Non Andare Mai Dal Dentista Di Lunedì
Belén Escudero
Ana Escudero
A sei anni, l'unica preoccupazione di Alexis è inventare nuovi giochi e divertirsi con il suo cane Sultán nella città di Mobile. Tutto il suo mondo crolla quando cade nelle mani di due personaggi enigmatici. La sua scomparsa scatena una storia appassionante in cui gli avvenimenti si susseguono a un ritmo vertiginoso. Peter e l'Esattore si lanciano in una ricerca folle, mentre la giornata avanza inesorabilmente. Riusciranno a trovare quello che cercano prima che si faccia buio? Questo romanzo è il seguito di Solo Peter, il primo romanzo che ho scritto frase per frase insieme a mia sorella Belén. In esso viene presentato Alexis, il figlio di Peter e Vivian. A sei anni, l'unica preoccupazione di Alexis è inventare nuovi giochi e divertirsi con il suo cane Sultán nella città di Mobile. Tutto il suo mondo crolla quando cade nelle mani di due personaggi enigmatici. La sua scomparsa scatena una storia appassionante in cui gli avvenimenti si susseguono a un ritmo vertiginoso. Peter e l'Esattore si lanciano in una ricerca folle, mentre la giornata avanza inesorabilmente. Riusciranno a trovare quello che cercano prima che si faccia buio?
Ana Escudero, Belén Escudero
Non andare mai dal dentista di Lunedi
Ana Escudero
Belén Escudero
NON ANDARE MAI
DAL DENTISTA DI LUNEDÌ
Prima edizione: febbraio 2020
© 2020 Ana Escudero Canosa
© 2020 Belén Escudero Canosa
© Non andare mai dal dentista di lunedi
Registrato in Safe Creative: 1804076483175 – Tutti i diritti riservati
Immagini della copertina: licenza Creative Commons
Origine delle immagini: Pixabay
Autori delle immagini originali: Mysticsartdesign, martaposemuckel.
Traduttore: Aliki Zanessis
I – La messa in moto
– Peter, ricordati che oggi devi portare Alexis dal dentista.
Peter annuì con la testa, anche se non ne aveva nessuna voglia.
– E non dimenticare di passare dal supermercato a comprare il cibo per Sultán – continuò a dare istruzioni Vivian.
Peter lanciò un'occhiata al suddetto, che stava riposando vicino al camino. Non si mosse, fece solo un lieve movimento con le orecchie sentendo la parola cibo.
– Tu dove andrai, Vivian? – chiese, anche se sapeva già la risposta.
– Sai già che ho delle faccende da sbrigare, dei debiti da riscuotere. A proposito, quando mi restituirai tutto quello che mi devi ancora? Gli anni passano e gli interessi aumentano.
– Ma non era già stato tutto pagato? – chiese Peter.
– Perché ci siamo sposati?
– Sì, non era questo il patto?
– Davvero? Non mi ricordo. Comprendimi, il nervosismo per il matrimonio mi ha obbligato a dire cose che non pensavo davvero.
Peter si ricordò di quel giorno, era passato tutto così velocemente, lui credette che l'avrebbero ucciso.
Vivian si alzò dalla sedia, si avvicinò a Peter, gli diede un bacio per poi rivolgersi a suo figlio, che stava giocando con Sultán tirandogli le orecchie.
– A più tardi – salutò —. E non fate tardi, Peter. Non ho intenzione di cambiare l'ora un'altra volta.
Peter vide che sua moglie se ne stava andando e non gli fece pena, era prepotente e lui faceva fatica a condurre una vita con così tante regole. Era contro il suo modo di essere.
– Alexis, vai a vestirti e non dimenticare di prendere la felpa, sennò la mamma ti rimprovererà se rovini i vestiti. Quando usciremo dal dentista, andremo dove vorrai.
– Sì, paparino. Dove vorrò, vero?
– Sì, ovunque. – Secondo Peter si sarebbe meritato una ricompensa per essere andato dal dentista.
Venti minuti dopo tutti e due uscirono dalla porta accompagnati da Sultán.
Lo studio del dentista non era vicino, c'era da camminare per più di mezz'ora, quindi Peter commentò:
– Ti va di prendere l'autobus, Alexis?
– Sì! E Sultán?
– Sultán viene con noi, è chiaro.
Alexis rimase a pensare, c'era qualcosa che non gli quadrava, ma decise di dare retta a suo papà. Tutti e tre si avviarono verso la fermata dell'autobus. Peter e Alexis erano davanti, invece Sultán, in retroguardia, più che camminare sembrava che si trascinasse.
Mentre stavano arrivando, Peter osservò che c'erano parecchie persone ad aspettare l'autobus.
– Non mi piace andare a piedi – disse —. Vieni, Alexis. Saliremo per primi.
Sultán scosse la testa e abbaiò in segno di disapprovazione, ma non fece nient'altro, non aveva più l'energia di prima.
Da lontano apparve un autobus, mentre una macchina lo stava sorpassando con destrezza. Il semaforo rosso diede il tempo a Peter di arrivare e sistemarsi.
La macchina si fermò e il conducente suonò il clacson un paio di volte. Quasi tutti lo guardarono. Sultán abbaiò allegramente e Alexis applaudì, mentre Peter guardava spaventato il conducente.
– Salve, salite? – invitò.
– Non ce n'è bisogno, possiamo cavarcela benissimo con il bus – rispose Peter.
Il bus avanzò e diverse persone richiamarono la sua attenzione affinché si fermasse. Peter strattonò suo figlio, mentre chiamava Sultán e si dirigeva verso l'autobus pronto a salirci. Ma Sultán non si mosse, stava comodamente seduto sul sedile posteriore della macchina.
– Papi, guarda Sultán. È salito sulla macchina di quel tizio – commentò Alexis spiegando quello che era evidente.
Peter si girò per verificare quello che aveva detto suo figlio, mentre l'autobus si fermava.
La gente iniziò a salire, alcuni colpirono lievemente quelli che avevano di fianco con l'idea di salire per primi per riuscire a trovare un posto libero.
Appoggiato sul cofano, l'Esattore arrotolò una sigaretta aspettando che Peter si decidesse.
– Se ci pensi tanto, arriverete tardi al vostro appuntamento – disse l'Esattore.
– D'accordo, ma guido io.
L'Esattore fece una battuta come solo lui sapeva fare, con una risata tenebrosamente oscura che scosse nel profondo Peter.
– Sto per prendere la patente – protestò senza far notare che era il suo ventesimo tentativo.
L'Esattore rise di nuovo, se quello che emetteva poteva chiamarsi risata.
– Dai, sali. Guarda, tuo figlio è già di fianco a Sultán.
– Papà, sali, altrimenti la mamma si arrabbierà di nuovo con noi – disse Alexis.
Salirono tutti e due e l'Esattore mise in moto la macchina.
– Dove andiamo? – chiese.
– In via dell'Arrivista, 150.
– E cosa andate a fare là?
– Lo sai già, andiamo dal dentista.
– Io? Come faccio a saperlo, fratellino?
– Mi sa che stai invecchiando. L'Alzheimer ti sta facendo dei brutti scherzi.
– Come sei spiritoso, fratellino! Ti piacerebbe che io perdessi la memoria.
– Mi preoccupo per te. Sono un sacco di anni che ci conosciamo. Quanti anni hai?
– Quarantadue, direi.
– Solo? Sembri più vecchio. Questo tuo lavoro ti fa invecchiare velocemente – commentò Peter —. Guardami, di recente ho compiuto trent'anni e guarda che pelle – concluse.
– Sì, sei ancora un bambino, fratellino. Bene, sarà meglio che ci mettiamo in moto, altrimenti tua moglie darà una lavata di capo a tutti e due. – E l'Esattore girò il volante della macchina, pronto a introdursi nel traffico.
Più si avvicinavano alla meta, più Peter si agitava, mentre Alexis si divertiva a guardare le macchine.
– Senti, una domanda. Come ti chiami? Esattore? Zio? Quando ti nomina, mio papà dice "quello" o altre parole che la mamma dice che non devo ripetere a voce alta.
– Ha, ha, ha – rise l'Esattore —. Mi puoi chiamare Esattore, come tutti.
– Ok, zio Esattore.
– Perché vai dal dentista, Alexis?
– Mia mamma dice che è perché ho mangiato troppe caramelle. Dice anche che è colpa di papà.
– Quanti anni hai?
Alexis sollevò una mano e distese le cinque dita, poi sollevò l'altra mano e ne distese uno.
– Sei. Ma hai ancora i denti da latte. Dai retta a tua madre, Alexis.
– Non capisco, zio. Che vuoi dire con questo? Io obbedisco sempre alla mamma. È la mamma che comanda in casa.
– A proposito, sei molto elegante vestito così – lo complimentò, poiché poteva vederlo in parte, dato che il bambino aveva la chiusura lampo della felpa aperta a causa del caldo che regnava nella macchina dell'Esattore.
– Grazie. Sono Eridanus – disse senza sapere cosa stava dicendo, ma orgoglioso di ricordarsene.
Peter non stava ad ascoltare, aveva la testa altrove, molto lontano da lì. Come sarebbe stato felice su una spiaggia della California!
– È quell'edificio lì? – chiese l'Esattore senza ottenere risposta —. Peter, Peter, Peter!
– Eh? Che succede?
– Dov'eri? Ti sto chiedendo se è lì – disse indicando un immobile con su scritto Clinica Dentale.
– Non lo so, non ho mai guardato fuori e non ho fatto caso alla strada che abbiamo fatto.
– Non so perché sto a chiedere – disse a se stesso l'Esattore. Aguzzò la vista per leggere il numero.
Scesero tutti dalla macchina, dato che era l'indirizzo giusto.
– Puoi andare. Ciao, Esattore.
– A presto, fratellino. – Qualche secondo dopo svoltò l'angolo con la sua macchina.
Molto triste, Sultán vide la macchina allontanarsi e poi andò alla porta dell'edificio.
Padre e figlio si diressero alla clinica dentale. Il padre, trascinando i piedi e il figlio, era allegro e saltellante.
II – La clinica dentale
La receptionist fece una faccia spaventata quando li vide entrare e prese velocemente il telefono.
– Dottore, ho bisogno di lei qui fuori – disse la receptionist e allo stesso tempo infermiera della clinica dentale —. Non ci crederà quando lo vedrà.
– Che succede, Xenia?
– È arrivato il paziente delle nove con suo padre.
Il dottore guardò sulla sua agenda chi era il paziente delle nove e anche lui si spaventò, ma finse di essere tranquillo.
– Puoi farli passare, Xenia.
– Tutti e due?
– Sì, Xenia. – E poi aggiunse, sebbene più per se stesso —. Che sia quello che Dio vuole!
– Buongiorno. Il dottore dice che può entrare.
Peter guardò in direzione della porta con l'orrore negli occhi.
– Andiamo, papà – disse Alexis tirandolo.
Lui era un codardo? Poteva mostrarsi così davanti a suo figlio?
Il dottore uscì per venire loro incontro e, prendendo per mano Alexis, disse:
– Andiamo, giovanotto, vedrai che finiremo presto. – E rivolgendosi a Peter —. Entriamo?
Peter tentennò, si sentiva male.
Il dottore osservò che Peter stava diventando sempre più pallido. Temette che sarebbe svenuto o, peggio ancora, che avrebbe vomitato proprio lì.
– Xenia, indica al signore dove sono i bagni.
Ma Peter non fece niente. Iniziò a respirare come se gli mancasse l'aria, boccheggiando come un pesce fuor d'acqua.
– Sto bene – disse Peter, sebbene fosse evidente che stava mentendo.
– Si sieda un attimo – disse il dottore accompagnandolo a una sedia —. Ora respiri piano. Inspiri, espiri…
Peter inspirò ed espirò come gli venne indicato dal dentista, di fronte allo sguardo attonito di Alexis, che, dopo aver riflettuto qualche secondo, si sedette al fianco di suo padre pronto a imitarlo.
– Xenia, accompagna il bambino dentro e inizia a preparare le cose – disse il dottore —. Così, molto bene. Inspirare ed espirare.
– Per quanto tempo? – chiese tra le inspirazioni.
– Finché lo dico io. Se si sente già bene, si alzi ed entriamo. Presto verrà il prossimo paziente.
La porta d'ingresso si aprì, facendo passare una signora di mezza età, che, guardando lì dove si trovavano il dottore e Peter, rimase in attesa.
– Buongiorno, signora. Ora viene l'infermiera e le prende i dati.
La signora, che aveva una guancia più gonfia dell'altra, annuì con un movimento della testa e rimase in attesa, mentre vedeva sparire dietro una porta il dottore e il suo accompagnatore.
Alexis era comodamente seduto sulla sedia con il bavaglio e l'infermiera aveva appena finito di organizzare tutti gli strumenti.
– Bene, Alexis, vediamo questa bocca. Hai qualche fastidio?
– No.
– Meglio. Ora apri la bocca e verificherò che sia tutto a posto.
Alexis obbedì e il dentista verificò che andasse tutto bene.
Il dentista iniziò a controllare la bocca di Alexis, cominciando dalla mascella inferiore e continuando con quella superiore fino a concludere l'ispezione visiva.
– Ho visto qualcosa – disse tra i denti —. Sicuro che non fa male qui? – chiese mentre picchiettava uno dei denti inferiori.
– A volte, ma a papà fa male. Si lamenta sempre.
– Io? Io! Non sono un piagnucolone! – si lamentò Peter gridando.
– Papà, non bisogna mentire.
– Cosa? Sono un bugiardo? È quello che pensi di me?
– No, papà, ma perché non dici al signor dentista qual è il molare che ti infastidisce tutti i giorni?
– Non è niente, solo un leggero fastidio, passerà.
– Papà, tu che sei scappato da un orco, hai vissuto con sette giganti e conosci una strega, non ti farai spaventare da un dentista, vero?
– Non ti ho ancora spiegato – scherzò Peter, ma tacque cambiando idea —. Alexis, sta' zitto, altrimenti il dottore non può lavorare.
Il dottore, che non si era perso nessun dettaglio della conversazione, disse:
– Sì, finiamo con te, Alexis. Poi le posso dare un'occhiata – disse rivolgendosi a Peter.
– Finiamo con…? Cosa farai a mio figlio? Assassino! – esclamò Peter con le nocche sui fianchi.
– Mi faccia il favore di non gridare. Questa è una clinica prestigiosa. L'unica cosa che devo spiegare è che presto inizieranno a cadergli i denti da latte e a comparire quelli definitivi. E adesso si accomodi e si sieda qui – disse quest'ultima cosa in modo autoritario.
Peter obbedì e si sedette sulla poltrona con la schiena dritta, tesa.
– Apra la bocca.
Peter separò lievemente le labbra lasciando in vista parte dei denti.
– No, papà, così – disse Alexis aprendo la bocca completamente.
Peter, imitando suo figlio, separò ancora di più le labbra per poi mostrare le gengive e parte della lingua.
Il dottor Bisturi avvicinò il riflettore per poter osservare bene l'interno della bocca. Verificò i denti uno a uno, gettando aria con il compressore ogni volta che vedeva qualcosa di sospetto. Il molare cariato apparve davanti ai suoi occhi. La faccia del dottore espresse sorpresa pensando al dolore che aveva sopportato, e ancora di più sapendo chi era Peter, che conosceva perfettamente non solo come paziente, ma anche perché l'aveva frequentato in alcune riunioni sociali.
– Questo richiede abbastanza lavoro – disse a se stesso e poi guardò l'orologio sul muro, che segnava le dieci meno venti —. Ora le addormenterò la zona affinché non senta dolore.
– Non ce n'è bisogno – disse Peter facendo cenno di alzarsi —. Dobbiamo andare.
– Le consiglio di non andare. Ora possiamo ancora salvare questo elemento, ma se lo lascia per più in là, dovrò sicuramente estrarlo – commentò il dottore.
Nel giro di pochi secondi Peter si immaginò torturato da un dentista che gli strappava il molare, ma fu la presenza di suo figlio che lo fece accomodare di nuovo sulla poltrona.
– Faccia quello che deve fare – disse con tutta la dignità di cui fu capace.
Aveva bisogno di aiuto, così chiamò Xenia, che preparò tutto per l'intervento.
L'infermiera gli mise il tubo piegato a un lato della bocca e si sedette in attesa degli ordini del dottore.
L'iniezione che gli aveva fatto alcuni minuti prima gli manteneva il lato sinistro addormentato.
Il dottore accese il trapano, mentre diceva:
– Se le faccio male, alzi la mano e mi fermerò.
Un rumore inaspettato simile a quello di un'esplosione spaventò tutti e il dottore smise di trapanare.
– Xenia, porta il bambino in un'altra stanza e dagli qualcosa per disegnare.
L'infermiera si avvicinò al dottore e gli sussurrò all'orecchio:
– Dobbiamo andarcene. È il segnale.
– È vero – confermò, mentre si stava alzando.
Il dottore si tolse il camice, mentre l'infermiera apriva una porta adiacente che dava accesso all'ufficio, tutto questo mentre Peter era sulla poltrona con la bocca aperta.
Passarono alcuni secondi, quasi un minuto senza che il dottore, né l'infermiera tornassero dal paziente, che teneva la bocca aperta quanto ne era capace.
– Papà, dov'è andato il dottore? – chiese Alexis.
Peter emise dei suoni strani, Alexis cercò di capire cosa gli stava dicendo suo padre.
– Papà, vado a cercarlo – disse saltando giù dalla sedia e correndo verso la porta.
Peter lo lasciò andare, mentre chiudeva la bocca e pensava con alcuni minuti di ritardo che il dentista non era presente per obbligarlo a tenere la bocca aperta, quindi poteva chiuderla senza problemi.
<
>, pensò. <<È stato molto veloce. Dovrebbe sciacquarmi la bocca.>>
Si alzò e prese il bicchiere di plastica pieno d'acqua. Stava per bere quando la lingua si introdusse nel buco che il dentista aveva fatto nel suo molare.
– Cosa? – Peter voleva sapere cos'era successo, ma la risposta lo spaventava.
Alexis non rispose quando suo padre lo chiamò. Il silenzio si era impossessato della clinica dentale; un silenzio che era rotto solo dal rumore prodotto dalla paziente successiva, che sfogliava le pagine di un rotocalco nella sala d'attesa, e da un orologio che suonò quando furono le dieci del mattino.
Uscì dalla stanza e andò dalla signora:
– Mi scusi, ha visto passare di qui un bambino?
– Be', a dire il vero non ci ho fatto caso. L'ha perso?
– No. E il dentista? L'ha visto?
– Non è passato di qui. Che succede? Io avevo un appuntamento per le nove e mezza ed è già passato parecchio tempo.
Peter non rispose, iniziò ad aprire alcune porte, mentre chiamava suo figlio.
– Alexis! Alexis! Dove diavolo sei? Guarda che mi arrabbierò se non ti fai vedere subito.
III – Indagine nella clinica
Allora si ricordò di Sultán e andò a cercarlo. Sultán stava aspettando pazientemente vicino alla porta della clinica.
– Sultán, vieni. Hai da fare. Devi cercare Alexis.
Sultán si alzò, sbadigliò e si stirò prima di avvicinarsi a Peter.
– Bau? – chiese interrogativo.
– Cerca, Sultán! Cerca! – gli chiese Peter.
Come aveva perso il bambino? Cosa aveva fatto quello sciocco per perderlo?
Peter lasciò entrare Sultán nello studio davanti allo sguardo accusatorio della paziente successiva.
Sultán raggiunse la stanza dov'erano prima e abbaiò forte poiché non gli piaceva quel posto, gli ricordava quando lo portavano dal veterinario.
– Sultán, smettila di perdere tempo e cerca Alexis.
Sultán si diresse verso la porta dalla quale erano spariti e poi verso una seconda porta che era chiusa.
Sollevò la zampa per abbassare la maniglia. La porta si aprì, permettendo a Sultán e a Peter di entrare in un'altra stanza, anch'essa vuota. Dove potevano essere?
Peter aprì l'unica porta che c'era e si trovò faccia a faccia con suo fratello. L'espressione di preoccupazione lo allertò, conosceva abbastanza bene Peter per sapere che stava succedendo qualcosa.
– Cosa ci fai ancora qui? È da un po' che il dottore se n'è andato.
– Cosa hai fatto con Alexis? Sicuramente sei stato tu!
– Alexis? – chiese pensieroso —. No, non l'ho visto.
– Non mentire! L'hai visto e l'hai sequestrato.
– L'hai perso? Sicuramente è da queste parti. Hai guardato in bagno?
– No.
– Allora andiamo a vedere. Vieni, andiamoci insieme.
Peter seguì suo fratello con un'espressione incerta fino alla porta del gabinetto. L'Esattore l'aprì e invitò Peter a entrare per primo.
La luce del bagno era spenta. Peter premette l'interruttore e la lampadina che penzolava dal soffitto illuminò la piccola stanza.
Sultán abbaiò varie volte, il suo olfatto l'aveva condotto alla porta d'emergenza.
– Andiamo, Peter! Adesso non è il momento di pisciare – gli disse l'Esattore quando vide Peter che si slacciava i bottoni dei pantaloni.
– Lasciami fare la pipì. Bisogna approfittare del momento.
– Sei proprio un bambino.
Peter si allacciò i bottoni e si lavò le mani.
– Non vuoi pisciare? Dovresti approfittarne anche tu.
Nel frattempo Sultán stava abbaiando senza sosta. Cosa stavano aspettando quegli stupidi umani?
Peter uscì dal bagno ed esclamò:
– Andiamo! Sultán sta abbaiando.
Sultán vide apparire i due umani, era ora!
L'Esattore aprì la porta che dava accesso a delle scale e alla fine a un'altra porta che dava sulla strada. Sultán si diresse sicuro verso questa seconda porta e aspettò finché qualcuno l'aprisse mettendosi di fianco ed emettendo un breve latrato.
– Non può essere uscito in strada! – esclamò Peter preoccupato —. Sa che non deve uscire da solo.
– La questione è se sia uscito di sua spontanea volontà o se l'abbiano obbligato.
– Obbligato? Chi l'avrebbe obbligato? Tu, tu, sapevo che sei stato tu!
– Come faccio a essere stato io se sono qui ad aiutarti? Non essere sciocco, fratellino.
– Hai mandato qualcuno. Hai dei servi persino all'inferno.
– È vero che le cose sarebbero potute andare così. L'hai pensata bene, Peter.
– Bau, bau, bau – abbaiò Sultán furioso. Perché agli umani piaceva così tanto perdere tempo?
L'Esattore aprì la porta e uscì fuori, seguito da Peter e Sultán.
La macchina dell'Esattore era parcheggiata lì vicino, così tutti e tre corsero verso di essa. Qualche secondo dopo l'Esattore accese il motore.
– Alexis è uscito dietro il dentista – ricordò Peter —, che mi ha lasciato un buco, e sì che Vivian diceva che era il migliore della città.
– Spiegami, Peter, cos'è successo? Dov'è andato il dentista?
– Non lo so. C'è stata un'esplosione, non l'hai sentita? E all'improvviso mi sono trovato solo.
– Ti spieghi proprio male. Pensa che quello che mi dici può aiutarci a trovare Alexis. Spiegami tutto quello che è successo nella clinica.
– Siamo entrati. Alexis era molto contento. L'infermiera era al banco e poi ha preso il telefono.
– Non ce n'è bisogno – iniziò a dire l'Esattore per poi aggiungere —, ma continua, cos'altro?
– L'infermiera ha detto che potevamo entrare, ma io non potevo fare un passo. Osservavo Alexis che mi stava tirando, ma io non volevo entrare.
– Tuo figlio dev'essere un santo per sopportarti. Cos'altro è successo quando hai smesso di fare lo sciocco?
– Ho inspirato e ho espirato… ho inspirato e ho espirato… – ripeté Peter tante volte quante l'aveva fatto nello studio.
– Se continui a spiegare le cose di questo passo, faremo notte. Accelera!
– Dopo aver fatto la revisione ad Alexis, ha insistito affinché mi sedessi io e poi ha insistito sul fatto che avevo un molare cariato e che doveva otturarlo.
– Ed era vero?
– No, ma mi ha minacciato che me l'avrebbe tolto un dentista sadico. Dopo un po' c'è stata l'esplosione.
– Esplosione? Che esplosione?
– Non dirmi che non l'hai sentita! È stata molto forte, anche se è sembrata lontana. Boom!
– Io ho sentito come dei rimbombi, mi sono sembrati più dei fuochi d'artificio che un'esplosione, ma adesso che ci penso ti do ragione.
– Bene. Be', il dottore ordinò all'infermiera di portare Alexis in un'altra stanza e poco dopo ho sentito una sedia muoversi, come se qualcuno si stesse alzando, ho sentito una porta aprirsi e dei passi – ricordò Peter – e poi silenzio.
– Ma Alexis è andato nell'altra stanza o no? Perché mi sembra che tu abbia detto che è andato a cercare il dottore.
– Questo è successo dopo. Alexis è uscito a cercare il dottore e anch'io. – La suoneria del cellulare lo interruppe —. È Vivian! Cosa le dico?
– La verità. È tua moglie e la madre di Alexis.
– Non posso dirle la verità. Si arrabbierà molto.
– Con ragione, non credi?
– Io non posso dirglielo, sarà meglio che glielo dica tu. Con te non si arrabbierà.
– Che non mi tocchi portare questa croce! – rispose l'Esattore, dopodiché prese il telefono e rispose: – Vivian, ciao. Adesso ti passo tuo marito. – E tese il cellulare a Peter.
– Ciao, Vivian, cosa vuoi?
– Peter, hai lasciato qui la tessera sanitaria di Alexis.
– Eh? Cosa? – rispose Peter, che non si aspettava quella risposta.
– La receptionist non te l'ha chiesta?
– No. Siamo passati direttamente nello studio.
– Allora te la chiederà quando uscirete. E Alexis?
– Sta bene. Sai, credo che manderò l'Esattore a prenderla. Ci ha accompagnato fin qui – le comunicò di fronte allo sguardo di rimprovero di quest'ultimo.
– Buona idea. Frans gli aprirà la porta.
– Vuoi dirmi qualcos'altro? No? – E riattaccò senza dare tempo a Vivian di reagire.
– Ho guadagnato un po' di tempo. Mentre tu vai a prendere la tessera, io e Sultán cerchiamo Alexis.
– Sai già dove cercarlo? Hai qualche piano?
– No, però magari qualcuno l'ha visto. Ho una foto sul cellulare – disse facendogliela vedere.
– Solo una? Bel padre! Anch'io ho delle foto di Alexis sul cellulare essendo suo zio.
– I miei genitori hanno avuto solo un figlio, cioè me. Dopo tanti anni credevo che ti fosse chiaro.
– È vero? Ne sei sicuro? Tua madre mi ha sempre trattato molto bene.
– Mia madre tratta tutti bene. È stata una madre in affidamento, lo sapevi?
– Credi che sia un momento opportuno per affrontare questo argomento? Non hai in ballo qualcosa di più importante?
– È vero! Corri, vai a casa. Io e Sultán ti aspettiamo qui.
L'Esattore rifletté un millesimo di secondo: era meglio fidarsi di Peter e seguirlo nel gioco, per così dire.
Parcheggiò la macchina in doppia fila e disse a Peter:
– Scendete. Io torno subito.
Peter saltò giù dalla macchina, seguito da un Sultán ricalcitrante. La macchina si perse dietro l'angolo.
– E adesso cosa facciamo, Sultán?
– Bau – rispose quest'ultimo. Aveva perso la traccia quattro strade prima.
– Bau? Non capisco questo bau. Io non parlo il cagnesco. Cosa vuoi dire, Sultán?
– Bau – abbaiò di nuovo e si sdraiò sulla strada allungandosi più che poté.
– Sultán! Non è né l'ora, né il luogo adatto per un sonnellino.
Sultán chiuse gli occhi. Non pensava di muoversi finché l'Esattore non fosse tornato, non aveva intenzione di andare in giro senza una meta precisa.
– Alzati, Sultán! So che gli anni pesano, ma Alexis ha bisogno di noi – disse Peter.
– Bau! – rispose Sultán con più energia, sedendosi di nuovo dopo aver sentito il nome di Alexis.
IV – Sette biglie
Alexis si guardò intorno, soprattutto meravigliato. Non riconosceva il luogo dove si trovava, né si ricordava com'era arrivato fin lì. L'ultima cosa di cui si ricordava era il fatto di essere nello studio con suo padre ed essere uscito dopo il dottore. Il corridoio era costellato di biglie e lui si era chinato per prenderle e tenersele nella tasca dei pantaloni. Ne era sicuro perché un attimo prima aveva messo le mani nelle tasche e ora vedeva davanti ai suoi occhi una di quelle biglie colorate.
Sentì un rumore fuori dalla stanza. A sei anni non riconosceva molti rumori, per questo per un attimo non fu capace di identificarlo.
Si alzò e corse verso la porta, quindi girò il pomello per aprirla. La porta rimase chiusa.
– Papà, aprimi! Papà! Non posso uscire! Papà!!! – gridò così forte che sembrava di poterlo sentire a distanza di un chilometro.
Né suo padre, né nessun altro rispose alla disperata richiesta di Alexis.
Si guardò intorno istintivamente cercando una finestra. A un metro e mezzo da terra vide una finestrella sporca. Si avvicinò a essa e si allungò più che poté, ma non raggiunse neanche l'infisso inferiore. Alexis non era un bambino alto e ora ricordava sua madre che gli diceva:
– Alexis, mangia tutta la verdura. Devi crescere e diventare un uomo alto e bello.
Corse verso l'unica sedia che c'era nella stanza e la trascinò fino alla finestra. Si girò un attimo in direzione della porta e aspettò per vedere se sentiva qualche rumore da fuori.
Niente. Salì sulla sedia, si mise in ginocchio e guardò dalla finestra sporca. Passò la punta delle dita sul vetro, cercando di pulirlo per poter vedere meglio fuori. Non riuscì a fare granché, sicuramente erano secoli che non la pulivano. Sputò sul vetro, allungò la manica della felpa fino a nascondere la mano, nascondendo così del tutto il suo costume da supereroe e in seguito strofinò il vetro, facendo diventare la manica da grigia chiara a grigia scura.
Provò ad aprirla, ma fu inutile. Osservò i cardini, pieni di ruggine. Alexis li guardò senza sapere cosa fossero, ma capì che erano la causa per cui non poteva aprire la finestra.
Saltò giù dalla sedia e rimase a pensare qualche secondo. Cosa avrebbe dovuto fare ora?
La porta si aprì e davanti agli occhi di Alexis apparve Topolino con in mano una foto di un bambino dall'età di Alexis, ma con una tonalità di capelli un po' meno rossiccia, che stava osservando comparandola con il bambino che aveva davanti.
– Topolino! Topolino! – esclamò, mentre saltava da una parte all'altra.
Topolino osservò che la sedia era sotto la finestra. Si avvicinò ad Alexis e gli offrì una caramella al sapore di arancia.
Alexis non fece caso alla caramella. Cercava di mettersi dietro Topolino, ma quest'ultimo glielo impediva.
– Topolino, che ci facciamo qui? – chiese.
Quest'ultimo mise l'indice in mezzo alle labbra per indicare di fare silenzio. Alexis lo imitò e aspettò l'azione successiva del suo amico Topolino. Quest'ultimo gli tese la mano.
– Grazie, Topolino, ma non mi piacciono le caramelle all'arancia. Non mi piace per niente l'arancia.
Topolino mise via la caramella e ne tirò fuori un'altra al limone. Alexis lo guardò con occhi bramosi, ma una voce femminile risuonò nella sua testa, la voce di sua madre.
– Non prendere niente offertoti da uno sconosciuto. O meglio, prendi solo ciò che ti do io.
– No, grazie – disse Alexis ricordandosi anche che sua madre gli diceva che innanzitutto doveva essere molto educato.
Allora Topolino prese Alexis per mano e lo tirò verso di sé.
– Cosa vuoi? Mi porterai da mio padre?
Topolino annuì con la testa e gli indicò la porta che era rimasta aperta.
– Sei poco loquace. Non sarai mica Cucciolo travestito da Topolino?!
Quest'ultimo fece un gesto come per dire "Forse" e poi lo tirò verso la porta.
– Non so se dovrei venire con te. Non ti conosco. Tu mi conosci? Conosci i miei genitori?
Topolino sospirò. Non era un uomo molto fantasioso e non gli veniva in mente un buon motivo per fare uscire il bambino da quel buco. Lasciò andare la mano del bambino e uscì lasciando Alexis solo e rinchiuso un'altra volta. Alexis corse verso la porta e la picchiò varie volte, mentre gridava:
– Ascolti, signor Topolino, se n'è andato senza salutare!
Nessuno rispose ad Alexis e il bambino sentì il desiderio di piangere per la prima volta quella mattina. Ma a cosa serviva piangere se non lo vedeva nessuno? Lui non piangeva mai se era da solo. Ora doveva raggiungere un pubblico, aveva solo bisogno di un'idea. Si guardò intorno cercando un'ispirazione. L'ispirazione che cercava arrivò in fretta, forse influenzato dai suoi geni paterni. L'idea non era una delle più intelligenti. Prese una delle biglie che aveva addosso e la lanciò contro la finestrella, causando un leggero suono tintinnante quando essa rimbalzò sul vetro e fece dei piccoli salti sul pavimento. Però quel suono non fu abbastanza intenso per essere sentito dall'esterno. Prese la biglia e ci riprovò, stavolta usando tutta la sua forza. L'effetto fu proporzionale alla forza esercitata e la piccola biglia rimbalzò di nuovo, seppur stavolta andando in pezzi una volta caduta sul pavimento, di sicuro come conseguenza di una microscopica breccia che attraversava parte della biglia. Alexis rimase paralizzato e un attimo imbarazzato di fronte al fatto che aveva rotto qualcosa che in realtà non gli apparteneva. Questa sensazione scomparve velocemente quando mise la mano nella tasca dei pantaloni e osservò il resto delle biglie nella sua mano.
<>, pensò. <>.
Le soppesò leggermente facendole saltare sulla mano probabilmente per stimare il loro peso e l'effetto che avrebbero potuto esercitare sbattendo contro il vetro della finestra. Portò la sua mano all'indietro per lanciare le biglie mentre emetteva un grido. Le biglie si alzarono per un breve istante alla stessa altezza, ma presto si separarono e alcune rimasero più in alto delle altre durante il loro viaggio aereo, un viaggio che si concluse in pochi secondi, quando sbatterono contro qualcosa col risultato che quelle palline colorate rimbalzarono. Varie biglie sbatterono tra loro, alcune in aria, altre già sul pavimento e quelle che non trovarono il duro pavimento al loro ritorno andarono invece contro il tenero corpo di Alexis. Quest'ultimo gridò di nuovo, ma stavolta indolenzito dal picchiettio di quelle biglie sulla sua testa, sulle sue braccia e sul suo petto.
– Ahiaaaaaaa! Ahiaaaaaaa!
Ma Alexis non cambiava idea facilmente, quindi raccolse le biglie dal pavimento per lanciarle di nuovo, senza rendersi conto che insieme alle biglie aveva raccolto un diamante e che proprio in quel momento la porta che lo stava tenendo rinchiuso si riaprì. Ma invece di vedere entrare Topolino, vide tra le lacrime entrare un personaggio che lo fece rabbrividire, un personaggio non così incantevole come il buon Topolino, con le braccia sui fianchi e un'aria arrabbiata.
– Si può sapere cosa significa tutto questo rumore? – chiese in un tono che non ammetteva nessun capriccio.
Alexis si asciugò le lacrime, spaventato dal personaggio che aveva davanti a sé, mentre stava mettendo nelle tasche le mani e con loro le biglie e il diamante. Batman continuò a guardarlo come se stesse aspettando.
– Mi dispiace, Batman. Non mi rinchiudere nella Batcaverna – disse Alexis a voce bassa.
– Dobbiamo andare. O vieni a piedi o dico al mio amico di portarti nel suo sacco.
Alexis pensò di chiedere dove dovevano andare, ma rifletté sul fatto che forse a Batman non sarebbe piaciuta la domanda. Così rimase in silenzio, mentre usciva dalla stanza con Batman. Salirono in macchina in compagnia di Topolino. Quest'ultimo rimase in silenzio, mentre aiutava Alexis a sedersi correttamente.
– Grazie. Andremo molto lontano?
– Più lontano di quanto tu non sia mai andato – rispose Batman.
– Vomito sempre quando viaggiamo molto lontano – affermò.
– Guai a te se vomiti nella mia macchina – gli disse Batman in tono severo.
– Sì – rispose Alexis con un filo di voce, pur sapendo che era impossibile.
Alexis notò per la prima volta i finestrini della macchina, che non lo lasciavano vedere fuori non perché erano opachi, ma a causa della sporcizia che li ricopriva dall'esterno.
– È davvero la sua macchina? – chiese.
Né Batman, né Topolino risposero alla domanda.
Venti minuti dopo Alexis esclamò:
– Devo fare la pipì!
Aspettò qualche secondo e ripeté la richiesta a voce ancora più alta.
– Devo fare la pipì, devo fare la pipì, devo fare la pipì! – Sembrava che non si stancasse di ripeterlo una volta dopo l'altra.
Batman iniziò ad arrossire, mentre la sua respirazione diventava sempre più agitata a ogni grido di Alexis e mentre il suo compagno provava a tranquillizzarlo con gesti gentili e allo stesso tempo cercava di mantenere la calma. Alla fine Batman frenò così bruscamente che fece cadere Alexis dal sedile.
Topolino guardò con prontezza alle sue spalle. Doveva verificare che il bambino stesse bene nonostante la caduta. Nel frattempo Batman protestò a voce bassa con un "Bambino rompipalle". Alexis stava bene, aveva visto qualcosa che stava attirando tutta la sua attenzione non per essere una novità, ma perché lui in passato aveva già posato lo sguardo su quell'oggetto e persino le sue mani ci avevano giocato. Si contorse sotto il sedile per modificare la postura del suo corpo in modo da poter stendere meglio le braccia e poter così appoggiare le dita sull'oggetto pregiato. All'improvviso si accorse che era tornato su e che era seduto.
– Allaccia la cintura del bambino – ordinò Batman a Topolino.
Quando Alexis fu legato e Batman mise in moto il motore, Alexis aprì la mano e guardò. Non capiva perché quel giocattolo, perché di questo si trattava, si trovasse in quell'auto. Richiuse la mano osservando il giocattolo tra le dita.
V – Vivian inizia le sue avventure in questo romanzo
L'Esattore si fermò con la macchina davanti all'ufficio di Vivian e tamburellò con le dita sul cruscotto, dove aveva messo la tessera sanitaria di Alexis. Guardò verso l'edificio prima di scendere dalla macchina. Allora vide uscire Vivian dall'edificio. Quest'ultima guardò il cielo e poi cercò gli occhiali da sole in borsa. L'Esattore continuò a osservarla, mentre restava in attesa ed era indeciso se parlarle di Alexis od occuparsi lui del problema. Allora Vivian si guardò intorno. La macchina dell'Esattore era nel suo campo visivo, ma Vivian sembrò non vederla, assente com'era. Si sistemò i capelli e scese giù per la strada. L'Esattore scese dalla macchina, i suoi passi seguirono quelli di Vivian. Quest'ultima stava camminando velocemente e ogni tanto guardava l'orologio come se temesse di arrivare in ritardo. L'Esattore, inseguitore esperto, la seguì da vicino e vide che entrò in un centro commerciale.
– Non avrà mica intenzione di fare shopping? – rifletté l'Esattore.
Era lunedì e c'era una probabilità del 99,9% che le cose stessero così.
L'Esattore gettò via la sigaretta che stava fumando, poi ne accese un'altra.
Vivian salì al secondo piano e finse di guardare delle gonne, ma dopo alcuni minuti salì all'ultimo piano, dove c'era un bar. Si avvicinò al banco, chiese un caffellatte e si sedette a uno dei tavoli liberi. Mentre aspettava che il caffè si raffreddasse un po', guardò i messaggi sul cellulare. L'Esattore, seduto a un tavolo vicino, anche se leggermente nascosto dalla vista di Vivian, osservò che lei stava digitando sul cellulare. Vide una persona avvicinarsi al suo tavolo e metterle di soppiatto una busta nella tasca della giacca. Subito dopo Vivian prese la giacca e, dopo aver sorseggiato il caffè che le rimaneva, uscì dal bar senza rendersi conto che un Esattore pensieroso la stava osservando.
Prima di uscire dai grandi magazzini, comprò un borsellino al pianoterra, perché se fosse uscita senza comprare niente, la gente si sarebbe insospettita. L'Esattore la seguì con la sua andatura tranquilla, sapendo che difficilmente l'avrebbe persa di vista.
Vivian aveva preso la strada di ritorno per l'ufficio. L'Esattore la osservò fermarsi all'incrocio proprio davanti all'ufficio e aspettare che il semaforo cambiasse colore.
Un'auto perse il controllo e andò verso le persone che stavano aspettando al semaforo. Sembrò che il tempo si fosse fermato quando le ruote della macchina girarono a una velocità supersonica e Vivian vide quella macchina avvicinarsi senza poter reagire. La macchina andò a sbattere contro il marciapiede e, di conseguenza, caddero a terra le persone che si trovavano lì, tra cui Vivian. Si udirono grida e strilli, mentre la gente si avvicinava a soccorrere i feriti. Non c'era nessun ferito grave, ma qualcuno chiamò lo stesso un'ambulanza. Presto si sentirono delle sirene e alcuni minuti dopo arrivarono la polizia e i soccorritori.
L'Esattore osservò da lontano mentre un soccorritore si stava occupando di Vivian; una ferita alla sua testa stava sanguinando copiosamente.
– Non si spaventi, signora – disse il soccorritore —. Il sangue fa tanta impressione.
Vivian lo guardò sprezzante.
– Dovrà andare all'ospedale – spiegò il soccorritore —. Per fare alcuni esami.
– Non è necessario, sto bene – affermò Vivian, mentre cercava di alzarsi.
– È per il suo bene. Non ci vorrà molto tempo.
– No, grazie. Ho delle faccende da sbrigare – rispose e fece un paio di passi verso il suo ufficio.
Mise la mano nella tasca della sua giacca e notò che non c'era nessuna busta. La sua faccia impallidì per qualche secondo, ma presto recuperò il coraggio e il sangue freddo che la caratterizzavano, sebbene non con la prontezza sufficiente affinché l'Esattore non si accorgesse del cambiamento. Si girò per vedere se la busta fosse per terra, ma con intorno i feriti, i soccorritori, la polizia e le persone curiose non si poteva cercare niente. Indecisa, si guardò intorno e allo stesso tempo iniziò ad arrabbiarsi con se stessa. Lei non perdeva mai la calma, né tantomeno aveva mai commesso uno sbaglio del genere.
Il soccorritore, che non aveva smesso di tenerla d'occhio, le si avvicinò e le disse:
– Entri almeno un attimo nell'ambulanza in modo da farsi controllare la ferita. Magari ha bisogno di alcuni punti.
Vivian gli rivolse uno sguardo meno superbo della volta precedente e con un semplice cenno della testa acconsentì alla richiesta del soccorritore.
Mentre Vivian veniva soccorsa, un'altra ambulanza portò all'ospedale altri feriti, tra cui il conducente della macchina. L'Esattore, che non era visibile sebbene non fosse nascosto, mise nella tasca della giacca il cellulare con cui aveva scattato qualche foto di tutto quello che era successo, sia dello scenario che dei suoi protagonisti.
Un quarto d'ora dopo Vivian uscì dall'ambulanza, dopo aver promesso che sarebbe andata all'ospedale dopo il lavoro o anche prima, se avesse avuto nausea o mal di testa.
Vivian si diresse verso il suo ufficio, mentre stava guardando l'orologio, che le ricordò che aveva perso troppo tempo, tempo che non avrebbe potuto recuperare e che per lei significava la perdita di parecchi guadagni. La perdita della busta le stava causando un terribile contrattempo, ma sperava di risolverlo. Lei trovava sempre il modo per vincere e una prova ne era il suo matrimonio con Peter, sul quale concentrò i suoi pensieri in quel momento senza una ragione apparente. Guardò l'ora, avrebbero già dovuto essere fuori dallo studio. Prese il telefono di riflesso. Cercò nella rubrica il numero di Peter e si trattenne prima di premere il tasto di chiamata.
L'Esattore, attento fino alla più piccola azione di Vivian, respirò sollevato, sebbene non ne fosse cosciente.
Vivian entrò nell'edificio e scomparve dalla vista dell'Esattore. Alcuni minuti dopo era seduta alla sua scrivania con le dita sulla tastiera del computer e in mente un'idea o, meglio, un oggetto: la busta e il suo destino. La sua mente diffidente la portò a pensare che forse l'incidente era stato una messa in scena per toglierle la busta. Tamburellò nervosamente con le dita sul tavolo dell'ufficio pensando qual era il passo successivo da compiere. Il passo le era chiaro: avvertire l'Esattore, lui le avrebbe sicuramente trovato la busta; ma quella era una faccenda che doveva sistemare da sola, sebbene conoscesse l'Esattore a sufficienza per essere sicura che lui non sapeva cosa fosse la curiosità, che mai e poi mai avrebbe guardato cosa si nascondeva nella busta e che non poteva avere la stessa sicurezza da parte di nessun altro dipendente ai suoi ordini.
La cosa che non sapeva era che l'Esattore, quando tutto era tornato alla normalità, si era avvicinato al luogo dove erano successi i fatti e aveva cercato la busta con cura, ma di soppiatto. E proprio in quel momento l'Esattore stava aspettando pazientemente una pista che gli indicasse quale fosse il passo successivo da fare con la busta nascosta nella sua giacca. Proprio allora suonò il cellulare. Dopo aver visto chi lo stava chiamando, lo lasciò squillare più di una volta, prima di decidersi a rispondere. Sapeva che in questo modo l'altra persona si sarebbe agitata e che lui avrebbe avuto il controllo della conversazione. Era sorpreso dal momento che Peter non l'aveva mai chiamato e gli sembrava persino strano che avesse il suo numero.
– Ciao, che succede? – chiese.
– Dove diavolo sei? Sono più di due ore che te ne sei andato – esagerò.
– Sono successi degli imprevisti, ma presto sarò da te. Ti manco, fratellino?
– Sto mostrando la foto di Alexis a chiunque mi passi davanti e ho ordinato a Sultán di abbaiare quando uno mente.
– Molto intelligente, fratellino. Sono sorpreso – commentò, mentre continuava a osservare l'edificio in cui si nascondeva Vivian.
– Non l'ha visto nessuno e Sultán non ha abbaiato, ma credo che non sia possibile. Secondo me è rimbambito – disse mentre Sultán abbaiava offeso.
– Hai chiesto se qualcuno ha visto una macchina allontanarsi in fretta? O se qualcuno ha visto qualcosa di strano, diverso dal solito?
– No. Aspetta un attimo che vado a chiedere. – E fermò e fece le domande a una signora e poi a un signore e poi a un'altra signora, mentre l'Esattore continuava a essere al telefono.
– Vai all'inferno! – sentì l'Esattore dopo un po'.
Nel frattempo nell'ufficio di Vivian la sua segretaria interruppe i suoi pensieri. Vivian la guardò severamente, ma l'efficiente segretaria la conosceva abbastanza bene da non lasciarsi influenzare da un'occhiata del genere.
– Scusi il disturbo, ma ha una visita. Non era nell'agenda, però mi ha detto che è importante che la veda.
Vivian, sempre padrona di se stessa, anche nei momenti in cui era molto irritata, disse alla sua segretaria che avrebbe ricevuto il visitatore e poi, perché negarlo, anche la curiosità ebbe a che vedere con la sua decisione.
Un minuto dopo entrò un signore dall'aspetto umile e piuttosto agitato.
VI – Riunione a tre
Indolente, Peter si appoggiò a una panchina, mentre si toglieva con il bordo della manica lo scarso sudore che gli stava cadendo dal lato della fronte e sospirava con aria stanca. Non sapeva più cosa fare per trovare suo figlio. Si sentiva sfinito sia fisicamente che psicologicamente, si stava sforzando più del solito. Non poteva essersi perso perché sapeva perfettamente dove viveva.
– Cosa possiamo fare adesso, Sultán? Io non so cosa pensare di tutto questo.
Una macchina si fermò davanti a lui e il conducente gli fece cenno di avvicinarsi.
Peter obbedì, mentre Sultán ringhiava sommessamente e rizzava i peli. Si sorprese nel riconoscere il dentista, anche se non indossava il camice bianco e non sapeva di antisettico.
– Salga in macchina – gli disse —. Dobbiamo parlare.
– Zitto, Sultán – ordinò Peter mentre entrava, dato che continuava a ringhiare —. È il dottor Bisturi, non lo sai?
Sultán obbedì, ma non perché Peter glielo aveva ordinato. Da quando si lasciava comandare da quel zuccone? Invece aveva molta curiosità canina per quello che doveva dire quel dentista.
– Mi dispiace che lei e suo figlio siate coinvolti in questa cosa – cominciò —. Ho ricevuto questo, mi pare che sia di suo figlio – disse mostrandogli una cintura con disegnati dei personaggi della Disney.
– Be', sinceramente non mi suona. Sicuro che sia di mio figlio?
– Perché crede che ringhiasse Sultán? Tenga, lasci che l'annusi.
Peter fece così e Sultán lanciò due latrati allegri per poi mostrare i denti minacciosamente.
– Io non ho suo figlio, ma posso aiutarla a trovarlo.
All'improvviso, prima che qualcuno potesse reagire, il dentista mise in moto la macchina, lasciando Sultán sul marciapiede e sorprendendo Peter per l'azione del suo odontoiatra.
– Perché ha fatto questo? Sultán, Sultán, corri! – gridò Peter, ma Sultán non gli diede retta. Forse stava aspettando l'Esattore.
– Non sa tutto quello che è successo. Io non avrei potuto evitarlo, anche se avessi voluto – osservò il dentista —. Non è che mi scuso. Quello che deve sapere è che Xenia e io avevamo una missione da compiere, erano mesi che aspettavamo il segnale.
Peter lo guardò stupidamente. Non era capace di pensare a una domanda intelligente, non sentiva neanche indignazione, né sembrava arrabbiato per la scomparsa di Alexis.
Il dottor Bisturi non disse nient'altro, mentre guidava la macchina fin dove li stava aspettando l'infermiera.
– Se vuole, posso aiutarla a trovare suo figlio, d'accordo?
– Mi sembra giusto – rispose, mentre una voce interiore gli sussurrava che quella non era la risposta più adeguata.
– La prima cosa che deve sapere è che questo deve rimanere tra me e lei. Non può dirlo a nessuno, né alla polizia, né a sua moglie, né a nessuno che conosca.
Peter non ritenne necessario rispondere, dal momento che lui non si sarebbe mai avvicinato a un commissariato e non sarebbe stato capace di valutare se lo intimoriva di più dire qualcosa a sua moglie o all'Esattore, che doveva essere incluso nel "nessuno che conosca". Questa frase avrebbe potuto includere anche Sultán?
– Prima andiamo a incontrare Xenia e tra noi tre penseremo sul da farsi – disse il dottor Bisturi senza pensare con chi stava parlando.
Peter si agitò inquieto sul sedile, mentre lasciava uscire dalla bocca un mormorio inintelligibile.
Qualche minuto dopo il dottor Bisturi si fermò con la macchina di fianco a Xenia. Il dottore corse ad abbracciarla.
– Non è il momento – mormorò —. Dobbiamo risolvere delle cose importanti.
Il dottore la lasciò andare di malavoglia e fece cenno a Peter di avvicinarsi. Peter obbedì subito, mentre si passava la mano sulla testa cercando di domare dei ciuffi ribelli. Vedendo la giovane infermiera, ricordò il buco che aveva in bocca.
– La mia bocca! – gridò indicandola.
– È vero, mi scusi. Come comprenderà, non posso finire il lavoro qui, ma le posso dare un calmante assai forte che durerà alcune ore.
Peter lo guardò diffidente. Poteva fidarsi di un dentista che lasciava un lavoro a metà per chissà quale ragione?
– Che ne dice? Sarà solo una punturina da niente.
Peter fece un segnale affermativo con la testa vedendo che l'infermiera stava preparando un'iniezione. Lei la diede al dottore e allora lui si avvicinò a Peter, ma proprio in quell'istante l'immaginazione fervida di Peter accelerò e una semplice iniezione si convertì in un gigante, provocando un'emozione viscerale a Peter, che indietreggiò spaventato e, dopo aver emesso uno strillo, si girò di lato e iniziò a correre gridando:
– Mi vogliono assassinare!
Il dottore e l'infermiera lo guardarono mentre si allontanava.
– Dovremmo andargli dietro. Potrebbe rovinare tutto – disse il dottore.
Tutti e due si guardarono, lei cosciente del fatto che portava delle scarpe con i tacchi alti, lui cosciente che la corsa non rientrava nella sua dignità neanche come attività sportiva.
– Forse dovremmo dividerci. Uno che porti a termine la transazione e l'altro che metta in salvo il bambino – suggerì lei.
Il dottore la guardò con dolore, dolore per doversi separare da un esemplare così bello, anche se comprendeva che lei aveva ragione, lei era sempre stata la più intelligente dei due.
Peter continuò a correre e a gridare, finché fece un passo falso e percorse alcuni metri con la gamba zoppa per poi andare a sbattere contro qualcosa. Si fermò, obbligato sia dal dolore al piede che dalla sorpresa suscitata dal recente scontro.
– Figurati se guarda dove va! – esclamò un tizio grande come un armadio.
– Vede un dentista pazzo che mi segue? – chiese mentre si massaggiava il piede ammaccato.
L'uomo lo guardò come se fosse lui quello pazzo e si allontanò lentamente. Nonostante la sua stazza, non voleva fare accordi con qualcuno.
– Che succede? Perché si allontana? – chiese Peter seguendolo.
L'uomo non gli rispose e accelerò il passo.
– Non corra, per favore. Deve aiutarmi a trovare mio figlio. Lei ci mette i muscoli e io l'intelligenza.
– Non mi segua! Io non la conosco.
– Neanch'io conosco lei, ma mi dà delle buone vibrazioni e c'è sempre una prima volta – gli disse, nonostante quel tipo emettesse un odore misto tra sudiciume e alcol e il suo aspetto fisico fosse tutto fuorché tranquillizzante.
– Io non so dov'è suo figlio. Non sarebbe meglio che andasse alla polizia?
Peter non si era accorto che durante la loro conversazione l'uomo si era avvicinato sempre di più a una stazione di polizia e che stava salutando con un lieve movimento della testa un poliziotto in uniforme che stava sorvegliando la porta principale.
Si ricordò dell'avvertimento del dentista. Lui non aveva intenzione di entrarci, era meglio che si allontanasse di soppiatto.
Con un altro segnale il tizio, un poliziotto in borghese per essere più precisi, indicò a un altro poliziotto che doveva arrestare Peter.
Tale poliziotto si avvicinò veloce e silenzioso a Peter e, una volta al suo fianco, gli disse:
– Venga con me, per favore.
Peter si allontanò un po' di più, non aveva mai avuto un buon rapporto con il corpo di polizia e non aveva intenzione di vedere se questa volta sarebbe stato diverso. Il poliziotto si mise di nuovo al suo fianco e lo afferrò per il braccio.
– Non mi faccia usare la forza – gli disse.
– Mi lasci! – gridò Peter mentre si muoveva come un'anguilla —. Le ho detto di lasciarmi!
– Resistenza all'autorità. Ha diritto a… – Il poliziotto gli lesse i suoi diritti mentre lo ammanettava.
Peter si ritrovò di nuovo ammanettato, proprio come gli era successo varie volte in passato. Sapeva che adesso l'avrebbero obbligato a entrare in commissariato e non sapeva quando l'avrebbero lasciato andare, ma era anche cosciente del fatto che aveva un dovere da compiere: ricordava che doveva trovare suo figlio scomparso. Così, senza pensarci due volte, diede un calcio allo stinco del poliziotto e corse fuori più veloce che poté.
Però aveva le braccia ammanettate sulla schiena, cosa che gli faceva perdere l'equilibrio, creandogli delle difficoltà nel camminare, finché alla fine, dopo un ultimo passo falso, baciò il suolo.
– Ahia! – si lamentò e cercò di alzarsi. Gli faceva molto male il naso.
In quell'istante un'ombra alta gli si avvicinò mettendosi davanti a lui e posando una mano sulla sua spalla.
– Mi sembra che sia rotta, fratellino – disse e, nonostante la sua sobrietà, dal tono di voce si capiva che la situazione lo stava divertendo —. Andiamo, abbiamo delle cose da fare.
VII – Entrata nel parco giochi
Il parco giochi traboccava di gente, sebbene fosse un giorno lavorativo.
Batman e Topolino avanzavano con difficoltà. Topolino sorrideva ai bambini che gli si avvicinavano, invece Batman aveva voglia di allontanare quei mocciosi con una manata.
– Le montagne russe! – esclamò allegramente Alexis nel vederle —. Voglio salirci, per favore. Per favore, per favore, per favore!
Batman aprì la bocca, ma Topolino gli fece cenno di non dire niente, indovinando che la parola che il suo compagno avrebbe pronunciato era volgare, per cui Batman respirò e pronunciò un tranquillo "cavolo" che piacque a Topolino e non attirò l'attenzione di Alexis.
Alexis vide con dispiacere che si stavano allontanando dalle montagne russe, ma poco più avanti c'era la ruota panoramica. Alexis la guardò con occhi bramosi, ma il suo desiderio non era destinato a realizzarsi e con dispiacere vide che si stavano allontanando e che stavano andando verso le postazioni del tiro con l'arco.
– Devo fare una telefonata – disse Batman —. Tieni bene d'occhio il bambino.
Sembrò che Topolino non l'avesse ascoltato, quindi Batman gli diede un colpo sulla spalla e Topolino rispose alzando e abbassando il dito medio tre volte.
Batman si allontanò un po', mentre Topolino e Alexis lo stavano aspettando di fianco a una postazione del tiro con l'arco.
– Sì, va tutto secondo i piani – disse Batman al telefono —. Sì, abbiamo seguito l'orario accordato. Ci terremo in contatto. – E dopo aver riagganciato, aprì il cellulare, tirò fuori la SIM e la sostituì con un'altra usa e getta.
– Non hai comprato dello zucchero filato al bambino? O delle mandorle caramellate – disse una volta tornato —. Ricorda che dobbiamo intrattenere il bambino.
Tutti e tre si diressero verso uno di quei posti che vendevano dolciumi. Batman tirò fuori delle monete, comprò dello zucchero filato e lo diede a un Alexis sorpreso, che guardava lo zucchero con un'espressione strana.
– Prendilo, è per te – disse bruscamente Batman.
– Cos'è? – chiese Alexis guardando quella cosa rosa —. Io non l'ho mai preso.
– Prendi lo zucchero filato, non morde – disse Batman, mentre Topolino annuiva con la testa.
– Mia mamma non vuole che mangi caramelle. Questa è una caramella?
– E tua madre non ti ha detto che è molto scortese rifiutare un regalo? Prendi il maledetto zucchero che non me lo porterò dietro per te.
Alexis contrasse le labbra, respirò a scatti e i suoi occhi si riempirono di lacrime dal momento che non era abituato a essere trattato in quel modo.
– Ma cosa fai? È solo un bambino – gli rinfacciò Topolino solo con uno sguardo, mentre Batman sbuffava.
Poi prese per mano Alexis, che si tranquillizzò velocemente.
– Spero che questo giorno passi in fretta in modo da restituire il bambino – disse Batman.
Tutti e tre avevano camminato senza una meta precisa e ora i loro passi li avevano condotti a una giostra di fianco a un edificio con un cartello con su scritto che nell'interno dell'edificio si nascondeva un mondo magico grazie agli specchi.
Alexis lo guardò con occhi bramosi, ma stavolta non disse niente; non capiva perché quei signori l'avevano portato in quel posto e non lo lasciavano salire sulle giostre da sballo.
Tutti e tre entrarono nella casa degli specchi, ma invece di divertirsi grazie alle singolari figure restituite dagli specchi, Topolino e Batman condussero Alexis davanti a uno di essi, Batman lo spinse e i cardini dello stesso girarono per dare accesso a una stanza preceduta da un corridoio breve.
– Dove andiamo? – chiese Alexis, ma non ricevette risposta.
Lo specchio-porta si chiuse dietro di loro e Alexis si spaventò vedendosi circondato dal buio.
– È molto buio – disse e afferrò la mano di chi aveva più vicino, Batman.
– Molla, microbo! – ordinò Batman in malo modo.
Ma quando era spaventato Alexis non obbediva agli ordini, così afferrò la giacca di Batman con le sue manine.
Batman brontolò a causa del fastidio che gli dava quel moccioso, ma non cercò di liberarsene subito, sebbene si sentisse oppresso da un simile attacco alla sua persona, forse perché non era abituato a essere trattato in quel modo e l'oscurità regnante gli impediva di vedere la faccia spaventata del piccolo Alexis.
Batman aprì un'altra porta e vi entrarono tutti e tre. Topolino raggiunse l'interruttore, che illuminò la stanza, e davanti agli occhi di Alexis apparve ciò che a prima vista sembrò una piccola sala giochi, ma che in realtà nascondeva una cella dove nascondere Alexis. Quest'ultimo lasciò andare finalmente Batman e corse a sedersi sul pavimento, dove aveva visto il suo gioco preferito.
Batman e Topolino, approfittando del fatto che Alexis era entusiasta di giocare senza sosta, uscirono dalla stanza chiudendo le porte una dopo l'altra e lasciando il bambino isolato dal mondo esterno.
Una volta fuori, Batman si accorse di avere ancora in mano lo zucchero filato, quindi lo buttò nel primo cestino che vide. Poi tirò fuori dalla tasca un cellulare e fece una chiamata veloce comunicando al suo interlocutore gli ultimi avvenimenti della vita di Alexis.
– Andiamo – disse quando riagganciò e se ne andarono tutti e due.
Nel frattempo Alexis, rendendosi conto che l'avevano lasciato solo, ne approfittò, forse per la prima volta in quel giorno, per rendersi conto che gli mancavano i suoi genitori, anche se sentiva di più la mancanza di sua mamma. Sua madre che, sebbene fosse una persona molto occupata, trovava sempre il tempo per stare con lui, giocare con lui o dargli la cena. Avvertì un sentimento sconosciuto fino ad allora, un'inquietudine che l'obbligò a lasciare il giocattolo che in quel momento teneva tra le mani e, sedendosi in un angolo della stanza, cominciò a pensare ai suoi cari genitori. Si ricordò del consiglio che gli dava sempre sua madre: di non separarsi mai da loro; ma il fatto era che a volte non poteva evitare di fare certe cose. La curiosità che l'aveva spinto a separarsi dalla sicurezza che gli fornivano sia suo padre che la stanza in cui si trovava in quel momento, quella stessa curiosità lo spinse a percorrere con lo sguardo la stanza in cui si trovava. Oltre ai diversi giochi e giocattoli sparsi per la stanza, c'era un tavolo con la sua sedia sulla quale c'era qualcosa coperto con un tovagliolo. Ancora una volta la curiosità influenzò il bambino e quest'ultimo tirò via il tovagliolo per scoprire che stava nascondendo una porzione di torta al cioccolato e un bicchiere di latte.
Alexis non aveva un orologio e non sapeva quanto tempo era passato dalla visita dal dentista, ma vedendo la torta gli sembrò di non aver mangiato da secoli. Si sedette in fretta al tavolo, pronto a mangiare quella torta invitante.
Dieci minuti dopo aveva le mani e la faccia macchiate di cioccolato e un baffo bianco. Sbadigliò due o tre volte in maniera incontrollabile, mentre gli si chiudevano gli occhi e il sonno lo invadeva inevitabilmente. Non aveva neanche voglia di dormire in quel momento, ma presto notò che non poteva tenere gli occhi aperti. Scese dalla sedia e si rannicchiò sotto il tavolo con le gambe ripiegate. Dopo alcuni secondi si era già completamente addormentato.
Poco dopo Topolino entrò di nuovo, sparecchiò il tavolo e si chinò per vedere Alexis. Lo trascinò con attenzione per non fargli male, finché lo tirò fuori da sotto il tavolo. Lo prese tra le braccia e, una volta attraversata la stanza, lo mise in un letto che non si vedeva, dietro un paravento. Poi lo coprì e uscì dalla stanza cercando di fare meno rumore possibile, anche se sapeva che il bambino non si sarebbe svegliato per il momento.
Fuori lo stava aspettando Batman, che nel vederlo gettò via la sigaretta che stava fumando.
– Ora abbiamo qualche ora libera – disse Batman —. Odio fare la babysitter.
Topolino alzò le spalle, iniziava a conoscere il suo compagno.
– Non alzare le spalle, sai che non mi piace – disse Batman —. Odio anche te, compagno.
Topolino fece un mezzo sorriso sotto la maschera e poi fece per togliersela.
Batman trattenne il suo braccio con violenza, mentre si guardava intorno verificando quanta gente c'era. Topolino si fermò, anche se aveva bisogno di togliersi quella maschera quanto prima, iniziava a dargli fastidio.
– Aspetta quando saremo in macchina, qui siamo troppo esposti. Qualcuno potrebbe notare le nostre facce – disse Batman mentre iniziava a camminare verso l'uscita del parco giochi.
Alcuni minuti dopo arrivarono alla macchina e nel vederla Batman lanciò una maledizione, aveva una ruota a terra.
– Maledetti bambini! – gridò, mentre colpiva con rabbia il cofano della macchina.
VIII – Un viaggio improvviso
Vivian era distratta da un po', innanzitutto per colpa della perdita della busta e poi per la visita di quell'uomo che le aveva fatto una richiesta un po' particolare. Ma Vivian era soprattutto una donna d'affari, per essere più precisi, una donna pratica di affari che valutava i pro e i contro di ogni situazione in modo ormai istintivo grazie ad anni di esperienza. Quindi, senza neanche riflettere più dello stretto necessario, calcolò il passo successivo da fare, più per istinto che per un pensiero razionale. Per prima cosa, disse alla sua segretaria che non voleva essere disturbata in nessun caso.
Successivamente decise di trattare la richiesta dello sconosciuto come se si trattasse di un affare in più. Quindi valutò mentalmente i possibili vantaggi e svantaggi della richiesta.
Non le aveva chiesto soldi, né un lavoro, era qualcosa di meno materiale. E Vivian, che si lasciava guidare solo dai suoi sentimenti per la sua famiglia, pensò che avrebbe potuto fare un'eccezione con la richiesta dello sconosciuto. Doveva fare un paio di telefonate, chiedere un paio di favori.
Sganciò il telefono per fare la prima telefonata.
Dieci minuti dopo aveva avviato la faccenda e pensò che presto sarebbe stata l'ora di mangiare e che avrebbe potuto andare a casa. Non era abituata a farlo, ma all'improvviso sentì che aveva bisogno di stare vicino a suo figlio.
Fu l'istinto materno che le fece concentrare i suoi pensieri su suo figlio in quel momento? Fu quell'istinto a suggerirle di chiamare a casa sua e interessarsi del suo rampollo dopo l'appuntamento dal dentista?
Prese il telefono, chiamò casa sua e aspettò pazientemente che qualcuno rispondesse.
– Casa Clarke – sentì rispondere Frans.
– Frans, sono io. Mi passi Peter.
– Signora, al momento suo marito non si trova fra queste mura – rispose Frans con un linguaggio ricercato.
Vivian guardò l'ora e replicò:
– Non può essere. Aveva l'appuntamento alle nove. Dove diavolo saranno?
– Non lo so, signora – rispose Frans, lo stoico maggiordomo.
– Mi faccia il favore di avvisarmi quando arrivano. Potrebbe aver portato il bambino a mangiare un hamburger nel suo vecchio paese.
– Sarà fatto, signora. – E riagganciò dopo aver sentito Vivian riagganciare a sua volta dopo averlo ringraziato.
Il passo successivo sarebbe stato chiamarlo al cellulare, ma Vivian preferì chiamare l'Esattore.
Il cellulare dell'Esattore squillò, per cui lui lo tirò fuori dalla tasca con l'intenzione di vedere chi stava cercando di contattarlo in quel momento. Doveva rispondere, quindi premette il tasto di chiamata.
– Ciao, Vivian. Qualcosa non va?
– Sei con Peter? Perché non siete tornati a casa? – chiese prima di aspettare la prima risposta.
– Sì, Peter è qui con me – rispose l'Esattore mentre pensava a come rispondere alla seconda domanda —. Peter ha pensato che ad Alexis sarebbe piaciuto godersi questa bella giornata dopo l'appuntamento dal dentista, quindi stiamo facendo una passeggiata.
– Non fate tardi. Di' a Peter che l'aspetto per mangiare.
– Sarà fatto, Vivian. Ciao. – E riagganciò prima che a Vivian venisse in mente qualche domanda inopportuna per ampliare le poche informazioni che aveva su dove si trovava la sua famiglia.
Vivian guardò l'ora, poteva ancora approfittare del tempo prima di andare a casa, per cui decise di fare la telefonata che aveva in sospeso, doveva riscuotere un altro favore.
La scena dell'incidente le venne in mente come un fulmine, cosa che la fermò prima che componesse il numero. E allora ricordò che l'aveva visto e Vivian si chiese cosa stava facendo lui lì. Il suo istinto di sopravvivenza le rinfacciò di essersi fidata troppo. Tamburellò energicamente con la penna sul tavolo, prima di alzarsi dalla poltrona e uscire decisa dal suo ufficio.
La segretaria alzò lo sguardo sentendo dei tacchi passare come una meteora e andare verso l'ascensore. Poi continuò con il suo lavoro visto che Vivian non si girò per darle qualcosa da fare o almeno per dirle se e quando avesse intenzione di tornare in ufficio durante il resto della giornata.
Vivian andò in garage e si diresse verso il suo box dove teneva la sua Toyota, che usava solo in certe occasioni: quando non era richiesto il servizio di un autista, quando la destinazione era un segreto.
Le vie della città si susseguivano velocemente mentre Vivian si stava dirigendo verso la sua meta. Nonostante il pericolo di avere un incidente, tale velocità fece sì che il suo viaggio finisse presto.
Vivian scese dalla macchina, era all'aeroporto. Prese una valigetta che teneva sempre pronta nel bagagliaio per qualsiasi evenienza. Attraversò l'aeroporto fino ad arrivare a una porta con su scritto "Vietato entrare" e che la condusse lì dov'erano parcheggiati gli aerei. A passo deciso si diresse verso un piccolo aereo leggero di fianco a un hangar, dove un uomo di mezza età stava aspettando facendo dei brevi giri.
– Sam, andiamo in fretta. Non ho molto tempo.
Il pilota e la passeggera salirono sull'aereo, che decollò qualche minuto dopo senza il minimo contrattempo.
Quindici minuti dopo atterrò con destrezza e Vivian scese in fretta dall'aereo.
– Aspettami qui con l'aereo pronto per poter partire appena torno – gli disse Vivian.
Il pilota annuì con la testa e si mise a guardarsi le unghie, unghie mal curate e sporche a furia di maneggiare il motore dell'aereo, poiché, oltre a esserne il pilota, era anche il meccanico dell'aereo che Vivian utilizzava per i suoi viaggi a lunga distanza.
Vivian fece una telefonata.
– Sono qui. Adesso vengo a trovarti.
Un taxi l'avvicinò alla sua meta successiva in più tempo del previsto, cosa che spinse Vivian a dare un'occhiata nervosa all'orologio e a rimproverare l'allegro tassista, che le rispose:
– Che fretta hai, bellezza?
Vivian lo guardò severamente, ma nel suo intimo le piaceva che le facessero i complimenti. Peter non glieli faceva mai e lei, sebbene fosse una grande imprenditrice, era anche una donna. A dire il vero, a volte sentiva la mancanza di comportarsi come una femmina e non tanto come una fredda donna d'affari. Così un sorriso emerse tra le nebbie della serietà per illuminare brevemente il suo viso.
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