Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке

Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке
Чезаре Павезе
Lettura moderna
В книге представлены два произведения замечательного итальянского писателя-неореалиста, поэта и переводчика Чезаре Павезе «Луна и костры» и «Прекрасное лето».
Роман «Прекрасное лето» получил главную итальянскую литературную премию «Стрега». Италия тридцатых годов, рабочая окраина Турина. На этом фоне разворачивается яркая и драматическая история любви шестнадцатилетней Джинии и художника Гвидо. Джиния стремится вырваться из тусклой реальности и живет ожиданием прекрасного лета.
Героя произведения «Луна и костры», итальянца, сделавшего карьеру в Америке, манит прошлое, потому что только там, на родине, жизнь его обретет смысл – со старыми друзьями среди залитых солнцем виноградников, ореховых рощ и холмов. Но, вернувшись, герой понимает, что все изменилось – и места, и люди, и только дым костров, тлеющих и никогда не гаснущих, временами снова разгорающихся, все тот же – из прошлого…

Cesare Pavese "La luna e i falò. La bella estate"

LA LUNA E I FALÒ

for C.
Ripeness is all.

I
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di piú che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è piú, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colli-ne quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla – la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno piú di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morí la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava piú lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.
L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendío cosí insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggí un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque piú cosí pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare piú i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lí per lí che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Meno male che quella sera voltando le spalle a Gaminella avevo di fronte la collina del Salto, oltre Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E piú in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliate da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte. Poi, tutti quegli anni fino alla leva, ch’ero stato servitore alla cascina della Mora nella grassa piana oltre Belbo, e Padrino, venduto il casotto di Gaminella, se n’era andato con le figlie a Cossano, tutti quegli anni bastava che alzassi gli occhi dai campi per vedere sotto il cielo le vigne del Salto, e anche queste digradavano verso Canelli, nel senso della ferrata, del fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.
Cosí questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccolo paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
C’è qualcosa che non mi capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che è partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace. Ma non basta. Mi piace anche Genova, mi piace sapere che il mondo è rotondo e avere un piede sulle passerelle. Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto è arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride.

II
Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese, dove piú nessuno mi conosceva, tanto sono grand’e grosso. Neanch’io in paese conoscevo nessuno; ai miei tempi ci si veniva di rado, si viveva sulla strada, per le rive, nelle aie. Il paese è molto in su nella valle, l’acqua del Belbo passa davanti alla chiesa mezz’ora prima di allargarsi sotto le mie colline.
Ero venuto per riposarmi un quindici giorni e càpito che è la Madonna d’agosto. Tanto meglio, il va e vieni della gente forestiera, la confusione e il baccano della piazza, avrebbero mimetizzato anche un negro. Ho sentito urlare, cantare, giocare al pallone; col buio, fuochi e mortaretti; hanno bevuto, sghignazzato, fatto la processione; tutta la notte per tre notti sulla piazza è andato il ballo, e si sentivano le macchine, le cornette, gli schianti dei fucili pneumatici. Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. I ragazzotti che correvano tra le gambe alla gente erano quelli; i fazzolettoni, le coppie di buoi, il profumo, il sudore, le calze delle donne sulle gambe scure, erano quelli. E le allegrie, le tragedie, le promesse in riva a Belbo. C’era di nuovo che una volta, coi quattro soldi del mio primo salario in mano, m’ero buttato nella festa, al tiro a segno, sull’altalena, avevamo fatto piangere le ragazzine dalle trecce, e nessuno di noialtri sapeva ancora perché uomini e donne, giovanotti impomatati e figliole superbe, si scontravano, si prendevano, si ridevano in faccia e ballavano insieme. C’era di nuovo che adesso lo sapevo, e quel tempo era passato. Me n’ero andato dalla valle quando appena cominciavo a saperlo. Nuto che c’era rimasto, Nuto il falegname del Salto, il mio complice delle prime fughe a Canelli, aveva poi per dieci anni suonato il clarino su tutte le feste, su tutti i balli della vallata. Per lui il mondo era stato una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le allegrie dei paesi.
Da un anno tutte le volte che faccio la scappata passo a trovarlo. La sua casa è a mezza costa sul Salto, dà sul libero stradone; c’è un odore di legno fresco, di fiori e di trucioli che, nei primi tempi della Mora, a me che venivo da un casotto e da un’aia sembrava un altro mondo: era l’odore della strada, dei musicanti, delle ville di Canelli dove non ero mai stato.
Adesso Nuto è sposato, un uomo fatto, lavora e dà lavoro, la sua casa è sempre quella e sotto il sole sa di gerani e di leandri, ne ha delle pentole alle finestre e davanti. Il clarino è appeso all’armadio; si cammina sui trucioli; li buttano a ceste nella riva sotto il Salto – una riva di gaggie, di felci e di sambuchi, sempre asciutta d’estate.
Nuto mi ha detto che ha dovuto decidersi – o falegname o musicante – e cosí dopo dieci anni di festa ha posato il clarino alla morte del padre. Quando gli raccontai dov’ero stato, lui disse che ne sapeva già qualcosa da gente di Genova e che in paese ormai raccontavano che prima di partire avevo trovato una pentola d’oro sotto la pila del ponte. Scherzammo. – Forse adesso, – dicevo, – salterà fuori anche mio padre.
– Tuo padre, – mi disse, – sei tu.
– In America, – dissi, – c’è di bello che sono tutti bastardi.
– Anche questa, – fece Nuto, – è una cosa da aggiustare. Perché ci dev’essere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?
– Lascia le cose come sono. Io ce l’ho fatta, anche senza nome.
– Tu ce l’hai fatta, – disse Nuto, – e piú nessuno osa parlartene; ma quelli che non ce l’hanno fatta? Non sai quanti meschini ci sono ancora su queste colline. Quando giravo con la musica, dappertutto davanti alle cucine si trovava l’idiota, il deficiente, il venturino. Figli di alcoolizzati e di serve ignoranti, che li riducono a vivere di torsi di cavolo e di croste. C’era anche chi li scherzava.
– Tu ce l’hai fatta, – disse Nuto, – perché bene o male hai trovato una casa; mangiavi poco dal Padrino, ma mangiavi. Non bisogna dire, gli altri ce la facciano, bisogna aiutarli.
A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni piú di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l’occhio alle donne. Già allora gli andavo dietro e alle volte scappavo dai beni per correre con lui nella riva o dentro il Belbo, a caccia di nidi. Lui mi diceva come fare per essere rispettato alla Mora; poi la sera veniva in cortile a vegliare con noi della cascina.
E adesso mi raccontava della sua vita di musicante. I paesi dov’era stato li avevamo intorno a noi, di giorno chiari e boscosi sotto il sole, di notte nidi di stelle nel cielo nero. Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano piú la bocca né gli occhi; via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi un’altra mangiata, poi un’altra bevuta e l’assolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino. C’erano feste, processioni, nozze; c’erano gare con le bande rivali. La mattina del secondo, del terzo giorno scendevano dal palchetto stralunati, era un piacere cacciare la faccia in un secchio d’acqua e magari buttarsi sull’erba di quei prati tra i carri, i birocci e lo stallatico dei cavalli e dei buoi. – Chi pagava? – dicevo. – I comuni, le famiglie, gli ambiziosi, tutti quanti. E a mangiare, – diceva, – erano sempre gli stessi.
Che cosa mangiavano, bisognava sentire. Mi tornavano in mente le cene di cui si raccontava alla Mora, cene d’altri paesi e d’altri tempi. Ma i piatti erano sempre gli stessi, e a sentirli mi pareva di rientrare nella cucina della Mora, di rivedere le donne grattugiare, impastare, farcire, scoperchiare e far fuoco, e mi tornava in bocca quel sapore, sentivo lo schiocco dei sarmenti rotti.
– Tu ci avevi la passione, – gli dicevo. – Perché hai smesso? Perché è morto tuo padre?
E Nuto diceva che, prima cosa, suonando se ne portano a casa pochi, e poi che tutto quello spreco e non sapere mai bene chi paga, alla fine disgusta. – Poi c’è stata la guerra, – diceva. – Magari alle ragazze prudevano ancora le gambe, ma chi le faceva piú ballare? La gente si è divertita diverso, negli anni di guerra.
– Però la musica mi piace, – continuò Nuto ripensandoci, – c’è soltanto il guaio ch’è un cattivo padrone… Diventa un vizio, bisogna smettere. Mio padre diceva ch’è meglio il vizio delle donne…
– Già, – gli dissi, – come sei stato con le donne? Una volta ti piacevano. Sul ballo ci passano tutte.
Nuto ha un modo di ridere fischiettando, anche se fa sul serio.
– Non hai fornito l’ospedale di Alessandria?
– Spero di no, – disse lui. – Per uno come te, quanti meschini.
Poi mi disse che, delle due, preferiva la musica. Mettersi in gruppo – a volte succedeva – le notti che rientravano tardi, e suonare, suonare, lui, la cornetta, e il mandolino, andando per lo stradone nel buio, lontano dalle case, lontano dalle donne e dai cani che rispondono da matti, suonare cosí. – Serenate non ne ho mai fatte, – diceva, – una ragazza, se è bella, non è la musica che cerca. Cerca la sua soddisfazione davanti alle amiche, cerca l’uomo. Non ho mai conosciuto una ragazza che capisse cos’è suonare…
Nuto s’accorse che ridevo e disse subito: – Te ne conto una. Avevo un musicante, Arboreto, che suonava il bombardino. Faceva tante serenate che di lui dicevamo: Quei due non si parlano mica, si suonano…
Questi discorsi li facevamo sullo stradone, o alla sua finestra bevendo un bicchiere, e sotto avevamo la piana del Belbo, le albere che segnavano quel filo d’acqua, e davanti la grossa collina di Gaminella, tutta vigne e macchie di rive. Da quanto tempo non bevevo di quel vino?
– Te l’ho già detto, – dissi a Nuto, – che il Cola vuol vendere?
– Soltanto la terra? – disse lui. – Stai attento che ti vende anche il letto.
– Di sacco o di piuma? – dissi tra i denti. – Sono vecchio.
– Tutte le piume diventano sacco, – disse Nuto. Poi mi fa: – Sei già andato a dare un’occhiata alla Mora?
Difatti. Non c’ero andato. Era a due passi dalla casa del Salto e non c’ero andato. Sapevo che il vecchio, le figlie, i ragazzi, i servitori, tutti erano dispersi, spariti, chi morto, chi lontano. Restava soltanto Nicoletto, quel nipote scemo che mi aveva gridato tante volte bastardo pestando i piedi, e metà della roba era venduta.
Dissi: – Un giorno ci andrò. Sono tornato.

III
Di Nuto musicante avevo avuto notizie fresche addirittura in America – quanti anni fa? – quando ancora non pensavo a tornare, quando avevo mollato la squadra ferrovieri e di stazione in stazione ero arrivato in California e vedendo quelle lunghe colline sotto il sole avevo detto: «Sono a casa». Anche l’America finiva nel mare, e stavolta era inutile imbarcarmi ancora, cosí m’ero fermato tra i pini e le vigne. «A vedermi la zappa in mano», dicevo, «quelli di casa riderebbero». Ma non si zappa in California. Sembra di fare i giardinieri, piuttosto. Ci trovai dei piemontesi e mi seccai: non valeva la pena aver traversato tanto mondo, per vedere della gente come me, che per giunta mi guardava di traverso. Piantai le campagne e feci il lattaio a Oakland. La sera, traverso il mare della baia, si vedevano i lampioni di San Francisco. Ci andai, feci un mese di fame e, quando uscii di prigione, ero al punto che invidiavo i cinesi. Adesso mi chiedevo se valeva la pena di traversare il mondo per vedere chiunque. Ritornai sulle colline.
Ci vivevo da un pezzo e m’ero fatto una ragazza che non mi piaceva piú da quando lavorava con me nel locale sulla strada del Cerrito. A forza di venire a prendermi sull’uscio, s’era fatta assumere come cassiera, e adesso tutto il giorno mi guardava attraverso il banco, mentre friggevo il lardo e riempivo bicchieri. La sera uscivo fuori e lei mi raggiungeva correndo sull’asfalto coi tacchetti, mi prendeva a braccio e voleva che fermassimo una macchina per scendere al mare, per andare al cinema.
Appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l’erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle. Non voleva saperne. Strillava come fanno le donne, chiedeva di entrare in un altro locale. Per lasciarsi toccare – avevamo una stanza in un vicolo di Oakland – voleva essere sbronza.
Fu una di quelle notti che sentii raccontare di Nuto. Da un uomo che veniva da Bubbio. Lo capii dalla statura e dal passo, prima ancora che aprisse bocca. Portava un camion di legname e, mentre fuori gli facevano il pieno della benzina, lui mi chiese una birra.
– Sarebbe meglio una bottiglia, – dissi in dialetto, a labbra strette.
Gli risero gli occhi e mi guardò. Parlammo tutta la sera, fin che da fuori non sfiatarono il clacson. Nora, dalla cassa, tendeva l’orecchio, si agitava, ma Nora non era mai stata nell’Alessandrino e non capiva. Versai perfino al mio amico una tazza di whisky proibito. Mi raccontò che lui a casa aveva fatto il conducente, i paesi dove aveva girato, perché era venuto in America. – Ma se sapevo che si beve questa roba… Mica da dire, riscalda, ma un vino da pasto non c’è…
– Non c’è niente, – gli dissi, – è come la luna.
Nora, irritata, si aggiustava i capelli. Si girò sulla sedia e aprí la radio sui ballabili. Il mio amico strinse le spalle, si chinò e mi disse sul banco facendo cenno all’indietro con la mano: – A te queste donne ti piacciono?
Passai lo straccio sul banco. – Colpa nostra, – dissi. – Questo paese è casa loro.
Lui stette zitto ascoltando la radio. Io sentivo sotto la musica, uguale, la voce dei rospi. Nora, impettita, gli guardava la schiena con disprezzo.
– È come questa musichetta, – disse lui. – C’è confronto? Non sanno mica suonare…
E mi raccontò della gara di Nizza l’anno prima, quando erano venute le bande di tutti i paesi, da Cortemilia, da San Marzano, da Canelli, da Neive, e avevano suonato suonato, la gente non si muoveva piú, s’era dovuta rimandare la corsa dei cavalli, anche il parroco ascoltava i ballabili, bevevano soltanto per farcela, a mezzanotte suonavano ancora, e aveva vinto il Tiberio, la banda di Neive. Ma c’era stata discussione, fughe, bottiglie in testa, e secondo lui meritava il premio quel Nuto del Salto…
– Nuto? ma lo conosco.
E allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa faceva. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone avevano suonato senza smettere fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano cosí bene che dalle case le donne saltavano giú dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo. Nuto, in mezzo, portava tutti col clarino.
Nora gridò che facessi smettere il clacson. Versai un’altra tazza al mio amico e gli chiesi quando tornava a Bubbio.
– Anche domani, – disse lui, – se potessi.
Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto. Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli. Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa. Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura. Le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi. Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?
Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo. Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di esser padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura? Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: «Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere». Era questo che faceva paura. Neanche tra loro non si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lí si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto. E avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. Veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.
Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quella dei grilli. Mi scappò da ridere, all’idea se avesse saputo quel che pensavo. Ma queste cose non si dicono a nessuno, non serve. Un bel mattino non mi avrebbe piú visto, ecco tutto. Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.

IV
Nemmeno per la Madonna d’agosto Nuto ha voluto imboccare il clarino – dice che è come nel fumare, quando si smette bisogna smettere davvero. Di sera veniva all’Angelo e stavamo a prendere il fresco sul poggiolo della mia stanza. Il poggiolo dà sulla piazza e la piazza era un finimondo, ma noi guardavamo di là dai tetti le vigne bianche sotto la luna.
Nuto che di tutto vuol darsi ragione mi parlava di che cos’è questo mondo, voleva sapere da me quel che si fa e quel che si dice, ascoltava col mento poggiato sulla ringhiera.
– Se sapevo suonare come te, non andavo in America, – dissi. – Sai com’è a quell’età. Basta vedere una ragazza, prendersi a pugni con uno, tornare a casa sotto il mattino. Uno vuol fare, esser qualcosa, decidersi. Non ti rassegni a far la vita di prima. Andando sembra piú facile. Si sentono tanti discorsi. A quell’età una piazza come questa sembra il mondo. Uno crede che il mondo sia cosí…
Nuto taceva e guardava i tetti.
– …Chi sa quanti dei ragazzi qui sotto, – dissi, – vorrebbero prendere la strada di Canelli…
– Ma non la prendono, – disse Nuto. – Tu invece l’hai presa. Perché?
Si sanno queste cose? Perché alla Mora mi dicevano anguilla? Perché un mattino sul ponte di Canelli avevo visto un’automobile investire quel bue? Perché non sapevo suonare neanche la chitarra?
Dissi: – Alla Mora stavo troppo bene. Credevo che tutto il mondo fosse come la Mora.
– No, – disse Nuto, – qui stanno male ma nessuno va via. È perché c’è un destino. Tu a Genova, in America, va’ a sapere, dovevi far qualcosa, capire qualcosa che ti sarebbe toccato.
– Proprio a me? Ma non c’era bisogno di andare fin là.
– Magari è qualcosa di bello, – disse Nuto, – non hai fatto i soldi? Magari non te ne sei neanche accorto. Ma a tutti succede qualcosa.
Parlava a testa bassa, la voce usciva storta contro la ringhiera. Fece scorrere i denti sulla ringhiera. Sembrava che giocasse. A un tratto alzò la testa. – Un giorno o l’altro ti racconto delle cose di qui, – disse. – A tutti qualcosa tocca. Vedi dei ragazzi, della gente che non è niente, non fanno nessun male, ma viene il giorno che anche loro…
Sentivo che faceva fatica. Trangugiò la saliva. Da quando ci eravamo rivisti non mi ero ancora abituato a considerarlo diverso da quel Nuto scavezzacollo e tanto in gamba che c’insegnava a tutti quanti e sapeva sempre dir la sua. Mai che mi ricordassi che adesso l’avevo raggiunto e che avevamo la stessa esperienza. Nemmeno mi sembrava cambiato; era soltanto un po’ piú spesso, un po’ meno fantastico, quella faccia da gatto era piú tranquilla e sorniona. Aspettai che si facesse coraggio e si levasse quel peso. Ho sempre visto che la gente, a lasciarle tempo, vuota il sacco.
Ma Nuto quella sera non vuotò il sacco. Cambiò discorso.
Disse: – Sentili, come saltano e come bestemmiano. Per farli venire a pregar la madonna il parroco bisogna che li lasci sfogare. E loro per potersi sfogare bisogna che accendano i lumi alla madonna. Chi dei due frega l’altro?
– Si fregano a turno, – dissi.
– No no, – disse Nuto, – la vince il parroco. Chi è che paga l’illuminazione, i mortaretti, il priorato e la musica? E chi se la ride l’indomani della festa? Dannati, si rompono la schiena per quattro palmi di terra, e poi se li fanno mangiare.
– Non dici che la spesa piú grossa tocca alle famiglie ambiziose?
– E le famiglie ambiziose dove prendono i soldi? Fan lavorare il servitore, la donnetta, il contadino. E la terra, dove l’han presa? Perché dev’esserci chi ne ha molta e chi niente?
– Cosa sei? comunista?
Nuto mi guardò tra storto e allegro. Lasciò che la banda si sfogasse, poi sbirciandomi sempre borbottò: – Siamo troppo ignoranti in questo paese. Comunista non è chi vuole. C’era uno, lo chiamavano il Ghigna, che si dava del comunista e vendeva i peperoni in piazza. Beveva e poi gridava di notte. Questa gente fa piú male che bene. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome. Il Ghigna han fatto presto a fregarlo, piú nessuno gli comprava i peperoni. Ha dovuto andar via quest’inverno.
Gli dissi che aveva ragione ma dovevano muoversi nel ’45 quando il ferro era caldo. Allora anche il Ghigna sarebbe stato un aiuto. – Credevo tornando in Italia di trovarci qualcosa di fatto. Avevate il coltello dal manico…
– Io non avevo che una pialla e uno scalpello, – disse Nuto.
– Della miseria ne ho vista dappertutto, – dissi. – Ci sono dei paesi dove le mosche stanno meglio dei cristiani. Ma non basta per rivoltarsi. La gente ha bisogno di una spinta. Allora avevate la spinta e la forza… C’eri anche tu sulle colline?
Non gliel’avevo mai chiesto. Sapevo di diversi del paese – giovanotti venuti al mondo quando noi non avevamo vent’anni – che c’erano morti, su quelle strade, per quei boschi. Sapevo molte cose, gliele avevo chieste, ma non se lui avesse portato il fazzoletto rosso e maneggiato un fucile. Sapevo che quei boschi s’erano riempiti di gente di fuori, renitenti alla leva, scappati di città, teste calde – e Nuto non era di nessuno di questi. Ma Nuto è Nuto e sa meglio di me quel che è giusto.
– No, – disse Nuto, – se ci andavo, mi bruciavano la casa.
Nella riva del Salto Nuto aveva tenuto nascosto dentro una tana un partigiano ferito e gli portava da mangiare di notte. Me lo aveva detto sua mamma. Ci credevo. Era Nuto. Soltanto ieri per strada incontrando due ragazzi che tormentavano una lucertola gli aveva preso la lucertola. Vent’anni passano per tutti.
– Se il sor Matteo ce l’avesse fatto a noi quando andavamo nella riva, – gli avevo detto, – cos’avresti risposto? Quante nidiate hai fatto fuori a quei tempi?
– Sono gesti da ignoranti, – aveva detto. – Facevamo male tutt’e due. Lasciale vivere le bestie. Soffrono già la loro parte in inverno.
– Dico niente. Hai ragione.
– E poi, si comincia cosí, si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.

V
Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo piú che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio. È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo piú d’avere addosso. Cosí mi piace uscire dall’Angelo e tener d’occhio le campagne; quasi quasi vorrei non aver fatto la mia vita, poterla cambiare; dar ragione alle ciance di quelli che mi vedono passare e si chiedono se sono venuto a comprar l’uva o che cosa. Qui nel paese piú nessuno si ricorda di me, piú nessuno tiene conto che sono stato servitore e bastardo. Sanno che a Genova ho dei soldi. Magari c’è qualche ragazzo, servitore com’io sono stato, qualche donna che si annoia dietro le persiane chiuse, che pensa a me com’io pensavo alle collinette di Canelli, alla gente di laggiú, del mondo, che guadagna, se la gode, va lontano sul mare.
Di cascine, un po’ per scherzo un po’ sul serio, già diversi me n’hanno offerte. Io sto a sentire, con le mani dietro la schiena, non tutti sanno che me ne intendo – mi dicono dei gran raccolti di questi anni ma che adesso ci vorrebbe uno scasso, un muretto, un trapianto, e non possono farlo. – Dove sono questi raccolti? – gli dico, – questi profitti? Perché non li spendete nei beni?
– I concimi…
Io che i concimi li ho venduti all’ingrosso, taglio corto. Ma il discorso mi piace. E piú mi piace quando andiamo nei beni, quando traversiamo un’aia, visitiamo una stalla, beviamo un bicchiere.
Il giorno che tornai al casotto di Gaminella, conoscevo già il vecchio Valino. L’aveva fermato Nuto in piazza in mia presenza e gli aveva chiesto se mi conosceva. Un uomo secco e nero, con gli occhi da talpa, che mi guardò circospetto, e quando Nuto gli disse ridendo ch’ero uno che gli aveva mangiato del pane e bevuto del vino, restò lí senza decidersi, torbido. Allora gli chiesi se era lui che aveva tagliato i noccioli e se sopra la stalla c’era sempre quella spalliera di uva passera. Gli dicemmo chi ero e di dove venivo; Valino non cambiò quella faccia scura, disse soltanto che la terra della riva era magra e tutti gli anni la pioggia ne portava via un pezzo. Prima di andarsene mi guardò, guardò Nuto e gli disse: – Vieni una volta su di là. Voglio farti vedere quella tina che perde.
Poi Nuto mi aveva detto: – Tu in Gaminella non mangiavi tutti i giorni… – Non scherzava piú, adesso. – Eppure non vi toccava spartire. Adesso il casotto l’ha comprato la madama della Villa e viene a spartire i raccolti con la bilancia… Una che ha già due cascine e il negozio. Poi dicono i villani ci rubano, i villani sono gente perversa…
Da solo ero tornato su quella strada e pensavo alla vita che poteva aver fatto il Valino in tanti anni – sessanta? forse nemmeno – che lavorava da mezzadro. Da quante case era uscito, da quante terre, dopo averci dormito, mangiato, zappato col sole e col freddo, caricando i mobili su un carretto non suo, per delle strade dove non sarebbe ripassato. Sapevo ch’era vedovo, gli era morta la moglie nella cascina prima di questa e dei figli i piú vecchi erano morti in guerra – non gli restava che un ragazzo e delle donne. Che altro faceva in questo mondo?
Dalla valle del Belbo non era mai uscito. Senza volerlo mi fermai sul sentiero pensando che, se vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino. Eppure io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato, senza mai poter dire: «Questi sono i miei beni. Su questa trave invecchierò. Morirò in questa stanza».
Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi. Adesso ci avevano messo delle pietre per scalini. Il salto dal prato alla strada era come una volta – erba morta sotto il mucchio delle fascine, un cesto rotto, delle mele marce e schiacciate. Sentii il cane di sopra scorrere lungo il filo di ferro.
Quando sporsi la testa dagli scalini, il cane impazzí. Si buttò in piedi, ululava, si strozzava. Seguitai a salire, e vidi il portico, il tronco del fico, un rastrello appoggiato all’uscio – la stessa corda col nodo pendeva dal foro dell’uscio. La stessa macchia di verderame intorno alla spalliera sul muro. La stessa pianta di rosmarino sull’angolo della casa. E l’odore, l’odore della casa, della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino.
Su una ruota stesa per terra era seduto un ragazzo, in camicino e calzoni strappati, una sola bretella, e teneva una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale. Era un gioco quello? Mi guardò sotto il sole, aveva in mano una pelle di coniglio secca, e chiudeva le palpebre magre per guadagnar tempo.
Io mi fermai, lui continuava a batter gli occhi; il cane urlava e strappava il filo. Il ragazzo era scalzo, aveva una crosta sotto l’occhio, le spalle ossute e non muoveva la gamba. D’improvviso mi ricordai quante volte avevo avuto i geloni, le croste sulle ginocchia, le labbra spaccate. Mi ricordai che mettevo gli zoccoli soltanto d’inverno. Mi ricordai come la mamma Virgilia strappava la pelle ai conigli dopo averli sventrati. Mossi la mano e feci un cenno.
Sull’uscio era comparsa una donna, due donne, sottane nere, una decrepita e storta, una piú giovane e ossuta, mi guardavano. Gridai che cercavo il Valino. Non c’era, era andato su per la riva.
La meno vecchia gridò al cane e prese il filo e lo tirò, che rantolava. Il ragazzo si alzò dalla ruota – si alzò a fatica, puntando la gamba per traverso, fu in piedi e strisciò verso il cane. Era zoppo, rachitico, vidi il ginocchio non piú grosso del suo braccio, si tirava il piede dietro come un peso. Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell’aia era come vedere me stesso. Al punto che diedi un’occhiata sotto il portico, dietro il fico, alle melighe, se comparissero Angiolina e Giulia. Chi sa dov’erano? Se in qualche luogo erano vive, dovevano avere l’età di quella donna.
Calmato il cane, non mi dissero niente e mi guardavano.

VI
Allora io dissi che, se il Valino tornava, lo aspettavo. Risposero insieme che delle volte tardava.
Delle due quella che aveva legato il cane – era scalza e cotta dal sole e aveva addirittura un po’ di pelo sulla bocca – mi guardava con gli occhi scuri e circospetti del Valino. Era la cognata, quella che adesso dormiva con lui; standogli insieme era venuta a somigliargli.
Entrai nell’aia (di nuovo il cane si avventò), dissi ch’io su quell’aia c’ero stato bambino. Chiesi se il pozzo era sempre là dietro. La vecchia, seduta adesso sulla soglia, borbottò inquieta; l’altra si chinò e raccolse il rastrello caduto davanti all’uscio, poi gridò al ragazzo di guardare dalla riva se vedeva il Pa. Allora dissi che non ce n’era bisogno, passavo là sotto e mi era venuta voglia di rivedere la casa dov’ero cresciuto, ma conoscevo tutti i beni, la riva fino al noce, e potevo girarli da solo, trovarci uno.
Poi chiesi: – E cos’ha questo ragazzo? è caduto su una zappa?
Le due donne guardarono da me a lui, che si mise a ridere – rideva senza far voce e serrò subito gli occhi. Conoscevo questo gioco anch’io.
Dissi: – Cos’hai? come ti chiami?
Mi rispose la magra cognata. Disse che il medico aveva guardato la gamba di Cinto quell’anno ch’era morta Mentina, quando stavano ancora all’Orto – Mentina era in letto che esclamava e il dottore il giorno prima che morisse le aveva detto che questo qui non aveva le ossa buone per colpa di lei. Mentina gli aveva risposto che gli altri figli ch’eran morti soldati erano sani, ma che questo era nato cosí, lei lo sapeva che quel cane arrabbiato che voleva morderla le avrebbe fatto perdere anche il latte. Il dottore l’aveva strapazzata, aveva detto che non era mica il latte, ma le fascine, andare scalza nella pioggia, mangiare ceci e polenta, portar ceste. Bisognava pensarci prima, aveva detto il dottore, ma adesso non c’era piú tempo. E Mentina aveva detto che intanto gli altri erano venuti sani, e l’indomani era morta.
Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse – aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l’occhio – sembrava che ridesse, e stava invece attento.
Dissi alle donne: – Allora vado a cercare il Valino —. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: – Muoviti. Va’ a vedere anche tu.
Cosí mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell’ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l’occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lí alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell’erba, avere aspettato nelle giornate d’inverno un po’ di sereno per poterci tornare – neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto. Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti – quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.
Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n’era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall’aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo piú scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch’io come lui, non bastava che gli parlassi cosí di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosí. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l’avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l’illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.
Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi piú i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. – Ve ne ha lasciati? – chiesi. – Noi li avevamo già raccolti, – mi disse.
Dov’eravamo, dietro la vigna, c’era ancora dell’erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n’era ancora. Poi gli chiesi se c’era sempre quel nido dei fringuelli sull’albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.
Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.
Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C’era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l’uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.
Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era piú grande, c’era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d’oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste – dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne – e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C’erano delle case – palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli – che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all’albergo dell’Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d’estate, alla settimana; d’inverno, alla trottola sul ghiaccio. La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiú – allora si vedeva, non c’erano quegli alberi – tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.
Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l’occhio, seduto contro la sponda.
– Ero un ragazzo come te, – gli dissi, – e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D’inverno quando non passavano piú i cacciatori era brutto, perché non si poteva neanche andare nella riva, tant’acqua e galaverna che c’era, e una volta – adesso non ci sono piú – da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano piú da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono piú profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva…
– Nella riva l’altr’anno c’era un morto, – disse Cinto.
Mi fermai. Chiesi che morto.
– Un tedesco, – mi disse. – Che l’avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato…
– Cosí vicino alla strada? – dissi.
– No, veniva da lassú, nella riva. L’acqua l’ha portato in basso e il Pa l’ha trovato sotto il fango e le pietre…

VII
Intanto dalla riva veniva lo schianto di una roncola contro il legno, e a ogni colpo Cinto batteva le ciglia.
– È il Pa, – disse, – è qui sotto.
Io gli chiesi perché prima teneva chiusi gli occhi mentre io lo guardavo e le donne parlavano. Subito li richiuse, d’istinto, e negò di averlo fatto. Mi misi a ridere e gli dissi che facevo anch’io questo gioco quand’ero ragazzo – cosí vedevo solamente le cose che volevo e quando poi riaprivo gli occhi mi divertivo a ritrovare le cose com’erano.
Allora scoprí i denti contento e disse che facevano cosí anche i conigli.
– Quel tedesco, – dissi, – sarà stato tutto mangiato dalle formiche.
Un urlo della donna dall’aia, che chiamava Cinto, voleva Cinto, malediceva Cinto, ci fece sorridere. Si sente spesso questa voce sulle colline.
– Non si capiva piú come l’avevano ammazzato, – disse lui. – È stato sottoterra due inverni…
Quando franammo tra le foglie grasse, i rovi e la menta del fondo, il Valino alzò appena la testa. Stava troncando con la roncola sul capitozzo i rami rossi d’un salice. Come sempre, mentre fuori era agosto, quaggiú faceva freddo, quasi scuro. Qui la riva una volta portava dell’acqua, che d’estate faceva pozza.
Gli chiesi dove metteva i salici a stagionare, quest’anno ch’era cosí asciutto. Lui si chinò a far su il fastello, poi cambiò idea. Rimase a guardarmi, rincalzando col piede i rami e attaccandosi dietro i calzoni la roncola. Aveva quei calzoni e quel cappello inzaccherati, quasi celesti, che si mettono per dare il verderame.
– C’è un’uva bella quest’anno, – gli dissi, – manca solo un po’ d’acqua.
– Qualcosa manca sempre, – disse il Valino. – Aspettavo Nuto per quella tina. Non viene?
Allora gli spiegai ch’ero passato per caso da Gaminella e avevo voluto rivedere la campagna. Non la conoscevo piú, tant’era stata lavorata. La vigna era nuova di tre anni, no? E in casa – gli chiesi – anche in casa ci avevano lavorato? Quando ci stavo io, c’era il camino che non tirava piú – l’avevano poi rotto quel muro?
Il Valino mi disse che in casa stavano le donne. Loro, ci devono pensare. Guardò su per la riva in mezzo alle foglioline delle albere. Disse che la campagna era come tutte le campagne, per farla fruttare ci sarebbero volute delle braccia che non c’erano piú.
Allora parlammo della guerra e dei morti. Dei figli non disse niente. Borbottò. Quando parlai dei partigiani e dei tedeschi, alzò le spalle. Disse che allora stava all’Orto, e aveva visto bruciare la casa del Ciora. Per un anno piú nessuno aveva fatto niente in campagna, e se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa – i tedeschi a casa loro, i ragazzi sui beni – sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente – tanta gente forestiera non s’era mai vista, neanche sulle fiere di quand’era giovanotto.
Cinto stava a sentirci, a bocca aperta. Chi sa quanti, dissi, ce n’erano ancora sepolti nei boschi.
Il Valino mi guardò con la faccia scura – gli occhi torbidi, duri. – Ce n’è, – disse, – ce n’è. Basta aver tempo di cercarli —. Non mise disgusto nella voce, né pietà. Sembrava parlasse di andare a funghi, o a fascine. Si animò per un momento, poi disse: – Non hanno fruttato da vivi. Non fruttano da morti.
Ecco, pensai, Nuto gli darebbe dell’ignorante, del tapino, gli chiederebbe se il mondo dev’essere sempre com’era una volta. Nuto che aveva visto tanti paesi e sapeva le miserie di tutti qui intorno, Nuto non avrebbe mai chiesto se quella guerra era servita a qualcosa. Bisognava farla, era stato un destino cosí. Nuto l’ha molto quest’idea che una cosa che deve succedere interessa a tutti quanti, che il mondo è mal fatto e bisogna rifarlo.
Il Valino non mi disse se salivo con lui a bere un bicchiere. Raccolse il fastello dei salici e chiese a Cinto se era andato a far l’erba. Cinto, scostandosi, guardava a terra e non rispose. Allora il Valino fece un passo e con la mano libera menò un salice a frustata e Cinto saltò via e il Valino incespicò e si drizzò. Cinto, in fondo alla riva, adesso lo guardava.
Senza parlare, il vecchio s’incamminò per la costa, coi salici in braccio. Non si voltò nemmeno quando fu in cima. Mi parve d’essere un ragazzo venuto a giocare con Cinto, e che il vecchio avesse menato a lui non potendo prendersela con me. Io e Cinto ci guardammo ridendo, senza parlare.
Scendemmo la riva sotto la volta fredda degli alberi, ma bastava passare nelle pozze scoperte, al sole, per sentire l’afa e il sudore. Io studiavo la parete di tufo, quella di fronte al nostro prato, che sosteneva la vigna del Morone. Si vedevano in cima, sopra i rovi, sporgere le prime viti chiare e un bell’albero di pesco con certe foglie già rosse come quello che c’era ai miei tempi e qualche pesca cadeva allora nella riva e ci sembrava piú buona delle nostre. Queste piante di mele, di pesche, che d’estate hanno foglie rosse o gialle, mi mettono gola ancora adesso, perché la foglia sembra un frutto maturo e uno si fa sotto, felice. Per me tutte le piante dovrebbero essere a frutto; nella vigna è cosí.
Con Cinto parlavamo dei giocatori di pallone, poi di quelli di carte; e arrivammo alla strada, sotto il muretto della riva, in mezzo alle gaggie. Cinto aveva già visto un mazzo di carte in mano a uno che teneva banco in piazza, e mi disse che aveva a casa un due di picche e un re di cuori che qualcuno aveva perduto sullo stradone. Erano un po’ sporche ma buone e se avesse poi trovato anche le altre potevano servire. Io gli dissi che c’era di quelli che giocavano per vivere e si giocavano le case e le terre. Ero stato in un paese, gli dissi, dove si giocava con la pila dei marenghi d’oro sul tavolo e la pistola nel gilè. E anche da noi una volta, quand’ero ragazzo, i padroni delle cascine, quando avevano venduta l’uva o il grano, attaccavano il cavallo e partivano sul fresco, andavano a Nizza, a Acqui, coi sacchetti di marenghi e giocavano tutta la notte, giocavano i marenghi, poi i boschi, poi i prati, poi la cascina, e il mattino dopo li trovavano morti sul letto dell’osteria, sotto il quadro della Madonna e il ramulivo. Oppure partivano sul biroccino e piú nessuno ne sapeva niente. Qualcuno si giocava anche la moglie, e cosí i bambini restavano soli, li cacciavano di casa, e sono questi che si chiamano i bastardi.
– Il figlio del Maurino, – disse Cinto, – è un bastardo.
– C’è chi li raccoglie, – gli dissi, – è sempre la povera gente che raccoglie i bastardi. Si vede che il Maurino aveva bisogno di un ragazzo…
– Se glielo dicono, s’arrabbia, – disse Cinto.
– Non devi dirglielo. Che colpa hai tu se tuo padre ti dà via? Basta che hai voglia di lavorare. Ho conosciuto dei bastardi che hanno comprato delle cascine.
Eravamo sbucati dalla riva e Cinto, trottandomi avanti, s’era seduto sul muretto. Dietro le albere dall’altra parte della strada c’era il Belbo. Era qui che uscivamo a giocare, dopo che la capra ci aveva portati in giro tutto il pomeriggio per le coste e le rive. I sassolini della strada erano ancora gli stessi, e i fusti freschi delle albere avevano odore d’acqua corrente.
– Non vai a fare l’erba per i conigli? – dissi.
Cinto mi disse che ci andava. Allora m’incamminai e fino alla svolta mi sentii quegli occhi addosso dal canneto.

VIII
Al casotto di Gaminella decisi di tornare soltanto con Nuto, perché il Valino mi lasciasse entrare in casa. Ma per Nuto questa strada è fuori mano. Io invece ci passavo sovente e capitava che Cinto mi aspettava sul sentiero o sbucava dalle canne. Si appoggiava al muretto con la gamba divaricata e mi lasciava discorrere.
Ma dopo quei primi giorni, finita la festa e il torneo di pallone, l’albergo dell’Angelo si rifece tranquillo e quando, nel brusio delle mosche, prendevo il caffè alla finestra guardando la piazza vuota, mi trovai come un sindaco che guarda il paese dal balcone del municipio. Non l’avrei detto, da ragazzo. Lontano da casa si lavora per forza, si fa fortuna senza volerlo – far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare cosí, arricchito, grand’e grosso, libero. Da ragazzo non lo sapevo ancora, eppure avevo sempre l’occhio alla strada, ai passanti, alle ville di Canelli, alle colline in fondo al cielo. È un destino cosí, dice Nuto – che in confronto con me non si è mosso. Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti – di venir su come una pianta, d’invecchiare come una donna o un caprone, senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino – quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo.
Capivo che da ragazzo, anche quando facevo correre la capra, quando d’inverno rompevo con rabbia le fascine mettendoci il piede sopra, o giocavo, chiudevo gli occhi per provare se riaprendoli la collina era scomparsa – anche allora mi preparavo al mio destino, a vivere senza una casa, a sperare che di là dalle colline ci fosse un paese piú bello e piú ricco. Questa stanza dell’Angelo – allora non c’ero mai stato – mi pareva di aver sempre saputo che un signore, un uomo con le tasche piene di marenghi, un padrone di cascine, quando partiva sul biroccio per vedere il mondo, una bella mattina si trovava in una stanza cosí, si lavava le mani nel catino bianco, scriveva una lettera sul vecchio tavolo lucido, una lettera che andava in città, andava lontano, e la leggevano dei cacciatori, dei sindaci, delle signore con l’ombrellino. Ed ecco che adesso succedeva. La mattina prendevo il caffè e scrivevo delle lettere a Genova, in America, maneggiavo dei soldi, mantenevo della gente. Forse fra un mese sarei di nuovo stato in mare, a correr dietro alle mie lettere.
Il caffè lo presi un giorno col Cavaliere, sotto, davanti alla piazza scottante. Il Cavaliere era il figlio del vecchio Cavaliere, che ai miei tempi era il padrone delle terre del Castello e di diversi mulini e aveva perfino gettato una diga nel Belbo quand’io ancora dovevo nascere. Passava qualche volta sullo stradone nella carrozza a tiro doppio guidata dal servitore. Avevano una villetta in paese, con un giardino cintato e piante strane che nessuno sapeva il loro nome. Le persiane della villa erano sempre chiuse quand’io d’inverno correvo a scuola e mi fermavo davanti al cancello.
Adesso il Vecchio era morto, e il Cavaliere era un piccolo avvocato calvo che non faceva l’avvocato: le terre, i cavalli, i mulini, se li era consumati da scapolo in città; la gran famiglia del Castello era scomparsa; gli era rimasta una piccola vigna, degli abiti frusti, e girava il paese con un bastone dal pomo d’argento. Con me attaccò discorso civilmente; sapeva di dove venivo; mi chiese se ero stato anche in Francia, e beveva il caffè scostando il mignolo e piegandosi avanti.
Si soffermava tutti i giorni davanti all’albergo e discorreva con gli altri avventori. Sapeva molte cose, piú cose dei giovani, del dottore e di me, ma erano cose che non quadravano con la vita che faceva adesso – bastava lasciarlo dire e si capiva che il Vecchio era morto a tempo. Mi venne in mente ch’era un po’ come quel giardino della villa, pieno di palme, di canne esotiche, di fiori con l’etichetta. A modo suo anche il Cavaliere era scappato dal paese, era andato per il mondo, ma non aveva avuto fortuna. I parenti l’avevano abbandonato, la moglie (una contessa di Torino) era morta, il figlio, l’unico figlio, il futuro Cavaliere, s’era ammazzato per un pasticcio di donne e di gioco prima ancora di andar militare. Eppure questo vecchio, questo tapino che dormiva in un tinello coi contadini della sua ultima vigna, era sempre cortese, sempre in ordine, sempre signore, e incontrandomi ogni volta si toglieva il cappello.
Dalla piazza si vedeva la collinetta dove aveva i suoi beni, dietro il tetto del municipio, una vigna mal tenuta, piena d’erba, e sopra, contro il cielo, un ciuffo di pini e di canne. Nel pomeriggio il gruppo di sfaccendati che prendevano il caffè, lo burlavano sovente su quei suoi mezzadri, che erano i padroni di mezzo San Grato e gli stavano in casa soltanto per la comodità di esser vicino al paese ma neanche si ricordavano di zappargli la vigna. Ma lui, convinto, rispondeva che sapevano loro, i mezzadri, di che cosa ha bisogno una vigna e che del resto c’era stato un tempo che i signori, i padroni di tenuta, lasciavano in gerbido una parte dei beni per andarci a caccia, o anche per capriccio.
Tutti ridevano all’idea che il Cavaliere andasse a caccia, e qualcuno gli disse che avrebbe fatto meglio a piantarci dei ceci.
– Ho piantato degli alberi, – disse lui con uno scatto e un calore improvvisi, e gli tremò la voce. Cosí civile com’era, non sapeva difendersi, e allora entrai anch’io a dir qualcosa, per cambiare discorso. Il discorso cambiò, ma si vede che il Vecchio non era morto del tutto, perché quel tapino mi aveva capito. Quando mi alzai mi pregò di una parola e ci allontanammo per la piazza sotto gli occhi degli altri. Mi raccontò ch’era vecchio e troppo solo, casa sua non era un luogo da riceverci nessuno, tutt’altro, ma se salivo a fargli una visita, con mio comodo, sarebbe stato ben lieto. Sapeva ch’ero stato da altri a veder terre; dunque, se avevo un momento… Di nuovo mi sbagliai: sta’ a vedere, mi dissi, che anche questo vuol vendere. Gli risposi che non ero in paese per fare affari. – No no, – disse subito, – non parlo di questo. Una semplice visita… Voglio mostrarle, se permette, quegli alberi…
Ci andai subito, per levargli il disturbo di prepararmi l’accoglienza, e per la stradetta sopra i tetti scuri, sui cortili delle case, mi raccontò che per molte ragioni non poteva vendere la vigna – perch’era l’ultima terra che portasse il suo nome, perché altrimenti sarebbe finito in casa d’altri, perché ai mezzadri conveniva cosí, perché tanto era solo…
– Lei, – mi disse, – non sa che cos’è vivere senza un pezzo di terra in questi paesi. Lei, dove ha i suoi morti?
Gli dissi che non lo sapevo. Tacque un momento, si interessò, si stupí, scosse il capo.
– Mi rendo conto, – disse piano. – È la vita.
Lui purtroppo aveva un morto recente al cimitero del paese. Da dodici anni e gli sembrava ieri. Non un morto com’è umano averne, un morto che ci si rassegna, che ci si pensa con fiducia. – Ho fatto molti stupidi errori, – mi disse, – se ne fanno nella vita. I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi. Ma una cosa non mi perdono. Quel ragazzo…
Eravamo arrivati al gomito della strada, sotto le canne. Si fermò e balbettò: – Lei sa com’è morto?
Feci cenno di sí. Parlava con le mani strette al pomo del bastone. – Ho piantato questi alberi, – disse. Dietro le canne si vedeva un pino. – Ho voluto che qui in cima alla collina la terra fosse sua, come piaceva a lui, libera e selvatica come il parco dov’è stato ragazzo…
Era un’idea. Quella macchia di canne e, dietro, i pini rossastri e l’erba sotto, rigogliosa, mi ricordavano la conca in cima alla vigna di Gaminella. Ma qui c’era di bello ch’era la punta della collina e tutto finiva nel vuoto.
– In tutte le campagne, – gli dissi, – ci vorrebbe un pezzo di terra cosí, lasciato incolto… Ma la vigna lavorarla, – dissi.
Ai nostri piedi si vedevano quei quattro filari disgraziati. Il Cavaliere fece una smorfia spiritosa e scosse il capo. – Sono vecchio, – disse. – Villani.

IX
Adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel piacere. Ma sapevo che avrebbe dovuto sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia pagarla ai mezzadri. Gli dissi ch’era tardi, ch’ero atteso in paese, che a quell’ora non prendevo mai niente. Lo lasciai nel suo bosco, sotto i pini.
Ripensai a questa storia le volte che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte. Qui ci avevo giocato anch’io con Angiolina e Giulia, e fatto l’erba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte, perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani. Di qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto, sulle colline piú lontane oltre Canelli, c’erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie – sempre gli stessi – che somigliavano a quello del Cavaliere. Da ragazzo fin lassú non c’ero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassú, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sperdute. Che cosa poteva esserci? Lassú tra incolto e bruciato dal sole.
– Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa.
– Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.
Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando.
– Chi sa perché mai, – dissi, – si fanno questi fuochi.
Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, – dissi, – i vecchi dicevano che fa piovere… Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno… Dappertutto accendono il falò.
– Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto. – Le ingrassa.
Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.
– Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai coltivi? – dissi. – L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi…
– Non si può mica bruciare la vigna, – disse lui ridendo.
– Sí, ma invece il letame lo metti nel buono…
Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su, diceva, come avrebbe detto suo padre: – Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva. Non mi lasciava mai capire se con me si fermava per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e cosí non vedrà la città. Se almeno gli mettessi la voglia.
– Questa sirena dei bastimenti, – lui mi disse, quel giorno che ne parlavo, – è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra?
– Si sentiva?
– Altroché. Dicono ch’era piú forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani…
– Ma se ti portavano ancora in braccio…
– Giuro che mi ricordo.
Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, – mi disse. – Fai male. Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato…
– Che almeno sappia quel che perde.
– Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio, che cosa gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la domenica, sugli scalini della chiesa c’è sempre uno che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per i ricchi, col nome d’ottone…
– Piú lo svegli, – dissi, – piú capisce le cose.
– Ma è inutile mandarlo in America. L’America è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.
Io dissi che Cinto avrebbe dovuto imparare un mestiere e per impararlo doveva uscire dalle grinfie del padre. – Sarebbe meglio fosse nato bastardo, – dissi. – Doversene andare e cavarsela. Finché non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre.
– Ce n’è delle cose da cambiare, – disse Nuto.
Allora gli dissi che Cinto era sveglio e che per lui ci sarebbe voluta una cascina come la Mora era stata per noi. – La Mora era come il mondo, – dissi. – Era un’America, un porto di mare. Chi andava chi veniva, si lavorava e si parlava… Adesso Cinto è un bambino, ma poi cresce. Ci saranno le ragazze… Vuoi mettere quel che vuol dire conoscere delle donne sveglie? Delle ragazze come Irene e Silvia?…
Nuto non disse niente. M’ero già accorto che della Mora non parlava volentieri. Con tanto che mi aveva raccontato degli anni di musicante, il discorso piú vecchio, di quando eravamo ragazzi, lo lasciava cadere. O magari lo cambiava a suo modo, attaccando a discutere. Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. – Fanno bene sicuro, – saltò. – Svegliano la terra.
– Ma, Nuto, – dissi, – non ci crede neanche Cinto.
Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto piú succoso, piú vivace.
– Questa è nuova, – dissi. – Allora credi anche nella luna?
– La luna, – disse Nuto, – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.
Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le piú grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nient’altro ma la terra la conosceva.
Discutemmo come cani arrabbiati un bel po’, ma lo chiamarono in segheria e io discesi sullo stradone ridendo. Ebbi una mezza tentazione di passare dalla Mora, ma poi faceva caldo. Guardando verso Canelli (era una giornata colorita, serena), prendevo in un’occhiata sola la piana del Belbo, Gaminella di fronte, il Salto di fianco, e la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina. Tante vigne, tante rive, tante coste bruciate, quasi bianche, mi misero voglia di essere ancora in quella vigna della Mora, sotto la vendemmia, e veder arrivare le figlie del sor Matteo col cestino. La Mora era dietro quegli alberi verso Canelli, sotto la costa del Nido.
Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di piú bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello – ogni vigna la sua macchia – e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. Le donne, – pensai, – hanno addosso qualcosa di simile.
Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova – ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sí, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo piú di saperla.

X
Se mi mettevo a pensare a queste cose non la finivo piú, perché mi tornavano in mente tanti fatti, tante voglie, tanti smacchi passati, e le volte che avevo creduto di essermi fatta una sponda, di avere degli amici e una casa, di potere addirittura metter su nome e piantare un giardino. L’avevo creduto, e mi ero anche detto «Se riesco a fare questi quattro soldi, mi sposo una donna e la spedisco col figlio in paese. Voglio che crescano laggiú come me». Invece il figlio non l’avevo, la moglie non parliamone – che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnío di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.
Il fatto è che Cinto – come me da ragazzo – queste cose non le sapeva, e nessuno nel paese le sapeva, se non forse qualcuno che se n’era andato. Se volevo capirmi con lui, capirmi con chiunque in paese, dovevo parlargli del mondo di fuori, dir la mia. O meglio ancora non parlarne: fare come se niente fosse e portarmi l’America, Genova, i soldi, scritti in faccia e chiusi in tasca. Queste cose piacevano – salvo a Nuto, si capisce, che cercava lui di capir me.
Vedevo gente dentro l’Angelo, sul mercato, nei cortili. Qualcuno veniva a cercarmi, mi chiamavano di nuovo «quello del Mora». Volevano sapere che affari facevo, se compravo l’Angelo, se compravo la corriera. In piazza mi presentarono al parroco, che parlò di una cappelletta in rovina; al segretario comunale, che mi prese in disparte e mi disse che in municipio doveva esserci ancora la mia pratica, se volevamo far ricerche. Gli risposi ch’ero già stato in Alessandria, all’ospedale. Il meno invadente era sempre il Cavaliere, che sapeva tutto sull’antica ubicazione del paese e sulle malefatte del passato podestà.
Sullo stradone e nelle cascine ci stavo meglio, ma neanche qui non mi credevano. Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto? Vedere dei carri, vedere dei fienili, vedere una bigoncia, una griglia, un fiore di cicoria, un fazzoletto a quadrettoni blu, una zucca da bere, un manico di zappa? Anche le facce mi piacevano cosí, come le avevo sempre viste: vecchie dalle rughe, buoi guardinghi, ragazze a fiorami, tetti a colombaia. Per me, delle stagioni eran passate, non degli anni. Piú le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta – delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo – piú mi facevano piacere. E cosí le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sull’aia.
Qui Nuto diceva che avevo torto, che dovevo ribellarmi che su quelle colline si facesse ancora una vita bestiale, inumana, che la guerra non fosse servita a niente, che tutto fosse come prima, salvo i morti.
Parlammo anche del Valino e della cognata. Che il Valino adesso dormisse con la cognata era il meno – che cosa poteva fare? – ma in quella casa succedevano cose nere: Nuto mi disse che dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto – non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo.
Avevo saputo anche la fine di Padrino e dei suoi. Me l’aveva raccontata la nuora del Cola, quel tale che voleva vendermi la casa. A Cossano, dov’erano andati a finire coi quattro soldi del casotto, Padrino era morto vecchio vecchissimo – pochi anni fa – su una strada, dove i mariti delle figlie l’avevano buttato. La minore s’era sposata ragazza; l’altra, Angiolina, un anno dopo – con due fratelli che stavano alla Madonna della Rovere, in una cascina dietro ai boschi. Lassú erano vissute col vecchio e coi figli; facevano l’uva e la polenta, nient’altro; il pane scendevano a cuocerlo una volta al mese, tant’erano fuorimano. I due uomini lavoravano forte, sfiancavano i buoi e le donne; la piú giovane era morta in un campo ammazzata dal fulmine, l’altra, Angiolina, aveva fatto sette figli e poi s’era coricata con un tumore nelle costole, aveva penato e gridato tre mesi – il dottore saliva lassú una volta all’anno —, era morta senza nemmeno vedere il prete. Finite le figlie, il vecchio non aveva piú nessuno in casa che gli desse da mangiare e si era messo a girare le campagne e le fiere; il Cola l’aveva ancora intravisto, con un barbone bianco e pieno di paglie, l’anno prima della guerra. Era morto finalmente anche lui, sull’aia di una cascina, dov’era entrato a mendicare.
Cosí era inutile che andassi a Cossano a cercare le mie sorellastre, a vedere se si ricordavano ancora di me. Mi restò in mente l’Angiolina distesa a denti aperti, come sua madre quell’inverno ch’era morta.
Andai invece un mattino a Canelli, lungo la ferrata, per la strada che ai tempi della Mora avevo fatto tante volte. Passai sotto il Salto, passai sotto il Nido, vidi la Mora coi tigli che toccavano il tetto, il terrazzo delle ragazze, la vetrata, e l’ala bassa dei portici dove stavamo noialtri. Sentii voci che non conoscevo, tirai via.
A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore – quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori alle finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era piú movimento era in piazza – un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi correvano sempre.
Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città – chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo l’altr’anno c’era venuto col carro un ragazzo a vender l’uva insieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo.
M’accorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era un lavoro che facevo anch’io – di qui partiva la strada che passava per Genova e portava chi sa dove. L’avevo percorsa, cominciando da Gaminella. Se mi fossi ritrovato ragazzo, l’avrei percorsa un’altra volta. Ebbene, e con questo? Nuto, che non se n’era mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo. Canelli è tutto il mondo – Canelli e la valle del Belbo – e sulle colline il tempo non passa.
Tornai verso sera sullo stradone lungo la ferrata. Passai il viale, passai sotto il Nido, passai la Mora. Alla casa del Salto trovai Nuto in grembiale, che piallava e fischiettava, scuro in faccia.
– Cosa c’è?
C’era che uno, scassando un incolto, aveva trovato altri due morti sui pianori di Gaminella, due spie repubblichine, testa schiacciata e senza scarpe. Erano corsi su il dottore e il pretore col sindaco per riconoscerli, ma dopo tre anni che cosa si poteva riconoscere? Dovevan essere repubblichini perché i partigiani morivano a valle, fucilati sulle piazze e impiccati ai balconi, o li mandavano in Germania.
– Che c’è da pigliarsela? – dissi. – Si sa.
Ma Nuto rimuginava, fischiettando scuro.

XI
Diversi anni prima – qui da noi c’era già la guerra – avevo passato una notte che ogni volta che cammino lungo la ferrata mi torna in mente. Fiutavo già quello che poi successe – la guerra, l’internamento, il sequestro – e cercavo di vendere la baracca e trasferirmi nel Messico. Era il confine piú vicino e avevo visto a Fresno abbastanza messicani miserabili per sapere dove andavo. Poi l’idea mi passò perché delle mie cassette di liquori i messicani non avrebbero saputo che farsene, e venne la guerra. Mi lasciai sorprendere – ero stufo di prevedere e di correre, e ricominciare l’indomani. Mi toccò poi ricominciare a Genova l’altr’anno.
Fatto sta che lo sapevo che non sarebbe durata, e la voglia di fare, di lavorare, di espormi, mi moriva tra le mani. Quella vita e quella gente a cui ero avvezzo da dieci anni, tornava a farmi paura e irritarmi. Andavo in giro in camioncino sulle strade statali, arrivai fino al deserto, fino a Yuma, fino ai boschi di piante grasse. M’aveva preso la smania di vedere qualcos’altro che non fossero la valle di San Joaquin o le solite facce. Sapevo già che finita la guerra avrei passato il mare per forza, e la vita che facevo era brutta e provvisoria.
Poi smisi anche di fare puntate su quella strada del sud. Era un paese troppo grande, non sarei mai arrivato in nessun posto. Non ero piú quel giovanotto che con la squadra ferrovieri in otto mesi ero arrivato in California. Molti paesi vuol dire nessuno.
Quella sera mi s’impannò il camioncino in aperta campagna. Avevo calcolato di arrivare alla stazione 37 col buio e dormirci. Faceva freddo, un freddo secco e polveroso, e la campagna era vuota. Campagna è dir troppo. A perdita d’occhio una distesa grigia di sabbia spinosa e monticelli che non erano colline, e i pali della ferrata. Pasticciai intorno al motore – niente da fare, non avevo bobine di ricambio.
Allora cominciai a spaventarmi. In tutto il giorno non avevo incrociato che due macchine: andavano alla costa. Nel mio senso, nessuna. Non ero sulla strada statale, avevo voluto attraversare la contea. Mi dissi: «Aspetto. Passerà qualcuno». Nessuno passò fino all’indomani. Fortuna che avevo qualche coperta per avvolgermi. «E domani?» dicevo.
Ebbi il tempo di studiare tutti i sassi della massicciata, le traversine, i fiocchi di un cardo secco, i tronchi grassi di due cacti nella conca sotto la strada. I sassi della massicciata avevano quel colore bruciato dal treno, che hanno in tutto il mondo. Un venticello scricchiolava sulla strada, mi portava un odore di sale. Faceva freddo come d’inverno. Il sole era già sotto, la pianura spariva.
Nelle tane di quella pianura sapevo che correvano lucertole velenose e millepiedi; ci regnava il serpente. Cominciarono gli urli dei cani selvatici. Non eran loro il pericolo, ma mi fecero pensare che mi trovavo in fondo all’America, in mezzo a un deserto, lontano tre ore di macchina dalla stazione piú vicina. E veniva notte. L’unico segno di civiltà lo davano la ferrata e i fili dei pali. Almeno fosse passato il treno. Già varie volte mi ero addossato a un palo telegrafico e avevo ascoltato il ronzío della corrente come si fa da ragazzi. Quella corrente veniva dal nord e andava alla costa. Mi rimisi a studiare la carta.
I cani continuavano a urlare, in quel mare grigio ch’era la pianura – una voce che rompeva l’aria come il canto del gallo – metteva freddo e disgusto. Fortuna che m’ero portata la bottiglia del whisky. E fumavo, fumavo, per calmarmi. Quando fu buio, proprio buio, accesi il cruscotto. I fari non osavo accenderli. Almeno passasse un treno.
Mi venivano in mente tante cose che si raccontano, storie di gente che s’era messa su queste strade quando ancora le strade non c’erano, e li avevano ritrovati in una conca distesi, ossa e vestiti, nient’altro. I banditi, la sete, l’insolazione, i serpenti. Qui era facile capacitarsi che ci fosse stata un’epoca in cui la gente si ammazzava, in cui nessuno toccava terra se non per restarci. Quel filo sottile della ferrata e della strada era tutto il lavoro che ci avevano messo. Lasciare la strada, inoltrarsi nelle conche e nei cacti, sotto le stelle, era possibile?
Lo starnuto di un cane, piú vicino, e un rotolío di pietre mi fece saltare. Spensi il cruscotto; lo riaccesi quasi subito. Per passare la paura, mi ricordai che verso sera avevo superato un carretto di messicani, tirato da un mulo, carico che sporgeva, di fagotti, di balle di roba, di casseruole e di facce. Doveva essere una famiglia che andava a fare la stagione a San Bernardino o su di là. Avevo visto i piedi magri dei bambini e gli zoccoli del mulo strisciare sulla strada. Quei calzonacci bianco sporco sventolavano, il mulo sporgeva il collo, tirava. Passandoli avevo pensato che quei tapini avrebbero fatto tappa in una conca – alla stazione 37 quella sera non ci arrivavano certo.
Anche questi, pensai, dove ce l’hanno casa loro? Possibile nascere e vivere in un paese come questo? Eppure si adattavano, andavano a cercare le stagioni dove la terra ne dava, e facevano una vita che non gli lasciava pace, metà dell’anno nelle cave, metà sulle campagne. Questi non avevano avuto bisogno di passare per l’ospedale di Alessandria – il mondo era venuto a stanarli da casa con la fame, con la ferrata, con le loro rivoluzioni e i petroli, e adesso andavano e venivano rotolando, dietro al mulo. Fortunati che avevano un mulo. Ce n’era di quelli che partivano scalzi, senza nemmeno la donna.
Scesi dalla cabina del camioncino e battei i piedi sulla strada per scaldarmeli. La pianura era smorta, macchiata di ombre vaghe, e nella notte la strada si vedeva appena. Il vento scricchiolava sempre, agghiacciato, sulla sabbia, e adesso i cani tacevano; si sentivano sospiri, ombre di voci. Avevo bevuto abbastanza da non prendermela piú. Fiutavo quell’odore di erba secca e di vento salato e pensavo alle colline di Fresno.
Poi venne il treno. Cominciò che pareva un cavallo, un cavallo col carretto su dei ciottoli, e già s’intravedeva il fanale. Lí per lí avevo sperato che fosse una macchina o quel carretto dei messicani. Poi riempí tutta la pianura di baccano e faceva faville. Chi sa cosa ne dicono i serpenti e gli scorpioni, pensavo. Mi piombò addosso sulla strada, illuminandomi dai finestrini l’automobile, i cacti, una bestiola spaventata che scappò a saltelli; e filava sbatacchiando, risucchiando l’aria, schiaffeggiandomi. L’avevo tanto aspettato, ma quando il buio ricadde e la sabbia tornò a scricchiolare, mi dicevo che nemmeno in un deserto questa gente ti lasciano in pace. Se domani avessi dovuto scapparmene, nascondermi, per non farmi internare, mi sentivo già addosso la mano del poliziotto come l’urto del treno. Era questa l’America.
Ritornai nella cabina, mi feci su in una coperta e cercavo di sonnecchiare come fossi sull’angolo della strada Bellavista. Adesso rimuginavo che con tanto che i californiani erano in gamba, quei quattro messicani cenciosi facevano una cosa che nessuno di loro avrebbe saputo. Accamparsi e dormire in quel deserto – donne e bambini – in quel deserto ch’era casa loro, dove magari coi serpenti s’intendevano. Bisogna che ci vada nel Messico, dicevo, scommetto che è il paese che fa per me.
Piú avanti nella notte una grossa cagnara mi svegliò di soprassalto. Sembrava che tutta la pianura fosse un campo di battaglia, o un cortile. C’era una luce rossastra, scesi fuori intirizzito e scassato; tra le nuvole basse era spuntata una fetta di luna che pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura. Rimasi a guardarla un pezzo. Mi fece davvero spavento.

XII
Nuto non si era sbagliato. Quei due morti di Gaminella furono un guaio. Cominciarono il dottore, il cassiere, i tre o quattro giovanotti sportivi che pigliavano il vermut al bar, a parlare scandalizzati, a chiedersi quanti poveri italiani che avevano fatto il loro dovere fossero stati assassinati barbaramente dai rossi. Perché, dicevano a bassa voce in piazza, sono i rossi che sparano nella nuca senza processo. Poi passò la maestra – una donnetta con gli occhiali, ch’era sorella del segretario e padrona di vigne – e si mise a gridare ch’era disposta a andarci lei nelle rive a cercare altri morti, tutti i morti, a dissotterrare con la zappa tanti poveri ragazzi, se questo fosse bastato per far chiudere in galera, magari per far impiccare, qualche carogna comunista, quel Valerio, quel Pajetta, quel segretario di Canelli. Ci fu uno che disse: – È difficile accusare i comunisti. Qui le bande erano autonome. – Cosa importa, – disse un altro, – non ti ricordi quello zoppo dalla sciarpa, che requisiva le coperte? – E quando è bruciato il deposito… – Che autonomi, c’era di tutto… – Ti ricordi il tedesco…
– Che fossero autonomi, – strillò il figlio della madama della Villa, – non vuol dire. Tutti i partigiani erano degli assassini.
– Per me, – disse il dottore guardandoci adagio, – la colpa non è stata di questo o di quell’individuo. Era tutta una situazione di guerriglia, d’illegalità, di sangue. Probabilmente questi due hanno fatto davvero la spia… Ma, – riprese, scandendo la voce sulla discussione che ricominciava, – chi ha formato le prime bande? chi ha voluta la guerra civile? chi provocava i tedeschi e quegli altri? I comunisti. Sempre loro. Sono loro i responsabili. Sono loro gli assassini. È un onore che noi Italiani gli lasciamo volentieri…
La conclusione piacque a tutti. Allora dissi che non ero d’accordo. Mi chiesero come. In quell’anno, dissi, ero ancora in America. (Silenzio). E in America facevo l’internato. (Silenzio). In America che è in America, dissi, i giornali hanno stampato un proclama del re e di Badoglio che ordinava agli Italiani di darsi alla macchia, di fare la guerriglia, di aggredire i tedeschi e i fascisti alle spalle. (Sorrisetti). Piú nessuno se lo ricordava. Ricominciarono a discutere.
Me ne andai che la maestra gridava: – Sono tutti bastardi – e diceva: – È i nostri soldi che vogliono. La terra e i soldi come in Russia. E chi protesta farlo fuori.
Nuto venne anche lui in paese a sentire, e adombrava come un cavallo. – Possibile, – gli chiesi, – che non uno di questi ragazzi ci sia stato e possa dirlo? A Genova i partigiani hanno perfino un giornale…
– Di questi nessuno, – disse Nuto. – È tutta gente che si è messa il fazzoletto tricolore l’indomani. Qualcuno stava a Nizza, impiegato… Chi ha rischiato la pelle davvero, non ha voglia di parlarne.
I due morti non si poteva riconoscerli. Li avevano portati su una carretta nel vecchio ospedale, e diversi andarono a vederli e uscivano storcendo la bocca. – Mah, – dicevano le donne, sugli usci del vicolo, – tocca a tutti una volta. Però cosí è brutto —. Dalla bassa statura dei corpi e da una medaglietta di S. Gennaro che uno dei due aveva al collo, il pretore concluse ch’erano meridionali. Dichiarò «sconosciuti» e chiuse l’inchiesta.
Chi non chiuse ma si mise d’attorno fu il parroco. Convocò subito il sindaco, il maresciallo, un comitato di capifamiglia e le priore. Mi tenne al corrente il Cavaliere, perché lui ce l’aveva col parroco che gli aveva tolta senza neanche dirglielo la placca d’ottone dal banco. – Il banco dove s’inginocchiava mia madre, – mi disse. – Mia madre che ha fatto piú bene lei alla chiesa di dieci tangheri come costui…
Dei partigiani il Cavaliere non giudicò. – Ragazzi, – disse. – Ragazzi che si sono trovati a far la guerra… Quando penso che tanti…
Insomma il parroco tirava l’acqua al suo mulino e non aveva ancora digerita l’inaugurazione della lapide ai partigiani impiccati davanti alle Ca’ Nere, ch’era stata fatta senza di lui due anni fa da un deputato socialista venuto apposta da Asti. Nella riunione in canonica il parroco aveva sfogato il veleno. S’eran sfogati tutti quanti e s’erano messi d’accordo. Siccome non si poteva denunciare nessun ex partigiano, tanto tempo era passato, e non c’erano piú sovversivi in paese, decisero di dare almeno battaglia politica che la sentissero da Alba, di fare una bella funzione – sepoltura solenne alle due vittime, comizio e pubblico anatema contro i rossi. Riparare e pregare. Tutti mobilitati.
– Non sarò io a rallegrarmi di quei tempi, – disse il Cavaliere. – La guerra, dicono i francesi, è un sale métier. Ma questo prete sfrutta i morti, sfrutterebbe sua madre se l’avesse…
Passai da Nuto per raccontargli anche questa. Lui si grattò dietro l’orecchio, guardò a terra e masticava amaro. – Lo sapevo, – disse poi, – ha già tentato un colpo cosí con gli zingari…
– Che zingari?
Mi raccontò che nei giorni del ’45 una banda di ragazzi avevano catturato due zingari che da mesi andavano e venivano, facevano doppio gioco, segnalavano i distaccamenti partigiani. – Sai com’è, nelle bande c’era di tutto. Gente di tutt’Italia, e di fuori. Anche ignoranti. Non s’era mai vista tanta confusione. Basta, invece di portarli al comando, li prendono, li calano in un pozzo e gli fanno dire quante volte erano andati alla caserma dei militi. Poi uno dei due, che aveva una bella voce, gli dicono di cantare per salvarsi. Quello canta, seduto sul pozzo, legato, canta come un matto, ce la mette tutta. Mentre canta, un colpo di zappa per uno, li stendono… Li abbiamo dissotterrati due anni fa, e subito il prete ha fatto la predica in chiesa… Di prediche su quelli delle Ca’ Nere non ne ha mai fatte, ch’io sappia.
– Al vostro posto, – gli dissi, – andrei a chiedergli una messa per i morti impiccati. Se rifiuta, lo smerdate davanti al paese.
Nuto ghignò, senz’allegria. – È capace di accettare, – mi disse, – e di farci lo stesso il suo comizio.
E cosí la domenica si fece il funerale. Le autorità, i carabinieri, le donne velate, le Figlie di Maria. Quel diavolo fece venire anche i Battuti, in casacca gialla, uno strazio. Fiori da tutte le parti. La maestra, padrona di vigne, aveva mandato in giro le bambine a saccheggiare i giardini. Il parroco, parato a festa, con gli occhiali lucidi, fece il discorso sui gradini della chiesa. Cose grosse. Disse che i tempi erano stati diabolici, che le anime correvano pericolo. Che troppo sangue era stato sparso e troppi giovani ascoltavano ancora la parola dell’odio. Che la patria, la famiglia, la religione erano tuttora minacciate. Il rosso, il bel colore dei martiri, era diventato l’insegna dell’Anticristo, e in suo nome s’erano commessi e si commettevano tanti delitti. Bisognava pentirci anche noi, purificarci, riparare – dar sepoltura cristiana a quei due giovani ignoti, barbaramente trucidati – fatti fuori, Dio sa, senza il conforto dei sacramenti – e riparare, pregare per loro, drizzare una barriera di cuori. Disse anche una parola in latino. Farla vedere ai senza patria, ai violenti, ai senza dio. Non credessero che l’avversario fosse sconfitto. In troppi comuni d’Italia ostentava ancora la sua rossa bandiera…
A me quel discorso non dispiacque. Cosí sotto quel sole, sugli scalini della chiesa, da quanto tempo non sentivo piú la voce di un prete dir la sua. E pensare che da ragazzo quando la Virgilia ci portava a messa, credevo che la voce del prete fosse qualcosa come il tuono, come il cielo, come le stagioni – che servisse alle campagne, ai raccolti, alla salute dei vivi e dei morti. Adesso mi accorsi che i morti servivano a lui. Non bisogna invecchiare né conoscere il mondo.
Chi non apprezzò il discorso fu Nuto. Sulla piazza qualcuno dei suoi gli strizzava l’occhio, gli borbottava al volo una paroletta. E Nuto scalpitava, soffriva. Trattandosi di morti, sia pure neri, sia pure ben morti, non poteva far altro. Coi morti i preti hanno sempre ragione. Io lo sapevo, e lo sapeva anche lui.

XIII
Si riparlò di questa storia, in paese. Quel parroco era in gamba. Batté il ferro l’indomani dicendo una messa per i poveri morti, per i vivi ch’erano ancora in pericolo, per quelli che dovevano nascere. Raccomandò di non iscriversi ai partiti sovversivi, di non leggere la stampa anticristiana e oscena, di non andare a Canelli se non per affari, di non fermarsi all’osteria, e alle ragazze di allungarsi i vestiti. A sentire i discorsi che facevano adesso donnette e negozianti in paese, il sangue era corso per quelle colline come il mosto sotto i torchi. Tutti eran stati derubati e incendiati, tutte le donne ingravidate. Fin che l’ex podestà disse chiaro, sui tavolini dell’Angelo, che ai tempi di prima queste cose non succedevano. Allora saltò su il camionista – uno di Calosso, grinta dura – che gli chiese dov’era finito, ai tempi di prima, quello zolfo del Consorzio.
Tornai da Nuto e lo trovai che misurava degli assi, sempre imbronciato. La moglie in casa dava il latte al bambino. Gli gridò dalla finestra ch’era scemo a pigliarsela, che nessuno aveva mai guadagnato niente con la politica. Io per tutto lo stradone, dal paese al Salto, avevo rimuginato queste cose ma non sapevo come dirgli la mia. Adesso Nuto mi guardò, sbatté la riga e mi chiese brusco se non ne avevo abbastanza, che cosa ci trovavo in questi paesacci.
– Dovevate farla allora, – gli dissi, – non è da furbi cimentare le vespe.
Allora lui gridò dentro la finestra: – Comina, vado via —. Raccolse la giacca e mi disse: – Vuoi bere? – Mentre aspettavo raccomandò qualcosa ai garzoni sotto la tettoia; poi si volta e mi fa: – Sono stufo. Andiamocene fuori dai piedi.
Ci arrampicammo per il Salto. Da principio non si parlava, o si diceva solamente: «L’uva quest’anno è bella». Passammo tra la riva e la vigna di Nuto. Lasciammo la stradetta e prendemmo il sentiero – ripido che bisognava mettere i piedi di costa. Alla svolta di un filare incocciammo il Berta, il vecchio Berta che non usciva piú dai beni. Mi soffermai per dir qualcosa, per farmi conoscere – mai piú avrei creduto di ritrovarlo ancora vivo e cosí sdentato – ma Nuto tirò dritto; disse soltanto: – Salutiamo —. Il Berta non mi conobbe di certo.
Fin qui ero salito un tempo, dove finiva il cortile della casa dello Spirita. Ci venivamo in novembre a rubargli le nespole. Cominciai a guardarmi sotto i piedi – le vigne asciutte e gli strapiombi, il tetto rosso del Salto, il Belbo e i boschi. Anche Nuto adesso rallentava, e andavamo testardi, sostenuti.
– Il brutto, – disse Nuto, – è che siamo degli ignoranti. Il paese è tutto in mano a quel prete.
– Vuoi dire? Perché non gli rispondi?
– Vuoi rispondere in chiesa? Quest’è un paese che un discorso lo puoi soltanto fare in chiesa. Se no, non ti credono… La stampa oscena e anticristiana, lui dice. Se non leggono neanche l’almanacco.
– Bisogna uscire dal paese, – gli dissi. – Sentire le altre campane, prender aria. A Canelli è diverso. Hai sentito che l’ha detto anche lui che Canelli è l’inferno.
– Bastasse.
– Si comincia. Canelli è la strada del mondo. Dopo Canelli viene Nizza. Dopo Nizza Alessandria. Da soli non farete mai niente.
Nuto cacciò un sospiro e si fermò. Mi soffermai anch’io e guardai giú nella vallata.
– Se vuoi combinare qualcosa, – dissi, – devi tenere i contatti col mondo. Non avete dei partiti che lavorano per voi, dei deputati, della gente apposta? Parlate, trovatevi. In America fanno cosí. La forza dei partiti è fatta di tanti piccoli paesi come questo. I preti non lavorano mica isolati, hanno dietro tutta una lega di altri preti… Perché quel deputato che ha parlato alle Ca’ Nere non ci torna?…
Ci sedemmo all’ombra di quattro canne, sull’erba dura, e Nuto mi spiegò perché il deputato non tornava. Dal giorno della liberazione – quel sospirato 25 aprile – tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sí che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai – perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai piú tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra. Si capisce, in tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno – disse Nuto – della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare. E poi? com’era andata? Si era smesso di stare all’erta, si era creduto agli alleati, si era creduto ai prepotenti di prima che adesso – passata la grandine – sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi. – E siamo a questo, – disse Nuto, – che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente, – disse, – toccava a lui fare la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?

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Луна и костры. Прекрасное лето  La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке Чезаре Павезе
Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке

Чезаре Павезе

Тип: электронная книга

Жанр: Итальянский язык

Язык: на итальянском языке

Издательство: КАРО

Дата публикации: 18.10.2024

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О книге: В книге представлены два произведения замечательного итальянского писателя-неореалиста, поэта и переводчика Чезаре Павезе «Луна и костры» и «Прекрасное лето».

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