero. Sapevo di dovermene andare, anche se significava lasciarli soli” sospirò “Non c’era niente che potessi fare”.
Rotha si allontanò dalla zona adibita a cucina, mentre Tu proseguì il proprio racconto. “Mi sono spostato in bicicletta di qualche metro dalla capanna di confine, mi sono strappato via la bigiotteria e ho pedalato il più velocemente possibile. Non ero molto lontano quando ho sentito qualcuno urlare di fermarmi. Ero terrorizzato, e ho ignorato il comando, continuando a pedalare. Ho sentito degli spari e una pallottola mi ha sfiorato l’orecchio”.
I ragazzi si guardarono, e poi spostarono l’attenzione sul padre sconvolto, il quale continuò a raccontare. “Ho pedalato freneticamente, virando via dalla strada e dirigendomi verso i campi e poi nella giungla, fino a quando il percorso si è fatto troppo accidentato per proseguire in bicicletta. Mi sono nascosto nel fitto sottobosco, dietro un ammasso di alberi. Ho aspettato per quella che mi è sembrata un’eternità, e quando non ho visto traccia degli Khmer Rossi sono tornato sui miei passi, ho recuperato la bicicletta e sono corso a casa”.
“Cosa sono gli Khmer Rossi?” Domandò Ravuth.
Tu scosse il capo. Il padre era all’oscuro di quanto stesse accadendo in Cambogia, sapeva solamente che avrebbero dovuto avere paura e arrangiarsi in qualche modo, quindi rispose “Non lo so, figliolo. Ma dobbiamo restare nascosti fino a quando non scopriremo che cos’è successo. Saremo al sicuro nel cuore della giungla, e stasera organizzeremo i nostri averi per trovare una nuova casa. Domattina abbatteremo la struttura e la ricostruiremo altrove” disse Tu. Ai ragazzi era chiaro che il padre fosse preoccupato, confuso e spaventato.
“Questa cos’è?” Interruppe Rotha, reggendo la pianta che Ravuth aveva posato sopra il tror bek.
“Non lo so, madre. L’abbiamo trovata per strada, e pensavamo che tu sapessi cosa fosse. Forse potremmo mangiarla, vero Oun?” Disse Ravuth, guardando il fratello in cerca di appoggio.
“Sì” disse Oun senza prestargli molta attenzione, guardando all’interno della borsa nera dove si trovava la macchina fotografica.
“Non ho mai visto niente di simile” disse Rotha, ispezionando la pianta singolare.
Rotha venne ignorata; i due giovani sembravano più interessati alle istruzioni e alla dimostrazione della macchina fotografica Polaroid che stava impartendo il padre.
Rotha raggiunse il contenitore di acqua piovana, riempiendovi una citola di acqua e posandola accanto a un’altra che ribolliva con all’interno delle verdure e un piccolo pollo. Studiò la pianta, e in base alla forma delle foglie e al loro colore dedusse che fosse commestibile. Quindi ne staccò una foglia, l’assaggiò, trasalì e inserì il resto nella ciotola bollente. Poi infilzò il bacello dorato da cui trasudò una linfa bianco latte che assaggiò. Rotha non capiva come mai avesse un sapore dolce mentre la foglia era amara, ma più tardi avrebbe sperimentato con il nuovo ingrediente. Rotha notò che il bacello rotondo luccicava in modo strano, e il suo colore dorato sembrava un mosaico smagliante di sfumature vivide; l’effetto che l’olio creava sull’acqua.
Venne disturbata da un improvviso flash, e quando alzò lo sgaurdo notò l’espressione malefica dei figli e ancora più dispettosa del marito, il quale reggeva la Polaroid dopo averle scattato una foto. I meccanismi della Polaroid ronzarono quando una pellicola venne espulsa dal davanti. Tu rimosse la fotografia dal dispositivo, eliminò il primo strato e posò la foto sul tavolo affinché si sviluppasse.
Rotha frignò quando il marito si concentrò nuovamente, premette il pulsante e scattò un’altra foto di lei, ripetendo il processo di sviluppo della stessa. Tu indicò poi affinché si radunassero tutti insieme, scattando una foto della moglie e dei figli. Si alternarono a scattare le foto fino a quando terminarono le sei pellicole disponibili.
Osservarono le fotografie svilupparsi sotto la solitaria lampadina, sorpresi quando le immagini apparvero sulle pellicole. La famiglia guardò le prime fotografie che avessero mai visto, e per un momento si dimenticarono della tragedia che aveva colpito il loro villaggio. Rotha rimosse una scatola di foglie di banano dalla mensola, posandola sul tavolo. In tutte le capanne erano presenti scatole come quella, coperte dalla resina ricavata dalla linfa della corteccia dell’olio di palma, finitura che dava alla scatola una lucentezza resistente. Le confezioni, della dimensioni di una scatola da scarpe, oltre a venir vendute ai turisti, venivano utilizzate degli abitanti del villaggio per conserave ninnoli e altri oggetti inusuali. La donna aprì la scatola e vi posò le fotografie all’interno.
“Potrete guardarle dopo mangiato. Ravuth, prepara i piatti così posso servire la zuppa” disse.
Rotha stava per chiudere la scatola quando vide la pianta sul tavolo. Ne recise parte del gambo e ripose il bacello marrone-dorato nella scatola, chiudendone poi il coperchio.
La famiglia si accomodò per cenare. Rotha servì la strana pianta nel brodo, e si trovarono tutti d’accordo sul fatto che avesse un pessimo sapore, era troppo amara. Fortunatametne il pollo e il tror bek bilanciarono il tutto, e dopo la zuppa, riposero i loro averi in previsione del trasloco del giorno successivo. Il rumoroso generatore a due tempi del villaggio si spense alle 8 di sera, quando andarono a letto.
***
Delle urla e dei colpi di arma da fuoco svegliarono improvvisamente la famiglia all’alba.
Scoppiò il panico. Tu, Rotha e i figli uscirono sulla veranda da dove videro un gruppo di giovani soldati Khmer Rossi marciare nel villaggio, sparando in aria con degli AK-47 e strepitando. Stavano calpestando i materiali di cui erano fatte le abitazioni, i cui residenti si erano riversati sui portici o ai piedi delle scalinate.
Una ragazza, circa dell’età di Ravuth raggiunse gli scalini della loro abitazione e urlò loro di affrettarsi alla capanna comune. Puntò il fucile a Tu e urlò “Adesso!”
La famiglia obbedì agli ordini, dirigendosi verso la capanna comune insieme agli altri paesani terrorizzati, ordinando loro d’inginocchiarsi. Avanzò un soldato degli Khmer Rossi, che sembrava avere sui 18 anni. Gli abitanti del villaggio trasalirono. Il soldato trascinava Dara con una corda, un’abitante di mezz’età che era andata a Koh Kong il giorno prima insieme a Tu e gli altri per vendere la bigiotteria.
“Dara è viva, Rotha” sussurrò Tu. “Pensavo li avessero uccisi tutti”.
Dara aveva una pessima cera, aveva le guance e gli occhi gonfi e del sangue secco sulle labbra e sul naso. Gli abitanti guardarono il soldato tirarla come un cane. Gli altri Khmer Rossi si spostavano avanti e indietro insieme al comandante che stava parlando.
Quest’ultimo spiegò di Pol Pot, il Fratello Numero Uno, il loro leader, e di come gli Khmer Rossi controllassero la Cambogia. Disse “Ogni cittadino *Khmer adesso appartiene ad Angka, (l’Organizzazione). Siete di nostra proprietà, e se volete vivere dovete dimostrare il vostro valore”.
Descrisse loro il ruolo che i bambini avrebbero ricoperto dopo essere stati addestrati da Angka affinché diventassero soldati per l’organizzazione. Non avrebbero più avuto bisogno dei genitori, dato che gli adulti sarebbero diventati umili servi, quindi sarebbero stati inferiori a loro. Angka sarebbe stata la loro famiglia. Il comandante proseguì per più di un’ora con il suo discorso ben preparato.
Gli abitanti ascoltarono con fare terrorizzato, disorientati dalla gioventù indottrinata. Dara ondeggiò quando si mise in piedi a malapena. Di tanto in tanto il ragazzo le tirava la vestaglia per ottenere la sua attenzione.
Una volta terminato il discorso del comandante, quest’ultimo concentrò la propria attenzione su Dara e disse, rivolgendosi agli abitanti.
“Questa donna ci ha condotti da voi. È debole, e non accettiamo i deboli”. Strinse poi il cappio attorno al collo di Dara, trascinandola a sé. Afferrò quindi il nodo, sollevandole il mento e tagliandole la gola con un piccolo coltello affilato. Dara era troppo debole per opporre resistenza, e lo sputo, il sangue e l’aria le gorgogliarono nella gola quando la donna si abbandonò a peso morto. Il comandante gettò il cadavere a terra, si piegò e pulì la lama sui vestiti di lei. Tuonò degli ordini agli altri soldati, indicò il corpo di Dara e lanciò un avvertimento severo agli abitanti.
“Obbedite ad Angka o morirete!”
Gli abitanti del villaggio guardarono terrorizzati gli altri soldati urlare verso di loro di prendere i propri averi e di fare ritorno.
Gli abitanti sconvolti lasciarono quindi la capanna comune, diretti verso le proprie abitazioni per fare i bagagli, il tutto mentre i soldati Khmer Rossi ronzarono attorno alle famiglie terrorizzate, sollecitandole.
Rotha, Tu, Ravuth e Oun andarono alla loro capanna. Tu parlò con Rotha, la quale, nonostante fosse scossa dagli eventi, era d’accordo con lui. Tu, con voce tremante, disse ai figli
“Dovete scappare e nascondervi nella giungla. Quando ce ne saremo andati, tornate indietro e restate qui al villaggio. Vi raggiungeremo quando avremo capito che cosa sta succedendo, e quando la situazione sarà sicura”.
I ragazzi, per quanto spaventati, accettarono, sperando che si sarebbe trattato di poco tempo.
Rotha guardò fuori e vide gli Khmer Rossi allontanarsi dalla loro capanna per controllare un’altra famiglia, e non ne vedeva altri nelle vicinanze.
“Svelto, Ravuth! Vai tu per primo” sussurrò lei.
Ravuth scese cautamente gli scalini e percorse di corsa la breve distanza che separava la loro casa dalla giungla. Si nascose quindi dietro un gruppo di alberi, e si guardò indietro in attesa del fratello.
Vide Oun ai piedi degli scalini, ma verso di lui si stava dirigendo un soldato, che si fermò accanto al fratello. Il ragazzo agitò il fucile verso Rotha e Tu, ordinando loro di scendere immediatamente. Il cuore di Ravuth batteva all’impazzata quando si nascose dietro il largo tronco dell’albero.
Le grida degli Khmer Rossi svanirono, quindi Ravuth sbirciò da dietro l’arbusto. Vide la madre, il padre e il fratello venir condotti verso la capanna comune. Si rese conto di non essere stato visto, quindi costeggiò il villaggio, nascondendosi grazie agli alberi e alla vegetazione della giungla per osservare ciò che stava accadendo all’interno dello stesso.
I compaesani restarono nella capanna comune per un’altra ora prima di uscire e aggirarla.
I soldati selezionarono quattro anziani dal gruppo di persone. Ravuth sperò che li avrebbero fatti restare al villaggio. Pensava che si sarebbero potuti prendere cura di lui fino a quando i suoi genitori e Oun avrebbero fatto ritorno.
Sul viso del comandante si fece strada un ghigno quando i suoi soldati spinsero i quattro anziani a terra e spararono loro alla testa.
Gli abitanti urlarono dalla paura mentre gli Khmer Rossi puntarono i fucili sulla folla caduta nel panico e urlarono “Fate silenzio o morirete!”
Il comandante si rivolse alla folla “State zitti!” Esclamò, e attese fino a quando ebbe la loro completa attenzione. “Queste persone erano così vecchie da non poter produrre nulla per l’Angka. Le loro vite non portano alcun beneficio all’Angka e le loro morti non sono una perdita”.
I paesani, tremanti e spaventati, sembravano degli avviliti rifugiati. Incespicarono lungo il tragitto che portava a Koh Kong per unirsi all’esodo della popolazione rastrellata e destinata ai campi di lavoro.
Gli Khmer Rossi lasciarono che gli abitanti portassero con sé i loro miseri averi, che avrebbero sottratto loro alla fine del viaggio.
Restarono solamente due soldati. Ravuth li guardò trascinare il cadavere di Dara dalla capanna comune, gettandola insieme agli altri. Presero poi una tanica di benzina dal capanno in prossimità del generatore, e ne versarono un po’ sulle abitazioni e sui cadaveri. Ridacchiarono nell’appiccare il fuoco, incendiando le capanne e incenerendo i corpi. Quegli assassini senza pietà erano adolescenti, che non mostravano alcun tipo di rimorso per le loro azioni. Un soldato si divertì a colpire con un bastone le teste dei cadaveri ardenti, e alzò lo sguardo sulla vegetazione della giungla quando captò un movimento. Urlò qualcosa a un suo commilitone, il quale imbracciò il fucile e corse verso il nascondiglio di Ravuth, fermandosi però sui propri passi.
“Te lo sei immaginato. Qui non c’è nessuno” disse il giovane.
“Sono sicuro di aver visto qualcuno” disse l’altro con fare indignato.
“Vuoi addentrarti nella giungla per cercare meglio?”
“No. Non so cosa ci sia lì dentro, forse è un animale selvatico. Andiamo, raggiungiamo gli altri”.
“Okay. Perché hai paura, andiamo” lo prese in giro l’altro ragazzo. Si voltarono e tornarono di corsa al villaggio per seguire il resto della truppa.
Ravuth tremava. Indietreggiò ulteriormente nel fitto sottobosco. I militari degli Khmer Rossi erano arrivati solo a qualche centimetro dal suo viso.
Ravuth ritornò al villaggio al tramonto, avendo troppa paura di muoversi nel caldo opprimente del giorno. Era stordito, confuso e assetato. Avanzò nel villaggio deserto, oltrepassando i cadaveri fumanti, e raggiunse la propria casa. Nonostante gli Khmer Rossi avessero incendiato diverse capanne e quella comune, l’abitazione della propria famiglia era rimasta relativamente incolume. Quando entrò apprese che non era rimasto molto, in parte perché l’abitazione era stata saccheggiata, e in parte perché era stato portato via dai suoi genitori. Ravuth si accovacciò e si mise a piangere. Restò nella propria casa per tutta la notte, domandandosi che cosa fosse successo e che cosa potesse fare. Quando giunse il giorno, la luce filtrò nella stanza, e il ragazzo vide la scatola fatta di foglie di banano fare capolino da un buco nelle assi del pavimento in un angolo della stanza. Si rese conto che i propri genitori avevano tentato di nasconderla dai soldati. Ravuth prese in mano la scatola e l’aprì. All’interno si trovava la strana pianta, insieme a qualche piccolo articolo di bigiotteria sotto alle fotografie della sua famiglia. Estrasse quindi le foto, e con le lacrime agli occhi le accarezzò una a una, chiedendosi che cosa fosse successo ai propri cari.
Ravuth si sentiva solo, impaurito e confuso. Ripose le foto nella scatola, uscì dalla capanna e si aggirò nel villaggio in cerca di cibo, acqua o oggetti utili rimasti. Oltrepassò i macabri resti, andando di capanno in capanno e raccogliendo quanto di valido. Trovò un machete, mangiò, e bevve un po’ di acqua. Avvolse i resti di cibo in una foglia di banano e incanalò un po’ di acqua in alcune zucche da un contenitore raccogli-pioggia. La sua conoscenza delle piante commestibili e delle fonti di fluidi gli avrebbe permesso di sopravvivere nella giungla. Ravuth prese la scatola, il machete e altri oggetti che aveva trovato nel villaggio, quindi lo attraversò, diretto verso la strada che portava a Koh Kong.
***
Ravuth avanzò nella giungla per due ore. Aveva percorso quella strada diverse volte con il fratello e il padre, ma nel momento in cui Tu raggiungeva la strada e procedeva in bicicletta insieme ad altri paesani, i fratelli facevano ritorno al villaggio. Uscì dalla giungla, inoltrandosi sulla strada a lui non familiare, camminando sul ciglio, nel caso avesse incrociato delle ronde di Khmer Rossi. La sua lunga camminata verso la periferia della cittadina fu senza sorprese, non vide né traffico né persone. Lungo il tragitto notò diverse case di legno distrutte e depredate.
Una volta raggiunta la periferia di Koh Kong, Ravuth proseguì verso il centro città, il quale era inquietante, data l’assenza di persone. Avanzò per qualche chilometro fino a quando arrivò alla baracca della polizia di frontiera. Si nascose dietro al capanno quando vide un soldato degli Khmer Rossi appoggiato alla recinzione costruita da poco, che delimitava il confine con la Tailandia.
I tratti apatici del bambino soldato installarono rinnovata paura in Ravuth. Si allontanò furtivamente dal posto di blocco e ritornò al centro città deserto. Ravuth entrò in un piccolo café abbandonato, e rifornì le proprie riserve di cibo e acqua con i pochi avanzi rimasti. Si accomodò per ponderare sulla propria situazione.
Giunse la notte, e Ravuth non aveva ancora deciso il da farsi. Udì un veicolo avvicinarsi. Terrorizzato, si nascose sotto un tavolo mentre un vecchio pick-up si fermò davanti al café in cui entrarono sei Khmer Rossi.
Ravuth tremava dalla paura, e restò immobile mentre i giovani soldati attivarono un piccolo generatore per illuminare il locale prima di accomodarsi. Ravuth si era nascosto sotto a un tavolo nell’angolo buio del café.
Un soldato aveva portato con sé diverse bottiglie di whisky Mekong, che consumò insieme agli altri.
Ravuth ascoltò i giovani Khmer Rossi vantarsi delle loro atrocità del giorno, di chi avevano giustiziato, descrivendone dettagliatamente il modo. Parlarono del loro bottino di guerra e di che oggetti avessero sgraffignato. Uno di loro disse qualcosa che stimolò l’interesse di Ravuth.
“Il mio gruppo è andato direttamente a *Choeung Ek, e abbiamo selezionato chi tra loro potrebbe diventare un giovane cittadino Khmer Rosso o un bravo combattente” disse.
“Oggi abbiamo radunato quattro gruppi, sono andati alla provincia di Koh Kong per ingrossare le nostre fila” disse un altro.
“La maggior parte dei nostri erano anziani indesiderabili, quindi ce ne siamo sbarazzati” disse un terzo, aggiungendo “Ma ci siamo divertiti a rieducarli”. Mostrò agli altri il machete sporco di sangue con un ghigno in volto.
I dettagli raccapriccianti che si scambiarono i ragazzi proseguì per poco; Ravuth li udì poi biascicare e ridacchiare quando il forte whisky sortì il proprio effetto sui giovani.
Trenta minuti più tardi i soldati barcollarono fuori dal café e salirono sul mezzo che partì con una sgommata.
Ravuth uscì da sotto al tavolo. Le luci erano accese, quindi si guardò attorno nel café ora silenzioso. Si mise in cerca di informazioni circa Koh Kong e Choeung Ek. Non sapeva nulla di nessuno dei due luoghi, e poiché non sapeva né leggere né scrivere, ripose nella scatola i volantini che trovò nel locale.
Ravuth trascorse la nottata al café, e all’alba del giorno successivo se ne andò da Koh Kong, diretto verso la giungla, dove avrebbe atteso la propria famiglia. Non si rese conto di essere seguito fino a quando approcciò una strada all’esterno di Koh Kong e una voce dietro di lui gridò “Tu…Fermo lì!”
Ravuth si voltò, e una giovane ragazza soldato gli puntò contro una pistola automatica che cercò di bilanciare sul manubrio della bicicletta. “Vieni qui!” Sbottò lei.
Ravuth avanzò verso la ragazza dal viso sudicio, che lo guardò. Nonostante sembrasse più giovane di Ravuth, a quest’ultimo vennero i brividi lungo la schiena quando la guardò negli occhi.
“Perché non sei con gli altri? Dov’è il tuo villaggio?” Scattò lei.
Ravuth tremò quando giunse le mani e implorò “Mi dispiace molto, mi hanno lasciato indietro quando mi sono fermato per riposare”.
La ragazzina rivolse un’occhiataccia a Ravuth. “Seguimi” ordinò, scendendo dalla bicicletta per invertirne il senso di marcia.
Ravuth era terrorizzato quando vide altri quattro Khmer Rossi avvicinarsi in bicicletta. Andò nel panico, afferrò il machete che aveva sistemato alla cintura e lo scagliò con tutta la propria forza al braccio della ragazza. La ragazza non riuscì a reagire per proteggersi dato che stava faticando a reggere il manubrio della bicicletta. Strillò dal dolore quando la lama le affondò nella carne e raggiunse l’osso. Fece cadere la pistola e Ravuth la spinse via dalla bicicletta, si sistemò frettolosamente il machete alla cinta, salì sulla velocipede e accelerò lungo i terreni induriti delle risaie. Si diresse verso i Monti Cardamomi e verso la sicurezza della giungla, seguito dalle pallottole che lo sfiorarono mentre pedalava per salvarsi la vita.
Pedalò per ciò che gli sembrò un’eternità, fino a quando non udì più i colpi di pistola. Ravuth si fermò all’esterno della giungla, celò la bicicletta nella vegetazione e si nascose dietro a un gruppo di alberi. Sbirciò per controllare se i suoi inseguitori fossero nei paraggi. Ravuth vide quattro puntini in lontananza, diretti verso di lui. Aveva un po’ di vantaggio, ma sapeva di dover trovare riparo nella densa vegetazione. Ravuth corse attraverso la giungla, trovando brevi percorsi che seguì fino a quando raggiunse il terreno accidentato e impraticabile.
‘Non mi troveranno mai’ pensò, correndo attraverso il denso sottobosco.
Ravuth era esausto, aveva attraversato di corsa per tre ore quella sezione della giungla a lui non familiare. Raggiunse una radura dove le chiome degli alberi erano talmente fitte da schermare la luce solare, facendone filtrare appena. Si nascose lì, sapendo di essere al sicuro; non vide i suoi inseguitori, quindi si sedette ai piedi di un gigante Dipterocarpo, stando allerta.
Ravuth restò lì per due giorni, sfamandosi grazie all’abbondante vegetazione circostante. Si rese conto di essere sfuggito ai propri inseguitori, quindi si mise in cerca del proprio villaggio.
Ravuth si sentiva al sicuro nella giungla, e camminò tutta notte alla luce della luna. Si riposava durante le giornate cocenti e umide, cacciando e cercando il cibo dal tardo pomeriggio fino al tramonto.
Era perso senza una direzione da seguire, a differenza dell’area nei pressi del proprio villaggio, di cui conosceva la maggior parte dei sentieri e della vegetazione. All’alba del decimo giorno fece capolino da dietro una fila di alberi, trovandosi in un terreno aperto. In una conca poco profonda era stato realizzato un terrapieno, circondato da una rete metallica.
Vide diverse file di tende da bivacco, insieme ad alcune tende da campo di tipo militare di diverse dimensioni. Ravuth vide delle persone aggirarsi dietro alla recinzione; alcuni gruppi stavano cucinando grazie a dei focolari. Ravuth captò i profumi tipici del cibo cambogiano, e gli venne l’acquolina in bocca. ‘Dev’essere uno dei posti di cui parlavano gli Khmer Rossi. Mi chiedo se la mia famiglia sia qui’ pensò. Si aggirò furtivamente attorno alla recinzione metallica, osservando con attenzione i presenti nel campo fino a quando raggiunse il cancello anteriore. Ravuth si sentiva esposto all’aperto, quindi si nascose in un angolo buio, mettendosi in osservazione.
Ravuth vide diversi veicoli militari e soldati andare e venire durante il giorno. Notò che il personale militare non era composto da Khmer Rossi. Erano adulti, e indossavano divise mimetiche. Ravuth fece avanti e indietro lungo il perimetro della recinzione, osservando le dinamiche del campo. Occasionalmente si arrampicò per avere una visuale migliore dalla giungla, ma non vide nessuno dei membri della propria famiglia, né dei compaesani. Scese la notte, quindi Ravuth approcciò la recinzione, trovò un punto sollevato, e con le mani scavò un piccolo fosso sotto la rete metallica. Si spinse attraverso il passaggio, e strisciò verso la tenda più vicina. Ravuth si rannicchiò, guardò avanti, cercò d’individuare un’area adeguata e...
“Chi sei tu?” Disse un uomo in un linguaggio con cui Ravuth non era familiare “Alzati e voltati”.
Una forte luce dietro Ravuth lo confuse. Era terrorizzato, e non comprendeva le istruzioni impartite dell’uomo, quindi si alzò istintivamente in piedi, accecato dalla luce.
*Vedi Appendice
-2- Il Fenomeno della Pasticceria
Il Maestro delle Cerimonie si schiarì la voce e annunciò “Il premio per il Pasticcere dell’Anno va a…” facendo una pausa a effetto prima di guardare il nome scritto sul retro del biglietto dorato. “Per il terzo anno consecutivo” disse quando si rivolse al pubblico con un sorriso in viso. “Il pâtissier che rappresenta l’Hotel Avalon” si interruppe nuovamente prima di annunciare “Il Signor Ben Bakewell!” Poi l’applauso dell’uomo si unì a quello del pubblico riunito nella sala conferenze del lussuoso Park Lane Hilton. Molti esultarono, mentre alcuni mormorarono qualcosa mentre un uomo in un abito fuori misura si diresse tranquillamente verso il palco.
“Ben fatto, Cake” disse il presentatore quando il pasticcere salì sul palco e gli strinse la mano.
Cake aveva vinto quel premio prestigioso per tre anni consecutivi, ma era ancora imbarazzato nel reggere l’effige di cristallo. Il suo discorso di ringraziamento riverberò quello degli anni precedenti. “Grazie” mormorò nel microfono, arrossì, scorreggiò, scese dal palco e si affrettò al tavolo dove sedevano i suoi colleghi.
Con gran sollievo di Cake, la cerimonia di premiazione era quasi finita. Diversi critici culinari sul palco discutevano dei vari piatti che si erano aggiudicati dei premi. Cake detestava eventi simili, e considerava i critici culinari tanto utili quanto una scorreggia in un colino, incapaci di bollire un uovo e per nulla tagliati per il settore. Riceveva però sempre ottime recensioni da parte loro. Una di esse descriveva il suo *Avalon Nest Egg un’esplosione di sapori impeccabili che provocavano orgasmi orali, e descriveva come ogni pietanza che creava Cake fosse perfetta. A ogni modo Cake le riteneva sempre nella media ed era dell’opinione che mancasse qualcosa ai propri piatti, ma non era in grado di capire di che cosa si trattasse.
Cake rincasò attorno alle 11, dopo aver percorso un lungo tragitto attraverso la capitale. Jade aveva già fatto ritorno dalla gita di cinque giorni a Lincoln. Cake era entusiasta di vederla, e voleva scoprire come stesse procedendo la loro pasticceria. Si abbandonò su una poltrona in salotto mentre Jade gli versò un calice di vino, quindi si misero comodi. Le porse l’assegno ricevuto dalla vincita della competizione e lei gli sorrise, mostrandogli poi il video che aveva realizzato dei lavori in corso.
***
Benjamin Bakewell, detto Cake da sempre, aveva una reputazione impeccabile nel mondo culinario. Ogni cuoco stellato e ristorante di lusso lo conosceva. Aveva ricoperto la posizione di maestro pasticcere all’Avalon per tre anni. Le sue celebri torte e pasticcini facevano invidia ai maggiori pasticceri grazie al metodo di Cake, il quale era unico, e che molti tentavano invano di replicare.
Cake era nato nella periferia di Louth, Lincolnshire, una piccola cittadina rurale a quaranta chilometri da Lincoln City. La sua famiglia possedeva una fattoria da 200 acri ai margini della città, dove venivano coltivati il frumento, l’orzo e il luppolo. Il suo soprannome, Cake, gli era stato affibbiato a causa del suo cognome, Bakewell, e del suo amore per la pasticceria. Aveva frequentato la scuola elementare Grimoldby, e mentre gli altri bambini trascorrevano la ricreazione giocando e facendo sport, lui aiutava i cuochi della scuola in mensa.
I genitori di Cake erano sempre stati al corrente del fatto che il figlio avesse come un sesto senso. Era in grado d’individuare tutti gli ingredienti di ogni piatto, e aggiungeva elementi in cui riteneva che il piatto risultasse carente. In tal modo accentuava ed elevava il sapore fino a quando il proprio palato perfetto lo considerava accettabile. Cake non mangiava né maneggiava la carne, il cui odore non conteneva aromi fragranti, la cui consistenza era granulosa e grossolana, e il cui sapore gli faceva venire la nausea. Tollerava certi tipi di frutti di mare, ma solo se erano freschi e moderatamente aromatizzati, come la rana pescatrice o le cape sante, alle quali poteva aggiungere erbe e spezie per mascherarne l’odore e il sapore. Nessuno comprendeva il dono insolito di quel ragazzo, e trascorsero molti anni prima che qualcuno scoprisse la causa del suo palato sopraffino e del suo olfatto iper sviluppato. Solamente Cake era in grado di percepire il profumo e il sapore del mondo dal proprio punto di vista, individuando le fragranze nell’aria. Durante i suoi primi anni a scuola aveva sfruttato il proprio talento unico per estorcere dei dolci e altre golosità dai propri compagni di classe indovinando che cosa avevano mangiato per colazione quella mattina in base all’odore dei loro peti. Crescendo utilizzò tale trucco durante le feste a cui prendeva parte.
Cake trascorse un’infanzia felice con molti amici, anche se le ragazze lo evitavano per la sua tendenza ad annusare l’aria circostante, inclinazione sgradevole. I suoi amici lo ritenevano un passatempo divertente, ma il ragazzo smise di farlo quando la madre gli disse che non era educato, e che un giorno avrebbe avuto bisogno di una ragazza, e annusar loro il sedere non era il modo per far sì che lo trovassero attraente. Cake aiutava alla fattoria durante i raccolti, e il suo periodo preferito dell’anno era la primavera, quando la flora veniva impollinata e sbocciava; gli innumerevoli odori lo facevano andare in estasi. Aiutava anche la madre e la nonna a fare il pane fresco, le torte, i biscotti e i dolci per la famiglia e per i lavoratori della fattoria. Cake concentrava il suo talento unico sulla realizzazione di pietanze dolci e salate, fino a quando queste gli soddisfacevano i sensi. Da giovane Cake si era sentito a casa in cucina, e ridacchiava con voluttà ogniqualvolta tirava fuori dal forno una teglia di dolciumi cucinati da lui. I profumi della confetteria appena sfornata, che facevano venire l’acquolina in bocca, aleggiavano nella calda cucina della casa colonica, e solitamente la nonna di Cake si affrettava dal nipote per vedere che cosa si fosse inventato.
La nonna vide una scintilla negli occhi di Cake quando un giorno il ragazzino le disse “Nonna, un giorno sarò il pasticcere più famoso d’Inghilterra...forse anche del mondo”.
Al che la nonna sospirò e gli rivolse un ghigno. “Si Cake, lo so”.
Aveva accumulato libri e riviste di cucina nel corso degli anni, realizzando ogni torta la cui ricetta era stata pubblicata sui quotidiani, e aggiungendo erbe e spezie che combinava per esaltare il sapore dei piatti, rendendoli unici. A Cake sembrava sempre che alle pietanze mancasse qualcosa, ma la nonna Pearl lo rassicurava dicendogli che un giorno avrebbe scoperto LA SUA spezia perfetta.
Nella sua prima adolescenza Cake iniziò a fare kick boxing. Era alto e snello, e l’arte marziale lo fece diventare muscoloso, ma le sue gambe e braccia restarono pelle e ossa nonostante il duro allenamento.
Cake era un bel ragazzo dal viso magro, gli occhi nocciola e i capelli corti e castani. Assomigliava a un giovane Kevin Costner, anche se la sua figura allampanata e bizzarra faceva sì che avesse più tratti in comune con il pagliaccio Coco. In adolescenza le ragazze iniziarono a notarlo, a quel punto aveva smesso di annusarle.
La sua famiglia diede per scontato che una volta terminata la scuola avrebbe continuato il mestiere di famiglia, diventando un agricoltore. I sogni e le ambizioni di Cake erano però lontano dal mondo di famiglia, dato che il ragazzo voleva frequentare la scuola di cucina. I suoi genitori glielo proibirono e gli offrirono un compromesso. Avrebbe potuto fondare un piccolo forno insieme alla madre e alla nonna; loro tre avrebbero cucinato mentre le sorelle di Cake avrebbero venduto i loro prodotti a Louth e nei dintorni. Cake accettò tale compromesso, sapendo che ciò avrebbe implicato lunghe ore in cucina, sacrificando gli allenamenti di kick boxing; ma la pasticceria era la sua passione. Suo nonno concesse loro di cucinare in un vecchio capanno, e acquistò due forni a gas di seconda mano oltre all’ampio piano di cottura AGA. La famiglia comprò un’impastatrice e altre attrezzature, oltre a scaffali, frigoriferi e unità di conservazione come da istruzioni di Cake, realizzando una pittoresca pasticceria rurale. Il padre aveva ceduto loro una Land Rover della fattoria affinché lui e le sorelle girassero per la cittadina in cerca d’industrie e negozi che acquistassero i loro prodotti. Cake fece in modo che il menù fosse semplice. Amava sperimentare, ma la famiglia decise che i filoni di pane, i panini, le baguette, le torte e le crostate sarebbero state sufficienti.
L’attività di Cake aveva inizio dopo il raccolto. Cucinavano di prima mattina, e il primo lotto usciva dal forno alle 6. Le sorelle svolgevano le consegne prima di andare a scuola, e Cake cucinava e consegnava ulteriori lotti durante il giorno. Si trattava di una routine che funzionava bene, e presto vennero sommersi di ordini. Il business della panetteria divenne un’entrata extra molto redditizia per la fattoria. Cake era felice, ma non si sentiva realizzato. Più leggeva riviste di cucina che trattavano di nuove tecniche e ricette create in ampie panetterie, ristoranti e hotel, adulando grandi chef, più Cake bramava una vita prestigiosa.
Una calda mattina d’estate, mentre Cake stava sfornando una partita di panini croccanti, ricevette una telefonata da Bill, il proprietario del pub ‘Rising Sun’.
“Giorno Cake” disse Bill “Un mio cliente vorrebbe parlarti. Potresti venire qui?”
“Che cosa vuole?” Domandò Cake.
“Non lo so, vieni qui e parlagli, così lo scoprirai” disse Bill, sembrava vago.
Cake, incuriosito, guardò l’orologio e disse “Okay Bill, dammi più o meno venti minuti”. Quindi si cambiò, togliendosi la divisa bianca da fornaio, e guidò fino in città.
***
Una volta al Rising Sun, Cake si diresse da Bill, il quale gli sorrise e gli disse del cliente. “Il primo giorno ha mangiato il tuo sandwich gourmet con una fetta di Gateau, e oggi ha ordinato diversi sandwich e fette di torta. L’ho visto prendere un assaggio di tutti i piatti, assaporarli, avvolgerli in un tovagliolo e sistemarli in un borsone”. Bill si grattò il mento prima di proseguire “Oggi mi ha chiesto chi mi forniva i prodotti da forno, e quando gli ho detto che si trattava di un fornaio locale si è presentato e ha insistito affinché potesse parlarti. Non ti avrei disturbato, ma sostiene di essere famoso, anche se non l’ho mai sentito nominare”.
“Che strano” disse Cake corrucciandosi “Come si chiama?”
Bill ci pensò e disse “Jimmy qualcosa...mi sono dimenticato il cognome, ma è seduto là” indicò l’uomo che si era accomodato a leggere il quotidiano.
Cake raggiunse l’uomo, il quale lo sbirciò da dietro al giornale e gli sorrise. Posò il periodico sul tavolo accanto e chiese a Cake di accomodarsi. Il ragazzo trasalì, e sembrò sorpreso quando riconobbe l’uomo. Aveva letto degli articoli su di lui nella rivista British Bakery, ed era al corrente del prestigio che circondava il piccolo individuo stempiato dal viso tondo.
“Mi chiamo Jimmy Constable, sono il capo pasticcere della Harrods Bakery”.
Cake gli strinse la mano, e con voce tremante disse “Si, so chi è lei, tutti mi chiamano Cake”.
“È un piacere conoscerti, Cake” disse Jimmy. “Cosa posso fare per lei? C’è qualcosa che non va nel cibo?” Domandò Cake con fare preoccupato.
Jimmy sorrise e disse “No, il cibo è perfetto”. Poi aggiunse “Mi sono fermato qui qualche giorno fa per fare uno spuntino; ero in viaggio verso Hull per un colloquio con un candidato all’incarico a Harrods. Mi aspettavo del cibo blando e secco, da venditori ambulanti”. Si sporse in avanti e disse “Invece i sapori e le consistenze del panino e del Gateau mi hanno lasciato senza parole. Il giorno successivo sono tornato per assaggiare altre pietanze del menù, e sono rimasto nuovamente deliziato dai sapori unici e inconfondibili” guardò verso Bill, sorridendo prima di sussurrare a Cake “era molto meglio della terribile birra”.
Cake, elettrizzato di sentire Jimmy cantare le sue lodi, spiegò l’origine del suo soprannome, gli raccontò della panetteria di famiglia e lo invitò a visitarla. Jimmy accettò, quindi uscirono dal Rising Sun, diretti alla fattoria Bakewell.
Jimmy osservò il forno della fattoria, e assaggiò altri prodotti di Cake. Con ogni morso, sul viso del capo pasticcere si allargava un’espressione di puro piacere.
“Hai delle qualifiche in campo culinario, Cake?” Domandò Jimmy.
“No” rispose Cake. “Mi dispiace”.
Jimmy sorrise. “Non ti preoccupare, da tempo non assaggiavo qualcosa di così buono, quindi possiamo aggirare le scartoffie. Vorrei che facessi una cosa per me”.
Cake era confuso, e domandò “Aggirare le scartoffie per cosa?”
Jimmy ignorò la sua domanda ed estrasse una rivista dalla valigia. Mostrò quindi a Cake una fotografia patinata di un budino ricoperto di glassa bianca, poi gli chiese “Puoi fare uno di questi?”
Cake osservò la fotografia. ‘Perché un capo pasticcere vorrebbe che facessi un semplice budino?’ Pensò, era chiaramente perplesso, ma gli rispose con un “Certo”.
“Fammene uno per favore” disse Jimmy con un sorriso in volto.
“Solo uno?” Domandò Cake.
“Sì, solo uno” rispose Jimmy.
Jimmy si mise comodo e osservò Cake districarsi tra barattoli e scatole d’ingredienti come un ballerino scatenato. Non utilizzava la bilancia per soppesare le cucchiaiate d’ingredienti prima di mescolarli insieme. Annusò il composto e l’assaggiò fino a quando ne sembrò soddisfatto, e lo sistemò in forno quando gli sembrò assomigliare perfettamente all’immagine sulla pagina patinata. Parlarono per un po’ di Londra e della cucina fino a quando Cake seppe che il budino era pronto. Quindi lo sfornò e vi versò sopra la glassa.
Jimmy inalò il delizioso aroma e sorrise.
In attesa che la glassa s’indurisse, Cake domandò a Jimmy “Perché ha voluto che preparassi un semplice budino?”
Jimmy guardò Cake e sorrise “Non sono così semplici da fare, e possono risultare insipidi. Cerco sempre qualcuno in grado di realizzare un sapore unico e che renda speciale qualcosa di banale” rispose Jimmy.
“Per cosa lo cerca?” Domandò Cake con fare confuso.
Jimmy guardò Cake e disse “Per diventare il mio assistente”.
Cake restò stupefatto dalla risposta, e Jimmy aggiunse “A Harrods cerchiamo un assistente capo pasticcere, ma non ho ancora trovato un candidato ideale”.
Confuso, Cake porse il budino caldo a Jimmy, il quale prese un morso della pasta dolce e ben cotta. I sapori gli esplosero in bocca in una fusione di gusti delicati che mettevano in risalto il budino alla vaniglia e la sua glassa.
‘Questo ragazzo ha un talento fenomenale’ pensò Jimmy prima di annunciare “Il ruolo di mio assistente è tuo, giovane Cake”.
Il cuore di Cake gli batteva all’impazzata nel petto; sapeva che non gli sarebbe più capitata un’occasione simile. Era il suo sogno, ma era consapevole di avere un ostacolo da superare. Quindi sospirò e disse “Mi piacerebbe tantissimo venire a Londra a lavorare per lei Jimmy, ma devo mandare avanti il forno per la mia famiglia”.
Jimmy sembrava deluso, e guardò Cake quando disse “Se vuoi questo lavoro parlerò con la tua famiglia” gli rivolse un ghigno. “So essere molto persuasivo”.
Cake sorrise, sembrava un cucciolo entusiasta quando disse “Grazie Jimmy”. Poi controllò l’orologio “La mia famiglia è al piano superiore”.
***
Jimmy e Cake raggiunsero la sezione della pasticceria di Harrods una settimana dopo che la famiglia di Cake aveva dato il proprio benestare, sapendo che si trattava del suo sogno. Jimmy fece fare a Cake un tour del prestigioso negozio. Il ragazzo guardò il contenuto delle vetrine della pasticceria; sembravano opere d’arte. Jimmy gli mostrò la sua stanza negli alloggi del personale situati sul retro dell’edificio, e gli fornì diverse divise decorate dal piccolo ricamo in oro tipico di Harrods.
Cake aveva l’impressione di aver vinto alla lotteria quando indossò la divisa ed entrò nell’immacolata pasticceria, così efficiente e ben organizzata, in cui ogni pasticcere sapeva quale fosse il proprio ruolo e la propria routine. Cake si sentì intimidito nell’aggirarsi tra i moderni forni e attrezzature.
“Okay Cake” disse Jimmy. “Da’ un’occhiata in giro e orientati, poi dovresti preparare due dozzine di èclair al cioccolato”.
“Si Chef!” Rispose Cake felicemente, mettendosi al lavoro.
Cake impiegò poco tempo ad adattarsi alla sua nuova vita. Lo staff della pasticceria di Harrods inizialmente si comportò freddamente nei suoi confronti. Erano gelosi di lui, e non capivano come avesse fatto un giovane contadino senza qualifiche a ottenere il lavoro invidiabile di assistente del capo pasticcere. Tuttavia, quando assaggiarono le sue torte e paste si resero conto che era meritevole della posizione che ricopriva. Cake lavorava sodo e trascorreva la maggior parte del proprio tempo alla pasticceria.
La reputazione di Cake si fece strada nel mondo culinario di Londra. Le vendite della pasticceria Harrods aumentarono, e Cake venne presto richiesto dalla concorrenza. Guadagnava bene e faceva ciò che amava fare, il pasticcere.
Jimmy diventò il suo mentore e insegnò a Cake trucchi e tecniche estremamente preziose. All’Harrods, Cake si sentiva però limitato nello sperimentare. Il menù fisso cambiava raramente, e non c’era spazio per l’innovazione. Cake non si sentiva spronato, e tale posizione si fece presto banale. Riprese con il kick boxing per rompere la monotonia.
Cake rifiutò però posizioni in pasticcerie e ristoranti prestigiosi, e Jimmy l’incoraggiò ad avanzare con la propria carriera, consigliandogli di cambiare lavoro se si fosse presentata l’opportunità. Ciò accadde quando Cake aveva ventiquattro anni. L’hotel Savoy gli propose di diventare il loro capo pasticcere, ruolo che Cake prese in considerazione.
Gli offrirono un salario generoso, e avrebbe potuto controllare il menù delle torte e dei dolci, dandogli la libertà di sperimentare con le proprie ricette. Il tal modo però il successo della pasticceria era sulle sue spalle.
Cake discusse l’offerta con Jimmy, il quale gli suggerì di accettare la posizione.
***
Il Savoy, nonostante fosse stato edificato nel diciottesimo secolo, era un moderno hotel a cinque stelle, da cui Cake restò impressionato in quanto a opulenza e grandezza. La cucina della struttura lo scioccò, poiché il ragazzo era abituato a un ambiente tranquillo ed efficiente. Gli chef si aggiravano di fretta nella cucina come polli senza testa, tutto mentre un capo cuoco basso e grasso urlava loro contro. Quando Cake raggiunse la sezione dedicata alla pasticceria notò che un capo pasticcere stava gridando allo staff avvilito. Il ragazzo si presentò all’uomo, il quale non sembrò per niente turbato dal nuovo membro del team. Il capo pasticcere fece fare un giro a Cake mentre abbaiava ordini ai subordinati.
Cake non sprecò tempo a mettere in ordine la pasticceria, insegnando le tecniche apprese ai pasticceri e tramandando loro le proprie ricette, controllando sempre ogni piatto destinato al servizio. Licenziò l’assistente del capo pasticcere, e l’area di lavoro si fece serena e ben organizzata, a differenza della cucina principale dove regnava il caos e dove i capo cuoco megalomani urlavano contro ai loro galoppini. Si rivolgevano però a Cake con rispetto, consapevoli che a differenza di quest’ultimo, loro non erano essenziali.
A Cake piaceva fare delle passeggiate lungo il Tamigi, e spesso si chiedeva l’origine dei propri sensi accentuati. Voleva scoprire di più al riguardo, quindi andò dal Dottor Arnold Sagger, un eccellente specialista genetico e fisico della clinica Harley Street, che prese da Cake dei campioni di DNA per parentesi e suscettibilità.
I risultati stupirono il dottore. Cake era dotato di oltre un terzo in più di recettori olfattivi rispetto ad altri esseri umani e alla maggioranza dei mammiferi.
Il dottore aveva svolto delle ricerche su certi individui come ad esempio un sommelier italiano dotato di 980 geni recettori, qualcuno in più rispetto alla media negli esseri umani, che si aggira sui 900. Cake ne aveva più di 1400, qualcuno in meno dei topi che al massimo sono dotati di 1500 geni olfattivi.
Il dottore era sembrato entusiasta quando aveva chiesto a Cake di studiare il suo caso e di svolgere ricerche sulla sua mutazione genetica, ma restò deluso dal fatto che Cake rifiutò tale proposta in quanto si sarebbe sentito un X-Men. Era solamente un ragazzo con un senso elevato, di cui ora aveva compreso il motivo, ed era tutto ciò che gli serviva sapere.
Cake rimase al Savoy diversi anni, e il suo nome divenne sinonimo di ottima pasticceria. La sua reputazione venne resa famosa grazie ad articoli pubblicati su riviste di pasticceria dove veniva definito ‘Il Fenomeno della Pasticceria’. Il Principe Carlo si faceva recapitare regolarmente le paste di Cake a Clarence House.
Cake uscì diverse volte con alcune chef, che aveva trovato noiose e aveva convenuto che odorassero di grasso di cottura.
***
Diversi anni più tardi il Savoy cambiò gestione, e l’hotel venne acquistato da una multinazionale. Le uniche preoccupazioni diventarono quindi i soldi, il profitto e il fissare degli obiettivi e un budget. Cake trascorse quindi più tempo tra le scartoffie piuttosto che a fare ciò che amava fare, il che finì per demoralizzarlo. Aveva ricevuto molte altre offerte di lavoro, e dopo averle discusse con Jimmy, accettò la proposta di un nuovo hotel a Richmond, Greater London. All’Avalon avrebbe guadagnato tanto quanto al Savoy, bonus esclusi, e avrebbe potuto gestire la pasticceria senza doversi occupare delle scartoffie in quanto gli avrebbero assegnato un responsabile. Il Savoy offrì a Cake un aumento importante di stipendio, così come un bonus rilevante affinché restasse, ma Cake rifiutò e si licenziò.
A Cake piaceva lavorare all’Avalon. Ora trentenne, era a proprio agio con la libertà e la responsabilità.
Ottenne la cintura nera di kickboxing prima di licenziarsi dal Savoy; dopo aver iniziato all’Avalon s’iscrisse al Club Tojo di kickboxing, che aveva sede nella palestra del vicino Kings Leisure Centre.
Osservò alcuni kickboxer durante l’allenamento, quindi posò la sacca e si aggirò in palestra in attesa che qualcuno lo notasse.
Una donna attraente lo raggiunse e gli sorrise.
Cake rispose al gesto e pensò ‘Ooh, è gentile e troppo carina per essere una kickboxer. Forse è una fan’ le rivolse un ghigno.
“Che cosa vuoi?” Domandò improvvisamente la donna in un accento cockney.
“Vorrei entrare nel club di kickboxing” rispose Cake.
“Perché?” Domandò la donna. “Pensi di essere tosto?”
I presenti osservarono la scena con un sorriso in volto.
“Abbastanza tosto” disse Cake, preso alla sprovvista dai modi di fare così schietti della donna. “Sono una cin…”
La sua frase venne interrotta quando lei lo colpì al naso.
Cake la guardò scioccato quando fece per attaccarlo nuovamente. Cake fermò il pugno, quindi lei gli diede un calcio alla gamba prima d’indietreggiare e sistemarsi in posa di slancio.
“Prima lezione” disse la donna “Non abbassare mai la guardia”. Poi scattò in un attacco spietato, prendendo Cake a pugni; per quanto ne schermasse la maggior parte ne subiva comunque molti. Ora arrabbiato, si vendicò prendendo a pugni e calci la donna, la quale bloccò ognuno dei suoi attacchi prima di raggiungerlo nuovamente al naso. Cake si stava adirando. La donna se ne accorse, quindi raddrizzò la schiena e gli sorrise.
“Sì okay, puoi entrare nel club. Ma dobbiamo lavorare sulla tua difesa e sul karma; è stato troppo facile farti andare in collera e farti sbagliare”.
Cake rivolse un’occhiataccia alla donna, e poi guardò gli altri atleti che stavano ridacchiando nell’osservare la coppia.
“Mi chiamo Jade” disse lei, tendendogli la mano. “Sono l’istruttrice capo”.
Cake era un po’ alterato, quindi rivolse uno sguardo furioso alla donna. “Quindi attacchi tutti quanti? Che cosa sarebbe successo se non fossi stato in grado di difendermi? Fortunatamente sono un kickboxer”.
Jade ridacchiò prima di rispondere “Non attacco tutti quanti, solo quelli presuntuosi, Signor Cintura Nera”. Indicò il borsone di Cake, alla cui maniglia era annodata la cintura nera decorata dall’ampio ricamo di cotone che simboleggia lo Zendo.
Cake guardò il borsone prima di sorridere alla donna.
“Oh!” Tentennò lui dall’imbarazzo. “Sono Ben, ma tutti mi chiamano Cake”.
***
Dopo il contatto iniziale, Cake e Jade andarono subito d’accordo. Cake trovava Jade intrigante, umile, e non odorava di grasso di cottura. Jade trovava Cake un uomo gentile, umile e attraente. Tutti si resero presto conto che i due si stavano innamorando, gli sguardi che si scambiavano parlavano chiaro. I frequentatori della palestra scommisero su chi avrebbe avuto il coraggio di chiedere di uscire a chi. Nonostante provassero sentimenti forti uno per l’altra, erano entrambi timidi, e non si resero conto di che cosa provasse la controparte.
Cake non riusciva a smettere di pensare a Jade, e le sessioni di kickboxing diventarono il clou delle sue settimane.
I dipendenti del salone di bellezza dove lavorava Jade si ritrovarono in una discoteca in occasione della festa di Natale, e la ragazza invitò anche i kickboxer. Cake si sentì un po’ a disagio nell’ampio locale. La festa fu la solita storia, con i presenti separati in piccoli gruppi. Jade notò che Cake era visibilmente a disagio e fuori luogo, come un cucciolo abbandonato. La ragazza si distaccò quindi dai colleghi e raggiunse Cake. Quest’ultimo se ne stava in disparte con una bottiglia di Bacardi Breezer in mano mentre osservava la pista da ballo gremita.
“Sono contenta che tu sia riuscito a venire” gridò Jade, sovrastando la musica.
“Grazie per avermi invitato”.
Seguì un silenzio tra i due con in sottofondo la musica spacca-timpani. Nessuno di loro seppe cosa dire, e i due si fissarono per diversi secondi fino a quando Jade disse “Hai un buon odore, cos’hai su?” Riferendosi al dopobarba di Cake.
Cake sembrò rifletterci, le rivolse un ghigno e poi rispose “Quello che ho fra le gambe, ma non penso che tu sia in grado di fiutarlo” e scoppiò a ridere.
Jade sembrò confusa, ma poi capì. Fu sufficiente a rompere il ghiaccio, quindi Jade ridacchiò e disse “Beh, sarebbe un peccato sprecare un alzabandiera”. Jade gli sottrasse la bottiglia di mano e la posò sul tavolo.
“Andiamocene, vieni con me in un posto più tranquillo” disse lei, e poi suggerì “Andiamo a casa mia”.
La coppia camminò mano nella mano, uscendo dalla discoteca con i kickboxer che esultarono.
Jade aveva qualche anno in più di Cake, i capelli marroni mossi, gli occhi castani e i tratti sbarazzini. Ricordava una Catherine Zeta-Jones più bassa e muscolosa. Cake era meravigliato dal corpo femminile e ben definito di lei, che ammirò per bene quando una fredda mattina di Natale i due si ritrovarono nudi tra le braccia l’uno dell’altra nel letto singolo di Jade al suo appartamento al piano superiore del salone di bellezza.
A Cake venne la nausea quando i forti odori chimici che aleggiavano nel locale al piano terra gli raggiunsero le narici. Era quasi in grado di captare il medesimo lezzo su Jade, la quale tuttavia aveva un profumo molto migliore delle chef con cui era uscito.
Si trattò della prima vera relazione per entrambi. Cake e Jade divennero inseparabili, trascorrendo insieme tutto il loro tempo libero. Cake disse a Jade del proprio olfatto super sviluppato, informandola di non essersi comportato come un coglione sfacciato quando le aveva detto di non potersi trattenere da lei di notte a causa dei forti odori. Il fetore di ammoniaca presente nella tinta per capelli gli faceva venire i conati di vomito.
Entrambi guadagnavano bene, ma a causa dei prezzi astronomici del mercato immobiliare londinese, Cake si iscrisse a gare di pasticceria per poter acquistare un appartamento il prima possibile.
La coppia accumulò una cifra considerevole, e accesero un prestito ipotecario su uno sciccoso appartamento a metà strada tra l’Avalon e il salone di Jade a Knightsbridge.
Erano follemente innamorati, e si godettero la loro vita insieme, intenzionati a sposarsi quando sarebbero stati sufficientemente sistemati per metter su famiglia.
Per il momento però erano contenti di godersi le luci della ribalta del Fenomeno della Pasticceria, con Cake che vinceva ogni competizione a cui partecipava.
Jade sorprendeva Cake di frequente. Era una parrucchiera di successo con uno spiccato senso dello humor e uno strano interesse per l’orrore, come apprese Cake quando Jade scrisse un romanzo su un cocainomane che sniffava le ceneri di un vampiro disintegrato, mutando in Keith Richards. Romanzo che aveva pubblicato.
Cake a quel punto lavorava all’Avalon da tre anni, e si era costruito una reputazione di prima classe. Quando i proprietari avevano annunciato di aver venduto l’hotel a una grande multinazionale, a Cake tornò alla mente l’esperienza al Savoy e decise che fosse il momento di passare oltre. Quindi consegnò le proprie dimissioni appena prima di ricevere il premio per il Pasticcere dell’Anno.
Ricevette delle offerte particolarmente remunerative, oltre alla proposta dell’Avalon di aumentargli generosamente il salario, ma Cake, ora all’apice della propria professione, volle mettersi in proprio insieme a Jade.
Cake era felice di non partecipare più alla premiazione di Pasticcere dell’Anno, così come altre cerimonie di genere, poiché potevano prendervi parte solamente chef sponsorizzati da hotel al top di gamma. Cake si era sempre sentito a disagio, e si rese conto di avere un aspetto orribile in abito, dato il suo ampio busto sorretto dalle gambe snelle. Una sartoria eccellente di Londra gli aveva realizzato l’abito su misura, ma gli stava comunque come se fosse stato confezionato da una persona cieca. Inoltre si sentiva in torto a partecipare a competizioni simili, dato che il suo olfatto amplificato e il suo palato impeccabile gli davano sempre un indiscutibile vantaggio sui propri avversari. Il suo obiettivo divenne quindi quello di portare a nord i sapori e le fragranze del sud, unitamente alla clientela decadente. Cake e Jade stavano insieme da tre anni, e avevano acquistato un locale nella città di Lincoln che avevano convertito in panetteria e pasticceria, realizzando il sogno di Cake.
Jade volle avventurarsi al nord insieme a Cake per aiutarlo nell’impresa. La ragazza era contenta della propria vita a Londra, e le sarebbero mancati i soldi e l’adulazione dell’avere per promesso sposo una superstar della cucina, ma sapeva che Cake non era felice di lavorare in grandi hotel. Il lavoro di Jade pagava bene, e con il salario elevato di Cake, oltre ai premi in denaro vinti alle gare di cucina, riuscirono ad accumulare sufficienti fondi per finanziare la loro avventura di Lincoln, nonostante il mutuo da pagare. Jade si recava regolarmente a Lincoln per controllare i progressi al locale. Il contratto di Cake all’Avalon sarebbe terminato di lì a poche settimane, quindi si sarebbe trasferito con Jade nella città del nord.
***
Il gran giorno giunse quando ‘CAKE’S Bakery & Pâtisserie’ aprì al pubblico. Per Cake e Jade fu il momento di vedere se il loro lavoro avesse dato i frutti sperati. Alla pasticceria erano come genitori fieri del proprio figlio che non vedevano l’ora di mostrare a tutto il mondo.
“Che profumo meraviglioso” disse Jade baciando Cake, il quale aveva cucinato insieme ai suoi due collaboratori dalle 5 di quella mattina, diffondendo aromi paradisiaci nel locale.
Cake sembrava agitato, in piedi davanti alla vetrina che metteva in mostra torte e pasticcini. Guardò poi i suoi due collaboratori al di là del vetro che divideva la pasticceria dal laboratorio, portò l’attenzione su Jade, sospirò, si corruccio e le chiese “Come ti sembra?”
Jade gli prese la mano e disse “È perfetto, non ti preoccupare”.
“Non vedo nessuno fare la fila fuori” disse Cake guardando all’esterno. Controllò l’orario sull’orologio a parete. “Sono le 7:45” aggiunse giocherellando nervosamente con le mani.
Due uomini bussarono alla porta.
“Era ora” disse Jade aprendo la porta e facendo entrare i due prima di richiuderla.
“Scusate il ritardo” disse Kris Pinyoun, il portiere della squadra di calcio di Lincoln, il quale arrivò insieme a un fotografo della Gazzetta di Lincoln per inaugurare il negozio.
Jade guardò fuori, sospirò, e chiuse la porta a chiave.
Cake, Jade, le cameriere e Kris si sistemarono al centro del negozio, attorno a una torta decorata dal logo di Louis Vuitton in bella vista. Il fotografo scattò una foto di Jade che tagliò la torta e ne porse una fetta a Kris, il quale ne prese una forchettata. Poi il fotografo immortalò anche il momento in cui Kris ne assaggiò un boccone. L’espressione dell’uomo cambiò quando la torta delicata gli si dissolse in bocca e ne assaporò le sfumature.
‘Ottima performance’ pensò il fotografo che continuò a immortalare le espressioni felici del calciatore.
“Sono le otto” disse Cake, chiaramente agitato quando controllò l’orologio a muro.
Jade sorrise ed esordì “Okay, apri le porte”.
Sarah aprì la porta d’ingresso, e lo staff si sistemò dietro al bancone alle rispettive postazioni di lavoro.
Cake e Jade restarono abbracciati accanto a Kris Pinyoun, il quale si servì un’altra fetta di torta quando entrarono alcune persone. Il fotografo realizzò alcuni scatti dei primi clienti, mentre Jade servì loro una fetta della torta di Louis Vuitton.
Kris si servì un’altra fetta della torta che diminuiva a vista d’occhio, e una volta terminata disse “Allora andiamo”.
Cake pagò Kris 300 sterline.
“Quella torta era deliziosa” disse Kris, raccogliendo le briciole dal centrino verde di carta. “Buona fortuna con l’attività”. Riportò lo sguardo sulla torta di Louis Vuitton, ora quasi finita, ma dopo aver ricevuto un’occhiataccia da parte di Jade si rese conto di essersi trattenuto più del dovuto; quindi se ne andò.
Alcuni clienti entrarono e uscirono nel corso dell’ora seguente.
“Pensavo ci sarebbe stata più gente” disse Cake, chiaramente deluso.
“Andrà tutto bene” disse Jade rassicurandolo “Il primo giorno è sempre un po’ incostante, quindi non preoccuparti. E poi sono solo le nove e mezza”.
“Credo comunque che manchi un ingrediente” disse Cake annusando gli aromi.
“Tu pensi sempre che manchi un ingrediente; l’irraggiungibile spezia mancante. Forse chiederò a Big Dave di scorreggiare. Di solito ti fa andare in tilt i sensi” disse Jade ridacchiando.
“Credi che abbiamo fatto la cosa giusta? Ci costa molti più soldi di quanto pensassimo” disse Cake.
“Sono sicura che sia la cosa giusta” rispose Jade, dandogli un bacio sulla guancia. “Adesso levati dalle palle e vai a fare le tue magie, mi serve una meringata”.
Cake andò nel laboratorio, e grazie alla tramezzatura di vetro vide il via-vai di clienti serviti da Jade e dalle ragazze. Sapeva che la sua famiglia sarebbe venuta a fargli visita più tardi, ed era certo che sarebbero stati fieri di lui.
Le cose non andarono secondo i piani per la coppia. A causa di spese non previste avevano sforato di molto il budget, condizionato da regolamenti edilizi e imprenditori frettolosi. Era quindi stata posticipata l’apertura del negozio.
La pasticceria era però mozzafiato. Si trovava nel centro di Monks Road, la strada dello shopping di Lincoln. L’edificio di due piani era a pianta aperta al primo piano, zona che Jade e Cake avevano convertito in un soggiorno di lusso. La vetrina si trovava tra quelle di altri negozi della via, ed era adornata da un ampio cartello verde e un logo in foglia d’oro.
L’interno ricordava un ristorante decadente degli anni 20 di Londra; era anche presente un’imitazione di un lampione a gas e altri apparecchi Art Deco, il tutto completato da colonne di marmo verde lime in ogni angolo. Il colore principale era il verde giada, e tutto ero in tinta, dalle stoviglie ai rivestimenti, dai sacchetti monodose di carta ai centrini.
Nella sezione pasticceria erano distribuite ampie vetrine lungo i muri, separando il laboratorio tramite una tramezzatura di vetro affinché i clienti potessero vedere le lavorazioni. Era principalmente un locale d’asporto, tuttavia erano stati sistemati diversi tavoli rotondi in ferro battuto Stamford con sedie abbinate a cui i clienti si sarebbero potuti accomodare per godersi l’atmosfera nel consumare i prodotti. Al locale lavoravano tre cameriere e due pasticceri. Questi ultimi, esperti, erano stati scelti tra i molti che si erano candidati per la posizione, desiderando l’opportunità d’imparare dal leggendario Cake.
Dave Smith e Dave Jennings erano i due pasticceri assunti da Cake. Per evitare sviste, Cake chiamava Dave Smith ‘Big Dave’ data la sua altezza imponente, mentre Dave Jennings era ‘Small Dave’ per il motivo opposto. Sarah, Tracy, e Jackie erano le cameriere.
I prodotti esposti nelle vetrine erano disposti in modo simmetrico.
Una sezione della vetrina a temperatura controllata conteneva filoni di pane, sandwich e panini, come quelli a base di mandorle e Roquefort a pasta acida, filoni del pastore, sandwich gourmet e panini sottomarino al parmigiano e origano con farciture vegetariane. In un’altra sezione erano esposti i dolci fatti di pasta sfoglia e pasta frolla, mentre nell’ultima, refrigerata, erano state sistemate in bella mostra torte e dessert che avrebbero fatto invidia a ogni stabilimento di alta cucina, figurarsi a una pasticceria di Lincoln. Cake e il suo team ristretto creava delle delizie, come il tartufo di cioccolato bianco e amaretti, fragole Arnaud e macarons di alta fattura. Il pezzo forte dell’inaugurazione fu l’interpretazione di Cake del logo di Louis Vuitton che aveva realizzato sulla torta.
Le teste di Dave non avevano smesso di girare da quando avevano iniziato a lavorare con Cake. Era veramente un maestro, anche se lo trovavano un po’ eccentrico. Ogni volta che completava una pietanza l’annusava diverse volte, si accigliava e annunciava che c’era ancora qualcosa di mancante. Non capivano il perché, dato che tutto ciò che creava Cake era delizioso e aveva un aspetto spettacolare.
La pasticceria venne fornita di nuove attrezzature, di forni di acciaio inossidabile, impastatrici e altre apparecchiature specifiche. In cucina brillavano le lamiere fissate alle pareti, ai lavandini e applicate su alcune sezioni del pavimento, mentre i condizionatori e altre impianti regolavano la temperatura nei compartimenti di stoccaggio per prodotti specifici. Il locale ultramoderno del XXI secolo aveva l’aspetto di una pasticceria francese del XIX secolo.
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