L'Ombra Del Campanile
Stefano Vignaroli
Anno 2017: la giovane studiosa Lucia Balleani, sistemando e classificando i testi della biblioteca della fondazione Hoenstaufen, si ritrova a lavorare nell'antico palazzo che era stato la residenza della nobile famiglia Baldeschi-Balleani, di cui è diretta discendente. Una serie di visioni legate a quanto accaduto alla sua omonima Lucia Baldeschi, porterà il lettore a scoprire insieme a lei un'oscura vicenda svoltasi nello stesso luogo 500 anni prima.
Anno 2017: la giovane studiosa Lucia Balleani, sistemando e classificando i testi della biblioteca della fondazione Hoenstaufen, si ritrova a lavorare nell'antico palazzo che era stato la residenza della nobile famiglia Baldeschi-Balleani, di cui è diretta discendente. Una serie di visioni legate a quanto accaduto alla sua omonima Lucia Baldeschi, porterà il lettore a scoprire insieme a lei un'oscura vicenda svoltasi nello stesso luogo 500 anni prima. In una Jesi rinascimentale, ricca di arte e cultura, in cui stanno sorgendo nuovi e sontuosi palazzi sui resti dell’antica città romana vive una giovane contessina, Lucia Baldeschi. La ragazza è nipote di un malvagio Cardinale, tessitore di oscure trame finalizzate ad accentrare sia il potere temporale che quello ecclesiastico nelle proprie mani. Lucia, persona dotata di spiccata intelligenza, diventa amica di un tipografo, Bernardino, insieme al quale condividerà la passione per la rinascita delle arti, delle scienze e della cultura, che stanno caratterizzando il periodo in tutta Italia. Si troverà stretta tra il dovere di obbedire a suo zio, che l’ha fatta crescere ed educare a palazzo in assenza dei genitori, e l’amore appassionato per Andrea Franciolini, figlio del Capitano del Popolo e vittima designata della tirannia del Cardinale.
La vicenda ci viene narrata anche attraverso gli occhi di Lucia Balleani, una giovane studiosa discendente del nobile casato. Nel 2017, esattamente 500 anni dopo i fatti, quest’ultima scopre antichi documenti nel palazzo di famiglia, e ricostruisce tutta la complessa storia di cui si erano perse le tracce.
Stefano Vignaroli
A Giuseppe Luconi e Mario Pasquinelli,
illustri concittadini che fanno
parte della Storia di Jesi
Stefano Vignaroli
LO STAMPATORE
L’ombra del campanile
© 2015 – 2017 Stefano Vignaroli
Tutti i diritti di riproduzione, distribuzione e traduzione sono riservati
I brani sulla storia di Jesi sono stati tratti e liberamente adattati dai testi di Giuseppe Luconi
Illustrazioni del Prof. Mario Pasquinelli, gentilmente concesse dai legittimi eredi
Sito web http://stedevigna.wix.com/stefano-vignaroli
E-mail per contatti stedevigna@gmail.com
Editore: Tektime
https://www.traduzionelibri.it (https://www.traduzionelibri.it)
Indice dei contenuti
1 LO STAMPATORE (#u154b1651-90ee-537c-9d84-cc73ff75f9dd)
2 PREFAZIONE (#u9fde09c2-5f9c-54aa-863d-a39fd54da9c8)
3 PREMESSA (#u66dca5a4-bbbb-53e3-838c-2556b8608514)
4 CAPITOLO 1 (#uc8285b30-5f9c-5274-90cc-52e72f230daa)
5 CAPITOLO 2 (#u3ba38e45-3fdc-5656-896d-65a632d9f3c7)
6 CAPITOLO 3 (#u22cbe0db-594b-5d16-942b-85ad3b1e6515)
7 CAPITOLO 4 (#u78873084-034d-5ca4-abe6-7431ce50bfd5)
8 CAPITOLO 5 (#u5ae4168b-5d10-584b-b8d7-177d8c42fef9)
9 CAPITOLO 6 (#litres_trial_promo)
10 CAPITOLO 7 (#litres_trial_promo)
11 CAPITOLO 8 (#litres_trial_promo)
12 CAPITOLO 9 (#litres_trial_promo)
13 CAPITOLO 10 (#litres_trial_promo)
14 CAPITOLO 11 (#litres_trial_promo)
15 CAPITOLO 12 (#litres_trial_promo)
16 CAPITOLO 13 (#litres_trial_promo)
17 CAPITOLO 14 (#litres_trial_promo)
18 CAPITOLO 15 (#litres_trial_promo)
19 CAPITOLO 16 (#litres_trial_promo)
20 CAPITOLO 17 (#litres_trial_promo)
21 CAPITOLO 18 (#litres_trial_promo)
22 CAPITOLO 19 (#litres_trial_promo)
23 CAPITOLO 20 (#litres_trial_promo)
24 CAPITOLO 21 (#litres_trial_promo)
25 CAPITOLO 22 (#litres_trial_promo)
26 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (#litres_trial_promo)
27 Ringraziamenti (#litres_trial_promo)
LO STAMPATORE
L'ombra del campanile
PREFAZIONE
Jesi non vi sembrerà più la stessa quando avrete letto “Lo Stampatore”. Il primo episodio della trilogia, “L’Ombra del Campanile”, è l’ultimo romanzo di Stefano Vignaroli: esso narra le parallele vicende della giovane e fascinosa archivista Lucia Baldeschi e dell’omonima antenata, vissuta 500 anni prima. A legarle un mistero, le cui tracce sono celate nelle pietre, nelle architetture e nei testi storici della città.
Romanzo avvincente e ipnotico. Già, perché senza accorgersene, il lettore finisce per assumere il punto di vista della studiosa, agli occhi della quale vie e palazzi perdono la loro austera e distaccata bellezza, per diventare testimoni solenni di un tetro passato. Passaggi segreti, boschi infestati dai briganti, valorosi guerrieri e spietati mercenari, presunte streghe e donzelle indifese, alti prelati e frati, nobili e plebei. Sono coloro che popolano e animano l’azione, in un costante crescendo di tensione, in cui i luoghi non fanno da sfondo, ma diventano parte integrante e suggestiva di un’avvincente narrazione. Un romanzo storico in ogni senso, anche e soprattutto per la capacità dell’autore di riportare in vita usi e costumi di un'intera società, quella jesina. Ieri come oggi ricca di pregi ma non priva di difetti e viltà. Ai quali nessuno, nemmeno la protagonista, così autentica e vera, risulterà immune.
Marco Torcoletti
PREMESSA
Dopo aver pubblicato tre romanzi di genere thriller/poliziesco, ritenevo quasi cosa impossibile l’approccio a un romanzo storico. Ma la passione per la storia della mia città ha fatto scattare in me la molla giusta per affrontare questo nuovo lavoro. È ovvio che personaggi e fatti, pur prendendo spunto da eventi storici realmente documentati, sono in gran parte puro frutto della mia fantasia. Ho di proposito lasciato invariati i nomi di luoghi e di importanti famiglie jesine, proprio per rendere la narrazione il più verosimile possibile. Se sarò riuscito nell’intento, che è quello di ogni scrittore, di interessare il lettore e farlo rimanere incollato alle pagine del libro fino alla parola “fine”, lo giudicherà il pubblico. Io ce l’ho messa tutta, ai lettori l’ardua sentenza.
La trama si svolge in una Jesi rinascimentale, ricca di arte e cultura, in cui stanno sorgendo nuovi e sontuosi palazzi sui resti dell’antica città romana.
La giovane Lucia Baldeschi è nipote di un malvagio Cardinale, tessitore di oscure trame finalizzate ad accentrare sia il potere temporale che quello ecclesiastico nelle proprie mani. Lucia, ragazza dotata di spiccata intelligenza, diventa amica di un tipografo, Bernardino, insieme al quale condividerà la passione per la rinascita delle arti, delle scienze e della cultura, che stanno caratterizzando il periodo in tutta Italia. Si troverà stretta tra il dovere di obbedire a suo zio, che l’ha fatta crescere ed educare a palazzo in assenza dei genitori, e l’amore appassionato per Andrea Franciolini, figlio del Capitano del Popolo e vittima designata della tirannia del Cardinale.
La vicenda ci viene narrata anche attraverso gli occhi di Lucia Balleani, una giovane studiosa discendente del nobile casato. Nel 2017, con esattazza 500 anni dopo i fatti, quest’ultima scopre antichi documenti nel palazzo di famiglia, e ricostruisce tutta la complessa storia di cui si erano perse le tracce.
Stefano Vignaroli
CAPITOLO 1
La magia non è stregoneria
(Paracelso)
Bernardino sapeva bene di vivere in tempi in cui era davvero pericoloso dare alla stampa un testo senza aver ottenuto l’imprimatur ecclesiastico. Se oltretutto il testo era blasfemo e offendeva la Chiesa ufficiale, propinando dottrine a lei contrarie, si rischiava il rogo, non solo dei libri stampati, ma anche dell’autore e dell’editore. La sua stamperia, in Via delle Botteghe, andava bene. Il secolo decimo sesto era da poco iniziato e Bernardino si era fatto conoscere come tipografo in tutta Italia, per aver sostituito i caratteri mobili di stampa in legno con quelli in piombo, molto più resistenti e duraturi. Con lo stesso “clichet” riusciva a stampare un migliaio di copie, contro le trecento che i suoi predecessori della scuola tedesca stampavano con gli “stereotipi” in legno, anche se manipolare quel metallo gli stava creando non pochi problemi di salute. Aveva rilevato, oltre un trentennio prima, la stamperia di Federico Conti, un Veronese che aveva fatto la sua fortuna a Jesi, creando la prima edizione a stampa tutta italiana della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri. Il Conti aveva in breve raggiunto l’apice della fortuna, così come altrettanto in breve era caduto in disgrazia. Bernardino ne aveva approfittato e aveva acquistato la stupenda stamperia per quattro soldi. Con la calma e la pazienza proprie di coloro che provenivano dal contado Jesino – Bernardino era originario di Staffolo – aveva fatto crescere la sua attività fino ai massimi livelli, senza mettersi mai in contrasto con le autorità, sempre onorato e riverito. Fino allora, l’opera più importante alla quale si era dedicato, era stata una “Storia di Jesi, dalle origini alla nascita di Federico II”, basata su quanto tramandato per tradizione orale e sui documenti storici, antichi manoscritti, contratti, mappe e quant’altro era conservato nei palazzi delle nobili famiglie jesine, Franciolini, Santoni e Ghislieri. Alla stesura dell’opera avevano lavorato Pietro Grizio e lui stesso; anche se non era un vero e proprio scrittore, a forza di preparare bozze da stampare, aveva infatti acquisito buonissima familiarità con la lingua italiana. Un’opera che ancora non aveva portato a termine e che sarebbe stata stampata dai suoi successori solo nel 1578, dopo un notevole lavoro di rivisitazione e rifinitura. Un’opera che sarebbe stata per lungo tempo la più importante fonte storica sulla città di Jesi, e da cui avrebbero preso spunto, dopo due secoli circa e oltre, il Baldassini per il suo “Memorie historiche dell’antichissima e regia città di Jesi” e l’Annibaldi per la sua “Guida di Jesi”, comparsa addirittura nei primi anni del XX secolo. Una grande e importante opera, ancora tutta in cantiere, lasciata in sospeso per pubblicare un libercolo commissionatogli da una ragazzina poco più che ventenne. Cosa passava per la testa di Bernardino per dare alle stampe un opuscolo dedicato al culto pagano della Dea Madre e alle cure con le erbe officinali? L’Inquisitore capo della città, il Cardinale Artemio Baldeschi, avrebbe potuto fare irruzione nella sua bottega da un momento all’altro, magari istigato da qualche altro tipografo geloso dei suoi successi. E tutto questo per fare un favore proprio alla nipote del Cardinale, Lucia Baldeschi. A cinquant’anni aveva forse perso la testa per quella donzella?
No, improbabile, si diceva tra sé e sé lo stampatore. Non potrei di sicuro farcela a sostenere una notte d’amore con una giovane puledra, anche se… Anche se la sola idea di poterle sfiorare le mani con le sue un po’ lo eccitava, ma ricacciava quelle pulsioni negli angoli più reconditi della sua mente.
In cambio della stampa del manuale, la giovane “strega” aveva promesso a Bernardino una cura efficace per la sciatalgia che lo affliggeva ormai da anni e un unguento che l’avrebbe protetto dall’assorbire la polvere di piombo attraverso la pelle screpolata delle mani.
«La colpa della tua anemia e dei tuoi dolori ossei è del piombo che maneggi ogni giorno. Esso si assorbe attraverso la pelle, e inalando la sua polvere mentre si respira. Se vuoi vivere ancora a lungo segui i miei consigli.»
Lucia era una giovane donna, all’epoca aveva venti anni, piuttosto alta, mora, dagli occhi nocciola sempre in movimento, alla curiosa ricerca di ogni singolo dettaglio. Nulla le sfuggiva di quanto stesse accadendo intorno a lei, aveva un udito finissimo, e anche capacità di preveggenza; inoltre era in grado di curare con le erbe e i rimedi naturali una gran varietà di malattie. Questo era quello che sapeva chi la conosceva. In realtà, Lucia era dotata di poteri sconosciuti alla maggior parte delle persone comuni, ma cercava di non rivelarli a nessuno, soprattutto per il fatto che viveva sotto lo stesso tetto di suo zio. Era una bambina di nove anni quando, assistendo al rogo di Lodomilla Ruggieri sulla pubblica piazza, era rimasta sconvolta dallo spettacolo raccapricciante dell’esecuzione. La nonna la teneva per mano in mezzo alla folla che aspettava che la condannata uscisse dalla rocca in cima alla Salita della Morte. La donna, in sella a un mulo, le mani legate alle sue redini, i vestiti laceri che lasciavano scoperte le sue nudità, era visibilmente provata dalle torture che gli inquisitori le avevano fatto infliggere al fine di confessare le sue colpe. Aveva un occhio pesto, una spalla slogata e, quando fu fatta scendere dal mulo, quasi non era neanche in grado di reggersi in piedi. Fu legata al palo, con le braccia in alto, in modo che non si accasciasse sulle ginocchia. Poi fu disposta la legna sotto i suoi piedi e intorno alle sue gambe. Un sacerdote le si avvicinò con la croce: «Rinneghi Satana?» Per tutta risposta, Lodomilla aveva sputato alla croce e al sacerdote e le fiamme erano state appiccate alla catasta. Le urla della donna che bruciava erano disumane, Lucia non poteva sopportarle, e aveva pensato intensamente che se in quel momento fosse iniziato a piovere a dirotto, l’acqua avrebbe spento il fuoco e la poveraccia si sarebbe potuta salvare in qualche modo. Guardò il cielo e lo vide caricarsi in breve di nuvole nere minaccianti pioggia. Lucia capì che bastava che con il pensiero ordinasse alle nuvole di piovere e si sarebbe scatenato il diluvio. La nonna, che conosceva le potenzialità della bambina, alla quale aveva cominciato a insegnare i primi rudimenti della magia, la fermò appena in tempo.
«Se non vuoi fare la stessa fine di Lodomilla, frena i tuoi istinti. È la Dea che ha rivoluto a sé la nostra amica, altrimenti con le sue arti magiche sarebbe scampata alle fiamme. Fra poco finirà di soffrire e il suo spirito sarà accolto dalla Buona Dea.»
Si sentì il rombo di qualche tuono, ma non cadde una sola goccia d’acqua. In breve le nubi si dileguarono e il cielo si rasserenò. L’azzurro della giornata di fine maggio era attraversato solo dalla colonna di fumo nero che si alzava dalla pira. Lodomilla era ormai un tizzone ardente senza vita. Qualcuno continuò a gettare fascine e alimentare il fuoco fino a che della strega non rimasero che le ceneri.
Da quel giorno Lucia aveva intuito che, con i suoi poteri, poteva dominare i vari elementi della natura, mettendoli al proprio servizio, sia nel bene che nel male. La sua nonna aveva cercato di guidarla nel cammino per arrivare al controllo delle sue arti magiche, le aveva insegnato a riconoscere le erbe officinali, quelle curative e quelle tossiche, quelle dagli effetti stupefacenti e quelle dai presunti poteri magici. Le aveva insegnato a pronunciare incantesimi e realizzare talismani e, all’età di quattordici anni, le aveva detto: «Solo le streghe più potenti riescono a controllare tutti e quattro gli elementi, aria, acqua, terra e fuoco. L’unione di essi è rappresentato dalla quintessenza, dallo spirito, che può librarsi in alto, farti volare, e dal cielo permetterti di vedere cose che altrimenti non vedresti. Puoi vedere il passato, prevedere il futuro, conversare con gli spiriti dei nostri antenati o ascoltare ciò che io, o un’altra persona a te cara, vorrebbe dirti anche senza essere vicina a te. Puoi penetrare nella mente degli altri, e leggere i loro pensieri più intimi. Credo che tu possa essere in grado di usare tutte queste facoltà, ma ricorda, usale sempre a fin di bene. La magia nera, quella di cui ci si serve per scopi malvagi, prima o poi si ritorce contro chi la ha praticata.»
Così dicendo aveva aperto un’antica cassapanca e aveva porto alla nipote un antico manoscritto, rivestito da una custodia di pelle nera su cui era inciso un pentacolo, una stella a cinque punte inscritta in un cerchio. Era il diario della famiglia, che veniva passato di madre in figlia, in questo caso da nonna a nipote, perché la mamma di Lucia era venuta a mancare quando lei era ancora in tenera età. Il diario in cui ogni strega riportava le sue esperienze, i sortilegi inventati, le guarigioni ottenute, le esperienze magiche che ognuna aveva avuto modo di sperimentare, in modo che la conoscenza e la sapienza aumentassero con il tempo. Lucia aveva capito che era ormai in grado di controllare tutti e quattro gli elementi quando, concentrandosi, era riuscita a far materializzare una sfera semifluida che fluttuava tra le sue mani unite a coppa, distaccandosi dai relativi palmi di pochissimo spazio. La sfera altro non era che il suo spirito, un miscuglio di colori che, roteando, in certi momenti si mescolavano tra loro a dare infinite tonalità, in altri si delineavano come se ogni elemento volesse riprendere la sua natura e staccarsi dagli altri. Riconosceva l’aria dal colore giallo, la terra dal colore verde, l’acqua dal colore azzurro e il fuoco dal colore rosso. Poteva ordinare a ognuno di quegli elementi di fare ciò che la sua mente desiderava, nel bene o nel male. Se, ad esempio, voleva utilizzare il fuoco, con il suo pensiero selezionava quell’elemento e dalla sfera poteva partire una palla di fuoco, più o meno grande a seconda delle esigenze. Accendere il fuoco nel braciere era la cosa più semplice del mondo: bastava che la legna fosse disposta per essere accesa, una piccola palla ignea veniva diretta da Lucia verso di essa e subito si aveva un bel falò scoppiettante. Ma quei poteri potevano anche essere pericolosi. Un giorno una ragazzina della sua stessa età, tale Elisabetta, l’aveva apostrofata per strada, deridendola perché aveva ormai compiuto quindici anni e nessun giovane aveva rivolto le sue attenzioni verso di lei.
«Dicono che sei una strega, nessun uomo ti vorrà, perché quelle come te fanno l’amore solo con il diavolo. Fatto sta che quello con cui vi accoppiate non è il diavolo, ma il caprone di Tonio, il contadino che ha le terre giù verso il fiume.»
Lucia le lanciò una palla di fuoco, così grande come non ne aveva mai realizzata una fino ad allora, e gli abiti e i capelli della malcapitata si incendiarono. Poi invocò l’aria, alzò le braccia sopra la testa e, con movimenti circolari delle stesse, diede origine a un vortice, che si staccò da lei in direzione dell’altra ragazza. Il vento alimentò ancor più le fiamme, Elisabetta sentì il dolore lancinante sulla sua pelle e iniziò a urlare. Allora Lucia si ricordò delle raccomandazioni della nonna ed ebbe pietà di quell’impertinente. Invocò l’acqua e fece scatenare un improvviso acquazzone, poi chiese alla terra che gli fornisse delle erbe per un impacco lenitivo da applicare sulle scottature della ragazza. Tutto sommato non era successo nulla di grave, la ragazza aveva solo la tunica mezza bruciacchiata e la pelle arrossata, ma non si erano formate neanche delle bolle. Avrebbe dovuto tagliare i capelli, che quelli che erano rimasti si erano increspati in maniera tale da farla assomigliare a un porcospino, ma poi questi sarebbero ricresciuti.
«Non metterti più sulla mia strada, la prossima volta potrei non riuscire a fermarmi.»
«Strega, ti denuncerò alle autorità. Sarai tu a finire bruciata viva. Sul rogo. Sulla pubblica piazza. E io starò a guardare mentre le fiamme ti consumeranno. Strega! Strega!»
Quelle parole le riportarono alla memoria l’esecuzione della strega Lodomilla, cui aveva assistito da bambina. Senza proferire altre parole e senza appellarsi di nuovo ai suoi poteri, Lucia si allontanò da quel luogo, sperando che l’eventuale racconto di Elisabetta non fosse stato preso sul serio e ritornò a casa, a Palazzo Baldeschi, un enorme fabbricato che si affacciava sulla Piazza del Mercato. Il palazzo era stato finito di ampliare da pochi anni, sulla base di una costruzione risalente a più di tre secoli prima, per volere di suo zio, il Cardinale Artemio Baldeschi, che era poi il fratello di sua nonna. La sontuosa dimora era ubicata tra la nuova chiesa di San Floriano e la Cattedrale. Quest’ultima era una stupenda chiesa in stile gotico, arricchita da bellissime guglie sulla facciata, dall’ampio interno a tre navate, capace di accogliere oltre duemila fedeli. Purtroppo era stata costruita sulla base del tempio di Giove e delle antiche Terme romane, senza che chi l’aveva a suo tempo edificata si fosse preoccupato troppo di fortificare le fondamenta. Per cui la costruzione era pericolante e si sarebbe dovuta abbattere per lasciare il posto a una nuova chiesa dedicata al patrono della città, San Settimio, le cui reliquie erano conservate nella cripta dell’antica cattedrale. Per ora, il Cardinale celebrava la Santa Messa ogni domenica nella chiesa di San Floriano, e aveva ottenuto anche che l’annesso convento, che doveva essere destinato ai frati dell’Ordine Domenicano, diventasse invece sede del Tribunale della Santa Inquisizione, essendo lui l’Inquisitore Capo. I Domenicani erano stati pertanto relegati in un convento più a valle, realizzato in una vecchia costruzione del dodicesimo secolo, in prossimità della chiesa di San Bernardo e del convento delle suore Clarisse della Valle.
A Lucia si strinse il cuore quando, dopo qualche giorno, fu convocata dallo zio Artemio nel suo studio, nell’altra ala del palazzo rispetto a quella abitata da lei e dalla sua nonna. Lo studio dello zio era una stanza enorme, arredata in maniera sfarzosa, le pareti arricchite da arazzi, il pavimento in parte ricoperto da un enorme tappeto. Un’intera parete era occupata da una libreria, contenente testi sacri e profani, manoscritti di pregevole fattura e alcuni testi stampati, tra cui una copia della Divina Commedia di Dante Alighieri, realizzata anni prima da Federico Conti nella sua stamperia jesina. Lucia avrebbe dato chissà cosa per poter consultare quei testi, ma le era stato sempre tassativamente proibito.
L’odore dei velluti che ricoprivano sedie e poltrone contribuivano a rendere l’aria della stanza pesante e irrespirabile, quasi al limite del soffocamento. Le finestre che si affacciavano sulla piazza permettevano al Cardinale di lanciare lo sguardo al cuore nevralgico della sua città, tenendo sotto controllo i suoi illustri concittadini, ma erano sempre chiuse in maniera ermetica, per impedire ai rumori della piazza e delle strade di disturbare la concentrazione del più alto prelato del luogo. La carica cardinalizia gli permetteva di poter essere al di sopra di ogni altro incarico politico, potendo impugnare anche qualsiasi decisione del Capitano del Popolo, che risiedeva nel non molto lontano Palazzo del Governo. Il potere conferitogli da Papa Alessandro VI, e confermatogli dai suoi successori, Pio III, Giulio II e Leone X, era infatti al tempo rispettato e temuto da tutte le altre autorità locali.
Il Cardinale offrì la mano inanellata alla nipote perché la baciasse, poi la invitò a sedersi in una delle imponenti seggiole disposte di fronte alla sua scrivania.
«Lucia, mia cara nipote, non sei più una bambina, ed è giunto il momento di trovare per te un uomo che sia un degno marito. Se nei tuoi pensieri non c’è nessun altro giovane, vorrei proporti il figlio del Capitano del Popolo, Andrea. Ha venti anni, è un bel giovane ed è bravo sia a cavalcare che a maneggiare le armi», si rivolse a lei, mentre puliva le lenti dei suoi occhiali di squisita fattura veneziana con un piccolo panno. In attesa che la giovane rispondesse, alitò di nuovo sulle lenti, le sfregò con il panno e quindi inforcò gli occhiali, fissando il suo sguardo penetrante negli occhi di Lucia.
Il Cardinale, quasi sessantenne, a parte i capelli grigi, era una persona ancora forte, robusta, dalla figura alta e slanciata; gli occhi marroni dallo sguardo acuto spiccavano sulla pelle chiara del viso, che nonostante l’età non appariva ancora solcata da rughe evidenti. Solo in quei rari momenti in cui sorrideva si formavano, ai lati degli occhi, delle zampe di gallina. Lucia sapeva che non era di certo quello il motivo per cui era stata convocata, e cercava di penetrare nella mente dello zio per sapere cosa in effetti volesse, ma i pensieri di lui erano sigillati dietro barriere invisibili e molto resistenti. La nonna l’aveva avvertita, lo zio Artemio faceva parte della famiglia e, come tutti i suoi membri, era dotato di poteri, forse più forti di quelli di tutti loro. Eppure, all’apparenza e agli occhi del popolo, egli aveva dedicato la sua vita a combattere la stregoneria e l’eresia.
«Se è uno stregone anche lui, perché combatte i suoi simili?», aveva chiesto un giorno Lucia alla nonna.
«Perché è dalla loro sconfitta che lui riesce ad aumentare i suoi poteri. Non girargli mai le spalle, non ti fidare mai di lui, se scoprisse che sei una creatura dai poteri forti, anche se sei sua nipote non esiterebbe a condannarti al rogo, e guardarti bruciare, mentre anche i tuoi poteri si trasferiscono a lui. Quando sei in sua presenza, non pensare, lui legge i tuoi pensieri, anche i più nascosti, e in più impedisce a te di leggere i suoi.»
Ed era vero! In quel momento Lucia stava sperimentando che non riusciva in alcun modo a penetrare nella sua mente, era come se non avesse pensieri, eppure ne doveva avere.
«Dovrei sapere se mi piace, conoscerlo e capire se posso innamorarmi di lui.»
«Innamorarsi, che parolona! Nelle famiglie nobili come la nostra ci si sposa in base a un contratto. La famiglia trova un buon partito per la ragazza e lei onorerà il marito che le è stato scelto. Ma voglio venirti incontro. Io e il Capitano del Popolo, Guglielmo dei Franciolini, organizzeremo una festa in cui avrete modo di conoscervi, tu e Andrea. E ora vai, ti farò sapere quando si terrà la festa.»
Senza ribattere, Lucia si era già alzata dalla sedia e stava per congedarsi, quando il Cardinale le rivolse ancora la parola.
«Ah, dimenticavo», disse, quasi fosse una cosa a cui non dava affatto importanza. «Mi hanno riferito che qualche giorno fa hai soccorso una tua compagna alla quale si erano incendiati gli abiti. Brava, noi Baldeschi dobbiamo distinguerci in questa città e far vedere che aiutiamo gli altri in ogni circostanza.»
In quel momento Lucia ebbe la percezione della mente dello zio che stava perlustrando gli angoli più remoti del suo cervello. Non riusciva ancora a imporsi di non pensare, ma cercò di ricordare la scena nel suo pensiero in maniera diversa da come era accaduta nella realtà. Ecco, Elisabetta si era avvicinata al falò che il Mastro tintore aveva acceso davanti alla sua bottega all’inizio della discesa del Fortino, per mettere a bollire il pentolone dell’acqua in cui avrebbe immerso i tessuti da tingere con i suoi colori sgargianti. Un lembo del saio della ragazzina era stato lambito dalle fiamme, che erano salite in un lampo ed erano giunte a bruciarle i capelli. Per fortuna, all’improvviso si era messo a piovere e Lucia, che passava di lì per caso aveva osservato la sua pelle arrossata e aveva tirato fuori dalla bisaccia un vasetto di unguento a base di Aloe e semi di lino, un rimedio naturale per le scottature che preparava la nonna.
«Brava, sono fiero di te!», ripeté il Cardinale.
Lucia uscì dalla stanza, sperando in cuor suo di aver buggerato lo zio, anche se non poteva esserne sicura.
Se sa davvero che sono una strega e ho poteri che lui potrebbe invidiarmi, che cosa farà? Mi terrà sotto controllo finché non sarà sicuro delle mie capacità per poi sbattermi senza pietà su un rogo e guardarmi morire tra le fiamme? Ma allora perché propormi un marito? Mah, forse questo è un gioco politico. Far sposare sua nipote con il figlio del Capitano del Popolo aumenterà ancora di più il suo potere temporale su questa città, in cui ancora troppi abitanti si proclamano ghibellini. Non mi stupirei che lo zio voglia accentrare su di sé sia il potere religioso che quello politico. Stai in guardia, Lucia, e non ti far abbindolare né dallo zio, né da questo giovane Andrea.
Avrebbe voluto saperne di più sul conto di Andrea, ancor prima di conoscerlo alla festa ufficiale. Chissà quando avrebbe avuto luogo questo evento? Se lo zio si era esposto, c’era da stare sicuri che non avrebbe tardato tanto a organizzarlo.
Immersa nei suoi pensieri, attraversò il lungo corridoio che la riportava verso l’ala del palazzo in cui abitava. In fondo al corridoio scese la scalinata, ritrovandosi a piano terra, nell’androne in corrispondenza del portone di ingresso. Avrebbe dovuto risalire la scala di fronte a lei per raggiungere i suoi appartamenti. Alla sua destra, attraverso una porta di legno, si poteva accedere alle stalle. Morocco, il suo stallone preferito, percepì la sua presenza e nitrì per salutare la ragazza, che fu tentata di spingere la porta quel tanto che bastava per infilarsi dentro e andare a elargire una carezza al nero destriero. Ma la sua attenzione fu attratta da un’altra porticina in legno, che conduceva ai sotterranei del palazzo. Di solito quella porta era sprangata, ma quel giorno era stranamente socchiusa. La nonna l’aveva avvertita più di una volta di non avventurarsi nei sotterranei. Laggiù era un labirinto, in cui era facile perdersi, rappresentato dalle strade e dalle stanze delle antiche costruzioni dell’epoca romana. Infatti tutti gli edifici più recenti poggiavano le loro fondamenta sulle antiche costruzioni romane. La curiosità di Lucia era troppo forte. Pensava che se quegli anfratti, quelli che ora erano cunicoli, gallerie e cantine, fossero stati un tempo abitati, gli spiriti degli antichi abitanti avrebbero potuto parlare con lei, raccontarle delle storie, confidarle le loro paure e i loro sentimenti. In fin dei conti il Palazzo Baldeschi sorgeva proprio in corrispondenza di quella che al tempo dei romani era l’acropoli, il foro, il centro commerciale e politico della città. Lì c’erano i templi, lì c’erano le Terme, poco più in là, dove adesso sorgeva il nuovissimo Palazzo del Governo, c’era un enorme anfiteatro; più vicino, in prossimità delle mura occidentali della città, la grande cisterna per l’approvvigionamento idrico.
Là sotto sarà buio pesto, pensò Lucia. Avrò bisogno di una fonte di luce.
Entrò nella stalla e fece due moine a Morocco, che reclamò la carota che la ragazza era solita portargli in dono. Lucia la tirò fuori dalle tasche e l’animale fu lesto a prelevarla con le labbra dalle sue mani. Carezzò il cavallo sul dorso del naso, cercando con lo sguardo una lanterna. La vide, la sganciò dal chiodo a cui era attaccata, controllò che fosse carica di olio, poi concentrò il suo sguardo sullo stoppino, che nel giro di pochi istanti prese fuoco. Regolò la fiamma al minimo, uscì dalla stalla e si avventurò giù per le sconnesse scale che si dirigevano verso le viscere della terra. Anche se la Terra era uno degli elementi su cui aveva il controllo, in quel momento ne aveva un po’ timore. Sembrava quasi che quella scala non dovesse finire mai, tanto era lunga. Ma forse era solo l’impressione di Lucia. Finalmente abbandonò con il piede l’ultimo gradino.
L’umidità era forte lì sotto, alla ragazza si stava ghiacciando il sudore addosso, e il fiato le si condensava in piccole nuvolette di vapore. Alzò la fiamma della lanterna. C’erano diversi corridoi, delimitati da antichi muri di pietre e rozzi mattoni. Uno, lunghissimo, si perdeva nel buio avanti a sé. La nonna le aveva detto che c’era un lungo passaggio che poteva essere utilizzato durante gli assedi, per oltrepassare le linee nemiche e procurare provviste per il popolo assediato e armi per i difensori della città. Tale passaggio fuoriusciva addirittura presso la residenza di campagna della famiglia Baldeschi, all’inizio della strada per Monsano, un centro situato a qualche lega di distanza da Jesi, e da sempre storico alleato della nostra città. Alla sua destra, un cunicolo sarebbe di certo arrivato in breve ai sotterranei della cattedrale, forse addirittura alla cripta che accoglieva le reliquie del Santo Settimio. Il cunicolo alla sua sinistra l’avrebbe potuta condurre alla base della chiesa di San Floriano, come all’antica cisterna romana. Chissà se quest’ultima era ancora piena d’acqua, si chiedeva Lucia. Decise di dirigersi alla sua destra, verso i sotterranei della Cattedrale e, in breve, si ritrovò in una piccola cappella squadrata. Quattro statue di marmo bianco, prive della testa, a mo’ di colonne, sorreggevano la volta a crociera della cappella. Con tutta probabilità erano statue che un tempo avevano abbellito le Terme romane. Private delle teste, che giacevano accatastate in un nascosto angolo buio, erano state utilizzate da chi aveva a suo tempo progettato la cattedrale, come colonne. Al centro della cappella, sotto la volta sorretta da arcate gotiche, un piccolo altare in pietra faceva come da cornice a una teca contenente le reliquie del primo Vescovo di Jesi, Settimio. Il Santo, come molti dei cristiani dell’epoca, era stato martirizzato per volere delle autorità romane. Il preside romano che governava la città di Jesi ne aveva ordinato la decapitazione, dopo che Settimio aveva convertito al cristianesimo gran parte della popolazione, compresa la figlia dello stesso governatore. Settimio era stato considerato un pericoloso nemico dell’Impero di Roma e giustiziato. Le ossa erano state trafugate dai primi Cristiani per salvarle dalla profanazione dei pagani, e nascoste così bene che per secoli e secoli nessuno seppe più dove fossero. Il Santo fu decapitato nel 304 e le sue spoglie mortali furono rinvenute solo dopo 1.165 anni addirittura in Germania. Pertanto erano state riportate in quel luogo di culto solo una cinquantina di anni prima.
Che strana l’umanità!, si disse Lucia. Lo stesso trattamento che i romani riservavano ai primi cristiani, che venivano perseguitati, adesso la Chiesa Cattolica sembra riservarlo a chi non la pensa come lei: chi si discosta dalla dottrina ufficiale viene tacciato di eresia e può finire ucciso nella pubblica piazza. Streghe, eretici, ebrei… vengono processati e messi al rogo, solo perché hanno magari il coraggio di manifestare le proprie idee e il proprio sapere. Mah, adesso la Chiesa se la prende con gli eretici, un domani, nel futuro, qualche altra fazione prenderà il sopravvento e magari saranno di nuovo i cristiani a essere perseguitati. Perché a questo mondo non ci deve essere giustizia? Qual è questo Dio che permette che nel mondo, ma soprattutto nel cuore dell’uomo, esista così tanta malvagità?
Mentre seguiva il corso dei suoi pensieri, una flebile lama di luce generata da un sole prossimo al tramonto riuscì a filtrare da una piccola finestra a bifora, situata in alto, in corrispondenza dell’abside della cattedrale sovrastante, andando a illuminare quella zona in cui erano accatastate le teste delle statue romane. L’attenzione di Lucia si soffermò su alcuni particolari che non era riuscita a notare prima, lì vicino a quelle teste scolpite nella pietra tanti secoli prima. Nel pavimento di terra battuta era stato disegnato una specie di pentacolo, diverso da quello che era solita vedere disegnato sulla copertina del diario di famiglia consegnatole tempo prima dalla nonna. Il disegno sembrava asimmetrico, rappresentava una stella a sette punte ricavata tracciando una linea continua all’interno di un cerchio. Ogni punta della stella intersecava un punto della circonferenza, in corrispondenza di ognuno dei quali c’erano delle scritte in caratteri ebraici, di cui Lucia non conosceva il significato. In corrispondenza di ognuno dei sette punti, era visibile la traccia di cera colata, lasciata da una candela che vi era stata accesa. Al centro della figura due bambole di pezza, realizzate con della paglia intorno alla quale erano stati avvolti dei vestiti in miniatura. Rappresentavano una donna anziana e una ragazza: gli abiti dell’anziana erano bruciacchiati, mentre la giovane aveva uno spillone infisso all’altezza del petto. Lucia ebbe un sussulto, il cuore prese a batterle all’impazzata, in un lampo aveva capito tutto. In quel luogo erano stati realizzati dei riti di magia nera, e le bambole rappresentavano lei e sua nonna. Era evidente che qualcuno le voleva vedere sofferenti, se non addirittura morte. Chi? Chi poteva essere? Una sola persona poteva essere scesa lì. La Chiesa sovrastante era ormai chiusa, interdetta ai fedeli da più di un anno, e quindi la cripta non poteva essere raggiunta dalla cattedrale. Il passaggio che aveva percorso lei era chiuso da una porta sempre sbarrata, e la chiave l’aveva solo suo zio, il Cardinale, l’Inquisitore capo Artemio Baldeschi. Certo, era troppo tempo che a Jesi non avevano luogo esecuzioni capitali, l’ultimo rogo era stato acceso sei anni prima, quello in cui aveva perso la vita Lodomilla. Adesso il Cardinale doveva placare la sua sete, la sua voglia di vittime, il suo desiderio di assistere alla sofferenza e alla morte davanti ai suoi occhi, sotto il suo sguardo. Già, perché al contrario della maggioranza degli inquisitori che, una volta pronunciata la condanna, consegnavano la vittima al braccio secolare della Legge, evitando di assistere al supplizio di coloro che avevano condannato, Artemio era solito presenziare all’esecuzione, in prima fila, a volte prendendo in mano la torcia e appiccando il fuoco alla catasta. Sembrava provasse un gusto sadico nel vedere la sua vittima contorcersi tra le fiamme, continuava a fissarla con i suoi occhi fino alla fine, e per un preciso motivo: catturare l’anima del condannato nel momento stesso in cui abbandonava il suo corpo mortale.
Incupita da queste riflessioni, impaurita da ciò che aveva visto, Lucia afferrò la lanterna e si precipitò su per le scale, con la mente occupata da un solo timore. Avrebbe ritrovato la porta aperta? E se lo zio si fosse ricordato di non averla sbarrata e fosse ritornato a chiuderla? O se magari lo avesse fatto apposta, per indurla ad andare là sotto e seppellirla viva? No, non sarebbe stato abbastanza per Artemio, lui doveva vedere in faccia la sofferenza della propria vittima, non sarebbe stato da lui lasciarla morire lì. Voleva solo spaventarla, e c’era riuscito. La porticina di legno era aperta, Lucia uscì nell’androne, ripose la lanterna dove l’aveva presa, non degnò Morocco neanche di uno sguardo e si precipitò all’aria aperta, nella Piazza, ancora col cuore in gola.
Era quasi il tramonto di una calda giornata di fine maggio e la luce rossastra del sole donava dei colori spettacolari alla stupenda piazza in cui più di tre secoli prima era nato l’imperatore Federico II di Svevia. Disse a se stessa che avrebbe dovuto ricercare il significato dei simboli rinvenuti nella cripta nel Diario di famiglia, in quel prezioso manoscritto che le aveva consegnato la nonna. Ma ora doveva calmarsi, e decise di fare due passi per la città. Attraversò la piazza, raggiungendo il lato opposto, svoltò a sinistra e discese per la Costa dei Longobardi, per raggiungere la parte a valle del centro abitato, dove vivevano mercanti e artigiani. I palazzi erano meno sontuosi rispetto a quelli della parte alta della città, ma erano comunque arricchiti di elementi decorativi, con rifiniti portali e cornici intorno alle finestre. Le facciate erano quasi tutte abbellite dall’intonaco, pitturato in colori pastello, quali celeste, giallo, ocra, arancione tenue; era difficile che venissero lasciate in mattoni faccia a vista, come invece era per i palazzi signorili su al centro. A ricordare che quelle dimore erano state costruite grazie ai soldi guadagnati da chi vi abitava, spesso sugli architravi dei portali o delle finestre del primo piano comparivano delle scritte come “De sua pecunia” o “Suum lucro condita – Ingenio non sorte”. In fondo alla Costa dei Longobardi, svoltando a destra, in breve si poteva raggiungere la chiesa dedicata all’apostolo Pietro, fatta edificare proprio dalla comunità Longobarda residente a Jesi nella seconda metà del secolo decimo terzo. “Principi Apostolorum – MCCLXXXXIIII”, si leggeva sopra il portale; chi aveva inciso la data non aveva più molta memoria di come andassero scritti i numeri in latino, o forse non l’aveva mai saputo essendo un architetto di origine bizantina, abituato già ad avere a che fare con le cifre arabe, molto più semplici da memorizzare. Di fronte alla chiesa, il Palazzo dei Franciolini, appena finito di costruire, era la residenza del Capitano del Popolo, Guglielmo dei Franciolini. Anch’egli aveva fatto la sua fortuna come mercante dato che, dopo la scoperta del Nuovo Mondo, nuovi canali commerciali erano sati aperti e molte nuove mercanzie erano giunte anche a Jesi. Chi aveva potuto aveva approfittato, ed era riuscito in poco tempo ad accumulare notevoli ricchezze. Lucia si soffermò sul ricco portale del palazzo, limitato da due colonne e da alcune piastrelle quadrate di pietra arenaria, decorate con raffigurazioni di Dei e simboli dell’epoca romana.
Con tutta probabilità, nello scavare le fondamenta dell’abitazione, erano stati rinvenuti elementi decorativi di una casa di qualche patrizio romano, e questi erano stati riutilizzati per abbellire il portale. Lucia riconobbe il Dio Pan, Bacco, la Dea Diana, e poi ancora dei gigli a tre punte, e… una stella a sei punte formata da due triangoli incrociati tra loro - strano, non era forse il simbolo degli ebrei? – e ancora una stella a cinque punte, un pentacolo, e… un disegno a sette punte inscritto in un cerchio, simile in tutto e per tutto a quello che aveva visto poco prima nella cripta. Questi ultimi disegni non potevano risalire all’epoca romana, e infatti, osservando con attenzione le piastrelle su cui erano realizzati, si notava che queste erano di fattezza diversa, più recenti rispetto alle altre, forse realizzate all’uopo per decorare il portale. Ma che significato aveva tutto ciò? In quella piazzetta conviveva il sacro con il profano: da un lato la chiesa dedicata al principale degli apostoli, a Pietro, il primo Papa della storia del cristianesimo, dall’altro figure pagane e simboli che potevano accusare il padrone di casa di essere un eretico. Eppure lo zio Cardinale era in buoni rapporti con il Franciolini, addirittura le aveva proposto il figlio come suo futuro sposo! Più guardava quei simboli, più Lucia pensava che quel luogo avesse qualcosa di magico. Forse quel palazzo era stato costruito sopra i ruderi di un tempio pagano, e aveva mantenuto le sue peculiarità. Cercò di concentrarsi, di aprire il suo terzo occhio alla veggenza, invocò il suo spirito, per farlo librare in alto e scrutare elementi che altrimenti non avrebbe visto. Già tra le sue mani disposte a coppa si stava materializzando la palla semifluida dai colori variopinti, quando il portone del palazzo si spalancò all’improvviso, mostrando nella penombra un giovane che indossava una leggera armatura da battaglia, a cavallo di un potente destriero a sua volta bardato in testa a protezione di eventuali colpi che potevano essere inferti da spade e lance.
Il cavaliere reggeva con la mano destra il gonfalone della Repubblica Jesina, rappresentante il leone rampante ornato dalla corona regale. Non appena il portone fu del tutto aperto, spronò il cavallo all’esterno, quasi travolgendo Lucia che era lì davanti. La ragazza, spaventata, si deconcentrò, e la sfera subito scomparve. Il cavallo, di fronte all’ostacolo imprevisto, si impennò, scalciando in aria con le zampe anteriori. Lucia sentì uno zoccolo a brevissima distanza dal suo viso, ma non si lasciò prendere dal panico e infisse il suo sguardo negli occhi azzurro mare del cavaliere, che aveva la visiera dell’elmo sollevata. Per un attimo si perse in quegli occhi, il cavallo si acquietò e il cavaliere ricambiò lo sguardo alla damigella, fissando a sua volta gli occhi nocciola della ragazza. Ci fu un momento di calma, di totale silenzio, l’incrocio dei due sguardi sembrava aver fermato il tempo.
Chi era quel bel cavaliere, pronto a un’ipotetica battaglia in difesa della propria città? Era forse Andrea? Se così fosse stato, avrebbe dovuto essere grata al suo malvagio zio! Ma forse il Franciolini aveva altri figli. Non ebbe il tempo di aprire bocca, perché dopo pochi istanti, le campane della chiesa di San Pietro iniziarono a suonare, e a esse via via si unirono quelle della chiesa di San Bernardo, poi quelle di San Benedetto, e infine quelle di San Floriano. Lanciando un ultimo sguardo a Lucia, il cavaliere spronò di nuovo il cavallo, raggiungendo la limitrofa Piazza del Palio, l’enorme spiazzo all’interno delle mura, dominato dal Torrione di Mezzogiorno. In breve, altri cavalieri in armi si strinsero attorno a colui che stringeva in mano il gonfalone, poi arrivò anche gente a piedi, armata di balestre, pugnali e qualsiasi altra arma potesse essere usata contro il nemico.
«Gli anconetani ci stanno attaccando!», gridò il nobile Franciolini. «Li hanno avvistati le nostre vedette dal Torrione del Montirozzo. Oggi, 30 Maggio 1517, ci prepariamo a difendere le mura della nostra città.»
Tutte le porte furono chiuse, la maggior parte degli uomini a piedi si dispose sugli spalti, mentre i cavalieri si assiepavano nel piazzale all’interno di Porta Valle, pronti alla sortita contro il nemico. Ma per quella notte, l’esercito anconetano, guidato dal Duca Berengario di Montacuto, non si avvicinò a Jesi, rimase accampato più a valle, a poche leghe dal centro abitato di Monsano, seminascosto nella boscaglia ripariale in prossimità del Fiume Esino.
Per alcuni giorni rimase l’allerta. All’imbrunire le scolte raggiungevano gli spalti, a rafforzare la guardia di solito demandata ad alcune vedette, e dalle mura risuonava il richiamo di un canto che da parecchi anni la popolazione non sentiva più:
«Squilla la tromba che già il giorno finì,
già del coprifuoco la canzone salì!
Su, scolte, alle torri guardie armate, olà,
Attente, in silenzio vigilate!»
Il Capitano del Popolo aveva imposto il coprifuoco alla cittadinanza. Alle nove di sera, chi non saliva sugli spalti delle mura, aveva l’obbligo di ritirarsi in casa. Ma la guardia era destinata ad abbassarsi presto. Per la sera del 3 Giugno era prevista la festa a Palazzo Baldeschi, in cui sarebbe stato annunciato il fidanzamento della nipote del Cardinale, Lucia, con il cadetto di casa Franciolini. In quei giorni, ogni volta che Lucia incrociava gli occhi di suo zio, anche se non era capace di leggere i suoi pensieri, nel suo volto vedeva disegnata una sola parola: “tradimento”. Ma non riusciva a capacitarsi quale interpretazione dare a quella parola, al contempo così semplice e così complessa.
CAPITOLO 2
Guglielmo dei Franciolini, Capitano del Popolo di Jesi, era un saggio amministratore, e sapeva bene che non era il caso di autorizzare una sontuosa festa proprio nei giorni in cui il nemico era alle porte della città. Ma non poteva andare contro il Cardinale, rinverdendo ancora una volta i dissapori tra autorità civili ed ecclesiali. Giusto pochi anni prima, il Palazzo del Governo era stato terminato e inaugurato con la benedizione dello stesso Papa Alessandro VI, che aveva concesso alla cittadinanza jesina di continuare a fregiare il leone con la corona regale, purché nella città e nel contado fosse osservata l’autorità ecclesiastica. Tanto che sulla facciata del palazzo si poteva leggere, al di sopra del simbolo della città, la scritta “Res Publica Aesina - Libertas ecclesiastica – MD”. E quindi il famigerato Papa Rodrigo Borgia aveva accordato una certa libertà alla Repubblica Jesina, purché si assoggettasse comunque al potere della Chiesa. Con quest’accordo, agli jesini furono anche risparmiati gli orrori perpetrati nel resto delle Marche dal figlio del Papa, Cesare Borgia, che si era proposto di diventare signore assoluto della Romagna, dell’Umbria e delle Marche con la ferocia e il tradimento. Era storia passata, di quasi vent’anni prima, ma comunque Guglielmo doveva rispettare i patti. Inoltre, era proprio il fidanzamento di suo figlio Andrea con la nipote del Cardinale a suggellare ancor di più l’accordo tra guelfi e ghibellini della sua città. In fin dei conti, il nemico era accampato da qualche giorno sulle rive del fiume, parecchio più a valle, e non accennava a muoversi. In quelle notti di coprifuoco, le vedette e le scolte non avevano notato movimenti; i fuochi di bivacco dell’accampamento erano ben visibili, quasi tenuti accesi a bella posta per tutta la notte dagli anconetani. Il timore, non infondato, di Guglielmo e di suo figlio Andrea, era che tutto ciò fosse un trucco. Forse i nemici aspettavano rinforzi per attaccare, o forse attiravano l’attenzione degli jesini su quel piccolo accampamento, mentre il grosso dell’esercito sarebbe apparso altrove. Il pomeriggio di giovedì 3 giugno era stato particolarmente caldo. Mentre Guglielmo si preparava per la cerimonia, aiutato da alcuni servi a indossare eleganti e colorati abiti di broccato, che contribuivano ad aumentare in maniera notevole la sua produzione di sudore, finiva di impartire ordini ai comandanti delle sue guardie.
«Dai vespri in poi tutte le porte della città devono essere chiuse. Predisponete anche delle catene nelle strade principali, in modo che, in caso di irruzione del nemico, venga ostacolato il suo procedere.»
Il luogotenente lo interruppe.
«Il Cardinale ha dato disposizioni opposte, mio Signore. Vuole che tutte le porte della città siano lasciate aperte, in modo che i nobili che risiedono nel contado abbiano facile accesso al centro abitato, per raggiungere il suo palazzo e la festa. Non possiamo contraddirlo.»
«Rafforzate la guardia alle mura!», gridò concitato il Capitano, battendo un pugno sul tavolo a sottolineare il suo ordine.
«Anche qui, ho i miei dubbi di poterlo fare. Il Cardinale, ai fini della sicurezza, vuole la maggior parte delle guardie armate schierate intorno al suo palazzo.»
«Il Cardinale, il Cardinale!» Guglielmo stava diventando paonazzo per l’ira e per il caldo. «Così rischiamo di consegnare la città al nemico! E sia, ma chiuderemo tutte le porte della città all’imbrunire. Lasceremo aperta solo Porta San Floriano, da dove i nobili ritardatari potranno raggiungere agevolmente Palazzo Baldeschi. Non abbiamo mai subito assalti dalla parte occidentale della città. Il nemico assale sempre da Valle, giungendo dalla piana dell’Esino. Sarebbe poco agevole per un esercito giungere dalla parte delle colline. Inoltre a occidente le mura sono parecchio alte e subito dentro Porta San Floriano abbiamo un fortino dotato di una bombarda, a ulteriore difesa. Preparate il mio destriero, e chiamate mio figlio. È ora di andare: sfileremo in corteo con i cavalli bardati per le vie del centro prima di giungere al Palazzo del Cardinale.»
Arrosti della più disparata varietà di selvaggina, zuppe, insalate e paste, già nel tardo pomeriggio erano state disposte sulla grande tavolata in cui avrebbero preso posto gli ospiti. Il Cardinale teneva Lucia per mano, mentre i servi spruzzavano gli arrosti, in particolare le gru, i pavoni e i cigni, di succo d’arancia e di acqua di rose, al fine di renderli più appetitosi. I filetti di manzo, una volta bolliti, venivano cosparsi di spezie e zucchero. Particolare attenzione era stata riservata ai contorni, verdure di tutti i tipi e di tutti i colori, che più che per essere mangiate, servivano ad allietare gli occhi dei commensali e stimolare l’appetito. Nelle zuppiere facevano mostra di sé minestre dei vari colori. Le zuppe, che di solito venivano servite come dessert, avevano un sapore dolce ed erano condite con zucchero, zafferano, semi di melograno ed erbe aromatiche. Il vero brodo, quello preparato facendo bollire una miscela di carni, verdure e spezie in acqua, era utilizzato come primo piatto, soprattutto nelle campagne e nei castelli della nobiltà contadina. Il brodo veniva bevuto mentre la carne, tolta dal brodo, veniva mangiata a parte e servita con erbe aromatiche. Il Cardinale aveva dato ordine ai cuochi di non servirne, mentre aveva fatto invece cucinare una novità, originaria della corte di Carlo VIII, i maccheroni, ottenuti dalla semola del grano modellata in forma di vermicelli e conditi in salse a base di olio d’oliva, burro e panna. In due tavoli a parte erano stati disposti i dolci, torte alle mele e pan di Spagna, e la frutta, mele, mele cotogne, castagne, noci e frutti di bosco. I vini nelle brocche erano quelli tipici del contado, Verdicchio e Malvasìa. Solo due brocche contenevano un vino rosso, pregiato dono fatto al Cardinale dal Granduca di Portonovo qualche anno prima. Nel tavolo dei dolci, invece, il vino era quello di visciola, proveniente dalle campagne di Morro d’Alba.
«Gli ospiti inizieranno ad arrivare a momenti», disse il Cardinale, rivolto a Lucia, liberandola finalmente dalla stretta della sua gelida mano. La giovane non era mai riuscita a capire come mai lo zio avesse delle mani sempre così fredde, quasi il sangue non scorresse sotto la sua pelle. Neanche il contatto prolungato con la sua, molto più calda, era stato in grado di far aumentare di un poco la temperatura di quella di Artemio. «Andiamo a preparaci.»
Così dicendo, si ritirò nelle sue stanze per agghindarsi in pompa magna, mentre due giovani serve si avvicinarono alla nipote. L’avrebbero condotta nella toilette, per dedicarsi a lei, facendole fare prima un bagno profumato, poi imbellettandola e infine facendole indossare un sontuoso abito di seta verde. Mentre si lasciava accudire, Lucia ripensava agli occhi di Andrea Franciolini. E già! In quei giorni si era informata, e il bel cavaliere di cui aveva incrociato fugacemente lo sguardo era proprio il suo promesso sposo. E si era innamorata dei suoi occhi, del suo viso, del suo portamento, era come se da sempre ci fosse stata un’affinità alchemica con lui. Già lo sentiva parte di lei stessa, parte della sua stessa anima, tutto il suo corpo vibrava al pensiero che da lì a poco avrebbe potuto parlare con lui, conoscerlo meglio, fissare lo sguardo nei suoi occhi, che non le avrebbero di sicuro celato nulla. Si affacciò dalla finestra della stanza, provando però una sensazione strana: il cielo di quella lunga giornata che stava volgendo al tramonto era plumbeo. Una cappa di afa, di umidità, attanagliava la città, infondendo nel suo cuore la sensazione che qualcosa di brutto sarebbe accaduto a breve, e che questo qualcosa si sarebbe ripercosso anche nel lungo termine. Ma che cosa? Non riusciva a capacitarsene, neanche con i suoi poteri di veggenza. La mente dello zio, come al solito, anche quel giorno era stata ermeticamente sigillata, ma quando guardava i suoi occhi solo una parola continuava a risuonare nella sua testa: “Tradimento”. Perché? Avrebbe voluto far materializzare la sua sfera, lanciarla in alto nel cielo affinché vedesse per lei, ma non poteva farlo proprio ora, davanti a dei testimoni. Mentre la serva bionda e alta le finiva di allacciare il vestito dietro la schiena, quella di corporatura più minuta e dai capelli scuri, le faceva indossare i gioielli, collane e braccialetti d’oro e pietre preziose, di squisita fattura, fatti forgiare dal Cardinale apposta per lei da orafi della scuola di Lucagnolo. In quel momento, Lucia avvertì come un mancamento, sentì una fitta al cuore come se qualcuno lo stesse trafiggendo con un pugnale, o con una spada. Si accasciò sulla sedia perdendo conoscenza per qualche istante.
«Mia Signora, mia Signora, come vi sentite?» La voce della serva mora arrivava ovattata alle sue orecchie.
«Non è nulla, è solo colpa del caldo, di quest’afa maledetta, e dell’emozione. Già sto meglio.»
Lucia non aveva associato la sua sensazione a ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto a breve distanza dal suo palazzo, al suo amato Andrea.
Esecutrice della barbara aggressione di quel giorno fu la soldataglia di Francesco Maria della Rovere, duca di Montefeltro e già gonfaloniere della Chiesa. Poiché il nuovo Pontefice, Leone X, l’aveva spogliato del suo Stato, egli per vendicarsi aveva assoldato come mercenari soldati spagnoli e guasconi e, dopo aver saccheggiato molti castelli devoti al Papa, si era diretto verso Jesi, al fine di conquistare questa roccaforte papale, con l’aiuto degli anconetani guidati dal duca di Montacuto e grazie al segreto appoggio della più alta carica ecclesiastica della città, il Cardinale Baldeschi. Come promesso dal Cardinale, la soldataglia proveniente dalle colline a occidente di Jesi, trovò Porta San Floriano aperta, ebbe facile ragione delle guardie del Fortino, attaccate di sorpresa, e si trovò in breve nella Piazza del Mercato, proprio nel momento in cui il corteo del nobile Franciolini, proveniente da Via delle Botteghe, giungeva nella stessa piazza.
Il Franciolini e i suoi non erano pronti alla battaglia, non indossavano armature, stavano andando a una festa e avevano con sé solo armi leggere.
«Tradimento!», gridò Guglielmo scendendo da cavallo e affrontando uno spagnolo armato di spada con un corto pugnale. «Incatenate le strade, non lasciateli andare verso valle, o apriranno le porte all’esercito anconetano, e saremo stretti tra due morse.»
Solo con la forza delle braccia e il suo corto pugnale, aveva già atterrato due spagnoli, lasciandoli in una pozza di sangue. Guglielmo era un abile combattente ed era veloce a spiazzare il nemico. Non appena vedeva l’avversario titubante, gli piantava il coltello nel cuore, poi lo estraeva, puliva la lama sui suoi vestiti e ricominciava a combattere. Le avanguardie nemiche non indossavano infatti armature ed era facile aver ragione di loro. Ma i nemici uscivano da Via del Fortino a decine, a centinaia, come un fiume in piena i cui argini non riescono a trattenere le acque. Un balestriere spagnolo prese la mira e puntò la sua arma contro Andrea, che era ancora fiero in sella al suo cavallo. Il giovane si era trovato altre volte nel pieno della battaglia e non aveva dato peso al fatto che in quel momento non indossava un’armatura, ma un colorato abito di broccato. Fece impennare il suo destriero, per lanciarsi nella mischia, quando fu colpito alla coscia destra. Altre frecce raggiunsero sia il cavallo che il cavaliere. Andrea cadde al suolo, con almeno quattro dardi che lo trafiggevano. Il suo cavallo, colpito in pieno petto, rovinò senza vita sopra di lui. Cercò, senza riuscirci, di sgusciare via dalla massa del pesante animale, ma le forze lo stavano abbandonando. Guglielmo, accortosi del figlio atterrato, si girò verso di lui, distraendosi dalla tenzone e girando le spalle al nemico per andarlo a soccorrere. Vide le palpebre di Andrea abbassarsi, lo chiamò, ma non ebbe risposta. Capì che il suo cadetto stava ormai perdendo i sensi, forse stava per morire. Proprio in quel momento una lunga lama lo trapassò, penetrando da dietro la schiena, facendosi strada tra le costole, squarciando il cuore e fuoriuscendo dal petto, accompagnata da un potente fiotto di sangue. Guglielmo sbarrò gli occhi che, nel momento del trapasso, stavano ancora fissando il prode figliolo agonizzante.
Avuto facilmente ragione di quel piccolo manipolo di uomini, spagnoli e guasconi dilagarono per le strade della città. Alcuni risalirono Via delle Botteghe fino alla Porta della Rocca, sorprendendo i militi a guardia, uccidendoli e aprendo la porta. Altri scesero verso valle per aprire Porta Valle e Porta Cicerchia e favorire così l’ingresso in città dell’esercito anconetano, che da giorni non aspettava altro che quel momento. Seppur colti di sorpresa, gli abitanti cercarono di organizzare una difesa nell’interno del centro abitato, spronati da alcuni nobili, in particolare da Fiorano Santoni, che radunò subito uno squadrone di genti che, incatenate le strade come predisposto dal Capitano del Popolo, s’approntò a combattere il nemico tra le vie, i vicoli e le piazze. Ma quest’ultimo, forte dell’apporto degli anconetani, era troppo numeroso e gli Jesini, avviliti dalle grida e dal pianto delle donne e dei fanciulli, abbandonarono la difesa.
Soprattutto i mercenari al soldo di Francesco Maria Della Rovere erano assetati di razzia e gli abitanti, considerando che non avevano potuto salvare la patria, cercarono almeno di mettere in salvo i loro beni, ma anche in questo non ebbero successo: i gentiluomini ricchi vennero fatti prigionieri e le loro donne, che avevano cercato scampo, con i gioielli, nelle chiese, si videro raggiunte dagli spagnoli anche all’interno dei luoghi sacri, dove essi non disdegnarono di spogliarle di quanto di prezioso avevano addosso e di stuprarle. A un certo punto, una donna, tale Eleonora Carotti, dal portamento altero e maschio, riuscì a sferrare uno schiaffo a un guascone che le stava ponendo le mani nel seno per toglierle i gioielli che vi aveva nascosto e al contempo approfittare per palpeggiarla.
Si ritrovò tra lui e un altro gruppo di soldati spagnoli. Se il guascone schiaffeggiato era rimasto di stucco, senza reagire, gli altri non si erano persi certo d’animo, avevano atterrato la donzella, l’avevano spogliata dei suoi abiti e, assicuratisi che era una donna a tutti gli effetti, l’avevano violentata uno dopo l’altro, tenendole un coltello piantato alla gola. L’ultimo soldato, raggiunto il suo malsano piacere, affondò il coltello, sgozzandola senza pietà.
Il saccheggio di Jesi durò otto giorni, molti palazzi furono incendiati, alcuni con gli abitanti all’interno, legati perché bruciassero vivi dentro la loro abitazione, colpevoli del fatto che i saccheggiatori non avevano trovato abbastanza denaro o preziosi da portare via. Non ci fu alcun rispetto neppure per le cose sacre, né per i religiosi, e molti sacerdoti vennero torturati e martoriati, affinché confessassero in quali luoghi segreti avevano nascosto gli ornamenti delle chiese. Il saccheggio si estese a tutto il contado e nessun luogo, di città e campagna, venne risparmiato.
Palazzo Baldeschi, che era rimasto sbarrato per tutto il tempo, l’ottavo giorno aprì le porte al Granduca Francesco Maria della Rovere e al Duca Berengario di Montacuto, che venivano accolti a colloquio dal Cardinale. Quest’ultimo si era infatti arrogato il diritto di trattare la resa con gli avversari, non essendo più presente in città autorità civile o ecclesiale più alta in grado di lui.
Dopo che i servi ebbero offerto vino di visciola e dolcetti a base di uva sultanina, a un cenno del Cardinale, si ritirarono chiudendo i tre uomini da soli nello studio.
«Avete superato ogni limite. Gli accordi erano che non avreste trovato ostacoli e avreste dovuto uccidere il Franciolini e il figlio, impadronendovi della città. Una facile conquista, invece per giorni e giorni avete seminato terrore, distruzione e morte», tuonò il Cardinale rivolto ai due Duchi.
«Nessun esercito che si rispetti, soprattutto se costituito da mercenari, rinuncia al bottino di guerra», replicò pacatamente il Della Rovere, concentrando il suo sguardo sull’unghia del dito mignolo della mano destra, forse rammaricandosi del fatto che durante i combattimenti questa si era spezzata. «Noi abbiamo mantenuto la parola data. Ora Voi mantenete la vostra, e ci ritireremo in buon ordine, lasciandovi Signore indiscusso di questa città.»
«E sia!», continuò il Baldeschi, ingoiando il rospo, e comunque soddisfatto in cuor suo di come era andata l’operazione. Se parecchi concittadini ci avevano lasciato la vita, peggio per loro, non era poi un grosso problema. «Come promesso, intercederò presso il Santo Padre affinché a Voi, Granduca Della Rovere, vengano restituite terre e titolo. Potrete ritirarvi a Urbino ed essere rispettato per sempre dai vostri sudditi. Per quanto riguarda Ancona, caro Duca, entro un mese farò versare nelle casse della vostra città diecimila fiorini d’oro, che serviranno ad ampliare e fortificare il porto, ma dovrà essere garantito lo scalo commerciale ai mercanti della città di Jesi. E ora, ritirate i vostri eserciti.»
Francesco Maria Della Rovere diede finalmente l’ordine alle sue truppe di abbandonare la città. Gli invasori se ne andarono con una carovana di ben mille bestie cariche di ogni ben di Dio, oltre che di un largo bottino di denari, preziosi e pezzi d’artiglieria. Dal canto suo, il Montacuto, non fidandosi appieno della parola del Cardinale, ritirò il grosso dell’esercito, ma lasciò una guarnigione a Jesi, che se ne sarebbe andata solo dopo che la città sconfitta avesse versato quanto pattuito.
In quei giorni, Artemio Baldeschi era stato troppo concentrato sul corso degli eventi, per badare a quanto stessero facendo sua sorella e sua nipote, e non si era neanche accorto che la ragazza, da quel famoso giovedì sera, era scomparsa. Dell’assenza si erano ben rese conto le due serve, la bionda e la mora, Mira e Pinuccia, che aspettavano la sicura sfuriata del Cardinale nel momento in cui l’avesse alla fine notata. Le due ancelle sapevano bene che, da quella sera, Lucia era rinchiusa nella dimora dei Franciolini, intenta a curare Andrea, ferito gravemente nello scontro con il nemico, e sapevano bene che se lo zio della ragazza lo fosse venuto a sapere si sarebbe infuriato ancor di più.
La sera della festa, Lucia, finitasi di vestire, era uscita sul balcone del palazzo che si affacciava sulla piazza sottostante e che dominava la stessa, per osservare il corteo del nobile Franciolini che arrivava sul lato opposto, da Via delle Botteghe. Era l’imbrunire e sembrava che tutto andasse bene, che tutto fosse tranquillo, e la brutta sensazione che aveva provato poco prima era già svanita. Ma all’improvviso, da Via del Fortino, erano cominciati a sbucare uomini armati, via via sempre più numerosi, che avevano ingaggiato subito battaglia con gli uomini del corteo al seguito del Capitano del Popolo. Aveva visto il suo amato Andrea colpito dalle frecce, e aveva visto Guglielmo colpito a morte alle spalle. Quel vigliacco con un’enorme spada aveva approfittato di un suo momento di distrazione, per aver visto il figlio ferito, per colpirlo da dietro. Lucia non poteva assistere impotente a quell’orrore, doveva correre in aiuto di Andrea, che oltre le frecce, era oppresso dal peso del suo cavallo che gli era rovinato addosso, forse senza vita. Si precipitò giù per le scale e guadagnò l’androne; stava per aprire il portone d’ingresso quando si rese conto che i combattimenti ormai imperversavano in tutta la piazza e che non era il caso di uscire da lì. Entrò nelle stalle e individuò la porticina laterale di servizio, quella utilizzata dagli stallieri, che dava sul vicolo. La porta di legno era sprangata con un catenaccio dall’interno, le fu facile aprirla e ritrovarsi in una viuzza buia e puzzolente, a pochi metri di distanza dall’antica cisterna romana. Pochi passi e sarebbe stata in Piazza, dal lato della chiesa di San Floriano. Per non farsi notare dalla ressa di combattenti, e attraversare la piazza indenne, doveva utilizzare uno stratagemma. Giusto qualche giorno prima, la nonna le aveva insegnato una specie di incantesimo di invisibilità. Non che questo la rendesse proprio invisibile nel vero senso della parola, ma faceva in modo che potesse passare inosservata agli occhi degli altri. Sperò che funzionasse, recitò la formula e iniziò ad attraversare la piazza, tenendosi sempre rasente ai muri, prima del convento, poi della chiesa di San Floriano, poi di quelli di un palazzo di recente costruzione, poi di Palazzo Ghislieri, giungendo all’angolo dove sia Via del Fortino che Via delle Botteghe sbucavano nella piazza. Se fosse giunta fin lì grazie all’incantesimo di invisibilità o perché nessuno si era curato di lei in quanto indaffarato nella battaglia, non le era dato saperlo. Fatto sta che era giunta accanto al suo amore agonizzante. Ben quattro frecce l’avevano colpito, due alla gamba destra, una alla spalla sinistra, l’ultima trapassava da parte a parte il braccio destro all’altezza del muscolo bicipite. Aveva perso parecchio sangue, ed era in stato di semi-incoscienza, la gamba sinistra schiacciata contro il selciato dal peso del tronco del cavallo. Lucia si concentrò sulla bestia morta, ordinando con la mente la sua parziale levitazione. Il cambiamento di posizione dell’animale fu quasi impercettibile, ma bastò a far sì che, iniziando a tirare Andrea afferrandolo sotto le ascelle, la ragazza riuscisse a liberarlo da quell’infelice posizione. Gli occhi del giovane, come per incanto, ripresero luce, fissando quelli della ragazza per un attimo che lei ritenne sublime, poi si ribaltarono all’indietro, mentre Andrea perdeva del tutto conoscenza. Lucia non disperò, appoggiò due dita sulla doccia giugulare del suo amato e poté avvertire una sia pur fievole pulsazione.
Non tutto è perduto, pensò. Ancora la vita non lo ha abbandonato! Ma devo agire in fretta se voglio portarlo in salvo.
Confidando nei suoi poteri, ma anche e soprattutto nella forza della disperazione e nel profondo amore che già per la seconda volta le avevano ispirato gli occhi di lui, caricò il suo corpo inerte sulle sue spalle, rendendosi conto che non stava neanche facendo uno sforzo sovrumano. Estese l’incantesimo di invisibilità al suo giovane amore e si diresse giù per la Costa dei Longobardi, per raggiungere Palazzo Franciolini. Nessuno degli uomini che stavano combattendo per strada li degnò di uno sguardo, continuando a incrociare le armi e battersi come se Lucia, con il suo pesante fardello, neanche esistesse. Quando fu dinanzi al portone della dimora di Andrea, adagiò in terra il suo corpo esanime e si soffermò ancora una volta su quella piastrella decorata che tanto l’aveva incuriosita, quella rappresentante un pentacolo a sette punte. Ma non era il momento di lasciarsi prendere dalle distrazioni. Afferrò il batacchio attaccato al portone e iniziò a bussare con quanta forza ancora aveva. Uno dei servi di casa Franciolini, un moro muscoloso con un turbante in testa, che il Capitano del Popolo aveva acquistato come schiavo in un suo viaggio a Barcellona, aprì il portone giusto di uno spiraglio, per assicurarsi che non fossero i nemici a bussare alla porta. Quando si rese conto della situazione, in un batter d’occhio, fece entrare la ragazza e trascinò dentro il giovane padrone.
«Per Allah e per Maometto, sia benedetto il loro nome, possa essere io perdonato per averli nominati. Che ne è del Capitano?»
«Il Capitano è morto e se, anziché perder tempo a invocare le tue divinità, non farai quello che ti dico, la stessa fine sarà riservata anche al tuo giovane padrone!»
«Non sembra che ci sia molto da fare per lui. Fra qualche istante la sua anima lo lascerà per ricongiungersi a quella dei suoi avi, e di suo padre, che Allah lo abbia in gloria.»
«Non era musulmano, quindi Allah non lo avrà in gloria. Possiamo fare ancora qualcosa per lui. Portalo in camera e adagialo sul suo letto, poi segui le mie istruzioni e lasciaci soli.»
CAPITOLO 3
Alì fece esattamente ciò che Lucia gli aveva ordinato. Nella dispensa aveva trovato tutte le erbe che occorrevano alla ragazza, compresa la corteccia di salice, di cui non aveva ben chiara la funzione. In cucina non si sarebbe mai utilizzata, eppure i suoi padroni ne tenevano una buona scorta in vasetti sigillati con cura. Solo allora, il servitore moro si era accorto che la dispensa era più un’erboristeria che non un deposito di cose mangerecce. C’erano anche quelle, sì, ma molte delle erbe contenute nei vasetti sapeva bene fossero utilizzate da ebrei e fattucchiere a scopi contrari agli insegnamenti sia della sua religione, che di quella cattolica. In fin dei conti, il Dio cristiano e quello musulmano si assomigliavano molto e, se un uomo era destinato a morire, il proprio Dio lo avrebbe preso comunque in gloria e sarebbe stato felice accanto a lui. Non si poteva pretendere di salvare la vita a chi era già destinato a raggiungere il proprio Padre Onnipotente nel regno dei cieli. Questo pensava Alì, mentre attraversava la Piazza del Palio e risaliva a grandi falcate la Costa dei Pastori, guardandosi bene di non imbattersi nei tafferugli che si erano estesi fin lì. Si fermò davanti al portone indicatogli, quello sulla cui testata era riportata la scritta “Hic est Gallus Chirurgus”.
Un altro stregone!, rimuginò Alì tra sé e sé. Si fa chiamare chirurgo, ma so bene che è il fratello di Lodomilla Ruggieri, la strega arsa viva in Piazza della Morte qualche anno fa. Se non presto attenzione e non cerco di allontanarmi da questa gente, finirò anch’io i miei giorni su una catasta ardente. E anche i miei padroni ci sono dentro fino al collo, lo capisco solo ora che razza di eretici ho servito per anni!
Poi realizzò nella sua mente che, appartenendo a un’altra religione, l’Inquisizione non avrebbe potuto processarlo, e si decise a bussare. Un uomo alto, robusto, dai possenti bicipiti, i capelli lunghi raccolti dietro la nuca in una coda e la barba non rasata da qualche giorno, lo squadrò da cima a piedi. Anche Alì era robusto: al suo paese di origine, nell’alta valle del Nilo, era un campione di lotta libera, non c’era nessuno che riuscisse a batterlo, e l’uomo che aveva di fronte non era armato, per cui affrontò il suo sguardo e gli disse ciò che aveva da riferirgli.
«Capisco, prendo i miei attrezzi e ti seguo. Aspettami qui, Palazzo Franciolini è a poca distanza, ma preferisco fare il tragitto in tua compagnia. In due potremmo affrontare meglio eventuali facinorosi.»
Gallo sparì per pochi istanti all’interno della sua dimora e riapparve con una pesante borsa in pelle di vitello, che conteneva gli attrezzi del mestiere e che, a giudicare dall’aspetto, dovevano essere ben pesanti. Attraversarono la piazza passando accanto a gente che combatteva aspramente. Il chirurgo riconobbe un suo amico in uno jesino che veniva abbattuto a colpi di spada e fece per precipitarsi a soccorrerlo. Ma Alì fu lesto a tirarlo per un braccio e farlo desistere dall’intento. Non era proprio il caso di farsi notare e impegnarsi in una battaglia che aveva preso ormai una brutta piega per gli abitanti della città. Era più urgente soccorrere il suo giovane padrone. Alì e Gallo si infilarono nel portone di Palazzo Franciolini, che il moro provvide a sprangare dall’interno. Non avrebbe voluto più mettere il naso fuori da lì neanche per tutto l’oro del mondo, finché i combattimenti non si fossero placati, non sapendo che di lì a poco gli sarebbe stata imposta un’uscita per una commissione ancor più pericolosa di quella appena portata a termine.
Alì osservò Gallo estrarre con delicatezza tre frecce dal corpo di Andrea, mentre Lucia, al suo fianco, era pronta a tamponare il sangue che fuoriusciva non appena l’arma acuminata veniva estratta, utilizzando panni freschi di bucato e applicando l’impiastro a base di erbe che essa stessa aveva preparato in cucina. L’ultima freccia, quella che attraversava il braccio del giovane da parte a parte non voleva saperne di uscire, per quanto Gallo tirasse con decisione.
«Bastardi, hanno utilizzato frecce con rostri, vanno solo in avanti, non si riesce a tirarle indietro. Dovrò spezzare la coda a bilanciere e far fuoriuscire la freccia dal davanti, incidendo col bisturi la cute del braccio in corrispondenza del foro di uscita, ma rischierò di provocare un’emorragia fatale. Sei pronta a tamponare?»
«Sì», rispose Lucia, «sono pronta!»
Alì si rese conto che solo la forza della disperazione impediva a Lucia di svenire, anche se la vista e l’odore del sangue stavano ormai ottundendo i suoi sensi. Rendendosi conto che la ragazza non ce l’avrebbe fatta ad assistere ancora Gallo, Alì fece un respiro profondo e, non appena il chirurgo finì di estrarre la freccia, si fiondò a tamponare la copiosa emorragia. In meno di un istante, la pezza che teneva in mano si era tinta di rosso, e gli faceva percepire al tatto una sensazione viscida davvero sgradevole. In vita sua Alì non aveva mai provato nulla di simile, ma doveva farsi forza. Gallo strappò una striscia di lenzuolo, legandolo stretto attorno al braccio di Andrea, a monte della ferita. Il flusso di sangue si attenuò.
«Non possiamo lasciare il braccio così stretto a lungo, o lo perderemo e sarò poi costretto ad amputarlo a causa della gangrena che si verrà di certo a formare. Ho bisogno di un potente coagulante e cicatrizzante, e il più potente è l’estratto di placenta umana. Alì, devi andare dalla levatrice, lei ha sempre a disposizione placente essiccate e…»
«Ma, la levatrice abita fuori Porta Valle, è troppo pericoloso andare in quella zona!»
«Allora credo che ci sarà poco da fare per il ragazzo.»
Per fortuna, Alì conosceva un passaggio che, attraverso le cantine del palazzo, conduceva fuori delle mura, in prossimità del vallato, dove una corporazione di lavoratori del contado, guidati dalla famiglia Giombini, stavano realizzando un nuovo mulino per la molitura dei cereali. Come fuoriuscì dalla porticina che si apriva nelle mura di levante, ben nascosta da un folto cespuglio, si rammaricò alla vista del costruendo mulino, che era stato in parte raso al suolo dalla furia del nemico. Ma non poteva soffermarsi su quel particolare. La struttura semidistrutta gli offrì riparo dalla vista della soldataglia anconetana, che stava continuando a entrare in città da Porta Valle. Alì si diresse con decisione verso la chiesetta di Sant’Eligio, vicino alla quale abitava Annuccia, la levatrice. Quest’ultima, quando vide il moro, sul momento si impaurì, pensando che fra gli invasori ci fossero anche i saraceni, poi riconobbe Alì e lo fece entrare in casa.
«Sei pazzo ad andartene in giro da queste parti? Stavo per farti secco con questo», gli disse Annuccia, mostrandogli l’alare del camino che teneva stretto in pugno. «Non sono certo intenzionata ad arrendermi e farmi stuprare da questa gentaglia!»
«Ho bisogno di aiuto per il mio Signore, Annuccia. Il Capitano è stato ucciso dal nemico e il giovane Signore è gravemente ferito e ha urgenza di cure.»
Dopo pochi minuti, Alì usciva dalla casa della levatrice, custodendo gelosamente ciò che quest’ultima le aveva affidato e per cui aveva dovuto sborsare ben tre denari d’argento. Riguadagnò la porticina nascosta e tornò nel palazzo dei Franciolini, consegnando a Gallo il prezioso involucro. Il chirurgo prese la placenta secca, la infilò in un calderone di acqua bollente, aggiunse alcune erbe, tra cui il raro Artiglio del Diavolo, e nel giro di una mezz’ora ottenne un impiastro denso, dall’odore sgradevole, che andò a disporre in un vaso d’argilla. Alì prese in mano il recipiente e seguì Gallo nella stanza di Andrea, dove Lucia stava finendo di ripulire dal sangue il corpo seminudo del giovane. Il chirurgo allentò il rudimentale laccio emostatico, mentre la ragazza apponeva sulla ferita un abbondante strato di impiastro, avvolgendo poi una fascia abbastanza stretta, ma non troppo, intorno all’arto offeso. Andrea, nella sua semi incoscienza, fece una smorfia di dolore, che rincuorò tutti i presenti: era ancora vivo, e vigile, anche se molto debole.
«Più di questo non posso fare. I giorni prossimi avrà bisogno di assistenza continua, la febbre salirà, dovrete rinfrescargli la fronte con pezze bagnate e fargli ingerire infusi di corteccia di salice, sperando che riesca a superare non solo l’abbondante perdita di sangue, ma anche l’infezione che si verrà a formare. Se da questa ferita inizierà a fuoriuscire pus verde, potrete cominciare a dargli un addio. Se invece vedrete del pus giallo, quello che noi chirurghi definiamo “bonum et laudabile”, significherà che è in via di guarigione. Ma tu, Lucia, non rimanere qui a lungo: tuo zio presto noterà la tua assenza, e allora credo che per te saranno guai. Addestra il moro ad assistere il suo giovane padrone e ritornatene a casa.»
«Sia mai!», replicò la giovane. «Starò accanto a lui finché non sarà guarito. È il mio promesso sposo e non posso certo abbandonarlo ora.»
«Promesso sposo, dici? Mah, credo proprio che l’intento di tuo zio fosse quello di non farlo giungere avanti all’altare. Non sono un indovino, ma penso che la festa di oggi fosse tutta una farsa per far trovare porte aperte al nemico e morte per il Capitano del Popolo e il suo cadetto. Ti rendi conto che ora il tuo zietto è la massima autorità sia religiosa che politica di Jesi? Fai come vuoi, ma non credo che il Cardinale sia felice di saperti qui ad accudire il cadetto di casa Franciolini.»
Gallo raccolse i suoi strumenti, li pulì con cura, li rimise in borsa, salutò la ragazza con un sorriso, e il moro proclamando un: «Salam Aleikum, la pace sia con te, fratello, e grazie per il tuo prezioso aiuto.»
«Aleikum as salam, grazie a te per le preziose cure che hai offerto al mio padrone, sono certo che se la caverà.»
«Forse dalle ferite» , sentenziò Gallo, chiudendo il pesante portone dietro di sé. «Ma non di certo dalle grinfie del Cardinale Artemio Baldeschi.»
Nei successivi quattro giorni, Andrea rimase in preda alla febbre, accompagnata dai suoi brividi e dai suoi deliri. Lucia gli era stata vicina per tutto il tempo, facendo tutto ciò che le aveva consigliato Gallo e tutto quello di cui era a conoscenza per averlo appreso dalla nonna Elena. Nel delirio, Andrea spesso nominava la strega Lodomilla, parlava degli strani simboli disegnati nella piastrella del portale insieme al pentacolo a sette punte, parlava di un ebreo che lo aveva iniziato a una forma di conoscenza particolare, nominava a volte il re biblico Salomone, a volte una delle mogli dell’Imperatore Federico II, Jolanda di Brienne. Spesso pronunciava, tra altre parole confuse, il nome di un luogo, noto anche a lei: Colle del Giogo. Quella località, che si trovava nel vicino Appennino a un paio di giorni di cammino da Jesi, le faceva tornare alla mente il rito con cui, alcuni mesi prima, era entrata ufficialmente a far parte della setta delle streghe adoratrici della “Buona Dea”. Qualche giorno prima dell’equinozio di primavera, la nonna aveva detto a Lucia di tenersi pronta, in quanto la notte del 21 marzo avrebbero raggiunto le altre adepte e adepti della congrega su a Colle del Giogo, nelle montagne di Apiro.
«Lo zio dice che sono riti pagani, che la maggior parte degli adepti sono eretici e stregoni da mandare al rogo.» Lucia aveva un po’ timore, ma la curiosità prevaleva sulla paura. «Non credi che sia pericoloso partecipare a questa riunione, a questo Sabbah, come lo chiami tu?»
La nonna si era stretta nelle spalle, come a dire che se ne infischiava alquanto di ciò che pensava il fratello, e le aveva risposto con molta naturalezza.
«Quando parliamo di divinità, parliamo di entità soprannaturali, che con la loro infinita bontà possono indicarci vie da seguire, strade che solo con i nostri occhi non riusciremmo mai a vedere. Ora, se il vero Dio è il Padre Onnipotente proclamato dal tuo zio, lo Jahvè invocato dall’ebreo che abita nella casetta giù vicino al fiume, l’Allah in cui credono i Musulmani, lo Zeus dei greci o il Giove degli antichi Romani, dov’è la differenza? Ognuno può chiamare Dio a modo suo e riceverne gli stessi favori, indipendentemente dal nome con cui si rivolge a lui. E se siamo uomini e donne qui in terra, anche in cielo, o nell’Olimpo, o nel giardino di Allah, ci saranno delle divinità donne. Quella che noi adoriamo come la “Buona Dea” era conosciuta ai Romani col nome di Diana. Guarda, guarda la facciata del nostro palazzo. Guarda in alto: che cosa vedi in una nicchia tra le finestre dell’ultimo piano?»
«L’immagine sacra della Madonna, di Maria, della madre di Gesù, accompagnata dalla scritta “Posuerunt me custodem”, posero me a custodia di questa dimora.»
«E quindi qui è la Madonna, la Santa Vergine che veneriamo. Ma ricorda che tutti i luoghi sacri a noi che ci definiamo cristiani, cattolici, sono stati eretti sopra antichi templi pagani, e le antiche divinità sono state sostituite con le nuove. La stessa cattedrale qui a fianco è stata edificata al di sopra delle antiche terme romane, e la posizione della cripta corrisponde all’ubicazione del tempio che i romani avevano dedicato alla Dea Bona, altro nome di Diana. Come vedi, molto accomuna le diverse religioni. Nello stesso luogo dove ci recheremo fra qualche giorno, l’antica immagine della Buona Dea è stata sostituita da una statuetta della Madonna, all’interno di un tabernacolo. Il luogo è comunque sacro, e magico, e c’è sempre qualcuno che adorna l’immagine con gigli freschi e colorati. È il nostro modo di continuare ad adorare la Dea, anche se sotto l’immagine di Maria, madre di Gesù.»
Lucia riteneva che la nonna avesse una cultura non indifferente, forse per aver avuto accesso alla lettura di libri proibiti, conservati nella biblioteca di famiglia. Forse era riuscita ad attingere al sapere custodito gelosamente sotto chiave dallo zio Cardinale, magari a insaputa di quest’ultimo, o forse perché decenni addietro, quando Elena era ancora bambina, i libri potevano essere consultati senza problemi. Poi Artemio si era arrogato il titolo di Inquisitore e aveva messo sotto chiave tutto quello che era contrario alla Fede ufficiale. Ed era andata bene che non avesse fatto un gran falò di quei preziosissimi testi, come aveva sentito avessero fatto altri insigni prelati in altre città d’Italia e d’Europa.
«Ho capito, nonna, l’importante è credere nell’entità buona, che ci vuol bene e ci aiuta, a prescindere dal suo nome.»
Al contrario di quello che Lucia si aspettava e che aveva sentito raccontare da chi temeva le cosiddette streghe, il rito si svolse in tutta tranquillità. Nessun caprone si presentò a reclamare la sua verginità, né nessuno dei partecipanti si sognò di seviziarla o di farle firmare giuramenti con il suo sangue. Il cammino per raggiungere Colle del Giogo non era stato agevole. Passata la chiusa di Moje, il sentiero che costeggiava la riva del fiume Esino spesso si perdeva in mezzo alla boscaglia. Lucia non riusciva a capire come facesse la nonna a non perdersi e a ritrovare la traccia dell’antico sentiero anche dopo aver brancolato per parecchie leghe nel bosco, senza apparenti punti di riferimento. A un certo punto dovettero guadare il fiume e continuare in salita per una sterrata che risaliva la conca scavata da un impetuoso torrente che scendeva dalla montagna. Giunsero ad Apiro all’ora di pranzo e furono ospitati da una coppia di giovani coniugi, Alberto e Ornella, che offrirono loro pane nero e carne di capriolo essiccata. I due avevano una bimba di circa tre anni, due grandi occhi azzurri e i capelli dai fluenti riccioli castani; giocava con una bambola di pezza vicino al focolare, divertendosi a vestirla con minuscoli abiti colorati, realizzati con semplici pezzi di stoffa. Sembrava se ne infischiasse di quanto si preparassero a fare i suoi genitori, insieme ai nuovi arrivati, per la sera stessa.
«Come farete con la bimba?», chiese Elena alla giovane coppia.
«Oh, non c’è problema, alle sette la piccola è già nel mondo dei sogni nel suo pagliericcio. E comunque abbiamo chiesto a Isa, la nostra vicina, di venire a darle un’occhiata. Lo farà di buon grado!»
Lucia, che aveva sempre dormito in un comodo letto, non si capacitava di come facesse questa gente a dormire in quei mucchi di paglia intrecciata.
Saranno pieni di pulci!, pensava, rabbrividendo alla sola idea che la notte successiva le sarebbe toccato in sorte di doverci dormire anche lei. Meglio morta che coricarsi in uno di quei cosi.
La cerimonia di iniziazione della nuova adepta si svolse secondo un’antica ritualità. Era notte fonda quando Lucia e la nonna, in compagnia dei loro ospiti, si immersero nel freddo pungente della montagna. I campi erano ancora ricoperti di un leggero strato di neve e la via era illuminata dal disco luminoso della luna piena che splendeva enorme in cielo, come la ragazza non l’aveva mai vista. Salendo verso Colle del Giogo, in certi punti si poteva sprofondare nella neve fino al ginocchio ed era faticoso andare avanti, ma giunti alla radura cui erano diretti, Lucia si meravigliò di come il luogo fosse quasi del tutto sgombero dalla bianca coltre e il prato fosse costellato di piccoli e numerosissimi fiori colorati, bianchi, lilla, fucsia, viola, gialli…
«Li chiamano bucaneve, perché sono i primi fiori che spuntano appena comincia a sciogliersi la neve, ma il loro vero nome è “Crocus” e i loro stimmi essiccati possono essere utilizzati sia come condimento in cucina, sia per le loro proprietà medicamentose.»
«Nonna, come mai in questo luogo la temperatura sembra più gradevole?», chiese la ragazza, curiosa.
«Si dice che sia un luogo magico, ma in realtà la temperatura è mitigata grazie alla presenza di una sorgente di acqua calda. Qui il sottosuolo è ricco di risorgive sulfuree, ed è per questo che la temperatura è un poco più alta. Da oggi in poi imparerai che la maggior parte dei fenomeni che la gente comune indica come “magici” abbiano in realtà una spiegazione logica, razionale: basta saperla cercare. Ci additano come streghe, ma non facciamo altro che sfruttare conoscenze antiche e fenomeni naturali per i nostri scopi. Vedi, si dice che circa trecento anni or sono sia giunta in questo remoto luogo una delle mogli di Federico II, l’imperatore di Svevia, per celare qualcosa che il suo marito le aveva detto di custodire gelosamente, in quanto proveniva direttamente dalla Terra Santa, da Gerusalemme. Le leggende e le tradizioni vogliono che questo oggetto fosse una pietra magica, una pietra che l’arcangelo Michele avrebbe consegnato ad Abramo o, forse, addirittura la cosiddetta pietra filosofale che cercavano gli antichi alchimisti. Questa è una favola, la verità la conoscerai fra poco. E ora, entriamo nella grotta. Non facciamoci attendere!»
La più anziana delle partecipanti era una donna dai lunghi capelli grigi, la pelle del viso raggrinzita dalle rughe. Indossava una lunga tunica azzurrina sopra la quale, all’altezza del petto, scintillava un talismano dorato assicurato al collo da una catena anch’essa in oro lavorato. Aveva acceso un falò all’interno della grotta, gettando ogni tanto nelle fiamme delle polveri che di volta in volta provocavano una fiammata di colore diverso, ora gialla, ora verde, ora azzurra, ora di un rosso intenso. Per ogni fiammata che illuminava il suo viso, pronunciava delle strane parole, che gli altri presenti interpretavano disponendosi intorno al falò, ora prendendosi per mano e ruotando in circolo, ora allontanandosi e inchinandosi al volere della Vecchia Saggia, ora prendendo mazzi di erbe e gettandoli a loro volta nel fuoco, ora mettendosi seduti in terra nel massimo silenzio. A un certo punto, l’unica persona rimasta in piedi era l’anziana maestra. Teneva in mano un librone sulla cui copertina spiccava il disegno di un pentacolo, proprio simile a quello che era riportato nel diario di famiglia che le aveva consegnato la nonna qualche tempo addietro, e la scritta in caratteri gotici “Clavicula Salomonis”.
«In virtù dei poteri conferitemi da questa congrega, io, Sara dei Bisenzi, accolgo nella nostra comunità la novizia Lucia Baldeschi. Lei è la prescelta, colei che mi sostituirà un giorno e sarà destinata alla guida di tutti voi. Pertanto, Lucia, avvicinati e giura obbedienza e fedeltà su questo libro, scritto di proprio pugno dall’antico Re Salomone, e portato fin qui tra immensi perigli da Jolanda, che perse la propria vita, finalmente giunta alla sua meta finale. È solo grazie alla sua figlia Anna che il libro e i suoi insegnamenti ci è stato tramandato e, di volta in volta, una di noi ha il compito di conservarlo e proteggerlo.»
Così dicendo, l’anziana si sfilò il medaglione e passò la catena intorno al collo di Lucia. Il talismano dorato rappresentava una stella a cinque punte, il sigillo di Salomone. Lo stesso disegno fu tracciato a terra dall’anziana per mezzo di una verga appuntita e la ragazza fu fatta distendere in modo che la sua testa, le sue mani all’estremità delle braccia allargate e i suoi piedi in fondo alle gambe divaricate corrispondessero con esattezza alle punte della stella. Sara prese dell’olio d’oliva, segnando con esso in sequenza la mano sinistra, il piede sinistro, il piede destro, la mano destra e la fronte di Lucia.
«Acqua, aria, terra, fuoco: tu sai come governare i quattro elementi. Essi possono essere invocati e usati da ognuno di noi, ma solo il tuo spirito è in grado di unirli e potenziare al massimo i loro poteri e le loro qualità. Ricorda, Lucia! Userai i tuoi poteri solo a fin di bene e combatterai, fino a sacrificare la tua stessa vita, contro chiunque voglia abusare di te e delle tue capacità per scopi malvagi.» Poi versò dell’acqua sulla mano sinistra della ragazza, ancora distesa, soffiò sul suo piede sinistro, gettò una manciata di terra sul suo piede destro e avvicinò leggermente un bastoncino infuocato alla mano destra. Infine baciò la sua fronte. «E ora alzati. Il tuo lungo cammino è iniziato.»
La cerimonia di iniziazione era pertanto stata molto semplice, non era stata traumatizzante come la ragazza aveva temuto. Il rito si era svolto nella maniera tramandata da tempi remoti, senza costrizioni, senza violenza alcuna, senza interventi di strane figure assomiglianti a caproni o ad altre bestie. Il Demonio non era di certo nascosto tra i partecipanti al rito. Lucia era spiazzata, ma iniziava a capire molte cose, che la nonna l’avrebbe aiutata a definire nei mesi successivi. La magia, la stregoneria, così come l’aveva concepita fino a quel momento, non esisteva. La nonna le avrebbe spiegato quali fossero i limiti del pensiero umano, come ogni individuo fosse dotato di enormi potenzialità legate all’uso di esso, ma che solo qualcuno era in grado di esercitare certe funzioni, sia per capacità innata, sia grazie all’esercizio. Ma allora, si chiedeva Lucia, la sfera fluttuante che si materializzava tra le sue mani era puro frutto della sua fantasia, della sua suggestione? Eppure era in grado di visualizzarla distintamente. Già, ma solo lei, gli altri non la vedevano. Ma aveva provato i suoi effetti devastanti lanciando una palla di fuoco verso quella ragazzina, Elisabetta, che si era ritrovata davvero avvolta dalle fiamme. Ed era in grado di leggere i pensieri di chi le stava di fronte, ed era in grado di ascoltare le voci degli spiriti, e riusciva a prevedere il futuro in qualche maniera. Tutto questo come si spiegava?
«Per tutto c’è una spiegazione razionale», le aveva detto la nonna una sera avanti al caminetto acceso. «Alcuni nostri adepti, alla luce di quanto già fatto in passato da antichi studiosi, di cui alcuni testi sono sfuggiti ai roghi delle autorità ecclesiastiche, hanno aperto il cranio di cadaveri di uomini e donne per studiarne il contenuto, il cervello. La superficie del nostro cervello non è liscia, ma presenta tante pieghe, che vengono dette dagli studiosi di anatomia “circonvoluzioni” e che sono in grado di aumentare di tantissime volte la superficie utile di questo nostro importante organo. Non è il cuore, come tutti dicono, la sede dei nostri sentimenti, è la nostra mente ad essere la loro depositaria. Così come tutti i nostri ricordi, vicini e lontani, vengono qui accantonati. È la mente, il pensiero, che ci consente di riconoscere i suoni, i colori, gli odori, che ci fa associare gli oggetti a un nome, che ci fa apprendere i simboli della scrittura in modo che le persone più intelligenti, o le più fortunate se vuoi, siano in grado di leggere, scrivere e far di conto. È la mente, inoltre, che invia ai nostri occhi i sogni durante il riposo. La nostra mente, quindi, ha potenzialità enormi, ma sconosciute ai più. Così, chi riesce ad allenare la propria mente, riesce poi a eseguire attività che i comuni mortali neanche si sognano. Ed ecco che si possono percepire discorsi pronunciati in un luogo anche in tempi remoti. Ogni parola pronunciata lascia la sua traccia nell’aria, niente si perde. Se tu puoi captare questi discorsi, queste parole, non è che stai parlando con gli spiriti, non è possibile dialogare con persone scomparse da mesi, o da anni, o da secoli, ma è possibile ascoltare quello che loro hanno detto anche tantissimo tempo fa.»
«E la preveggenza?»
«Questo è un po’ più complicato, ma anche qui alcuni studiosi hanno ipotizzato che chi prevede il futuro capti i pensieri di qualcuno che ha già intenzione di mettere in atto determinati comportamenti. È per questo che la preveggenza si limita al breve periodo, e non è possibile prevedere il futuro a lungo termine. Chi asserisce di poterlo fare, è un ciarlatano!»
«E il fatto di poter spostare oggetti, farli levitare, o accendere una lampada solo con la forza del pensiero?»
«Ecco, anche queste sono potenzialità sconosciute alla maggior parte degli individui. Esercitando e allenando la nostra mente e il nostro pensiero, simao in grado di utilizzare gli elementi che ci stanno intorno a nostro vantaggio, in pratica possiamo fare di tutto. Noi siamo abituati a usare i cinque sensi che conosciamo, la vista, il tatto, l’udito, il gusto e l’odorato, senza neanche immaginare quali siano le nostre effettive potenzialità. Gli antichi sapevano bene come utilizzare certi poteri, così da poter costruire opere mastodontiche senza il minimo sforzo. Vedi, i Romani, quando giunsero a conquistare l’Egitto, non si potevano spiegare come avessero fatto gli egiziani, tanto tempo prima del loro arrivo, a costruire opere colossali, come le piramidi e la sfinge. Gli enormi blocchi di pietra con cui erano stati costruiti non potevano essere spostati neanche da centinaia di schiavi che lavorassero insieme.»
«Vuoi dire che…»
«Non voglio dire niente: trai tu le tue conclusioni.»
Lucia era ogni giorno più affascinata dai discorsi della nonna. Le disquisizioni sulla mente l’avevano entusiasmata, ma ancor di più era interessata alla cura delle malattie con le erbe officinali. Durante la primavera, diverse volte con la nonna Elena si era recata di nuovo a Colle del Giogo, ma anche nelle campagne e nei boschi intorno Jesi, per la raccolta di erbe medicamentose. Ogni volta la nonna le spiegava proprietà e uso di una determinata erba: il Giusquiamo, la Trementina, la Liquirizia, la pericolosa Belladonna. Elena aveva promesso a Lucia che, a partire dalla tarda estate e per tutto l’autunno successivo, le avrebbe insegnato a riconoscere i funghi, a distinguere quelli mangerecci da quelli velenosi, a prevenire e curare le intossicazioni dovute a questi ultimi, e come utilizzare le spore di determinati miceti su ferite infette. Ma in quegli ultimi giorni di primavera, il corso della storia aveva preso la piega per cui in quel momento si trovava ad assistere il giovane Franciolini, ferito dai nemici della città.
Erano ormai più di dieci giorni che Lucia era indaffarata attorno al capezzale di Andrea, quando il ragazzo riprese conoscenza. Questi aprì gli occhi e Lucia si sentì subito osservata in maniera strana. Leggeva in quegli occhi lo smarrimento del giovane, che forse credeva di essere già morto, di aver raggiunto il paradiso e di avere a disposizione un angelo che si prendeva cura di lui. Certo, era un nobile e, come aveva dei servitori in Terra, di certo la sua testa lo portava a pensare che avrebbe avuto della servitù anche lì in Paradiso. Ma poi, pian piano, Lucia capì che Andrea stava cominciando a riconoscere le pareti, i mobili e gli ornamenti della sua camera.
«Chi sei tu, che ti prendi così amorevolmente cura di me? E che fine ha fatto il resto della mia famiglia? E i miei servi? Dov’è Alì? Che sia dannato, quel miserabile Turco! Quando c’è bisogno di lui, è sempre capace di dileguarsi, magari lo trovi col sedere all’aria che prega il suo Dio…», iniziò a dire Andrea, con le guance infiammate dalla febbre, agitandosi a tal punto che un accesso convulso di tosse riuscì a interrompere a metà il suo discorso. Lucia prese la mano del giovane tra le sue, cercando di tranquillizzarlo e, nel contempo, godendo di quel contatto fisico.
«Dovete stare tranquillo, o piomberete di nuovo nell’incoscienza e nel delirio febbrile. E non dovete inveire contro Alì. Se non fosse per lui sareste già sottoterra! In quanto a me… Beh, io sarei Lucia Baldeschi, la vostra promessa sposa.» Pronunciando queste parole, un lieve rossore si impossessò delle gote della ragazza, che poté in quel momento affondare i suoi occhi nocciola in quelli azzurri del giovane, occhi magnetici, che attraevano il suo viso, le sue labbra tutto il suo corpo verso di lui.
«Non immaginavo che il Cardinale mi volesse riservare un simile dono. Ma non è che mi state mentendo? Il nemico ci ha travolto poco prima di raggiungere il palazzo del Cardinale, e credo proprio che questi non sia estraneo all’imboscata!» Con la forza della rabbia, si tirò un poco su, e Lucia si affrettò a disporgli i cuscini dietro la schiena per aiutarlo a sostenersi. «Lo dovevo immaginare che era un trucco, altro che matrimonio politico! Vostro zio si è messo d’accordo con i nemici, per uccidere mio padre, me, disperdere la mia famiglia e accentrare su di sé i poteri civili e religiosi, una volta liquidati col denaro gli invasori. Ma quali invasori? Il Duca di Montacuto e l’Arciduca di Urbino erano di certo d’accordo con lui! Scommetto che anche mia madre non si sa dove sia, magari rapita, o forse uccisa anche lei dal nemico. E tu?» Dopo essere passato al “voi” di rispetto era tornato a rivolgersi a Lucia dandole del “tu”, come si faceva con la servitù. «Non sei la nipote del Cardinale Baldeschi, non puoi esserlo, egli non permetterebbe mai che sua nipote stia qui accanto a me. Tu sei una serva, una sgualdrina inviata dal Cardinale perché non sono ancora morto e devi cogliere l’occasione buona per finirmi. Coraggio, allora! Dove nascondi il pugnale? Piantalo nel mio petto e facciamola finita, tanto queste ferite mi porteranno alla morte nel giro di qualche giorno. E allora tanto vale abbreviare le sofferenze.»
Così dicendo afferrò il braccio di Lucia e la tirò verso di sé. Si ritrovarono con i rispettivi volti a pochissima distanza tra loro, ognuno sentiva il respiro ansimante dell’altro sfiorare la propria guancia. Lucia lesse negli occhi del giovane Franciolini la paura di morire, non la cattiveria. L’istinto sarebbe stato quello di ritrarsi, e invece fece il contrario, poggiò delicatamente le sue labbra su quelle di lui, non fece neanche in tempo ad avvertire la ruvidità della barba non rasata da qualche giorno, che fu travolta in un vortice di lingue che si aggrovigliavano tra loro, mani che cercavano la pelle nuda sotto i vestiti, carezze che l’avrebbero isolata dalla realtà per raggiungere altezze celesti, e poi sensazioni mai provate prima, fino a un intenso piacere, accompagnato però da un profondo dolore. Ora il sangue era il suo, e proveniva dalle sue parti intime violate da quel dolce incontro; non aveva mai provato niente di simile in vita sua, ma si sentiva appagata.
«Come vi ha potuto solo sfiorare il pensiero che io fossi qui per uccidervi? Vi amo, vi ho amato fin dal primo momento che vi ho visto, qualche giorno fa, che uscivate da questo palazzo in sella al vostro destriero. Vi ho salvato la vita, vi ho curato, e ora voi mi avete reso donna, e io ve ne sono grata.»
Si finì di liberare dei vestiti e, del tutto nuda, si infilò nel letto accanto al suo amore. Gli aprì la camicia da notte, cominciò a carezzargli il petto, a baciarglielo, poi prese la mano di lui e la guidò a sfiorare i suoi turgidi capezzoli. E furono baci e carezze e sospiri, per interminabili e magici minuti. Poi lei si mise a cavalcioni sul ventre di lui e, guidata dall’istinto che le diceva di fare così, iniziò a dondolare su e giù, prima lentamente, poi sempre più velocemente.
L’orgasmo fece sprofondare di nuovo Andrea nell’incoscienza. La ragazza avrebbe voluto parlargli con dolcezza, ma con in mente il chiaro obiettivo di portare il discorso sui simboli legati allo strano pentacolo a sette punte, visto nei sotterranei della cattedrale, riportato sul portale di Palazzo Franciolini e richiamato da Andrea nei suoi deliri. C’erano tanti argomenti di cui avrebbe voluto parlare insieme a lui, adesso che si era ripreso, ma in quel momento era di nuovo impossibile.
Mentre Lucia recuperava i suoi vestiti dal pavimento e si risistemava, provando ancora in grembo sensazioni che stimolavano la pulsazione delle sue zone intime, alle sue orecchie giunsero voci concitate dall’ingresso del palazzo.
«Non potete entrare in questa dimora, non ne avete il permesso!», stava urlando Alì. Poi la sua voce si affievolì fino a spegnersi.
«Arrestate il moro, uccidetelo se oppone resistenza. E perlustrate l’abitazione. Il Cardinale rivuole subito la signorina Lucia a palazzo. In quanto al giovane Franciolini, se è ancora vivo, arrestatelo senza fargli del male. Dovrà essere processato per alto tradimento ed eresia. Non saremo noi a ucciderlo, ma la giustizia, quella divina e quella degli uomini. E la punizione sarà esemplare, per far capire al popolo a chi bisogna essere sottomessi: a Dio e a Sua Santità il Papa!»
Lucia aveva appena riconosciuto la voce di chi aveva pronunciato queste ultime parole, il Domenicano Padre Ignazio Amici, che insieme al suo zio presiedeva il locale tribunale dell’Inquisizione, quando la porta della stanza si spalancò e sul suo arco si disegnarono i ghigni soddisfatti di due guardie armate.
CAPITOLO 4
La cultura è l’unica cosa che ci rende felici
(Arnoldo Foà)
Il suono insistente della sveglia riuscì a catapultare di nuovo Lucia nella realtà quotidiana. Con la stessa mano con cui aveva messo a tacere la suoneria, a tentoni aveva trovato sul comodino il pacchetto delle sigarette. Era ormai sua consuetudine accendere la prima sigaretta appena sveglia, ma negli ultimi tempi lo faceva addirittura ancor prima di abbandonare il letto. Poi raggiungeva il bagno con il bastoncino fumante in bocca, si dedicava alla toilette e al trucco aspirando ogni tanto un’ampia boccata di fumo, gettava la cicca nel water e guadagnava la cucina per prepararsi il caffè, bevuto il quale accendeva un’altra sigaretta, concentrandosi sulla nuova giornata lavorativa che l’attendeva. Sul posto di lavoro non le era concesso fumare, per cui, se anche ogni tanto le passava per la testa che quel vizio a lungo andare sarebbe stato ben nocivo, buttava dietro le spalle qualsiasi remora mentre guardava la punta rossa illuminarsi ogni volta che aspirava.
Il mio corpo ha bisogno della sua dose di nicotina, alla faccia di quel puritano del decano della fondazione!, si ritrovava spesso a pensare Lucia, accendendosi la terza sigaretta della giornata, quella che le consentiva un appagamento tale da poter arrivare a un’ora decente senza dover uscire dal suo posto di lavoro prima della pausa prevista per la colazione. Nell’anno 2017 la primavera era stata molto piovosa e, nonostante fosse la fine di maggio, la temperatura non aveva ancora raggiunto le medie estive; così, soprattutto la mattina all’ora di uscire, faceva ancora fresco, ed era difficile decidere quale fosse il vestito più adatto da indossare. Una rapida occhiata al guardaroba, mentre indossava un collant leggero, color carne, quasi invisibile, fece cadere la scelta per quel giorno su un abito rosso, a manica lunga ma non invernale, della lunghezza adatta a lasciare scoperte le gambe poco al di sopra del ginocchio. Un filo di rossetto, due colpi di spazzola ai capelli castani naturalmente ondulati, una linea di matita a sottolineare il nocciola dei suoi occhi, un’ultima tirata dalla sigaretta, la cui cicca rimaneva fumante nel posacenere, e Lucia Balleani, ventotto anni, un metro e settantacinque centimetri di bellezza austera, pressoché irraggiungibile dall’uomo comune, laureata in lettere antiche, specializzata in storia medioevale, era pronta ad affrontare l’impatto con l’ambiente esterno. Era una delle ultime discendenti di una nobile famiglia jesina, i Baldeschi-Balleani e, per ironia della sorte, nonostante dalla nascita non fosse mai riuscita a vivere e abitare nella sontuosa residenza di famiglia in Piazza Federico II - né tantomeno nella stupenda villa fuori Jesi – ora si ritrovava a lavorare proprio in quel palazzo. Aveva accettato di buon grado l’incarico offertole dalla Fondazione Hoenstaufen, che aveva trovato lì la sua naturale sede, proprio nella Piazza in cui tradizione vuole che nel 1194 fosse nato Federico II di Svevia, principe e poi Imperatore della casata Hoenstaufen. Come tutte le famiglie nobili, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, finita la mezzadria, finite le rendite di immensi latifondi agrari ereditati da tempo immemorabile, anche i Baldeschi-Balleani non furono immuni dal giocarsi la maggior parte dei beni di famiglia, vendendoli o svendendoli al miglior offerente, pur di mantenere il tenore di vita a cui erano abituati. Il ramo Baldeschi, un po’ più saggio, si era trasferito in parte a Milano, dove aveva messo in piedi una piccola ma redditizia azienda di design e architettura, in parte in Umbria, dove gestiva un ridente agriturismo in mezzo alle verdi colline di Paciano. Al ramo Balleani erano rimaste le briciole e il padre di Lucia continuava con tenacia e ben poco guadagno a mandare avanti l’azienda agricola che consisteva di appezzamenti di terreno sparsi tra le campagne di Jesi e Osimo. Lucia era una ragazza, oltre che molto bella, davvero intelligente. Grazie ai sacrifici del padre aveva potuto frequentare l’ateneo bolognese e laurearsi con ottimi voti. Il suo pallino era la storia, in particolare quella medioevale, forse perché sentiva in maniera forte, dentro di sé, da un lato l’appartenenza alla città che aveva dato i natali a uno dei più illuminati Imperatori della storia, e dall’altro alla famiglia che per prima aveva dato un Signore a Jesi. Era stata infatti la ghibellina famiglia Baligani – il cognome si era trasformato con il tempo in Balleani - che nel 1271 aveva istituito la prima Signoria a Jesi. Con alterne vicende, Tano Baligani, a volte schierandosi con i guelfi, altre volte con i ghibellini, a seconda di come tirava il vento, aveva cercato di conservare il dominio della città, contro altre famiglie nobili, in particolare contro i Simonetti, i quali anche avevano in certi periodi preso le redini del comando della città. Nei due secoli a seguire, i Balleani si sarebbero imparentati con la famiglia Baldeschi, che aveva dato alla città diversi Vescovi e Cardinali, al fine di suggellare un tacito accordo tra Guelfi e Ghibellini, soprattutto per contrastare il nemico esterno e tamponare le mire espansionistiche dei Comuni limitrofi, in particolare di Ancona, ma anche di Senigallia e di Urbino. Proprio per questa sua passione, il decano della fondazione Hoenstaufen aveva voluto assumere Lucia per la riorganizzazione della biblioteca del palazzo appartenuto alla nobile famiglia. Biblioteca che vantava pezzi molto rari, come una copia originale del Codice Germanico di Tacito, ma che non erano mai stati classificati a dovere. Oltre alla classificazione dei libri presenti, Lucia aveva altri interessi, dei quali aveva cercato di parlare col decano, come quello di raccogliere tutte le fonti storiche sulla città di Jesi presenti sia in questa che nelle altre biblioteche della zona, al fine di poter dare alle stampe un’interessante pubblicazione. Oppure quello di mappare il sottosuolo del centro storico, ricco di vestigia appartenenti a epoca romana, al fine di avere una ricostruzione dell’antica città di Aesis il più vicina possibile a quello che era stata nella realtà.
«Hai molte belle idee, sei giovane e piena di entusiasmo, e ti capisco, ma la maggior parte degli accessi ai sotterranei è interdetta, in quanto si deve passare dalle cantine di palazzi privati, i cui proprietari il più delle volte negano il consenso.»
L’anziano decano scrutava la ragazza con i suoi occhi grigio verdi da dietro le lenti degli occhiali. La barba grigia non riusciva a celare il senso di disapprovazione che provava nei confronti della sigaretta elettronica, dalla quale ogni tanto Lucia aspirava una nuvola di vapore denso e biancastro, che nel giro di brevi istanti si dileguava nell’aria della stanza.
«Non è necessaria l’esplorazione fisica dei sotterranei. Si potrebbe far sorvolare la città da un elicottero per ottenere delle rilevazioni radar. La tecnica adesso è questa e dà ottimi risultati.», cercava di insistere Lucia, per veder realizzato uno dei suoi più grandi sogni.
«Chissà quanti soldi occorrerebbero per un progetto simile. Abbiamo fondi, ma sono abbastanza limitati. L’Italia non è ancora uscita dalla crisi economica che la affligge ormai da diversi anni, e tu mi vieni a proporre progetti faraonici? La cultura è bella, sono io il primo ad affermarlo, ma dobbiamo stare con i piedi in terra. Vedi quello che riesci a realizzare esplorando i sotterranei di questo palazzo. Comunicano direttamente con la cripta del Duomo, chissà che tu non riesca a tirar fuori qualcosa di interessante. Ma fallo al di fuori delle ore per cui vieni pagata. Il tuo compito qui è ben definito: riorganizzare la biblioteca!» Il decano stava per lasciare la ragazza al suo lavoro, e alla sua delusione, quando si rigirò: «E, un’ultima cosa! Elettronica o no, qui dentro non si fuma. Ti pregherei di evitare di usare quell’aggeggio mentre lavori.»
Con gesto plateale, Lucia sfilò la sigaretta elettronica dal collo cui era appesa con l’apposito cordoncino, ne spense l’interruttore e la ripose nel suo astuccio, che andò a infilare dentro la borsa. Dalla stessa prese pacchetto di sigarette e accendino e guadagnò l’androne di ingresso per andare a fumare in santa pace una vera sigaretta all’esterno.
Martedì 30 Maggio 2017 si presentava, fin dalle prime ore del mattino, una giornata serena, tersa, di tarda primavera. Il cielo era azzurro e, nonostante il sole fosse ancora basso, Lucia fu abbagliata dalla luce non appena chiuso dietro di sé il portone di casa. Aveva trovato un’ottima sistemazione, affittando un appartamento ristrutturato in Via Pergolesi, nel centro storico, a poche centinaia di metri dal suo posto di lavoro. Ma quello che era più interessante per lei era il fatto di trovarsi proprio nel palazzo che aveva ospitato, a piano terra, nel XVI secolo, una delle prime stamperie jesine, quella del Manuzi. L’enorme salone adibito a tipografia era stato nel tempo utilizzato per altri scopi, finanche come palestra e come sala riunioni di qualche partito politico. Ma questo non toglieva comunque fascino a quel luogo. Uscita dal portone e attraversato un piccolo cortile, Lucia era solita attardarsi a rimirare l’arco da cui si usciva sull’antica strada lastricata, Via Pergolesi, un tempo il Cardo Massimo dell’epoca Romana, poi chiamata Via delle Botteghe o Via degli Orefici, per le attività preminenti che vi si erano svolte nei vari periodi.
Delle splendide botteghe di un tempo, in effetti, ne erano rimaste ben poche. Molte avevano le serrande abbassate ormai da diversi anni, e quelle aperte ostentavano in vetrina beni e servizi che con l’antichità, con il fasto e lo splendore dei negozi orafi di un tempo, avevano ben poco a che spartire. Il cartello turistico imbrattato dalle cacate dei piccioni stava a indicare che l’ arco del Palazzo dei Verroni non era di origine romana, come l’aspetto poteva portare a credere, ma era stato realizzato nel XV secolo da tale Giovanni di Gabriele da Como, architetto che aveva lavorato a fianco del più noto Francesco di Giorgio Martini nella realizzazione del vicino Palazzo della Signoria. Tanto che qualcuno in passato aveva attribuito anche quell’arco al Di Giorgio Martini. Secondo Lucia, i romani non dovevano essere del tutto estranei a quell’opera, che si affacciava proprio sul Cardo Massimo. Magari gli architetti rinascimentali si erano limitati a restaurare un antico arco, le cui vestigia erano sopravvissute ai secoli e al rovinoso terremoto dell’anno 848.
Pochi passi tra gli austeri palazzi del centro storico furono sufficienti per far passare Lucia dall’ombreggiata Via Pergolesi alla luminosa Piazza Federico II. Mancava ancora qualche minuto alle otto, ora in cui doveva attaccare a lavorare. Avrebbe fatto in tempo a fumare un’altra sigaretta prima di entrare nel Palazzo, ma la sua attenzione fu attirata dalle quattro statue di marmo che sorreggevano come cariatidi il balcone del primo piano. Per un momento, ebbe l’impressione che i quattro “telamoni” fossero animati di vita propria, quasi volessero venire verso di lei per parlarle, per raccontarle storie vecchie di secoli, di cui si era persa la memoria. Ebbe come un giramento di testa, che le fece immaginare la balconata, non più sorretta dalle possenti statue, inclinarsi verso il suolo, e le riportò alla mente il sogno che ormai da parecchie notti la rendeva protagonista di una storia avvenuta cinque secoli prima, in quegli stessi giorni dell’anno e in quegli stessi luoghi. Le immagini dei sogni scorrevano nella sua mente durante il sonno come le scene di un romanzo a puntate. Erano talmente nitide che Lucia si impersonava nella sua omonima antenata come stesse rivivendo una sua vita passata, da un lato come interprete, dall’altro come spettatrice.
Suggestione, solo suggestione!, ripeté per l’ennesima volta la giovane a se stessa. Tutta colpa dei libri su cui sto lavorando e delle parti mancanti della Storia di Jesi. Il mio inconscio mi fa inventare la parte mancante del libro!
Tirò due profondi respiri, raggiunse una panchina, si mise seduta e osservò che la facciata del palazzo era lì, integra e indenne. Decise di attraversare la Piazza, raggiungere il bar e prendersi un espresso forte, prima di entrare al lavoro. Quel diversivo le avrebbe costato un ritardo di qualche minuto, ma tanto il decano non arrivava mai prima delle nove. Trangugiato il caffè e uscita dal Bar Duomo, in pochi passi raggiunse il lato della Piazza in cui confluiva Via Pergolesi. Alla sua sinistra lo sbocco della salita di Via del Fortino, alla sua destra l’inizio di Costa Lombarda, attraverso la quale si poteva raggiungere la parte a valle della città. Proprio sotto i suoi piedi, su una grossa piastrella in bronzo era incisa la mappa dell’antica Aesis. Poco più in là la scritta in varie lingue, compreso l’arabo, sulle piastrelle bianche lungo tutto il perimetro della piazza: “Il 26 dicembre 1194 nasce in questa Piazza l’Imperatore Federico Secondo di Svevia”. Ancora un giramento di testa, ancora una visione. Ora la piazza non aveva più l’aspetto attuale. La fontana dei leoni, con l’obelisco, non campeggiava più al centro, ma lo spazio era del tutto libero. Il Duomo, dal lato opposto a quello in cui si trovava, era una costruzione bianca, di dimensioni più esigue rispetto a quella che era abituata a vedere, dallo stile gotico, con guglie e archi a sesto acuto, una specie di Duomo di Milano in piccolo. Il campanile era alla destra della facciata, isolato e in posizione avanzata rispetto alla chiesa. Il Palazzo Baldeschi, sulla sinistra rispetto alla Cattedrale, era diverso, più massiccio, più sontuoso; la facciata era sovrastata, a mo’ di abbellimento, da tre archi in pietra, presi da chissà quale antica costruzione romana e messi lassù in maniera posticcia, come elemento decorativo, ma di nessuna utilità. La statua della Madonna col bambin Gesù in braccio già era presente in una nicchia tra le finestre dell’ultimo piano, mentre non c’era traccia dei quattro “telamoni” a sorreggere la balconata del primo piano. Anzi la balconata, anche se non del tutto assente, era assai esigua rispetto a quella che era abituata a vedere. Tutto il lato destro della piazza era occupato, in luogo dei Palazzi Vescovili e di Palazzo Ripanti, da un’enorme fortezza, una specie di castello, ornato dalle tipiche archettature e dai merli ghibellini a coda di rondine. Sul lato sinistro la Chiesa di San Floriano con la sua cupola e il suo campanile e il palazzo Ghislieri, non ancora terminato, circondato dalle impalcature dei muratori. Lucia gettò uno sguardo verso l’inizio di Via del Fortino, dov’era la bottega di un tintore, davanti alla quale l’artigiano aveva acceso un fuoco per mettere a bollire l’acqua in un pentolone incrostato di nerofumo. Una ragazzina si era avvicinata troppo al fuoco e un lembo del suo vestito si era incendiato. In breve la ragazza si era trovata avvolta dalle fiamme. Lucia avrebbe voluto correre verso di lei per soccorrerla, ma non riusciva a muovere un passo. Inorridì, sentendo risuonare nelle sue orecchie le grida disperate della ragazza. Poi una, due gocce di pioggia, uno scroscio, le fiamme si spensero. La sensazione di non toccare più i piedi per terra. Lucia era distesa sul selciato. Quando riaprì gli occhi vide l’azzurro del cielo, un cielo dal quale non poteva essere caduta neanche una goccia di pioggia. Un uomo distinto, il vestito elegante, una valigetta ventiquattrore in mano, cercò di aiutarla a rialzarsi.
«Tutto bene?»
«Sì, sì», e rifiutando qualsiasi aiuto, Lucia si rialzò in piedi. «È stato solo un mancamento, uno sbalzo di pressione. Ora è tutto a posto, grazie!»
Attraversò la piazza, che ora aveva l’aspetto consueto, di buon passo, per cercare di raggiungere il posto di lavoro il prima possibile, prima che il decano potesse accorgersi del suo ritardo, ma con ben stampate nelle mente le immagini che aveva vissuto per qualche attimo.
Suggestione, solo suggestione, nient’altro che suggestione. Non c’è altra spiegazione logica per i sogni e adesso per le visioni!
Eppure, una voce dal subconscio sembrava volerle dire che erano ricordi, che erano episodi che aveva vissuto in un’altra vita, in un remoto passato, come persona diversa, ma che portava sempre lo stesso nome: Lucia.
Entrò nel palazzo, salì lo scalone che conduceva al primo piano e avviò il computer della sua postazione di lavoro. La tentazione di dare una sbirciata ai suoi profili nei vari social network era resa vana dalla consapevolezza che quel bastardo del decano verificava, tramite il server, il file log del suo computer e la rimproverava se si era concessa di navigare in internet per motivi non legati all’attività lavorativa. Pertanto aprì il foglio di lavoro di Excel in cui andava a classificare i testi e il file di Access su cui registrava i dati per avere un database completo della biblioteca. Ogni testo andava poi scannerizzato e messo in memoria su file PDF, da caricare sul sito web della fondazione, per la successiva consultazione. I testi su cui stava lavorando in quei giorni, e che erano forse stati il motivo scatenante i suoi sogni e le sue recenti visioni, erano una “Storia di Jesi” edita dal Manuzi, proprio quel Bernardino Manuzi che nel XVI secolo aveva la stamperia nel palazzo in cui lei aveva preso dimora, e un libercolo, la cui autrice era Lucia Baldeschi, dal titolo “ Principi di medicina naturale e guarigione con le erbe”. Poi aveva sul tavolo un manoscritto di poche pagine, secondo lei attribuibile anch’esso a Lucia Baldeschi, che cercava di descrivere il significato e la simbologia di un particolare pentacolo a sette punte. Erano tutti e tre dei veri rompicapi, e Lucia non si sarebbe data per vinta finché non avesse sviscerato gli arcani che si nascondevano dietro ognuno di quei testi. “La storia di Jesi” era davvero interessante, un lavoro iniziato da Bernardino Manuzi, tipografo in Jesi, sulla base di documenti antichi e di tradizioni orali, e portato a termine anche grazie al contributo di altri autori. Sul suo tavolo aveva una copia originale del libro, stampata dal Manuzi stesso, a cui erano state strappate diverse pagine, chissà in quale epoca remota, chissà da chi, chissà per quale motivo. Proprio le pagine che si riferivano a un periodo doloroso della storia di Jesi, dal 1517 al 1521, periodo segnato dal “sacco” di Jesi e dal governo del Cardinale Baldeschi che, grazie al fatto di essere a capo del Tribunale dell’Inquisizione, aveva perseguitato e fatto giustiziare molti individui solo perché ostacolavano il suo potere. E Lucia Baldeschi era sua nipote. Uno zio inquisitore e una nipote che si dedicava alla medicina naturale e alla cura con le erbe, considerate a quel tempo pratiche stregonesche. Come potevano convivere e forse abitare nello stesso palazzo? Il fatto che gli scritti di Lucia Baldeschi fossero lì, faceva propendere per la teoria che vi avesse abitato, e di sicuro quella era stata anche la dimora del Cardinale. Il Tribunale dell’Inquisizione aveva sede proprio lì vicino. All’inizio del XVI secolo, proprio per volere del Cardinale, era stato trasferito dal convento di San Domenico al più comodo complesso di San Floriano, mentre il Torrione di Mezzogiorno era rimasto sede delle prigioni in cui venivano trattenuti e torturati gli inquisiti. Chissà di che cosa trattavano quelle pagine asportate del libro; forse vi veniva riportata una scabrosa storia in cui lo zio accusava la sua nipote di stregoneria, la faceva rinchiudere nelle segrete del Torrione di Mezzogiorno, o in quelle più comode del Complesso di San Floriano, la faceva torturare e infine bruciare al rogo sulla pubblica piazza. Certo, questa storia avrebbe infangato la memoria del Cardinale Baldeschi, e così qualcuno della famiglia avrebbe strappato quelle pagine per farne perdere le tracce.
Cominciava a far caldo, e Lucia aprì il finestrone della stanza, proprio quello che dava sulla balconata sostenuta dalle quattro strane statue, avendo cura di chiudere la grande zanzariera, in modo che entrasse aria, ma non fastidiosi insetti. In quel mentre fece la sua comparsa il decano, che rimproverò Lucia con lo sguardo, uno sguardo inquisitore, che sembrava voler interpretare nel gesto di aprire la finestra il desiderio contemporaneo, da parte della giovane, di volersi accendere una sigaretta.
Non ti darò certo soddisfazione, vecchia cariatide! Non fumo di sicuro qui dentro, se non altro per non sopportare i tuoi improperi, ma anche per rispetto dei preziosi oggetti, dei libri, degli stucchi, dei quadri, che sono conservati qui dentro, rimuginò tra sé e sé Lucia, mentre notava la somiglianza tra il decano, il quasi settantenne Guglielmo Tramonti, e il Cardinale Artemio Baldeschi, così come lo vedeva ogni giorno in un ritratto appeso alle pareti della sala e così come gli appariva nei suoi sogni recenti.
«Anche se qui dentro non abbiamo aria condizionata, meglio tenere le finestre chiuse. Sudare non ha mai fatto male a nessuno, mentre l’aria potrebbe essere nociva per le opere che abbiamo in custodia!» Lucia vide il decano dirigersi verso il finestrone, ma anziché chiuderlo come doveva essere sua intenzione, aprì la zanzariera e si affacciò dalla ringhiera metallica della balconata. In un attimo, il decano sparì. Lucia si precipitò sul balcone e guardò di sotto. Il corpo di Guglielmo Tramonti giaceva esanime sul lastricato della Piazza, riverso con il volto verso terra, vestito da Cardinale e circondato da una chiazza rossastra, che si espandeva pian piano, costituita dal suo stesso sangue. Come era potuto accadere? Da dove proveniva tutto quel sangue? L’altezza non era eccessiva! Si era forse fracassato il cranio e il suo liquido vitale lo stava abbandonando da una ferita apertasi sulla fronte? E i vestiti? Come mai aveva indosso l’abito porporato? Pochi attimi prima non lo portava! Sollevò lo sguardo a cercare i particolari della Piazza e la vide di nuovo come era nella visione che aveva avuto poco prima, quando era uscita dal bar: la Piazza di una città rinascimentale. La voce del decano, proveniente dalle sue spalle, la riportò alla realtà. Si ritrovò a mettere a fuoco con gli occhi la lapide con cui, nella facciata della prospiciente Chiesa di San Floriano, si ricordava Giordano Bruno come vittima della tirannide sacerdotale. Tutto era al suo posto, la fontana con l’obelisco, il Complesso di San Floriano, la Cattedrale, i Palazzi Vescovili, Palazzo Ghislieri. Poco più avanti, sul campanile del Palazzo del Governo sventolava come di norma la bandiera tricolore.
«Allora? Dico di chiudere la finestra e tu che fai, esci sul balcone? Ma… sei sicura di star bene, ragazza? Sei molto pallida, vuoi tornare a casa per oggi?»
«No, no, grazie, sto bene! È passato tutto, solo un giramento di testa. Ho sentito il bisogno di uscire per ossigenarmi, per prendere una boccata d’aria fresca. Ma ora è tutto a posto, posso rimettermi a lavoro.»
«Bene, ma sarei contento di sapere che tu ti sottoponga a un controllo medico. Non è mica che sei incinta?»
«Ancora lo Spirito Santo non è venuto a farmi visita», concluse ironicamente il discorso Lucia, accompagnando queste ultime parole con un gesto evasivo della mano. Prese il libro sulla Storia di Jesi e iniziò a scannerizzare le prime pagine. Alla decima pagina, aprì il programma OCR sul computer e si mise a correggere a mano gli errori, cosa che le permetteva di leggere notizie a lei in parte sconosciute.
LA LEGGENDA DI UN RE
La storia di Jesi ha inizio in un lontano giorno di tremila anni fa. Un inizio senza spettatori. Una piccola folla di gente risale il corso del nostro fiume, incolonnata lungo la sponda sinistra. Avanza lentamente, aprendosi la strada tra la fitta sterpaglia e gli alti pioppi che si specchiano nelle acque del fiume.
E' gente strana, dal nome strano, «pelasgi» li dicono dalle loro parti, i volti abbronzati, segnati dalla stanchezza di un viaggio lungo e avventuroso. Hanno indumenti logori; alcuni vestono pelli di animali che sanno di selvatico. I volti degli uomini sono incorniciati da capigliature e barbe folte che interminabili giornate di sole hanno reso aride, stoppacciose.
Sono i superstiti di una flottiglia di piccoli e veloci legni che hanno vinto la battaglia contro le tempeste dell'Adriatico. Sono sbarcati da pochi giorni verso la foce di quel fiume che ora sbriciola in mille luccichii i raggi del sole. Emigrati dalla loro terra, che è stata la patria dei loro vecchi, degli eroi cantati da un poeta cieco per i villaggi della lontana Grecia, sono alla ricerca di una nuova terra, di una nuova patria.
Ed eccoli giunti, dopo una marcia estenuante, ai piedi di un'altura cresciuta come d'incanto nel cuore della vallata che li aveva accolti giù, alla foce del fiume. Tutt'attorno, boschi a perdita d'occhio, arrampicati sulle colline circostanti. E il silenzio di una natura addormentata da millenni. Da sempre.
Un uomo, dall'aspetto venerando e regale, con l'insegna del comando, indica quel promontorio che par quasi un isolotto emerso a bella posta, nel mezzo della valle, per raccogliere dei naufraghi. E si incammina in quella direzione. Gli altri lo seguono, tenendo il suo passo, senza parlare. Sulla parte più alta del colle, il vegliardo re spinge lo sguardo lontano, scoprendo un paesaggio meraviglioso, disegnato dalle cento tonalità di un verde immenso, tagliato appena dalla sinuosa traccia del fiume che si perde giù, verso il mare.
Il vecchio re, rivoltosi allora ai suoi, fa un cenno di assenso e tutti depongono a terra le loro povere cose. Dunque hanno trovato finalmente la terra promessa, sono giunti alla meta del lungo peregrinare per mari e terre. Questa, d'ora in avanti, sarà la loro nuova patria.
E così fu che re Esio fondò la città di Jesi.
E quindi i primi Jesini erano Greci, in fuga dalla città di Troia distrutta. Come Enea, con i suoi aveva risalito le coste del Tirreno per insediarsi in Lazio, il Re Esio aveva trovato la via più agevole, risalendo l’Adriatico e giungendo alla foce dell’Esino. Lucia si era entusiasmata alla storia e i sogni e le visioni erano ora relegate in un angolo remoto della sua mente. Il suo cervello e la sua fantasia erano già in moto. Questi dati e queste notizie potrebbero essere utilizzate per una bella pubblicazione o, perché no, per la stesura di un romanzo storico ambientato in queste zone, cominciò a pensare Lucia, meditando anche sui possibili guadagni.
CAPITOLO 5
Ricordati, uomo, che polvere sei e polvere ritornerai!
(Genesi 3,19)
Il Cardinale indicava i fedeli raccolti in chiesa, puntando il suo dito inquisitore e fissando il suo sguardo, uno dopo l’altro, su alcuni volti delle prime file.
«Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris!», ed era capace di far sentire colpevole chiunque incontrasse i suoi occhi, anche se in vita sua non aveva mai fatto nulla di male.
La Domenica mattina, a distanza di dieci giorni dall’efferato e vile attacco da parte degli eserciti nemici, approfittando della pace di cui il Cardinal Baldeschi stesso era stato l’artefice, i corpi degli Jesini caduti nelle strade, nelle piazze e nelle loro abitazioni erano stati recuperati e disposti, coperti da teli bianchi, sul nudo pavimento della chiesa di San Floriano, da un lato e dall’altro rispetto alla guida di velluto rosso che dall’ingresso si spingeva fino ai tre gradini che conducevano all’altare. L’unico che era stato sistemato in una cassa di legno rifinita e decorata, che aveva trovato la sua collocazione proprio avanti all’altare maggiore, era Guglielmo Franciolini. La cassa, che non aveva coperchio, sarebbe stata calata in un’apposita nicchia del pavimento della chiesa, ricoperta da una lastra di marmo che riportava inciso il suo nome e che sarebbe diventata parte integrante del pavimento stesso. Gli altri caduti sarebbero stati trasportati, attraverso un’apertura presente nella navata laterale, nella cripta, dove avrebbero trovato posto in un’anonima sepoltura comune. Un ambiente che coincideva con antichi sotterranei di costruzioni di epoca romana, le cui caratteristiche di umidità e temperatura favorivano la decomposizione dei corpi senza diffondere agli ambienti sovrastanti gli ingrati odori della putrefazione.
«È difficile in momenti come questo ringraziare il Signore!»
Il Cardinale, affiancato sull’altare dal Domenicano Padre Ignazio Amici, a voler dimostrare alla gente che l’Inquisizione nei giorni seguenti non sarebbe stata con le mani in mano, iniziò l’omelia con tono pacato, per passare in breve a parole tuonate, che si infiggevano come affilatissimi coltelli nel petto di ognuno.
«Ma state certi che chi ha tradito pagherà!»
Fece una pausa di silenzio, facendo scorrere il suo sguardo sulla massa dei fedeli. Nelle panche delle prime file sedevano i nobili, dietro di loro gli artigiani e i bottegai; la folla in piedi, assiepata nelle navate laterali e, chi non aveva trovato posto, anche sul sagrato della chiesa, rappresentava la plebaglia, il popolo dei lavoratori. Ognuno, nobile o meno che fosse, tremava all’idea di poter essere il capro espiatorio da portare al patibolo, solo per soddisfare il desiderio del Cardinale di dare in pasto al popolo qualche colpevole, placare gli animi e prendere in mano le redini del governo lasciato vacante dal Capitano del Popolo.
«C’è di certo lo zampino del Diavolo, del Demonio, dietro un assalto così vile. E sappiamo che qualcuno a Jesi si è alleato con lui, aprendo al nemico le porte della città. E chi è sempre in combutta con il diavolo? Le streghe!», e fissò lo sguardo sulla sorella Elena, che seguiva la sua omelia da una panca della seconda fila. «Gli ebrei! E chi fa affari con loro. Attenti voi, commercianti, bottegai, artigiani, che prendete soldi in prestito a interesse, o affidate i vostri risparmi all’ebreo che abita giù vicino al fiume. Nessun Cristiano offrirebbe gli stessi servigi, perché l’usura è condannata dalla Chiesa, dal Papa: è un grave peccato.»
Coloro che erano stati nominati impallidirono, immaginandosi già su un patibolo a fianco di Giosuè. Ognuno di loro si era infatti prima o poi rivolto all’ebreo. Un piccolo prestito, necessario a iniziare un’attività, o a dare una spinta innovativa alla stessa, valeva infatti la pena di essere restituito con interessi. E puntualmente i guadagni venivano reinvestiti nel banco di Giosuè, che garantiva sempre una rendita, grande o piccola che fosse. Da quando poi erano stati aperti i traffici con il Nuovo Mondo, anche molti commercianti Jesini avevano cavalcato l’onda e approfittato di lucrosi scambi. La maggior parte della mercanzia proveniente dalle Indie Occidentali raggiungeva il porto di Barcellona, in Spagna. I commercianti più accorti si sobbarcavano le spese di un viaggio ogni tanto fin là per acquistare, grazie a favorevoli aste, merce che sarebbe stata rivenduta a cinque volte il prezzo a cui l’avevano acquistata, nelle loro botteghe, ma soprattutto nelle fiere e nei mercati. Lo stesso Franciolini aveva affrontato più di una volta il lungo viaggio fino a Barcellona, ed era ritornato con i carri stracolmi di merce. Certo, se il primo viaggio non fosse stato finanziato dall’ebreo, non avrebbe avuto modo di arricchirsi come era avvenuto. Aveva restituito i soldi a Giosuè con i dovuti interessi e aveva reinvestito i guadagni, in parte in nuovi viaggi, in parte in certificati di credito acquistati dall’ebreo stesso. E molti altri in città avevano fatto così. Mai come negli ultimi venti anni, sia il mercato settimanale, sia le varie fiere, a Jesi, erano state così ricche di merci pregiate in esposizione. Ogni sabato la Piazza principale, detta proprio Piazza del Mercato fin da tempi remoti, si riempiva di bancarelle, e i forti odori delle spezie aleggiavano nell’aria già dalle prime ore del mattino. La fiera di San Settimio, in onore del Santo Patrono della città, iniziava il 22 Settembre e si prolungava fino alla metà di Ottobre. I venditori non se ne andavano finché la stagione non volgeva al brutto e iniziavano le piogge autunnali. Le bancarelle occupavano non solo la Piazza del Mercato, ma si estendevano lungo tutta Via delle Botteghe, mentre la Piazza del Panno e la Piazza delle Scarpe prendevano il nome proprio dalle merci che vi si potevano acquistare durante i giorni di mercato e di fiera. Oltre quella di San Settimio, si tenevano a Jesi altre fiere minori, quella di Santa Maria, alla fine di marzo, e quella di San Floriano, dal 30 Aprile all’8 Maggio.
Elena, dalla panca in seconda fila, aveva ascoltato con distrazione la lunga omelia del fratello. La sua mente vagava, si interrogava su dove fosse la sua nipote Lucia, anche se lo poteva immaginare, e fin dove si volesse spingere Artemio nelle sue manie di potere. In certi casi poteva essere davvero pericoloso, e non si sarebbe fatto scrupoli se a farne le spese fossero stati anche membri della sua famiglia. Tre giorni prima aveva visto entrare in casa il Duca di Montacuto e il Granduca di Urbino, e la cosa non le era piaciuta affatto. Senza essere una veggente, aveva potuto capire benissimo quali fossero gli accordi che sarebbero stati presi. Era scesa nelle cucine, da dove, per uno strano effetto acustico dovuto a una canna fumaria in comune con quella che passava nello studio del fratello, si potevano ascoltare le parole che venivano pronunciate nella stanza sovrastante. E aveva ricevuto l’esatta conferma dei suoi sospetti. “Come promesso, intercederò presso il Santo Padre affinché a Voi, Granduca Della Rovere, vengano restituite terre e titolo. Potrete ritirarvi a Urbino ed essere rispettato per sempre dai vostri sudditi. Per quanto riguarda Ancona, caro Duca, entro un mese farò versare nelle casse della vostra città diecimila fiorini d’oro, che serviranno ad ampliare e fortificare il porto, ma dovrà essere garantito lo scalo commerciale ai mercanti della città di Jesi. E ora, ritirate i vostri eserciti.”
Come al risveglio da un sogno, la voce del fratello, da quella ascoltata qualche giorno prima distorta da un tubo, ritornò a giungere reale alle sue orecchie.
«Chi di voi sa, parli! Chi conosce i traditori, li accusi, e vi garantisco che la giustizia farà il suo corso! Nei prossimi giorni, il Tribunale da me presieduto sarà sempre aperto e, per l’occasione, sarà al mio fianco anche un giudice civile, l’unico rimasto in vita, il nobile Dagoberto Uberti. Saremo pronti ad ascoltare tutte le testimonianze e tutte le denunce! …Oremus!»
I fedeli si alzarono dalle panche e la Santa Messa andò avanti, con l’offertorio, la benedizione del pane e del vino e, quindi con il sacramento dell’Eucaristia. Solo da qualche anno, le ostie, una volta consacrate, per non essere sprecate, venivano conservate nel tabernacolo. Erano prodotte dalle monache di clausura, utilizzando un impasto ottenuto con acqua e farina modellato in piccoli pezzetti rotondeggianti. Questi venivano schiacciati con una pressa metallica, dove un valente artigiano, della scuola orafa jesina, aveva inciso, in bassorilievo, il disegno della croce che prende origine dalla H della scritta IHS. Le ostie così ottenute avevano un aspetto rotondeggiante piuttosto irregolare e riportavano il disegno in rilievo impresso loro dal “negativo” della pressa. Oltre quelle contenute nel tabernacolo, quel giorno gli officianti ne avevano consacrate numerosissime, tanta era la popolazione raccolta in chiesa, in realtà tutta la cittadinanza e il contado al completo.
I fedeli si misero in coda per ricevere l’eucaristia, disponendosi su due file parallele lungo la guida di velluto rosso. Via via che si avvicinavano all’altare, passavano di fianco ai corpi dei caduti e aggiravano la bara di Guglielmo Franciolini, chi da un lato, chi dall’altro, subito prima di giungere a ricevere la Comunione. Mentre il Cardinal Baldeschi distribuiva il sacramento ai fedeli che giungevano all’altare dal lato destro, Padre Ignazio Amici faceva la medesima cosa dall’altro lato. Per una strana coincidenza, Elena Baldeschi si era messa in fila per ricevere l’ostia da suo fratello, e subito dietro di lei c’era Elisabetta, la giovane ragazza che ancora riportava sulle braccia e sul volto i segni delle bruciature di cui aveva ritenuto responsabile la nipote di colei di cui ora vedeva la schiena, giusto un passo avanti.
«Corpus Christi.» Le parole uscirono come una cantilena dalla bocca del Cardinale, mentre poneva l’ostia sulla lingua della sorella, leggermente sospinta in avanti attraverso la bocca aperta. Elena notò una strana luce negli occhi di Artemio, che seppe come interpretare. Già sentiva le fiamme avvinghiarsi intorno al suo corpo; non c’era bisogno di leggere il pensiero del fratello per capire quali fossero le sue intenzioni. Tra le sue vittime sacrificali ci sarebbe stata anche lei, e forse persino Lucia, se avesse avuto modo di ritrovarla. Il pensiero che proprio un ministro di Dio riuscisse a essere persona così infida e malvagia, le fece rivoltare lo stomaco. Sentì risalire l’acidità dalle viscere verso la bocca, e il groppo in gola era premonitore di un conato di vomito.
«Amen!» Elena fu lesta a girarsi su se stessa, con l’ostia ancora in bocca, trovandosi faccia a faccia con la ragazza che era subito dietro di lei. Non riuscì a trattenere il conato e l’ostia fuoriuscì con forza dalle sue fauci, mentre le sue mani, d’istinto, riuscivano a recuperarla, a evitare che il corpo del Signore cadesse in terra. La cosa non sfuggì a Elisabetta, che in un lampo realizzò l’occasione di vendicarsi sulla nonna per le presunte colpe di Lucia.
«Sacrilegio!», gridò, indicando l’anziana e puntandole il dito indice contro. «È una strega! Si è tolta l’ostia di bocca per utilizzarla nelle sue nefande pratiche!»
Un brusio si sollevò tra la folla, finché qualcuno urlò anche accuse precise.
«È vero, insieme ad altre donnacce si riunisce nel campo dietro casa dell’ebreo, dove le streghe fanno i loro riti blasfemi!»
«Già, insieme all’ebreo, gettano bambini nel fuoco e poi si cibano delle loro carni!»
«E io l’ho vista volare a cavallo di una scopa!», disse un giovane, sollevando l’ilarità di molti.
«È una strega, mettiamola subito al rogo!»
«Al rogo, al rogo!»
Il Cardinale non avrebbe mai pensato che gli fosse potuta capitare un’occasione simile, servita su un piatto d’argento. Queste accuse inaspettate rendevano tutto più facile. Alzò un braccio per richiamare il popolo all’ordine e al contempo fece un cenno alle guardie che presidiavano la navata laterale destra.
«La giustizia farà il suo corso. Sia mai che una persona venga giustiziata senza essere stata sottoposta a processo e aver avuto la possibilità di difendersi dalle accuse. Guardie! Conducetela nelle segrete del Torrione di Mezzogiorno. I prossimi giorni verificheremo le accuse e, se rea, confesserà di certo anche i nomi dei suoi complici. Sia fatta la volontà del Signore!»
Mentre le guardie conducevano Elena fuori della chiesa, qualcuno le sputò addosso, altri fecero scongiuri, qualche contadino più superstizioso, che aveva dell’aglio in tasca, lo cercò per stringerlo tra le mani. Uno, che stava seguendo la funzione dal sagrato della Chiesa, ne passò alcuni spicchi alla moglie e ai due figlioletti, sussurrando loro: «Tenetelo stretto, tiene lontano il demonio, e sembra che oggi Belzebù in persona sia qui tra noi!»
Allontanata la strega e ritornata la calma tra i fedeli, la Santa Messa poté andare avanti e concludersi con le esequie dei morti. Era stata una funzione lunga, allungata ancora di più dal fatto imprevisto, e Artemio era stanco, ma nonostante ciò, già mentre era in sagrestia a spogliarsi dei paramenti, la sua mente era impegnata a studiare le migliori strategie per sfruttare la situazione. La sorella Elena sarebbe stata condannata come strega, perfetta come vittima, a dimostrare a tutti che lui non guardava in faccia a nessuno, neanche ai membri della propria famiglia, se ce ne fosse stato bisogno. Ma Elena doveva portarsi dietro qualche complice sul patibolo, perché doveva essere palese che il complotto c’era stato, e lei ne era stata l’artefice insieme ad altri nomi eccellenti. Quale occasione migliore per liberarsi dei suoi nemici e di alcune persone che erano diventate per lui scomode?
Quella sera stessa convocò nel suo studio Padre Ignazio Amici, il Capitano delle sue guardie Carlo Balistreri, e il luogotenente delle Guardie del Capitano del Popolo, Antonio Capoferri. Quest’ultimo, rimasto orfano del suo signore, era stato costretto d’autorità dal Cardinale a passare al suo servizio. Per il Capoferri un padrone valeva l’altro, per cui aveva fatto buon viso a cattivo gioco, e aveva unito la sua milizia a quella del Cardinale, attirando su di sé la gelosia del Balistreri. Pertanto i due, riuniti nella stessa stanza, si guardavano in cagnesco, ma pendevano comunque entrambi dalle labbra del porporato, per sapere quali ordini avrebbe loro impartito. Il Baldeschi indicò ai tre delle poltroncine, invitandoli a sedersi, e chiuse la porta della stanza.
«Ciò che è successo in questi giorni è di estrema gravità. Il Demonio, nelle sue più svariate sembianze, sembra essersi impadronito di questa città, ma noi lo cacceremo, vero Padre Ignazio?»
«Certo!», rispose il Domenicano, con lo sguardo esaltato di chi si sente custode di importanti verità. «Dalle mie deduzioni, sembra che qualcuno abbia invocato e fatto materializzare il demonio Baal. Egli è un re, insegna ogni genere di conoscenza, e il suo stato si trova a Oriente. Si manifesta con tre teste, una di uomo, una di rospo e una di gatto. Ha una voce roca e conosce l'arte di rendersi invisibile, che può insegnare a chi lo evoca. Ha al comando 66 legioni di diavoli. E noi abbiamo giusto contato nei giorni scorsi 66 legioni del nemico, sia pure ognuna costituita da un manipolo di uomini, invadere la città. Coincidenza? No! Ma sembra che ora abbiamo in mano chi ha invocato il demonio.»
«Assurdità, da dare in pasto a dei poveracci per giustificare un complotto in realtà molto più semplice», lo interruppe il luogotenente Capoferri. «I duchi di Ancona e di Urbino avevano bisogno di un buon bottino e lo hanno ottenuto. Sembra infatti che non gli sia interessato più di tanto mantenere l’occupazione della città e, terminato il saccheggio, si sono dileguati.»
Conoscendo la verità sulla mediazione del Cardinale con i Duchi, il Balistreri guardò il luogotenente con sufficienza, ma si astenne dal fare commenti. Lasciò che fosse il Cardinale a riprendere le fila del discorso.
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