Jessica Ek
Giovanni Haas
Il killer delle laureande
Il Killer delle laureande è un thriller soprannaturale. I temi portanti della storia sono la famiglia, le eredità particolari, il coraggio di cambiare cose che sembrano immutabili e gli scherzi del destino.
Un romanzo d'avventura per tutte le età che condurrà il lettore in un'indagine compiuta dai tre protagonisti con mezzi non tradizionali, a caccia di un serial killer sfuggente e geniale.
Giovanni HAAS
JESSICA EK
IL KILLER DELLE LAUREANDE
Prologo
22 novembre 2011
Sono le 06:58. Mancano due minuti prima che la radiosveglia si metta a suonare, ma Matteo è già sveglio.
Fra meno di un'ora arriverà Nico e non ha proprio voglia di vederlo, anche se è stato lui a chiedergli di passare. Deve esporgli i termini del contratto in prima persona; se lo lasciasse fare ai genitori di Francesca, si farebbero abbindolare da lui e dalle sue chiacchiere. Invece, se sarà chiaro e inflessibile, Nico rinuncerà all'incarico prima ancora di cominciare, e sarà un bene per tutti.
Scattano le 07:00 e Time dei Pink Floyd invade la camera. Matteo allunga la mano per zittire la sveglia ma quella gli sfugge, continuando a torturarlo. Così si gira per vedere dove si sia cacciata e, in quel momento, viene aggredito da una luce fortissima, bianca. Chiude gli occhi, ma l'intensità non diminuisce, anzi. È come se stesse fissando un faretto da 500 watt.
E poi una sagoma nera si frappone tra lui e la fonte di luce, creando un cono d'ombra: Matteo ha l’impressione di osservare un'eclissi di sole senza gli occhiali di protezione. Non riesce a mettere a fuoco, ma riconosce una siringa stretta in una mano che si allunga verso di lui. La sagoma lo raggiunge e gli passa attraverso. Qualcosa è cambiato: ora è sospeso a due metri da terra, e la stanza è diventata gelida; la luce torna ad accecarlo.
Fermo, cosa vuoi fare!
Vorrebbe gridare, ma non ci riesce.
La sagoma scura infila l'ago nel braccio di una ragazza che ha preso il suo posto nel letto. Lei non fa resistenza e pare addormentarsi. La porta della camera si chiude con un tonfo e tutto diventa buio. Matteo riacquista i suoi ottanta chili e cade sulla ragazza.
Conosce bene quella sensazione. Sa che nessuno è rimasto schiacciato sotto il suo peso.
Con un moto di rabbia colpisce la sveglia, zittendola. Rovista nel cassetto, prende due pasticche per il mal di testa e le ingoia senz'acqua.
Ti troverò, Francesca. Ti troverò.
Capitolo 1
Per una ragazza abituata alla segnaletica delle strade di Zurigo non è stato facile muoversi in auto nella campagna piemontese. Jessica ha faticato non poco per trovare quella casa sperduta nel verde.
Senza scendere dalla macchina controlla l'iscrizione sulla targa posta sopra la cassetta della posta.
MATTEO BALESTRA
Consulenze investigative e precognizioni
Eccoti, finalmente. Ti ho trovato.
I suoi sentimenti sono un misto di emozioni: orgoglio e soddisfazione perché le sue ricerche stanno rapidamente avendo successo, timore perché nella sua vita ora tutto è cambiato. Nel giro di una settimana ha perso le sue certezze, si è lasciata alle spalle ciò che ha fatto e costruito nella sua vita, ha abbandonato le persone che l'hanno aiutata a crescere e a diventare ciò che è oggi; ha rinnegato quello che prima credeva essere giusto, e ora sa essere sbagliato.
Ha preso una nuova strada, e non sa ancora se Matteo vorrà accompagnarla e sostenerla in questo viaggio.
Percorre i pochi metri che mancano per arrivare alla casa e spegne il motore della Twingo. Rimane alcuni minuti seduta, le mani strette sul volante e la tentazione di ritornare da dove è venuta.
Quando finalmente scende dall'auto, l’aria fresca le sposta i capelli castani lasciati sciolti sulle spalle e la spinge ad abbottonarsi la giacca di jeans. Indossa degli scarponcini di pelle, un paio di blue jeans e una camicetta di cotone bianca con dei ricami neri.
Certo, sarebbe stato meglio indossare qualcosa di più pesante quel giorno, magari un maglione o una giacca a vento, ma quando ha scelto come vestirsi si è preoccupata più dello specchio che del meteo.
Il vialetto che abbandona la strada sterrata e porta alla proprietà è in ghiaia rossa e taglia in due un prato ben curato, circondato da una staccionata in legno. Oltre quello steccato, il sottobosco è privo di sterpaglie, solo erba e foglie secche.
Tra i rami quasi spogli degli alberi filtra, senza difficoltà, la luce del sole ancora basso nel cielo. Non ci sono cancelli, e neppure cartelli che indicano una proprietà privata; al contrario, sopra la veranda della casa in pietra e legno è appesa una balestra ornamentale di un metro e mezzo con la scritta “Benvenuti”.
La leggera brezza porta alle sue narici un profumo di bosco e di natura selvaggia, cosa rara in città; per assaporarlo appieno, Jessica prende due respiri profondi per poi rilasciarli adagio adagio. Gira lentamente lo sguardo tutt'intorno per ammirare il paesaggio che l’autunno ha ridipinto sui toni del rosso e dell’arancio, del verde scuro, del viola e dell’oro. La rugiada, colpita dai raggi di sole, fa risplendere le foglie che dondolano alla brezza e crea in quell’angolo di bosco un caleidoscopio baluginante di vita segreta: un tripudio di emozioni la travolge, le sembra di non essere mai stata in un luogo tanto bello, e probabilmente è così.
Questo benessere, però, svanisce in fretta; qualcosa la mette a disagio, ha l'impressione di essere osservata. Un tramestio proveniente dal bosco alle sue spalle la sorprende col cuore in gola. Si volta di scatto. Uno scoiattolo si sta arrampicando su un albero: ha la pelliccia marrone, quasi rossiccia, e una coda lunga e folta. Sale rapido sino a metà del tronco e lì si ferma; per qualche istante pare guardare proprio lei, poi torna a salire veloce verso i rami più alti. La bestiola sparisce dalla sua vista e il buon umore torna a impadronirsi del suo animo. Tutta la preoccupazione e i timori che le occupavano i pensieri prima di scendere dall'auto, ora sembrano svaniti.
Jessica osserva il porticato: vorrebbe camminare a passo deciso e bussare alla porta, ma adesso che si trova lì davanti non è più così semplice come lo aveva immaginato. Getta sguardi furtivi attraverso le finestre coperte dalle tendine per cercare di capire se c'è qualcuno in casa. Sulla destra della casa c'è un capanno di legno con il portone aperto che lascia intravedere diversi attrezzi da lavoro; accanto al capanno è parcheggiato un Qashqai nero 4x4.
Uno sbuffo, quasi un lamento, sembra provenire dal capanno.
«C’è qualcuno?»
Non riceve risposta.
Ancora lo stesso suono, questa volta più deciso e forte. Jessica dà un’occhiata alla sua auto: non si è allontanata molto, tre o quattro metri al massimo. In quel momento un grosso cane, forse un San Bernardo viste le dimensioni, attraversa il portone con passo lento e annoiato. Si ferma a metà strada per stirare la muscolatura e si sdraia sull'erba come se fosse esausto per quella breve passeggiata.
«Ciao, bel cagnone.»
Jessica sorride, ha sempre amato gli animali e in particolare i cani. Quello non sembra avere brutte intenzioni, ma lei tiene sott’occhio la portiera della Renault, pronta a saltare in macchina se il pelosone dovesse dimostrarsi aggressivo.
Quasi si senta chiamato in causa, il cane abbaia un paio di volte con un timbro più acuto; Jessica fa un passo indietro, ma non può non notare che il San Bernardo sta muovendo la coda in modo chiaramente affettuoso.
«Vuoi delle coccole?»
Il cane abbaia ancora e si lascia cadere su un fianco, mostrando il lungo pelo bianco sotto la pancia. Con cautela, Jessica gli si avvicina; si abbassa piegando le ginocchia e gli accarezza dapprima la testa e poi l’addome. Il San Bernardo alza le zampe verso il cielo.
Mancavi solo tu per rendere questo posto perfetto. Una giornata iniziata così non può finire male. Pensa.
Dà un'ultima carezza al cane, si rialza e, con nuove energie, va alla porta. Non c'è un campanello; bussa, aspetta qualche secondo senza ricevere risposta e bussa in modo più deciso.
«È aperto, entra pure!»
Sorpresa dalla strana accoglienza, Jessica apre la porta; è di legno massiccio e molto pesante, deve fare più forza di quanto si aspettava. Fa due passi in silenzio, ma all'interno non vede nessuno; le ci vuole qualche istante perché la vista si abitui alla semioscurità. Si ferma a osservare la casa, un unico grande locale con le pareti in legno, arredato in stile country chic, molto carino e ben curato nonostante le dimensioni ridotte.
Sulla destra c’è la piccola cucina con tavolo da pranzo, una dispensa di noce, i fornelli e il lavandino di ceramica sotto la finestra con le tende ben chiuse; a sinistra si apre il soggiorno con un divano rosso rubino, un tavolinetto colmo di libri, una tv appesa al muro e il camino di pietra nell'angolo; un po' di brace arde ancora e il buon odore di legna avvolge la stanza.
Accanto alla porta d’ingresso ancora aperta, c'è una scrivania con una poltrona in pelle; al centro della parete un'altra finestra con le tende tirate. A prima vista sembra che chi ci vive ci tenga a tenere tutto in ordine. Nella parete in fondo, proprio di fronte all’ingresso, una porta socchiusa lascia filtrare un po' di luce; probabilmente dà sulla camera da letto e il bagno.
«La porta! Chiudi la porta che esce il caldo, e non lasciare entrare Obelix!» La stessa voce che l'ha invitata a entrare proviene da lì. Ora sembra leggermente scocciata.
Jessica percepisce in modo chiaro un pensiero, come se fosse suo: È appena arrivato e già mi dà fastidio.
Per riuscirci normalmente si deve concentrare, ma in questo caso è stato del tutto involontario. Mentre chiude la porta vorrebbe dire qualcosa, consapevole di essere vittima di un equivoco, ma la stanza diventa buia e lei resta con lo sguardo fisso verso quella voce, indecisa sul da farsi.
«A proposito, come mai sei già qui?» L’uomo apre la porta permettendo alla luce di invadere il locale. «Eravamo d'accordo di vederci tra…»
Fa un passo verso di lei e si blocca.
Indossa solo delle ciabatte da spiaggia e un asciugamano legato in vita; ha il viso quasi completamente coperto di schiuma da barba, la pelle è libera solo dove le lamette hanno già fatto il loro lavoro. Entrambi restano immobili a fissarsi.
«Mi scusi» balbetta lei.
«E lei chi è?»
«Mi chiamo Jessica Ek. Avrei bisogno di parlare con il signor Balestra.»
«Lo sta facendo.»
L’uomo si controlla l'asciugamano, fa un passo avanti e allunga la mano per salutare, ma la ritrae subito, perché imbrattata di schiuma.
Jessica non riesce a togliere lo sguardo da quel fisico allenato: spalle larghe, bicipiti e pettorali vigorosi, per non parlare degli addominali. La pelle è abbronzata abbastanza da capire che a lavorarci non è stato solo il sole di agosto, i capelli sono tenuti corti in modo da sembrare sempre in ordine.
Il suo ospite dimostra al massimo trent'anni, ma lei sa che ne ha trentaquattro, due meno di lei. Evidentemente è una persona che tiene al suo fisico, non c’è nulla di male in un po’ di sana vanità. «Mi scusi, aspettavo qualcuno. In ogni caso, vado a sistemarmi e sono da lei in un momento.»
Torna un po’ di fretta al di là della porta e la lascia socchiusa.
«Per favore, apra le tende e si accomodi pure, signorina… Ek, giusto?»
«Esatto, Ek, ma mi può chiamare Jessica.»
«E lei mi può chiamare Matteo.»
Ora che quella stanza è completamente illuminata, Jessica si sente più a suo agio, anche se mentre si sbottona la giacca e si siede al tavolo da pranzo, si sente sciocca per non essere riuscita a tenere lo sguardo fisso sul volto del padrone di casa e per aver permesso ai suoi occhi di perlustrarne la bellezza.
«Non mi pare di avere mai sentito questo cognome» s'informa lui.
«È svedese.»
«Ecco svelato il suo accento.»
Nel dire queste parole si riaffaccia alla porta dandole un'occhiata; lei percepisce che si è trattato di un controllo, ma non se la prende: in fondo è un'estranea e l'ha lasciata sola nel suo soggiorno.
«In realtà, sono di madrelingua tedesca.»
«Comunque non si nota quasi.»
A intervalli regolari si sente l'acqua scorrere e il rasoio che viene pulito con dei colpetti sul lavandino.
«Deve davvero scusarmi» riprende Matteo, «non immaginavo di trovare lei in soggiorno. Credevo fosse entrata un'altra persona che sto aspettando.»
«Forse non ho scelto il momento giusto per venire qui.»
«Si figuri, abbiamo una mezz'oretta. Inoltre, Nico è sempre in ritardo.»
Sempre che si faccia vedere. Jessica sente senza problemi anche questo pensiero.
Visto che il tempo a sua disposizione è poco, ne vuole sprecare il meno possibile e cerca di accelerare i preliminari.
«Possiamo darci del tu? Così mi riesce più facile parlare di certe cose.»
Forse, però, ha fatto uno sbaglio; anche se non riceve un pensiero chiaro, percepisce dello stupore giungere dall'altra stanza. D’altronde, si sono appena presentati. Con suo sollievo, la risposta è comunque positiva.
«Come preferisci, ma di cosa mi vuoi parlare?»
Jessica fissa lo scorcio di locale al di là della porta: vorrebbe continuare il suo discorso, ma non le escono le parole.
«Se non sai da dove iniziare, ti consiglio di partire dall'inizio.»
Matteo si affaccia di nuovo e sorride. Jessica, incrociando i suoi occhi, abbassa lo sguardo.
«Forse no, Matteo, forse è meglio partire dalla fine e dirti subito perché sono venuta; quando tornerai di qua, potrei non averne più il coraggio.»
«Così mi fai preoccupare» le risponde in tono quasi scherzoso e a voce alta, per farsi sentire sopra lo scroscio dell'acqua che è tornata a scorrere.
«Sono tua sorella.»
Quella frase suona come una deflagrazione nella stanza silenziosa.
Matteo riemerge da dietro la porta con il rasoio in mano: la parte destra del viso rasata e l'altra ancora coperta dalla schiuma.
«Come hai detto, scusa?»
Jessica lo guarda dritto negli occhi. «Hai sentito bene. Siamo fratelli.»
«Fratelli? Non è possibile! E poi, mi hai appena detto che sei svedese.»
«Anche io sono stata adottata.»
Ora lo ha colpito anche più duro. Lo vede nell’espressione stupefatta del ragazzo rasato a metà.
«Anche tu? Adottata? Ma… che significa, io non…»
«Torna di là, per favore, e ti racconto tutto.»
«Ma che scherzo è questo? Chi ti ha…»
«Ti prego, ti racconterò tutto. Torna di là che è più facile» Jessica vede un volto incredulo, forse arrabbiato. «Ti prego.»
Matteo continua a fissare la ragazza per qualche secondo, poi scuote la testa e se ne ritorna in bagno.
E dopo un attimo ancora di silenzio, lei comincia il suo racconto, questa volta dall'inizio e nel modo più conciso possibile, seguendo il discorso che si era preparata. L'acqua del lavandino ricomincia a scorrere.
«Sono cresciuta alla Pem di Zurigo, una scuola per ragazzi con delle doti più sviluppate della norma, sai cosa intendo… come le nostre, insomma.»
Una piccola pausa in attesa di una reazione; nulla, si sente solo il rasoio picchiettare sul lavandino.
«Ho sempre saputo che il dr. Magnus Ek era il mio padre adottivo, e credo che abbia sempre cercato di fare bene il suo lavoro. Comunque, non avevo idea di chi fossero i miei veri genitori, fino a qualche settimana fa, quando ho scoperto che mia madre… nostra madre, è una donna che ha lavorato alla Pem fino a quando avevo quasi diciotto anni.
Non è stato facile trovarla, ma ci sono riuscita e sono andata da lei. Mi ha raccontato molte cose sull'istituto dove sono cresciuta e dove ho lavorato fino alla scorsa settimana. Cose che inizialmente ho faticato a credere, ma che in realtà hanno dato una risposta a molte delle domande che mi sono sempre posta e a cui nessuno ha mai voluto dare una spiegazione in modo sincero.
«Non ho mai sentito parlare di questa Pem. Cosa significa esattamente?» La domanda di Matteo lascia trasparire scetticismo. Jessica immagina che lui stia pensando che voglia fregarlo o vendergli qualcosa.
«È un acronimo, il nome completo è PEMH School & ISR: significa Pre-Elementary-Middle-High School & Institute for Superior Research. Più semplicemente, Pem.»
«Caspita, bisogna essere superdotati solo per ricordarsi il nome.» Anche se non può vederlo, percepisce che Matteo non la sta prendendo sul serio. «E si trova a Zurigo questa Pem?»
«A Küsnacht, per essere precisi, un bellissimo paese sul lago di Zurigo; lì c'è la sede europea, mentre la direzione generale è in California. Non ci sono ragazzi più intelligenti, ma dotati di capacità che sono considerate molto speciali. Si calcola che una persona su centomila sviluppi in modo involontario delle capacità oltre la norma, ma solo l'uno per cento ne diventa consapevole, e di questi unicamente una minima parte metterà in pratica delle tecniche per perfezionare al meglio la propria “superdote”. Per questo motivo esiste la Pem, per trovare questi ragazzi speciali così da invitarli a sviluppare le loro capacità.»
«Invitarli?»
«Sì, esatto, non esiste la possibilità di iscriversi autonomamente, sono i professori e i ricercatori dell’istituto che cercano e contattano i genitori di possibili candidati a frequentare i corsi presso il centro. Più che ragazzi si tratta sempre più di bambini, anche molto piccoli; come saprai, questo tipo di capacità prima viene esercitata e più grandi sono i risultati che si possono raggiungere. Per questo motivo, l’istituto è dotato di tutti i gradi scolastici.»
Jessica attende un cenno, che però non arriva; riprende allora il discorso da dove è stata interrotta.
«Ovviamente, di tutto quello che mi ha raccontato nostra madre, la cosa che mi ha davvero sconvolta è stata sapere della tua esistenza. Tua e... del tuo gemello. Un vero shock, Matteo.»
L'acqua smette di scorrere.
«Gemello?» Il tono di Matteo è chiaramente irritato adesso. Si affaccia per guardarla bene: «Ma che stai dicendo?»
«Fammi finire, ti prego.»
Che stupida che sono. Aveva previsto un modo più delicato per rivelargli che aveva anche un gemello, ma quando le emozioni sono così forti è difficile seguire i piani. «Nostra madre è stata costretta a darci tutti in adozione. Fortunatamente, ha avuto la possibilità di conoscere me lavorando alla Pem, mentre di voi due non ha potuto tenere le tracce. Lei è una cartomante specializzata nella lettura del pendolino sai, per fare le ricerche e avere delle…»
Il suo racconto viene interrotto da un pensiero di Matteo più forte degli altri.
So cosa fa una cartomante.
Jessica percepisce anche una forte diffidenza nei suoi confronti.
«Scusa, è ovvio che lo sai.» dice. Poi alza lo sguardo dalla tovaglia e lo vede; Matteo è in piedi appena oltre la porta, e ha un'espressione esterrefatta. Indossa un vestito grigio con camicia azzurra e cravatta bordeaux scuro; così vestito non sembra lo stesso ragazzo di qualche minuto prima, eppure non ha perso nulla del suo fascino.
«È grazie al suo aiuto che è riuscita rintracciarti, e a scoprire cosa fai per vivere. Purtroppo, però, non ha trovato nulla su Ronaldo. Non sa neppure se il nome che aveva scelto per lui è stato cambiato.»
Jessica accenna un sorriso e solleva leggermente le mani dal tavolo, a indicare di aver finito.
«Scusami, Matteo. Mi rendo conto che tutto questo appaia sconvolgente, è stato così anche per me. Mi scuso anche per la mia incapacità di essere delicata ma… come vedi l’argomento non è dei più semplici da affrontare e noi due siamo praticamente degli estranei. Non mi stupirebbe se mi cacciassi via, sono sincera.»
Lui tace scuotendo la testa piano, quasi fatichi a prendere una decisione.
«Caspita, Jessica» dice infine, «il tuo racconto è incredibile e mi dispiace che tu stia vivendo tutto questo praticamente da sola.»
«Da sola fino a ora, ma adesso che ci siamo ritrovati potremmo riuscire dove non è riuscita nostra madre, e scoprire dove si trova nostro fratello.»
«Piano, piano. Nostra madre, nostro fratello… ascolta: io non credo tu stia parlando con la persona giusta.» Matteo usa un tono gentile, quasi parlasse con una bambina o con qualcuno molto disturbato. «Io non sono stato adottato e so di non avere sorelle o fratelli.»
Jessica resta seduta e accusa il colpo. Ovvio che dica così: è sconvolto. Non si era aspettata di vederlo correrle incontro e abbracciarla gridando “sorellina mia!”.
Matteo si siede di fronte a lei. Il suo sguardo è accomodante ora. «Mi spiace, ma credo che quella che chiami “nostra madre” ti abbia raccontato un sacco di frottole o, perlomeno, abbia letto male il suo pendolino e si sia sbagliata nel ritenere me uno dei suoi gemelli.»
«Matteo, so che è difficile da accettare, ma ti assicuro che non può essersi sbagliata. Come ti ho detto, è brava in quello che fa. La migliore.»
«Senti, io non ho idea quali siano le vostre capacità, ma so per certo…»
Lei allunga le braccia sul tavolo e prende le sue mani.
«Lo sento, ne sono certa. L'ho capito subito, da come è stato facile connettermi con i tuoi pensieri.»
Nello stesso istante, con una forza inaspettata, quasi violenta, Jessica viene invasa da una sensazione di angoscia e paura. Matteo sta fissando un punto indefinito ed è immobile, pare in stato di trance.
«Matteo? Mi stai ascoltando?»
Lui si riprende, rimette a fuoco la stanza e sfila le mani dalle sue.
«Senti, Jessica, ora devi proprio andartene. Sto aspettando una persona e non ho davvero tempo da dedicare a questa storia.»
«Ma cosa è successo?»
«Adesso non ho tempo. Per favore.» Matteo si alza e va verso la porta. «Torna da dove sei venuta, dimentica me e tutta questa questa strana storia che ti porti dietro. Non ha senso.»
Jessica sente una fitta di dolore percorrerle la mente. Il cuore le batte forte nel petto mentre asseconda la richiesta di Matteo e si alza. «Allora tornerò quando avrai un po' più di tempo e potremo…» non vuole arrendersi.
«No» fa lui, perentorio «lo dico per il tuo bene. Devi uscire da questa casa e non tornarci più.»
Jessica resta in silenzio a fissarlo.
«Ok, me ne vado, ma solo se mi dici cosa è successo. Ho letto delle tue capacità, so che vedi il futuro.»
«Cos’altro sai, sentiamo.»
«Che da queste parti sei piuttosto famoso, hai aiutato la polizia a risolvere un paio di importanti casi di ragazzi scomparsi. Hai una rubrica su una rivista settimanale e sei spesso ospite di talk show televisivi e radiofonici. Non è un caso, lo capisci?»
Matteo riflette un momento. «Va bene, ma poi te ne devi andare, chiaro?» Torna al tavolo, ma senza sedersi. Il suo tono non lascia spazio a repliche. Jessica annuisce.
«Ebbene, come sai ho la capacità di vedere avvenimenti non ancora accaduti. Quando mi hai preso le mani, ho visto chiaramente qualcuno che moriva; l'immagine è stata molto forte ed è sicuramente legata alla tua presenza qui. Quindi, anche se è probabile che io mi sia sbagliato, è meglio non correre rischi. Ora, per favore…» Matteo si dirige nuovamente alla porta.
«Chi hai visto morire?»
«Non lo so, non la conosco.»
«Allora era una donna. E come moriva?»
Eri tu, dannazione!
«Ora basta, vattene per favore!»
Il pensiero di Matteo è stato così forte da confondersi con le sue parole. Jessica sente chiaramente la sensazione di orrore che il giovane ha provato Ora è davvero spaventata.
«Va bene, vado. Ti chiamerò nei prossimi giorni, abbiamo entrambi bisogno di riflettere.»
«Ok, ok. Ma ora, per favore, lasciami solo.»
«Ti lascio il mio biglietto, chiamami appena ti sentirai pronto.»
Jessica gli lascia un biglietto con il numero corretto a penna e va alla porta, mette la mano sulla maniglia e si rigira verso Matteo.
«Hai mai avuto la visione di questo nostro incontro?»
«No.»
Lei vorrebbe aggiungere qualcosa, tipo "è stato un piacere" o "ci vediamo presto", ma non trova nulla di adatto.
«Ciao, Matteo.»
Lui accenna una risposta al suo saluto con un gesto del capo, ma non dice nulla.
Nell'uscire sotto il porticato, Jessica s’imbatte in un uomo sulla quarantina, con barba non curata, capelli troppo cresciuti e in disordine e un generale aspetto trasandato. Emana un puzzo di fumo misto a whisky o a qualche altro superalcolico, ma non pare ubriaco; probabilmente, è il suo vecchio cappotto alla tenente Colombo che si porta appresso i ricordi della notte precedente. È molto più alto di lei, e pur stando un gradino più in basso la potrebbe guardare dritta negli occhi, ma in realtà la sta esaminando dalla testa ai piedi.
Ma che bella topolina. «Buongiorno, signorina, si è persa?»
«Buongiorno. Cosa glielo fa credere?»
«Solo il fatto che non avevo mai visto una ragazza così graziosa da queste parti.»
«Forse non è mai stato qui nel momento giusto.»
E bravo, Matteo. I pensieri dell’uomo sono nettissimi.
Lui la saluta di nuovo ed entra senza bussare. Jessica gli risponde con un sorriso: essere definita “graziosa” l'ha divertita almeno quanto essere considerata una topolina. Incuriosita, si ferma a origliare, ma riesce unicamente a percepire alcuni pensieri: il nuovo arrivato è contento di essere lì, ma le cose cambiano dopo il primo scambio verbale che lei non può sentire, e i sentimenti dei due sono unicamente di contrasto; adesso entrambi paiono seccati di trovarsi insieme nella stessa stanza.
Quando non le arriva più nulla, scende i gradini del portico. Di fianco alla sua auto c'è una vecchia Mazda verde che, a giudicare dalla stato della carrozzeria, non pare passarsela bene; c'è anche Obelix sdraiato al sole che l'aspetta per ricevere una grattatina sulla pancia, e Jessica nonostante tutto sorride. Mentre si avvicina al cane dà un'occhiata nell'auto verde e, sui sedili posteriori, vede una scatola di cartone piena di libri, saranno almeno una ventina.
Incuriosita, prova a leggere qualche titolo; ci riesce solo con uno di quelli appoggiati più in alto che mostra la copertina. Und dann gabs keines mehr.
«Ma guarda, abbiamo gli stessi gusti in fatto di gialli.» dice piano, poi si accovaccia per accarezzare Obelix che uggiola di contentezza. E mentre è china sull’animale sente ancora quella sensazione strisciante di quando è arrivata: qualcuno la sta osservando dal bosco.
Si alza e osserva il paesaggio, poi, seguendo un istinto che conosce bene, chiude gli occhi. Un manto gelido l'avvolge, vede una ragazza intenta a proteggersi dal freddo con una coperta grigia, prova un brivido intenso di paura e solitudine e poi più nulla.
***
Nico appoggia la giacca sulla poltrona in pelle e osserva Matteo seduto al tavolo che si massaggia le tempie; è sorpreso di non vederlo come sempre in perfetta forma.
«E tu che ci fai qui?» gli chiede Matteo, che sembra accorgersi di lui solo in quel momento.
«Guarda che sei tu che mi hai fatto venire, visto che mettere piede nel mio ufficio sembra ti faccia venire l'orticaria.»
«Solo tu puoi chiamare ufficio uno sgabuzzino in un magazzino abbandonato.»
«Almeno io un ufficio ce l’ho.»
«Anch’io, ci sei dentro.»
«Ok, ok, lasciamo perdere. Piuttosto, dimmi, chi è la topolina che è appena uscita?»
Dalla finestra osserva Jessica fare le coccole a Obelix.
«Nulla che potrà mai avere a che fare con te.»
Nico continua a guardare la ragazza; lei si alza di scatto e si guarda intorno, fa qualche passo verso la staccionata e si ferma a osservare il bosco come stesse cercando qualcosa. Torna indietro, sale in macchina e lascia la proprietà. Lui si volta verso Matteo.
«Che ti è successo? Sei malato? Hai un aspetto che fa paura.»
«E tu hai usato il cognac invece del dopobarba?»
Matteo muove la mano davanti al naso, come per cambiare aria, e l'altro si annusa con fare indifferente il collo della pesante camicia da boscaiolo lasciata cadere sopra i jeans.
«Nico, dobbiamo parlare del caso Motta.»
«Cosa cosa? Vuoi parlare con me di Francesca Motta? Ma non mi avevi detto di starne alla larga, che avrei messo la polizia su false piste, in agitazione il rapitore, se non addirittura in pericolo la vita della ragazza?»
«E la penso ancora così; tu sei un problema e lo abbiamo già visto in passato con il caso Elia. Se esiste anche una sola possibilità di salvare questa ragazza, non voglio che la bruci.
Questo è un colpo basso; risveglia il rancore che accompagna i due, da quando i genitori di Elia avevano ingaggiato Nico per ritrovare il ragazzo. Lavoro che lo aveva portato a uno scontro frontale con Matteo, incaricato ufficialmente dalla polizia quale consulente.
«Allora, se è così che la pensi, credo che non abbiamo nulla da dirci. Ti saluto.»
«Aspetta, non sono io che ti voglio tra i piedi. Vuoi ascoltarmi?»
Nico lo osserva. «Vai avanti.»
«Edo e Silvia vogliono tentarle tutte per ritrovare la figlia; sono disposti a buttare via un po' del loro denaro per provare anche con te.»
«Ah, ora la situazione è più chiara. Temi che ti rubi il palcoscenico, vero?»
«Non ti montare la testa. Se accetterai il caso, sarò io a gestire tutte le informazioni: quelle che andranno alla polizia, quelle che saranno da comunicare ai genitori di Francesca e quelle da buttare. E solo la polizia potrà passare notizie alla stampa.»
«Ridicolo. E come farai a impedirmi di parlare con la polizia o con i genitori di Francesca? Scordatelo. Io non sono il tuo sottoposto» Gli occhi neri di Nico brillano di orgoglio ferito. Si passa una mano tra i capelli, anch’essi scuri, e aggiunge: «perché è sempre così maledettamente difficile avere a che fare con te, eh?»
«Queste sono le condizioni. Sono tutte in questo accordo tra te e i Motta.» Matteo gli mostra un foglio che ha appena preso dalla sua elegante cartella di pelle e lo appoggia sul tavolo, invitandolo a leggerlo, cosa che però Nico non fa.
«Se non ti sta bene, rinuncia al caso. Se invece accetti le condizioni e firmi, dovrai rispettare alla lettera quanto c’è scritto o non riceverai un soldo; inoltre, potresti beccarti una denuncia per intralcio alla giustizia se quello che dirai risulterà una tua invenzione. Decidi tu, io non sto certo a pregarti.»
Nico riprende il giaccone senza indossarlo. «Ci penserò. Buona giornata.» Apre la porta.
«Ehi, devi decidere adesso, altrimenti questo contratto non sarà più valido.»
«Allora usalo per qualcosa di utile, vedo che il fuoco si sta spegnendo.»
Matteo accartoccia il foglio di carta e lo getta nel il caminetto.
Nico esce, ma prima di chiudere la porta rivolge nuovamente lo sguardo all'interno. «Tu sai come sono andate le cose, è davvero squallido da parte tua tirar fuori la storia di Elia.»
Capitolo 2
Jessica suona il campanello. L’appartamento si trova al primo piano di una palazzina fuori città, una zona non certo di lusso, ma apparentemente tranquilla e pulita, dotata di piccoli giardini tra un complesso residenziale e l’altro e di larghe strade ben curate.
«Buongiorno, come posso aiutarla?»
La signora Balestra ha un tono di voce pacato e uno sguardo che lascia trasparire una certa diffidenza, anche se gentile. Il suo aspetto è curato: dalla pettinatura con un'accesa tinta ramata, senza segni di ricrescita, al trucco vivace, ma non eccessivo; dimostra circa sessant’anni. Indossa un vestito variopinto e allegro, accompagnato da una bella collana di pietre colorate che si abbinano perfettamente agli orecchini. Sicuramente una donna che non ama passare inosservata; caratteristica che evidentemente Matteo ha assimilato da lei.
«Mi chiamo Jessica e… devo parlarle. Mi concederebbe qualche minuto del suo tempo?»
«So chi è lei.» Il tono della donna diventa contrariato come un vento che muti repentinamente direzione. «Matteo mi ha chiamata, la sua visita di questa mattina lo ha sconvolto, sa? Come si è permessa di piombare in questo modo nella sua vita? Per trent'anni ha potuto vivere sereno ritenendo che fossimo noi i suoi veri genitori, e ora arriva lei e gli sbatte in faccia che sua madre lo ha abbandonato quando era ancora in fasce. Dovrei denunciarla per quello che gli ha fatto. Se ne vada.»
Jessica arretra, avvilita: «La prego di credermi… Credevo che lui lo sapesse, e nostra madre non lo ha abbandonato, è stata costretta a… »
«Se ne vada, io non ho niente da dirle!»
La donna spinge la porta, ma Jessica la ferma con una mano.
«La prego, mi lasci almeno spiegare… è una storia importante ed è giusto che ne siate al corrente!»
Questo gesto irrita la donna che alza la voce. «Le ho detto di andarsene!»
«No, non me ne vado! Sono sua sorella, e per trent'anni neppure io ho saputo della sua esistenza.»
«Già. E per tutto questo tempo siamo stati tutti bene, non ho motivo di parlare con lei.» Chiude la porta con vigore, facendola sussultare.
«Anche il fratello gemello di Matteo ha il diritto di conoscerci!» grida Jessica allo spioncino. «E senza il suo aiuto, forse non lo troverò mai.»
La donna riapre la porta quanto basta per mostrare il volto; la bocca aperta, gli occhi spalancati.
«Gemello? Ma…come? Io non ne ho mai saputo nulla.»
«Mi faccia entrare, per favore.» Jessica unisce le mani a mo' di preghiera, il viso supplichevole. «Le spiegherò tutto.»
***
«Vieni, ti stavamo aspettando» dice Silvia, stringendo forte la mano di Matteo e facendolo entrare nella grande villa in cemento armato, con vetrate scure che occupano quasi interamente le pareti che danno sul giardino e la piscina, ormai coperta con un telo grigio per la stagione invernale.
La mamma di Francesca ha cinquantacinque anni, ma ha già i capelli grigi; oggi li tiene sciolti, le superano di poco le spalle. È una donna alta e magra, anche se non si può definire una sportiva. Riesce a essere cordiale e calorosa anche in questi giorni così terribili, probabilmente i più difficili che abbia mai vissuto. La stanchezza e il dolore trapelano dal suo sguardo e dai suoi movimenti nervosi.
Si dirigono verso il soggiorno e, come forse fanno tutti quelli che passano da lì, lui non può fare a meno di guardare la grande foto di Francesca, ancora bambina, appesa alla parete. È ritratta in pantaloncini e maglietta, seduta sul ramo di un grosso albero mentre ride di gusto. Lì porta ancora i capelli lunghi e sono molto più chiari di come li ha oggi, almeno quindici anni dopo. La somiglianza con Silvia è lampante: l'aria sbarazzina e la fossetta sul mento fanno intuire all'istante che si tratta di madre e figlia.
«Sai, Nico è una persona adorabile» dice Silvia.
Matteo è sorpreso da quella affermazione, si ferma a metà del lungo corridoio.
«Nico?»
«Sì. È di là con Edo, stiamo bevendo un tè.»
Dovevo immaginarlo.
Matteo controvoglia la segue; riconosce la voce di Nico che parla con il papà di Francesca e ha un moto di fastidio acuto.
«Ah, eccoti» dice Edo. «Stavamo proprio parlando di te. Il tuo collega è davvero una persona speciale; come lo sei tu, d'altronde.»
I due sono seduti attorno a uno splendido tavolo in legno intarsiato, su delle sedie imbottite e foderate in pelle; Edo gli fa cenno di accomodarsi e sorride beffardo.
«Già, l'ho sentito dire» risponde Matteo, che sta osservando Nico: indossa vestiti puliti e ben stirati; non si è tagliato la barba, ma perlomeno si è pettinato.
«Matteo.» Nico accenna un saluto.
«Mi pareva di aver capito che avresti rifiutato l’accordo.»
«Infatti, è così.»
Silvia si siede vicino al marito. «Nico ci ha fatto capire quanto fosse sbagliato lasciare tutto il peso di certe decisioni solo a te.»
«Come?»
«Certo» continua Edo, «tu devi concentrarti sulle tue percezioni, non devi farti confondere da quelle di Nico. Ci ha spiegato come siano diversi i vostri poteri: tu puoi vedere nel futuro, mentre Nico nel passato. Siamo noi le persone più adatte a interpretare le vostre visioni. Sappiamo che sarà doloroso, ma siamo disposti a tutto per la nostra Francesca.»
Matteo fa un lungo sospiro. «Edo, Silvia, vi rendete conto che…»
«Ormai è deciso.» La voce di Edo si fa decisa. «Avrete accesso entrambi allo stesso materiale. Domani contatterò il commissario Martini e lo pregherò di includere anche Nico nel team d'indagine, come ha fatto con te. Naturalmente, potrete lavorare come meglio credete, assieme o in modo indipendente, ma esigo che collaboriate e, visto che vi pago io, tutto quello che scoprirete mi appartiene, quindi non sarà più Martini a decidere cosa mi può essere detto oppure no. È ovvio che informerete di tutto anche lui.»
Edo ha sessant'anni e da un decennio dirige da una delle più grosse fiduciarie della zona con molti dipendenti; è membro di svariati consigli di amministrazione ed è abituato a trattare con pezzi grossi della finanza. Quando decide una cosa sa come farsi capire e come imporre il suo volere.
Nico guarda Matteo e accenna un sorriso. Lui, invece, rivolge il suo sguardo al padrone di casa.
«Edo, non credo che Martini sia disposto ad accettare queste condizioni. Rischiamo che butti fuori anche me dal suo gruppo.»
«Non farà nulla del genere, altrimenti parlerò con il sindaco, il questore e la stampa. Il corpo di polizia non ha certo bisogno di altri problemi.»
«Un tè, Matteo?» Silvia appoggia sul tavolino una tazza fumante.
«Volentieri.» La ringrazia e, mentre si allunga a prendere la bevanda, manda uno sguardo furente a Nico, che gli risponde con un altro sorriso.
***
«Lei vive sola?»
Jessica osserva la donna che ha fatto da madre a suo fratello; è elegante nei movimenti e parla in modo cordiale ed educato. Sono sedute nel piccolo soggiorno arioso, arredato con mobili che probabilmente erano già lì quando arrivò in casa Matteo, ma ancora in ottimo stato. Le tendine a fiori che decorano le grandi finestre accostate ondeggiano leggermente alla brezza. C’è serenità nell’aria e adesso Jessica sa che Mateo ha avuto un’infanzia felice.
«Sì, mio marito Marco è morto due anni fa; la domenica di solito mi viene a trovare Matteo, ma ora è preso da un caso molto importante e domenica scorsa non è potuto venire. Sinceramente, dopo la telefonata di questa mattina, non sono sicura che passerà neppure la prossima: era sconvolto dalla notizia che lei gli ha dato. Il suo intervento ha messo me in una situazione difficile, Jessica.»
«Sono davvero dispiaciuta di averle procurato questi problemi, non era certo mia intenzione sciupare l’armonia della vostra famiglia e, a dire il vero, mi sono resa conto da sola di non possedere la fermezza d’animo necessaria a comunicare qualcosa di così delicato a Matteo. Mi sono sentita come il classico elefante nella cristalleria, stamattina, mi scuserò con Matteo ma … come si fa a essere preparati a una cosa simile? Lui è mio fratello e non lo vedo da decenni, si metta nei miei panni: davvero pensa che avrei fatto meglio a sparire e a rinunciare per sempre a lui?»
Le due restano in silenzio; sono sedute sul divano e sulla poltrona di pelle scura, gli unici pezzi dell'arredo che mostrano il segno degli anni, mentre il resto del mobilio è in legno lavorato in stile classico. L'unica cosa moderna è il televisore a schermo piatto, appoggiato su una credenza con accanto due fotografie con la cornice d'argento: una di Matteo e l'altra probabilmente del marito.
«No» dice infine la donna, «ma io sono stata sua madre e continuo a volerlo proteggere come quando era piccolo, anche se ora è un uomo e… ha tutto il diritto di conoscere la storia della sua famiglia di origine, qualsiasi essa sia.
Confortata da quelle parole, Jessica alza lo sguardo e si accorge che la signora Balestra la sta esaminando.
«Gli assomigli molto» le dice l'anziana, quasi a scusarsi.
«A Matteo?»
«Sì, hai i suoi lineamenti, quelli che noi non potevamo avere. Eppure, c’è sempre stato chi diceva: “ha gli occhi di suo padre” o “ride proprio come te, Elisa”.»
Jessica sorride con dolcezza.
«Io… Ho scoperto solo una settimana fa di avere dei fratelli, ed è stato uno shock dal quale devo ancora riprendermi. Quando sono riuscita a trovare Matteo, ho voluto conoscerlo subito, senza pensare alle conseguenze.» Jessica sospira e scuote la testa. «Speravo che sarebbe stato felice di conoscermi, invece mi ha praticamente buttato fuori di casa, e forse non mi vorrà più vedere.»
«Oh, questo non me lo ha detto. E perché mai?»
«Sono stata troppo brusca, ma non ho davvero saputo fare di meglio, mi creda. Credo che non mi abbia creduto. Che abbia pensato che io fossi una ciarlatana, una sorta di truffatrice, non so.» Jessica preferisce non raccontare della premonizione di Matteo.
«Lo posso capire, è tutto così incredibile. Poche ore fa ho scoperto che Matteo ha una sorella e ora che ha anche un fratello, per giunta gemello. E tu come l'hai saputo?»
Jessica normalmente non racconta di essere in grado di leggere il pensiero, per evitare di spaventare la gente o di essere presa per una squilibrata; Elisa, però, si è già confrontata con le capacità sensitive di Matteo, e Jessica si sente libera di raccontarle di cosa è capace, in modo che possa capire meglio la sua storia.
«Quando sono andata a parlare con mia madre, non voleva raccontarmi dei miei fratelli, si vergognava. Ma il suo pensiero è stato così forte che non poteva sfuggirmi, e ho rivisto la sua sofferenza nel doversi staccare da loro e gli sforzi che ha fatto negli anni per tornare sulle loro tracce.»
Elisa le prende una mano. «Jessica, mi devi perdonare. Sono stata un’egoista poco fa. La mia reazione è stata quella della madre protettiva e spaventata e… »
«E perché mai?»
«Quando hai suonato il campanello e ho aperto la porta, ti ho vista come qualcuno che voleva portarsi via il mio Matteo, non avevo capito quanto fosse importante per te ritrovare quella parte di famiglia che non hai mai conosciuto.»
«Non voglio portarle via suo figlio.»
«Certo, l’ho capito e ho intenzione di aiutarvi a trovare vostro fratello. Dimmi, cosa posso fare?»
«Vede, Elisa…»
«Ti prego, dammi del tu.»
«Ti ringrazio. Purtroppo, non so neanch'io come fare a trovare Ronaldo.»
«Ronaldo?» Elisa spalanca gli occhi.
«Sì, Ronaldo. Ti dice qualcosa?»
La donna sembra terribilmente confusa.
«Elisa?»
«Non ci avevano detto che fosse suo fratello.»
«Chi non ve lo aveva detto?» Jessica sbarra gli occhi.
«Quando, dopo tanti mesi di attesa, dall'orfanotrofio ci confermarono che la nostra candidatura come genitori adottivi era stata accettata e che c'era un bambino che corrispondeva a quanto da noi desiderato – richieste che si limitavano al sesso e all'età – ci dissero anche che si chiamava Ronaldo.»
«Quindi è come speravo io, erano nello stesso istituto! È per questo che sono venuta qui, ho bisogno del nome di quell'orfanotrofio.»
«Istituto Santa Margherita, vicino a Frosinone, ma temo che purtroppo non ti servirà a nulla.»
Jessica perde il sorriso.
«Cosa vuoi dire?»
«Ci vollero circa due mesi prima di ricevere il via libera per andare a conoscerlo. Avremmo dovuto passare alcuni fine settimana con lui per avere il definitivo benestare all’adozione. Noi naturalmente avevamo già preparato la sua cameretta e sulla porta c'era il suo nome, che mia madre aveva ricamato con delle letterine nei colori dell'arcobaleno. Tutto era pronto, i nostri più cari amici e parenti erano preparati a dare il benvenuto a Ronaldo, ma...»
«Cosa accadde poi?»
«Beh, arrivati all'orfanotrofio per la prima visita, la direttrice ci accolse sul portone d'entrata. Io mi aspettavo che avesse Ronaldo accanto a sé e che fosse circondata da altri bambini, invece era sola. Si capiva che non era serena e aveva un'aria molto stanca. Quando ci diede la mano per salutarci, notai che indossava dei guanti di cotone bianco, come quelli di un autista di limousine. Un'altra cosa che mi colpì fu come teneva sempre una certa distanza da noi, più di quanto facciano normalmente le persone che stanno parlando. Non mi era sembrato un atteggiamento adatto a chi si doveva occupare di bambini. Ci invitò ad accomodarci nel suo ufficio, e lì il suo viso si fece ancora più serio di quanto lo era stato sino a quel momento. Marco le chiese di Ronaldo…»
Jessica può sentire chiaramente le forti sensazioni che stanno riemergendo in Elisa, il volto della direttrice è ormai sfocato, ma è in grado di vivere quei momenti come se quei ricordi fossero suoi.
«Signori Balestra, purtroppo devo darvi una brutta notizia.»
«Quale notizia, dov'è Ronaldo?» domandò Marco.
«Due giorni fa si è sentito male, ha avuto la febbre molto alta, noi pensavamo che fosse influenza.» La direttrice fece un bel respiro, turbata. «Ieri sera, invece, è peggiorato e lo abbiamo portato in ospedale.»
«Ma… ma…» A Elisa non uscirono le parole.
«I medici dicono che è meningite.»
«Meningite?» ripeté Marco.
Elisa collegò i guanti e la distanza che aveva tenuto fino a quel momento la donna.
«Ieri sono venuti dei medici e hanno messo in osservazione tutta la nostra struttura. Qui abbiamo diciassette bambini, la cuoca e due educatori, siamo in troppi per essere ospitati in ospedale. Ora sono tutti nelle loro stanze e ci sono due infermiere che ci tengono sotto controllo.»
«Ronaldo come sta?» volle sapere Marco.
«Sono stata con lui tutta la notte, è per questo che non sono riuscita ad avvisarvi. È da ieri che…»
«Ronaldo come sta?» Elisa ripose la domanda in modo più duro.
«Questa mattina è entrato in coma, i medici dicono che non ce la farà.»
«Ma come fanno a dirlo? Magari Ronaldo è un bambino più forte di quel che credono.»
«Purtroppo la meningite è un'infezione che, se non viene diagnosticata immediatamente, non lascia alcuna possibilità, soprattutto in bambini così piccoli.»
Elisa si alzò e andò alla finestra, dove scoppiò a piangere. Marco la raggiunse e l'abbracciò.
«Signori Balestra, so di avervi dato una notizia terribile, ma io avrei una richiesta da farvi.»
I due non si voltarono.
«C'è un bambino della stessa età di Ronaldo che…»
«Ma con che coraggio, in un momento come questo…»
Elisa quasi gridò. Si girò verso la direttrice e vide il suo volto pieno di lacrime. Stava soffrendo quanto lei. «Mi scusi, mi scusi tanto.»
Lasciò le braccia del marito e andò verso la donna per abbracciarla, ma questa, capite le sue intenzioni, fece un passo indietro e alzò la mano per non farla avvicinare.
«Ronaldo è qui con me da due anni, e per me…» La direttrice non riuscì a finire la frase per i singhiozzi causati dal pianto che ormai non riusciva a trattenere ed Elisa uscì dalla stanza.
«Eli?» provò a chiamarla Marco, poi si scusò con la direttrice e la seguì.
«È una storia terribile» dice Jessica con un nodo in gola e gli occhi lucidi.
«Sì, è stato terribile e mi dispiace che tu abbia dovuto sapere così che…» dice Elisa mentre si asciuga gli occhi con un fazzoletto; prende un bel respiro e s'impone un sorriso. «Ma questa disgrazia ha fatto sì che Matteo entrasse nella nostra vita e la riempisse di gioia.»
«Matteo dunque era il bambino di cui parlava la direttrice?»
«Esatto. Una volta tornati a casa, io non volli più pensare a un'adozione. Marco, invece, dopo qualche settimana cominciò a riparlarne. Arrivammo anche a litigare, ma io ero irremovibile.»
«Poi che successe?»
«Due o tre mesi più tardi, le cose tra Marco e me non andavano più come prima: non dico che eravamo in crisi, ma qualcosa era cambiato. L’orfanotrofio era a più di sei ore di auto da casa nostra e Marco aveva cominciato ad andare a trovare Matteo senza dirmi nulla. Lo fece più volte, e io non lo capii. Una sera mi telefonò e mi disse di essere via per lavoro e che sarebbe rientrato solo il giorno seguente. Io non credetti alla sua storia e pensai che avesse un'amante; solo in quel momento cominciai a pensare alle volte che era partito molto presto e tornato a casa tardi dal lavoro, anche verso mezzanotte, e a come fosse stato strano e misterioso in quelle occasioni. Sembrava più stanco del solito, ma aveva un'aria felice e triste allo stesso tempo, e a quel punto mi fu chiaro che mi nascondeva qualcosa.»
«Quando hai scoperto come stavano in realtà le cose?»
«Decisi di affrontarlo al suo rientro; in realtà, fu lui ad affrontare me. Mi mise sul tavolo alcune fotografie che lo ritraevano con Matteo: ce n’erano alcune al parco giochi, altre dove Matteo stava mangiando una fetta di torta più grande di lui. In quegli scatti mio marito era felice come non lo vedevo da tempo.»
«E… Ti sei arrabbiata con lui per avertelo tenuto nascosto?»
«Non potevo, quelle foto erano troppo belle. E poi ero stata io a non voler più entrare nel merito; quando Marco provava a parlarmi, io cambiavo discorso oppure ci mettevamo a litigare. Mentre guardavo quelle foto, Marco mi disse: “Vuoi davvero rinunciare a tutto questo? E, soprattutto, vuoi che questo bambino debba rinunciare a una vita come l'abbiamo avuta noi, con una cameretta tutta sua, dei nonni che lo possono viziare e dei veri genitori?”»
«E tu?»
«Risposi: “Andiamo a prenderlo!". Tre settimane più tardi, Matteo dormiva nella sua nuova casa.»
Jessica si asciuga gli occhi; durante il racconto ha potuto leggere distintamente le emozioni che Elisa ha provato. Sono ancora molto forti e le hanno ricordato alcune sensazioni colte nei pensieri di sua madre quando le aveva rivelato l'esistenza dei fratelli.
«Avete fatto una cosa bellissima per lui.»
«Matteo era un bimbo magnifico, ed è stata una fortuna averlo con noi. Il suo arrivo ha sistemato in modo definitivo il nostro matrimonio: non abbiamo mai avuto momenti bui con lui in giro per casa.»
Dopo qualche attimo di silenzio, è Jessica a parlare. «Avrebbero dovuto dirvelo. Voglio dire, quando vi avevano proposto l'adozione di Ronaldo, avrebbero potuto chiedervi se non foste disposti a prendere entrambi Non capisco perché non lo abbiano fatto. Povero Ronaldo...»
«A essere sincera, ora che ci penso, prima di darci la notizia che eravamo idonei all'adozione, ci fu chiesto se eravamo disposti ad accogliere due fratellini. Nessun cenno al fatto che fossero gemelli, né ai loro nomi. Ma noi non ce l'eravamo sentita.»
Elisa intuisce la domanda che Jessica sta per farle.
«Ora vorresti sapere di Ronaldo, vero?»
«Sì ti prego.»
«Nelle due occasioni in cui vidi ancora la direttrice non affrontammo mai l'argomento, lei non fece nessun accenno a Ronaldo e io sinceramente non feci nulla per forzarla a parlare. Credo fosse stato mio marito a chiederle di tacere. Comunque il fatto che Matteo sia arrivato da noi può solo voler dire che la meningite non ha dato scampo a quel povero bimbo. Adesso, sapere che era il fratellino di Matteo è come ricevere un colpo al cuore.»
Forse è questo il significato della visione di morte che Matteo ha avuto quando ci siamo incontrati. Forse ha unito il mio arrivo con il dolore provato da Elisa e la morte di Ronaldo. Pensa Jessica, con una gran pena nel cuore.
«Credo che dovremmo dirglielo, è giusto che sappia che suo, che nostro fratello potrebbe essere morto.» Jessica lo dice in tono sconsolato, ma in lei c’è ancora una piccola speranza che le cose siano andate diversamente.
«A questo punto, non credo ci sia altro da fare. Per favore, lascia che sia io a farlo.»
«Naturalmente. Però io voglio ancora parlargli, vorrei che ci potessimo conoscere meglio… secondo te sarà possibile?»
«Faremo in modo che abbiate questa possibilità. Magari ci vorrà un po' di tempo, ma funzionerà. Ormai sei anche tu parte della famiglia, e mi dispiacerebbe se ci perdessimo di vista.»
La dolcezza di quella donna conquista Jessica: non si sente più un’estranea, una che ha invaso il terreno sacro di una famiglia con la sua presenza scomoda. Adesso è più tranquilla.
Dopo avere passato un'oretta a guardare gli album di fotografie dei Balestra, Jessica fa un gran respiro e chiede:
«Ti ricordi il nome della direttrice dell'orfanotrofio? Magari lavora ancora là.»
«Oh, ormai sarà sicuramente in pensione, è passato molto tempo. Comunque, era qualcosa come Di Baggio, o…aspetta, aspetta… era Del Biagio, sì, Del Biagio.»
«Grazie. Vorrei sapere qualche cosa di più sul loro arrivo in orfanotrofio: chi ce li ha portati, se c'era una persona di riferimento in caso di bisogno.»
Capitolo 3
23 novembre 2011
Nico è in piedi di fronte alla vetrata che dal suo ufficio guarda il magazzino sottostante, probabilmente a suo tempo serviva al direttore di quel posto per sorvegliare i dipendenti; lui invece la usa per riflettere, per dirigere lo sguardo dove ormai non c'è più nulla da vedere e nulla che lo possa distrarre.
Sta pensando a Elia, il dodicenne che anni prima, in pieno giorno, era stato caricato su un furgone all’uscita di una sala giochi e di cui si erano perse le tracce per giorni. Per un breve periodo quel povero ragazzino era stato rinchiuso in un granaio come ce ne sono a decine; e per passare il tempo, e per scongiurare la paura, raccoglieva e faceva scivolare dalle mani della semenza. Durante quell’indagine, una mattina mentre faceva colazione, Nico teneva una mano sul diario scolastico del ragazzo, mentre con l'altra si versava i cereali nella tazza.
Quel rumore, proprio come di semi che cadevano, che scivolavano giù, o semplicemente il gesto, o la loro combinazione, gli aveva permesso di vedere quei momenti di vita già passati, ma ancora presenti nell'etere.
I particolari che aveva fornito alle autorità erano stati così dettagliati da convincere la polizia a cambiare i piani e inviare una parte degli uomini destinati alle ricerche nella campagna a nord della città, togliendoli dal luogo che aveva invece indicato Matteo.
E ora c'è Francesca da salvare.
Nico si siede a un vecchio tavolo da cucina, ci sono sopra le solite cose da ufficio che generalmente riempiono una scrivania. Accarezza una cuffia di lana color violetto: la sente ruvida e nel contempo morbida, piacevole al tatto.
Si tratta del berrettino di Francesca; aveva chiesto a Silvia un oggetto poco ingombrante che appartenesse alla figlia e al quale fosse legata.
«Sai, Silvia, le persone che come me hanno questo dono, hanno bisogno di un testimone per poter rivivere gli avvenimenti passati. Può trattarsi di qualsiasi cosa, anche di una matita o di un fazzoletto, dove sono impresse le tracce psichiche della personalità e dell'emotività di chi le ha possedute. Queste ci aiutano ad aprire un canale per avere un flashback.»
«Questa potrebbe andare bene?» gli aveva chiesto lei con gli occhi lucidi. «La indossava la sera che me l'hanno portata via. La polizia l'ha trovata per terra nel parcheggio del ristorante, è l'unica cosa che hanno saputo riportarmi.»
Per il momento, la cuffia non ha aperto alcun canale, ma questo non significa nulla; semplicemente non si è ancora trovato nella situazione ideale. Perché le sue capacità si manifestino, non gli è sufficiente tenere in mano il testimone, ha bisogno anche di alcune coincidenze favorevoli: nella maggior parte dei casi, si tratta di vivere e provare le stesse sensazioni che la persona da trovare ha vissuto in quei frangenti.
Per non perdere il contatto con il testimone, indossa il berretto e, visto che non ha ancora acceso la stufa a legna, non sarà una seccatura, come non lo è la felpa in pile portata sopra il pigiama che indossa ancora, malgrado sia già l'ora di pranzo.
Fa spazio sul tavolo, aprendo quello che dovrebbe essere il cassetto delle posate, e ci fa cadere dentro la posta ancora da aprire che si sta accumulando da almeno una settimana. Da uno dei porta documenti di plastica che ha impilato sulla cassettiera laterale, prende il faldone che il papà di Francesca gli ha passato; contiene alcuni rapporti di polizia, i verbali d'interrogatorio delle ultime persone che hanno visto la ragazza, alcuni articoli di giornale e qualche fotografia.
Nico scorre tutto rapidamente e sbuffa. Quanto arriva dal commissariato fornisce poche informazioni in più rispetto a quelle già in suo possesso; probabilmente il commissario Martini ha fatto avere a Edo quei documenti unicamente per soddisfare le sue continue richieste, ma si è tenuto i rapporti con le informazioni che i media ancora ignorano.
Per il momento, nessuno di questi menziona il Killer delle Laureande, anche se sono stati redatti proprio dal team che si sta occupando di quel criminale.
Nico non si scompone. Sono più interessanti gli articoli di giornale: alcuni hanno un paio d'anni, risalgono al periodo in cui vi fu la prima vittima che oggi viene attribuita al Killer.
Evidentemente, Edo ha fatto delle ricerche in internet su di lui. Spesso le notizie si ripetono e sono i soliti quattro o cinque giornalisti a scrivere gli articoli.
Nico afferra un quadernino; prende nota delle informazioni che trova e le analizza; rimarca su una linea del tempo che ha tracciato su un foglio il nome del reporter, quale elemento fornisce e, se disponibile, la sua fonte.
Una cronista è sempre un piccolo passo avanti agli altri; si tratta di Erica Blum, una reporter del Quotidiano, un giornale che il sabato viene accompagnato dal settimanale d’approfondimenti Fatti. Ed è proprio su uno di questi settimanali che la Blum fa un resoconto dettagliato sui primi due delitti legati al Killer delle Laureande, appellativo che da quel momento in poi verrà usato da tutti i media.
Nell’articolo c'è anche un aggancio a Matteo, che non lavorava sul caso ma che, secondo l’autrice, avrebbe potuto dare un impulso alle indagini. Matteo che, guarda caso, ha una rubrica proprio in quel settimanale.
Gli articoli pubblicati dalle altre testate nei giorni seguenti, riportano le medesime informazioni, infoltite con qualche dettaglio in più o con una dichiarazione ufficiale del commissario Martini che conferma quanto scritto dalla donna. Evidentemente, la giornalista ha un contatto importante, qualcuno che ha accesso diretto all'inchiesta. Comunque sia, pensa Nico, ora i suoi resoconti gli vengono comodi.
Martina era stata la prima, il 15 settembre 2009. La poveretta era stata uccisa nella sua camera, in un dormitorio dell'università e trovata senza vita dalla compagna di corso con cui avrebbe dovuto partire per una piccola vacanza premio un paio di giorni dopo.
Era distesa sul pavimento con infilata in bocca la laurea in giurisprudenza ricevuta appena il giorno prima; l'assassino non gliela aveva schiacciata con violenza tra i denti: l'aveva arrotolata e fissata con un nastro per capelli che probabilmente aveva trovato nella camera, le aveva abbassato la mascella e gliel'aveva appoggiata tra le labbra.
L'esame autoptico indicava come causa del decesso il soffocamento; vi erano alcune tracce di colluttazione, ma non di strangolamento, e alcuni segni sul collo lasciavano presumere che fosse stato utilizzato un sacchetto di plastica che, però, non era stato trovato sulla scena del delitto.
A quanto pareva l'attestato di carta le era stato infilato in bocca post mortem. Nel sangue non erano state trovate tracce di stupefacenti o di medicinali. Era ipotizzabile che i due si conoscessero e che Martina avesse permesso al suo assassino di entrare in camera senza discutere; i corridoi di quello stabile erano frequentati da molti studenti e un diverbio sarebbe stato sicuramente notato e soprattutto sentito da tutti.
Il 20 settembre del 2010 era stata invece la volta di Monica, appena laureata anche lei in giurisprudenza e sparita il giorno dopo la consegna dei diplomi. Aveva festeggiato fino al mattino con i compagni neolaureati, ma non aveva fatto rientro nell'appartamento preso in affitto con altre tre ragazze. Fu ritrovata giorni dopo sdraiata su una panchina in un parco, dieci chilometri fuori città; sembrava dormire e per questo motivo solo a mattina inoltrata un giardiniere che stava sistemando un'isola di fiori lì accanto si era permesso di chiederle se si sentisse bene.
Aveva la testa appoggiata su alcuni libri e le mani sul ventre che tenevano un foglio di carta pregiata, arrotolata con un nastro rosso. Si trattava della riproduzione di una laurea in giurisprudenza con il suo nome e le firme del Rettore, del Preside di facoltà e del responsabile.
Vi era anche una nota sotto il titolo:
Per aver voluto supplire alle sue mancanze
cogliendo da sé il frutto del suo peccato
Quello era il messaggio dell’assassino, un indizio su cui inquirenti e psicologi avrebbero avuto da dibattere a lungo. A fondo pagina c’era un’ulteriore scritta: "Con decisione del: 21.02.2010".
Anche nel suo caso, la causa della morte era stata il soffocamento: non vi erano segni di lotta sul corpo, ma solo piccoli lividi sul collo che potevano ricondurre anche questa volta all'utilizzo di un sacchetto di plastica. In questo caso, però, furono trovate massicce dosi di Dormicum nel sangue.
Per una settimana il rapitore aveva mantenuto la ragazza in uno stato costante di dormiveglia e non aveva avuto la necessità di tenerla legata.
Monica non aveva subito nessuna violenza sessuale, non risultava disidratata e nello stomaco aveva del pollo e delle patate consumate poco prima della morte, quindi era, per così dire, stata accudita.
Gli elementi in comune tra i due casi erano evidenti: entrambe neolaureate in giurisprudenza, aggredite il mese di settembre poco dopo la consegna dei diplomi e uccise tramite soffocamento. Sulla carta stampata la prima a collegare questi dettagli fu la Blum.
C'erano, però, anche delle differenze: Martina era stata uccisa in camera sua subito dopo aver incontrato il suo assassino, mentre Monica era morta lontano da casa dopo una settimana di prigionia; la prima aveva in bocca il diploma legato con un elastico per capelli trovato sul posto, la seconda teneva in mano una riproduzione di un diploma legato con un elegante nastro rosso, lavoro che aveva sicuramente richiesto del tempo; nel primo caso non era stato usato nessun medicamento, nel secondo la vittima aveva nel sangue del Dormicum. Questi dettagli indicavano come l'assassino era cresciuto dopo il primo crimine: per l'omicidio di Monica la preparazione era stata più accurata, non c'erano segni d'improvvisazione come l'utilizzo dell'elastico per capelli. Rapire e tenere nascosta per una settimana una ragazza comporta un grande dispiego di risorse: un veicolo per il trasporto della vittima, un luogo al riparo da occhi e orecchie indiscrete, organizzare la sussistenza, procurarsi il sonnifero e, naturalmente, avere molto tempo da dedicarle, forse anche con l'aiuto di complici.
Nico sorseggia il suo caffè.
Nell’anno seguente l’attenzione sul caso non calò, e quando la polizia sentiva un po' meno il fiato sul collo da parte dei media, ci pensava la giornalista a rianimare l'interesse dei colleghi.
Fu lei che arrivò a scoprire e pubblicare il messaggio lasciato dall'assassino tra le mani della povera Monica. Un aggancio al caso di Martina che aveva eliminato qualsiasi dubbio sul fatto che si trattasse del medesimo assassino.
In una prima occasione la Blum rilevò semplicemente che era stato trovato una sorta di messaggio sotto forma di diploma contraffatto, ma la cosa venne smentita dalla polizia. Qualche settimana più tardi, completò l'opera andando nei dettagli: indicò dov'era stato trovato, di chi erano le firme in calce e il testo impresso.
Per questo fu convocata dal procuratore Zappa che conduceva l'inchiesta; le chiese chi era la sua fonte, minacciandola di denunciarla per aver intralciato le indagini se non glielo avesse rivelato. La Blum, però, si era appellata all'obbligo di tutela e segretezza delle fonti ed era riuscita a mantenere il segreto.
Se la talpa fosse stata un poliziotto o un qualsiasi altro collaboratore della polizia o del pubblico ministero – cosa, tra l'altro, molto probabile vista la quantità e qualità dei dettagli a conoscenza della giornalista – oltre a perdere il posto di lavoro, si sarebbe guadagnata una denuncia penale per violazione del segreto d'ufficio.
Il messaggio del killer stimolò la fantasia di giornalisti e psicologi, che facevano a gara per dargli un significato. C'erano due particolari che davano più argomenti di discussione: il testo era vergato in terza persona e non in seconda, quindi non pareva indirizzato a Monica, ma era dedicato a chiunque avesse intrapreso la stessa strada; inoltre, era al femminile.
Qualsiasi cosa avesse voluto dire, il riferimento a Eva e alla mela colta da Adamo era fin troppo facile. Tutti, più o meno, davano il medesimo significato: “a qualunque donna avesse peccato per rimediare alle sue colpe, emettendo da sé la sua condanna a morte". Un giornalista arrivò persino a intitolare un suo articolo “Chi sarà la prossima Eva?”, facendo, con l'aiuto di un famoso criminologo, il profilo della possibile futura vittima.
Il settembre del 2011 fu un mese di paura per le laureande e le loro famiglie, soprattutto per quelle della facoltà di Legge.
L'ateneo aveva ingaggiato servizi di sicurezza privata con lo scopo di dissuadere ogni malintenzionato e di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza nei luoghi di loro spettanza.
Dal canto suo la polizia, senza fare pubblicità, aveva messo in atto una serie di provvedimenti, inserendo personale in abiti civili in tutte le cerimonie di consegna dei diplomi, con lo scopo d'individuare ogni possibile elemento sospetto prima che potesse agire.
Nelle strade dove erano organizzate le feste per i laureandi c'erano pattuglie che facevano il giro senza sosta e appostamenti discreti nei punti più a rischio. Cercando di non fare troppo allarmismo, con l'aiuto di radio e televisione, erano state date delle linee di comportamento non solo per le giovani donne, ma per tutti coloro che avessero notato qualcosa d’insolito.
In particolare, la polizia voleva essere subito informata nel caso una laureanda non fosse stata rintracciabile o ci fossero stati movimenti sospetti, così da attivare nel minor tempo possibile un piano di posti di blocco che avrebbero permesso d’intercettare chiunque avesse voluto lasciare la città. L'idea era quella di essere il più discreti possibile; in realtà, le segnalazioni di ragazze scomparse furono così tante che i posti di blocco restarono attivi ventiquattro ore su ventiquattro nei tre fine settimana che avevano seguito i venerdì della consegna dei diplomi.
Alla fine, fortunatamente, si trattò solo di falsi allarmi: ragazze in locali con la musica così alta da non sentire il cellulare, oppure troppo sbronze o stanche per rispondere. Alcune di queste si erano dimenticate di chiamare a casa come promesso e automaticamente le famiglie avevano fatto scattare l'allarme.
A ogni modo, i giornali non smisero di parlare del Killer delle Laureande: dovevano dare una motivazione al mancato atteso omicidio. Avevano sbagliato i criminologi? Forse la polizia con la sua presenza aveva dissuaso l'omicida dai suoi intenti, o lo aveva semplicemente fatto arrabbiare e si sarebbe ripresentato più in là, magari contro più ragazze?
Ci fu addirittura chi lo collegò all’omicidio in Svezia della giovane Ingrid, studentessa in medicina; forse, non potendo agire in casa sua, l'assassino era emigrato all'estero. Un’ipotesi caduta quasi subito, quando si scoprì che la giovane era stata vittima di un omicidio passionale da parte del suo ex ragazzo, che non aveva accettato la sua nuova avventura sentimentale.
In novembre la tensione iniziò a scemare: i giornalisti cominciavano a dubitare che il Killer delle Laureande avrebbe colpito ancora e nella raccolta di articoli del signor Motta non vi erano più articoli della Blum.
Nico a quel punto ha bisogno di una pausa. Appoggia i fogli e si lascia andare contro lo schienale della sedia girevole. Incrocia le dita e mette le mani dietro la testa. Chiude gli occhi.
Mentalmente ripassa le prime informazioni ricavate da quanto letto finora. I rapporti di polizia non sono molti in effetti, è chiaro che non sono tutti, ma deve accontentarsi di quello che ha.
Gli allegati sono invece parecchi: rapporti della scientifica, verbali d'interrogatorio di parenti e conoscenti delle vittime, persino i rapporti sulle condizioni meteorologiche al momento dei fatti.
Nico apre gli occhi e ricomincia a scartabellare; i giornalisti hanno scritto molto, ma le informazioni effettivamente utili sono poche e molto ripetitive. Farebbero comodo degli articoli più recenti della Blum, Nico si prefigge di cercarne altri in internet.
Si sistema meglio sulla vecchia poltrona quasi sfondata, dall’imbottitura lisa e così schiacciata da sembrare marmo. Era già lì quando, anni prima, aveva affittato quel magazzino. E l'aveva sempre ritenuta una sedia comoda, finché a casa di Matteo aveva provato la sua e aveva capito la differenza tra una semplice sedia girevole e una vera poltrona da scrivania.
Nico si alza e si gira verso la parete facendo qualche esercizio di stretching. Appesa al muro, c'è una una pubblicità vintage in metallo: il disegno di una ragazza in minigonna e pattini a rotelle che tiene in mano un vassoio con una bottiglietta di Coca-Cola e un hamburger; poco più a destra un orologio di plastica ingiallito è fermo sulle due e venti. Il resto della parete è spoglio, qua e là ci sono dei chiodi dove un tempo probabilmente erano appesi dei quadri e magari un calendario; Nico ne ha usato uno per appenderci la sua autorizzazione a esercitare come investigatore privato e uno per attaccare una sua fattura non pagata da un cliente, ci aveva scritto con un pennarello rosso: Rintracciare Poretti!!!, ma finora nonostante quel memorandum, non ci ha mai provato. Gli altri chiodi li ha semplicemente lasciati al loro posto e ormai non ci fa più caso.
Per il resto la stanza che funge da ufficio è spoglia e minimale. Una cassettiera di metallo è appoggiata alla parete di fronte la scrivania e una felce finta e coperta di polvere e brandelli d’intonaco che vengono giù dal soffitto campeggia davanti la finestra che affaccia sull’interno della fabbrica.
La vicina ferrovia è il motivo del prezzo bassissimo dell’affitto: le vibrazioni al passaggio di decine di convogli ogni giorno stanno facendo sbriciolare i vecchi intonaci. Nico quando era entrato lì per la prima volta si era innamorato dell’aspetto vintage di quel luogo e, pur proponendosi di dare una restaurata, magari una bella passata di bianco alle pareti e una ripulita al linoleum stinto, poi non lo aveva mai fatto.
Gettato uno sguardo alla stanza si rimette al lavoro. In fondo Matteo crede di essere migliore di lui, solo perché possiede quella graziosa baita vicino al bosco e un discreto buon gusto nel vestire, ma lui gli vuole dimostrare che è perfettamente all’altezza di portare a termine un ingaggio importante come quello. La cosa più importante è ritrovare quella ragazza sana e salva, questo è certo, ma la vorrebbe trovarla lui.
Dal plico che aveva già passato in rassegna, prende la fotografia più grande di Francesca, circa venti per quindici centimetri, e l'appende vicino al promemoria di pagamento con tre punti esclamativi. È un mezzo busto di profilo, ma con il volto girato verso l'obiettivo; lei sta sorridendo e ha una mano all'altezza del petto con il pollice alzato. Indossa un maglione di lana a rombi di tutti i colori e lo sfondo, che non è a fuoco, va dal giallo all'arancione, con qualche sfumatura di rosso; Nico non riesce a capire se si tratti di un muro o di un telo da fotografo, gli è chiaro invece quanto Francesca sia una ragazza fotogenica.
Prima di tornare a sedersi stacca il foglio con la scritta in rosso e lo infila nel cassetto con la posta non aperta, poi apre il suo portatile e va alla ricerca degli ultimi lavori di Erica Blum, solo per rendersi conto che Edo è stato molto efficiente: nella cartella che gli aveva passato non mancava neppure un articolo che facesse riferimento al serial killer.
Gli articoli più recenti che trova nel web scritti dalla giornalista del Quotidiano si riferiscono però a tutt'altro, un argomento decisamente più leggero: le micro comunità contadine.
L'estate precedente il suo reportage l'aveva portata un paio di settimane in Sudamerica, e al suo ritorno aveva raccontato la storia di alcuni ecuadoriani che ogni autunno giungevano in città, occupando le uscite dei grandi magazzini e chiedendo soldi in cambio di un po' di musica suonata con il flauto di Pan. Con l'appoggio del suo editore, interessato a realizzare una serie di servizi per il settimanale Fatti, aveva poi sostenuto e realizzato una piccola comunità di sudamericani nelle colline del Piemonte. Là riescono a vivere coltivando e imparando differenti metodi di produzione. Alla scadenza del permesso di soggiorno rientreranno nella loro terra e insegneranno ad altri quanto appreso in Italia, e al loro posto giungeranno altri connazionali.
Nico sorride tra sé e sé.
Quel ciclo si sarebbe ripetuto finché il giornale avrebbe avuto un riscontro in termini d'interesse da parte dei lettori, poi il finanziamento, seppur di rilevanza minima, sarebbe andato a farsi benedire .
Secondo quanto scritto nella copia dell'ultimo rapporto di polizia comunque, il 15 novembre 2011 era giunta al centralino della polizia la telefonata di una madre preoccupata: la figlia di ventiquattro anni non era rientrata a casa dopo una cena con i nuovi colleghi dell’Ufficio tecnico della città, dove aveva appena trovato lavoro come ingegnere civile.
Inizialmente il caso fu sottovalutato: una direttiva interna disponeva che ogni denuncia di scomparsa che poteva rientrare nel caso del Killer delle Laureande doveva essere passata al team appositamente creato. Il fatto che fossimo a metà novembre e che la ragazza fosse già inserita a tutti gli effetti nel mondo del lavoro, fece sì che solo durante la denuncia formale – più di trentasei ore dopo la sua scomparsa – l'agente si rendesse conto che si trattava di una neolaureata in architettura e che, quindi, doveva dare subito l'informazione ai colleghi, con un ritardo di quasi due giorni.
Il mattino seguente la Blum – e il giorno dopo tutti gli altri giornalisti – fece riesplodere la paura, parlando della povera Francesca.
Nico si alza e passeggia nervoso per la stanza.
Martina l'ha uccisa subito, Monica dopo sette giorni e oggi sono nove giorni che è sparita Francesca. Se è stato lo stesso assassino a rapirla, significa che sta prendendo coraggio: si prende più rischi e non ha fretta di ucciderla. Ma perché aspettare? Certo che se quello che vuole è far passare un messaggio, più giorni passano e più la gente parla di lui e della falsa laurea di Monica. Ma se non lo fermiamo, alla fine ucciderà anche lei. Dobbiamo trovarla al più presto.
***
Scesa dalla macchina, Jessica prova sensazioni particolari: riconosce l'ingresso dell'istituto Santa Margherita dalle foto viste su internet, ma non le sembra di trovarsi in un posto dove possano essere stati cresciuti dei bambini piccoli, come erano Ronaldo e Matteo.
Il prato incolto che vede, con l'erba ormai divenuta fieno e con i cespugli spinosi che hanno attecchito qua e là, una volta doveva essere stato un gioioso parco giochi, con un tappeto verde, un’altalena, uno scivolo e magari una vasca riempita di sabbia, il tutto guarnito dal baccano di bambini che s'inseguivano e si divertivano.
Sul cortile di sabbia e ghiaia dove ha parcheggiato vi sono uno scooter e un paio di motorini, uno dei quali con parti del motore smontate e degli attrezzi da meccanico accanto.
Grazie alle ricerche fatte in internet, si è documentata sulla storia dell'orfanotrofio: era una struttura all’avanguardia e molto apprezzata, grazie ai metodi di lavoro con i bambini. Con gli anni, aveva saputo adeguarsi alle nuove esigenze dei suoi ospiti, cercando di essere moderno ed efficace. La direttrice Del Biagio aveva raccolto molte simpatie tra la gente e le aziende della regione che, oltre a qualche piccolo contributo finanziario, si offrivano per ospitare alcuni ragazzi in laboratori, officine o fattorie, così da insegnare loro un mestiere da mettere in pratica una volta lasciato l’istituto. Ogni anno al più dotato la provincia di Frosinone offriva anche una borsa di studio per l'università, e nessuno dei ragazzi aveva mai deluso le aspettative.
Purtroppo, la percentuale di quelli collocati nelle famiglie non era molto alta: fino agli anni 50, le famiglie senza figli adottavano un ragazzo o una ragazza per necessità, per dare una mano nei campi, nell'azienda di famiglia o in casa. Ora i tempi sono cambiati e a rivolgersi agli orfanotrofi sono solo le coppie che non possono avere figli, ma sentono che è quello che manca loro per dare un senso al matrimonio e potersi definire una vera famiglia.
Comunque, i ragazzi che restavano a vivere presso l'istituto ricevevano più che una semplice educazione e istruzione: avevano intorno una grande famiglia che li amava e li sosteneva.
Negli anni le richieste di alloggio per orfani erano calate drasticamente, ma nel contempo aumentavano i ragazzi che vivevano situazioni familiari difficili, magari cacciati da casa o con uno o entrambi i genitori in carcere.
La signora Del Biagio non era rimasta indifferente a questa nuova necessità e aveva cominciato ad accogliere anche loro. Spesso si trattava di persone più grandi degli ospiti abituali, con un carattere difficile da conciliare con il clima di serenità che si tentava di mantenere nell'istituto, ma lei faceva tutto il possibile per far funzionare al meglio le cose.
All’inizio degli anni novanta, la regione aveva deciso di convertire l'Istituto Santa Margherita in una casa-famiglia prettamente per minori disagiati.
La direttrice, che era ormai prossima alla pensione, non volle essere presente a questo – per lei – triste passaggio e si ritirò in anticipo.
Pur non vedendo nessuno, a Jessica giungono dei pensieri scomposti, da persone diverse. Anche concentrandosi, non riesce a distinguerne il significato preciso, ma può comprendere che non provengono da persone serene.
Fa un respiro profondo e si dirige alla porta d'entrata, un vecchio portone di pietra, semi coperto dall’edera, sormontato da un fregio raffigurante un adulto che tiene per mano un bambino; e nel varcare la soglia quelli che prima erano stati solo pensieri confusi diventano voci e grida, in particolare quelle di un ragazzo che ride e impreca. Sente anche le urla di una ragazza.
Jessica è indecisa se provare a suonare o aspettare che all'interno si calmino un po' le acque. La porta, però, si spalanca e un giovanotto sui sedici anni con la testa quasi rasata a zero esce come un treno in corsa e le urta la spalla, facendole fare mezzo giro su se stessa. Appena sopra la nuca sembra avere un tatuaggio; lei lo guarda correre via con un libro in mano. Continuando a ridere il ragazzo si gira come per scusarsi, o forse solo per controllare chi lo insegue. Subito dietro arriva alla porta una ragazza che sembra avere la stessa età, il cui abbigliamento consiste in un paio di mutandine e una maglietta rosa raffigurante Hello Kitty. A Jessica viene la pelle d'oca per lei: è vero che non fa molto freddo, ma diamine, siamo in novembre!
Cazzo, il mio diario!
Questa volta il pensiero della ragazza le arriva forte e chiaro.
«Brutto figlio di puttana! Se ti azzardi a leggerlo, ti uccido. E tu che cazzo hai da guardare?» urla in faccia a Jessica. «Lo potevi fermare, no?»
La ragazza corre all'interno, forse a rivestirsi. Jessica la segue con lo sguardo attraverso la porta e la vede prendere le scale che vanno al piano superiore, due gradini alla volta.
«Si può sapere che succede qui? Avevo chiesto solo dieci minuti per parlare con Marco in tranquillità e invece…»
A parlare è probabilmente un educatore; sta arrivando dal corridoio alla sua destra. È sui trent'anni, indossa un paio di Lewis con una cintura in pelle e una fibbia di ferro grande come un limone che raffigura un cavallo rampante; tiene le maniche della camicia color caco arrotolate.
Quando vede Jessica, s'interrompe e riprende a parlare con un tono più gentile.
«Mi scusi, a volte questi ragazzi sono incontrollabili. Non so cos'avessero da strillare tanto.»
«Non c'è problema, capisco benissimo. Piuttosto, sono io che devo scusarmi per la mia intrusione senza preavviso.»
«Io sono Roberto, il responsabile del centro Santa Margherita.»
I due si stringono la mano e la ragazza nota che porta al polso destro un orologio in acciaio cromato con cinturino in pelle.
«Come posso aiutarla?»
Dal piano superiore riappare la ragazza di prima; ora indossa jeans e scarpe. Mentre vola giù per le scale, strilla a Roberto: «È tornato Franco? È tornato?»
«Fermati un attimo e spiegami cosa…»
La ragazza non si ferma e corre all'esterno. Jessica sta bene attenta a non prendersi un'altra botta e nello spostarsi si rende conto che le fa male la spalla. Se la massaggia con la mano e l’uomo le rivolge uno sguardo comprensivo.
«Come le ho detto» le dice Roberto, «non sono facili da controllare.»
«Lo vedo» dice lei sorridendo. «Mi chiamo Jessica Ek, sono venuta qui per cercare delle informazioni sulle origini della mia famiglia.»
«Ah, capisco» Roberto ricambia il sorriso. «Si tratta dell'Orfanotrofio Santa Margherita, immagino. Prego, accomodiamoci nel mio ufficio.»
Mentre lo segue, Jessica lo osserva meglio: non è alto – neppure i tre centimetri della suola in gomma dei suoi scarponi lo aiutano a superarla di statura – ma ha un bel fisico e la tenuta da cowboy gli dona un sacco; inoltre, la barba appena accennata lo rende affascinante.
Pur non avendolo mai visto, Jessica riconosce quel locale: c’è la scrivania dov'era seduta la direttrice Del Biagio quando ancora era in servizio e la finestra dove Elisa era andata a piangere quando le aveva comunicato della malattia di Ronaldo.
Evidentemente, a quel tempo sulla scrivania non c'era il computer e l'ufficio era un po' più ordinato, ma la sensazione è quella di esserci già stata.
«Lei, quindi, era un'ospite qui al Santa Margherita?»
Roberto si siede dietro la scrivania e la fa accomodare su una seggiola di fronte a lui.
«In realtà, lo erano i miei fratelli; io sono stata affidata a un altro istituto.»
«Quindi, le informazioni che cerca riguardano i suoi fratelli, non lei.»
«Esatto, mi piacerebbe sapere alcune cose…»
«I dati degli ospiti della struttura sono protetti dalla privacy… cosa vorrebbe sapere? »
Jessica prende un respiro. Intravede le prime difficoltà, anche se non percepisce pensieri negativi da parte di Roberto. Sente caldo, non sa se per l'agitazione o per il riscaldamento, e le torna in mente la ragazza vestita con la maglietta di Hello Kitty.
«Le cose stanno così: è da poco che sono venuta a conoscenza di avere due fratelli. Uno, Matteo Balestra, l'ho ritrovato tre giorni fa e, tramite sua madre adottiva, ho scoperto che suo fratello gemello Ronaldo si trovava qui con lui al momento dell'adozione. Quindi, eccomi qui con la speranza di ritrovare anche lui.»
Roberto fa uno sguardo desolato.
«Purtroppo le devo dire che noi non abbiamo nulla che fa riferimento a quegli anni, a parte qualche vecchia foto della casa sulle pareti. Quando l'istituto fu trasformato in una casa-famiglia, l'intero archivio fu portato via. Credo che le varie schede dei ragazzi li abbiano seguiti presso i loro nuovi istituti.»
«Ma neppure nel computer avete nulla?»
«No di certo. Abbiamo solo informazioni che riguardano i ragazzi che sono arrivati dal 1991 in avanti. A quando risalgono le vostre adozioni?»
«Beh, quella di Matteo al 1975. Di Ronaldo non so nulla.»
Jessica omette di dire che da quanto ne sa Ronaldo è morto lo stesso anno. Non vuole credere a quella conclusione, almeno finché non ne avrà le prove.
«Allora non posso fare altro che darle gli indirizzi degli istituti che potrebbero aver accolto quei ragazzi. Dovrà rivolgersi a loro se vuole sperare di avere qualche informazione in più. Come le dicevo prima però, ci sono delle regole sulla privacy che dovranno rispettare, non le sarà facile scoprire quello che cerca.»
«Sì, lo so. Però, grazie ai nomi degli orfanotrofi saprò dove cominciare a cercare.»
Jessica in parte è soddisfatta: in fondo non ha ricevuto un rifiuto alla sua richiesta di aiuto e Roberto è riuscito a farle avere delle informazioni importanti.
E non può fare a meno di notare che malgrado l’esterno della struttura faccia pensare a qualcosa di abbandonato da tempo, all’interno l’ambiente è gradevole e pulito. I pavimenti sono lustri e le grandi finestre del pian terreno sono adornate da tende in colori vivaci. Sulle pareti spiccano opere di pittura firmate dagli alunni che le hanno realizzate. Jessica intravede un paio di targhette con l’anno e i nomi e sorride.
In fondo quel posto ha mantenuto il suo carattere positivo nonostante la vecchia direttrice temesse il contrario. Luoghi come quello possono rappresentare la salvezza per ragazze e ragazzi senza famiglie stabili e con disturbi della personalità.
Una volta sulla porta d’ingresso, rientra la ragazza con la maglietta di Hello Kitty. Ha un'aria molto appagata e in mano tiene ben saldo il suo diario. Senza chiedere permesso, passa tra Roberto e Jessica, costringendoli a scansarsi per evitare una gomitata.
«Eh, che modi! Chiedi scusa» le dice seccato Roberto, ma lei non si volta nemmeno.
«Dopo ne riparliamo!» le grida Roberto.
Jessica, per nulla infastidita, riprende il discorso. «Come le dicevo, la ringrazio per la sua disponibilità, e mi scusi se le ho fatto perdere tempo.»
«Nessuna perdita di tempo, è stato un piacere parlare con qualcuno che in qualche modo è stato legato all’Istituto Santa Margherita.»
Roberto sta per chiudere la porta, ma Jessica lo ferma.
«Ancora una cosa, quasi dimenticavo.»
«Mi dica.»
«Mi sa dire che fine ha fatto la direttrice Del Biagio?»
«La Del Biagio è stata direttrice fino al cambio di destinazione dell'istituto.» Roberto alza gli occhi, cercando di ricordare. «Non saprei dirle, io sono arrivato nel 2001, quindi dieci anni dopo la sua partenza. Credo, però, che con alcune telefonate potrei essere in grado di scoprire dove si trovi ora, sempre che sia ancora viva.»
«Sarebbe davvero importante per me. Le lascio il mio numero. Appena scopre qualcosa mi può telefonare?»
Jessica allunga un biglietto da visita corretto a penna come quello che ha dato a Matteo.
«Sarà fatto.»
Sicuro che ti chiamo, trovo la vecchia e ti chiamo. Questo è il primo pensiero di Roberto che lei intercetta; distingue chiaramente un apprezzamento nei suoi confronti e non può che sentirsi lusingata essendo lei di qualche anno più vecchia. Certo le dà abbastanza fastidio il suo apostrofare la ex direttrice “la vecchia” in maniera quasi dispregiativa, ma decide di passarci sopra.
Lo spero, sceriffo, lo spero.
Pensa, mentre gli stringe la mano.
Il tempo di risalire sulla Twingo e viene invasa da un fortissimo sentimento di collera, respira e si guarda intorno fino a intravedere il ragazzo di prima che passa davanti alla sua auto, diretto verso l'entrata dalla casa.
Ora può vedere chiaramente il tatuaggio sopra la nuca: si tratta del numero '10' e, con tutte le stranezze che si vedono oggi, non si domanda il significato. Il giovane dalla testa rasata cammina coprendo dei graffi sul viso con la mano destra, sulla quale sono evidenti i segni di un morso.
Hello Kitty ha tirato fuori le unghie.
***
Sono quasi le due di un pomeriggio uggioso. Nico ha visionato attentamente tutti i documenti ricevuti da Edo ed è riuscito a farsi un’idea a grandi linee sul caso; le informazioni concrete sono troppo poche e gliene manca una fondamentale per riuscire a scovare il Killer delle Laureande prima che possa uccidere Francesca: il movente.
Nico sa bene che senza conoscere il motivo che spinge una persona a compiere un gesto estremo sarà difficile risalire alla sua provenienza, ai luoghi che frequenta, al metodo di adescamento delle vittime e ipotizzare quanto intende tenerle in vita una volta cadute nella sua trappola.
Si guarda intorno, finisce di bere il caffè ormai freddo e sistema le carte sulla scrivania. Un ragnetto scappa via strappandogli un sorriso; è sempre così solo ultimamente.
Il programma della sua giornata è semplice: uscire a mangiare un boccone e tentare di stimolare un flashback. Prima, però, deve accendere la stufa, altrimenti prima di sera quei locali saranno un frigorifero; prende il primo libro da una scatola di cartone appoggiata lì accanto e legge il titolo: “Und dann gabs keines mehr”, chissà che vuol dire.
Lo mette nel vano per la legna con un po' di diavolina e gli dà fuoco, poi riempie lo spazio rimasto con dei pezzi di legna e altri libri e chiude lo sportello che cigola in modo fastidioso. In genere non ama bruciare i libri, ma in tempi di magra pur di lavorare a una temperatura decente gli tocca sacrificare un po’ del suo idealismo.
Anche se gli va un po’ stretta e non si abbina particolarmente al suo cappotto, ha deciso d'indossare la cuffia violetta per andare in giro; in questo modo, il contatto fisico e mentale con Francesca (il contatto non è con il tessuto, ovvero: indirettamente lo è, ma tu devi fare capire che il tessuto serve a captare un contatto con Francesca) sarà costantemente assicurato. Quello che spera è di incappare per caso in un gesto, un odore, un’emozione che possano ricondurlo a lei. Ci spera. Prega che accada e che non sia tardi.
Una volta in centro compra i giornali in tre edicole differenti, mangia un kebab seduto su una panchina in piazza Vecchio mercato e beve un caffè in un bar dove spera di incontrare il tizio che gli deve pagare la fattura. Ma Poretti non si fa vivo. Così Nico paga la consumazione e si mette a girovagare nelle vie pedonali senza un obiettivo preciso.
Al contrario di quello che si potrebbe pensare, non sta perdendo tempo: è in cerca di quell'elemento, quella sensazione che, con l'aiuto del berrettino, gli permetterà di avere una percezione, il suo primo contatto con il passato di Francesca. È per questo motivo che non fa la spesa in un unico negozio, ma la suddivide in più botteghe, per vivere più situazioni in luoghi anche molto differenti tra loro. Così passa dalla macelleria climatizzata con la luce bianca e fredda dei tubi fluorescenti, alla pasticceria riscaldata con le luci calde e soffuse. La frutta la prende al mercato rionale. Cerca di guardare tutti e tutto, di scambiare una parola con più persone possibile per aumentare la possibilità di captare lo sguardo giusto, la parola giusta: il dettaglio che accenda la connessione.
Quando torna al parcheggio, due ore dopo, è un po' amareggiato per non aver ottenuto risultati, ma sa che non è così semplice e non funziona come nei film, dove gli sarebbe bastato toccare la cuffia per conoscere tutto sul passato di Francesca.
Ce la faremo, Francesca. Dobbiamo solo avere pazienza e ce la faremo. Tu, ovunque ti trovi, resisti.
Arrivato alla Mazda prende dalla tasca il mazzo di chiavi che scorre tra le dita in cerca di quella dell’automobile. Nella destra ha i giornali e le riviste appena acquistati. In quel momento la voce di una ragazza lo raggiunge alle spalle.
«Mi scusi, posso disturbarla un attimo?»
Nico alza lo sguardo che era rivolto alle chiavi: c’è una ragazza con in testa una cuffia viola davanti alla macchina, e gli sorride. Per un attimo sbarra gli occhi, non si può sbagliare: quella è Francesca!
Non ha un viso preoccupato, pare serena, tranquilla.
«Mi scusi!» La voce lo fa uscire dallo stato di trance in cui era caduto. Sussulta e sente un rumore di metallo levarsi dall'asfalto.
«No, accidenti!» Nico stringe la mascella e respira profondamente. Il flashback è terminato. È stato breve, troppo breve, e ormai è andato, impossibile recuperarlo.
«E che modi! Non ha neppure visto cosa le volevo offrire. Peggio per lei.» Ancora quella voce, la stessa che gli ha provocato il brevissimo viaggio mentale.
Nico si volta. C’è una ragazza con sciarpa e cuffia bianche che ha in mano dei volantini, forse dei buoni per un fast food. Lo guarda un po' risentita, si gira e se ne va a passo veloce.
«Ehi, scusami… io… » dice Nico, ma lei è già oltre l’angolo.
L’avevo agganciata, cavolo pensa, mentre raccoglie le chiavi che gli erano cadute e sale in macchina; incrocia le braccia sul volante, ci appoggia la fronte, chiude gli occhi e si concentra ancora. Deve riuscire a visualizzare quel momento di vita non suo, vissuto per un solo attimo; è fondamentale recuperare più dettagli possibili. Purtroppo, sono davvero pochi istanti: due, forse tre secondi. Quello che continua a vedere è il sorriso dolcissimo di Francesca e l’aria di non avere nessuna preoccupazione, entrambi indizi che stonano con la realtà dei fatti.
Qualche minuto dopo alza la testa, si spinge contro lo schienale e riapre gli occhi.
Se solo quella ragazza non mi avesse distratto, avrei potuto vedere a chi si stava rivolgendo Francesca. Chi guardava? Perché sorrideva?
In un guizzo di nervi per l’occasione perduta colpisce il volante con un pugno; è tremendamente frustrante sapere di averla agganciata per qualche istante e poi averla persa senza la possibilità di registrare un qualsiasi dettaglio utile a ritrovarla. Imprecando a mezza bocca avvia il motore e si allontana dal parcheggio.
È un inizio: il collegamento c'è stato e ne arriveranno altri.
S’impone di pensare positivo mentre percorre la strada a ritroso in direzione del suo ufficio. E’ una bella giornata di sole, tutti i negozi sono aperti e le persone passeggiano sui marciapiedi, come se niente fosse: come se andasse tutto bene.
Finché i problemi non toccano noi stessi e la sfera delle nostre conoscenze pensiamo che siano solo fatti da ascoltare in radio o al Tg.
Nico scuote la testa. Quella normalità però in fondo gli fa bene. Gli ricorda che fuori dalla dimensione nervosa e oscura del suo lavoro esiste un mondo che va avanti placido per la sua strada, ci sono le stagioni, c’è il sole e, soprattutto, persone che stanno bene e che non sono affatto scomparse. Il giretto in macchina lo calma.
Quella ragazza non ha nessuna colpa; anzi, probabilmente è stata lei a far partire il flashback, quindi dovrei ringraziarla, non avercela con lei per avermi risvegliato.
Tornato nel suo studio, mette da parte i giornali che ha acquistato, si siede alla scrivania senza neppure togliersi l'impermeabile e scrive su un pezzo di carta tutto quello che ha vissuto un quarto d'ora prima.
Con la mente ripassa più e più volte le immagini che via via si fanno più sfocate: si concentra dapprima su Francesca, poi su quanto le stava intorno: colori, luce, sensazioni, suoni. Solo quando è convinto di aver trascritto tutto si rilassa e si toglie il cappotto.
«Santo cielo qui si gela!» dice a voce alta.
Un brivido che parte dalle dita gli sale fino alle spalle; si massaggia le braccia e va a controllare la stufa nell'altro locale: è spenta. A malincuore prende dalla scatola un altro libro, questa volta senza guardare la copertina o leggere il titolo, lo mette nella caldaia con un po' di Diavolina e della legna e dà fuoco.
«Ora il lavoro da fare è capire cosa in quella ragazza dei volantini mi ha provocato la connessione con Francesca, così da cercare di replicarla in qualche maniera… »
Per scaldarsi le membra e i pensieri si mette a camminare a lunghi passi su e giù per la stanza riflettendo tra sé come fa sempre quando deve risolvere un enigma.
«Quella ragazza deve essersi comportata come Francesca: non voleva delle informazioni, aveva qualcosa da offrire. Francesca quindi voleva darmi qualcosa? Chi c'era al mio posto? Con chi stava comunicando?»
Nel flashback Francesca è serena, non preoccupata. Conosce forse il suo interlocutore? È lui il suo aggressore? Sta sorridendo alla persona che la rapirà?
Nico chiude gli occhi e visualizza l’ambientazione. Si trova in un parcheggio. È forse fuori dal ristorante dov'è stata vista l'ultima volta? Francesca si è avvicinata a qualcuno e ha richiamato la sua attenzione.
«Mi scusi?» Nico muove le labbra. «Mi scusi?» pronunciare quella frase lo rimanda alla visione e scatena mille domande.
«A chi stavi parlando? E cosa volevi chiedere, o offrire?»
Riapre gli occhi e si fionda sul foglio degli appunti a trascrivere le ultimissime intuizioni, quindi riprende a camminare.
«La ragazza aveva in mano dei volantini, come io avevo in mano dei giornali e le chiavi della macchina. Possono avere contribuito in qualche modo all'apertura del portale?»
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