Anima Nera Anima Bianca
Patrizia Barrera
UN viaggio nel mondo antico del Blues: com'è nato, le sue origini, il suo percorso nel mondo. E poi tante storie e biografie sui suoi
protagonisti, bianchi e neri, che hanno contribuito a crearlo e a diffonderlo al grande pubblico.
Patrizia Barrera
Anima Nera Anima Bianca
Il vero volto del BLUES
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Copyright Patrizia Barrera 2021
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Prefazione
Quando si parla di cultura Americana inevitabilmente si cammina sul sangue di uno sterminio. Un eccidio di massa che è perdurato per ben tre secoli, partendo dal sud e culminando nel nord, iniziato nelle Americhe di Colombo intorno al 1500 coi Conquistadores Spagnoli e abbracciando infine tutta l’Europa.
L’America dei primi tempi era sicuramente un paese duro, spaccato a metà tra le grandi praterie, le assolate piantagioni e le città nascenti, in un clima ingrato e sconosciuto dove chi c’era avrebbe preferito non esserci, e chi c’è rimasto spesso si è perduto. I primi colonizzatori erano fuorilegge, ladri, stupratori e mercenari, abbacinati dal miraggio dell’oro che sembrava galleggiare nei fiumi dorati, e dove gli scassinatori di banche erano considerati un èlite.
Inglesi, ma anche Irlandesi, Olandesi, Spagnoli, Portoghesi, Norvegesi, Svedesi, Francesi e Italiani, che arrivavano in quella terra selvaggia con l’unico scopo di possederla. Gente della peggior specie che non si fermava davanti a niente, neanche all’omicidio. Gli Indigeni del luogo, i cosiddetti Pellerossa, sparsi per tutto il territorio in centinaia di tribù e idiomi diversi, furono sterminati, ingannati e spogliati della loro dignità, come prima era avvenuto con gli indigeni delle Americhe del sud. Condannati alla fame e spogliati di tutto, i Nativi morivano, portando nella tomba anche la loro atavica cultura. E questa aberrazione si fuse al traffico bisecolare degli schiavi Africani, colonna portante della neonata America.
La cultura Americana è nata così, in una mescolanza di sangue e di lingue che non ha paragone in nessuna parte del mondo, una eccezionalità della storia che non ha precedenti. I primi bianchi si erano ormai perduti: e se inizialmente era gentaglia che spadroneggiava su quelle terre desolate creandosi il proprio regno, quelli venuti dopo erano ex galeotti, contadini, operai e prostitute, povera gente che non sapeva dove andare per affrancarsi dalla fame e, complice il Governo Americano che li affascinava con la promessa della terra, sperava di trovare nel nuovo continente un posto in cui rifugiarsi. Fu così che popoli ed etnie completamente diversi tra loro e che in condizioni normali non si sarebbero mai sognati di frequentarsi, si trovarono a lavorare gomito a gomito per sopravvivere. E tutti, guardandosi attorno, non trovavano traccia del proprio passato, nessun appiglio a cui aggrapparsi, nessun ricordo da mantenere.
Era DAVVERO un nuovo mondo, pieno di idiomi, di fermenti, di novità e di esperienze, ma anche di emarginazione, di rabbia e di sangue che si fusero in una MUSICA bambina che racchiudeva TUTTO: il Blues.
Fu sulla matrice africana che s’innestarono le suggestioni europee: le ballads Inglesi, il folk Irlandese, i grandi compositori Italiani, il tango Argentino, la chitarra Spagnola e non ultima la magia Cubana, già pratica di mescolanze tra sacro e profano con la sua Santeria. E tutto venne a sua volta rielaborato e rimescolato al passo strascinato dei galeotti e al ritmo infernale della frusta nelle prigioni Statali, dove il Blues raggiunse vette di liricità assoluta poco prima di spegnersi. Un canto del cigno nel quale palpita tutta l’essenza della sua doppia anima: quella Nera e quella Bianca.
Questa è la sua storia, dalle origini alla sua morte, avvenuta in un’anonima stanza di una piantagione di cotone, quando Robert Johnson esalò da solo il suo ultimo respiro.
Dopo di allora l’oblio? No, certo. Perché il blues è storia. E’ la linfa vitale che scorre nelle vene del jazz, è la rabbia urlante del rock, è il ricordo sempiterno del linguaggio universale che ci accomuna tutti e dal quale dovremmo prendere esempio, per mantenere integra la nostra umanità.
E’ il battito del nostro cuore. E’ lì che si è nascosto il blues.
Patrizia Barrera, 2021
Alle radici del Blues
Le Origini
Dura la vita per uno schiavo nero a cavallo tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del nuovo secolo! Non che precedentemente fosse facile. Gli schiavi, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno sempre vissuto in condizioni disumane. Tuttavia in America la Guerra di Secessione non solo non aveva risolto il problema della schiavitù ma addirittura ne aveva creata un'altra, ancora più tremenda in quanto sommersa e istituzionalizzata. L’intera economia degli Stati del Sud si era basata per almeno due secoli sulla manovalanza degli schiavi i quali, tranne dovute eccezioni, si erano infine integrati nella realtà quotidiana costruendosi delle famiglie, e il rapporto col padrone bianco non era molto diverso da quello che OGGI l’intero universo industrializzato e fiorente stabilisce con gli extracomunitari, sottopagati e iper-sfruttati.
Finita la Guerra, immensi territori apparivano distrutti, le piantagioni bruciate e le proprietà confiscate: il Sud era in ginocchio e la povertà dilagava, tra i bianchi quanto tra i neri.
Ne va da sé che il capro espiatorio di tutta questa faccenda fossero appunto gli Afro-Americani, visti come la ragione prima della disperazione e della miseria collettiva. Benché gli stati del Nord li accogliessero benevolmente, sulla scia della politica del momento, pochissimi riuscivano ad abbandonare i luoghi natali: espatriare era una faccenda difficile, necessitavano soldi e viveri, e le famiglie abbondavano di donne e bambini che non potevano affrontare un pericoloso viaggio di intere settimane, con soli mezzi di fortuna! Accadde così che l’emigrazione interessò i pochi maschi che riuscirono a farlo, in genere padri di famiglia che speravano di sistemarsi al nord per poi chiamare presso di sé i propri cari. Un’utopia, un miraggio. Gli schiavi del sud superavano i 4 milioni di individui e il rapporto tra bianchi e neri era di un bianco ogni 50 neri: anche volendo, non ci sarebbe stato modo di sistemarli tutti. La maggioranza degli ex schiavi rimasero nelle terre poi messe all’asta dagli Stati dell’Unione e vendute al migliore offerente: vale a dire ai nordisti e a quei pochi sudisti che durante la guerra erano riusciti ad arricchirsi sulla pelle altrui. I neri, liberi e quindi abusivi a tutti gli effetti, furono tenuti come affittuari delle terre e, giacché non potevano pagarne l’affitto col denaro lo avrebbero fatto col lavoro. Ma non basta: su di loro fu caricato il pagamento del noleggio degli attrezzi agricoli, delle sementi e di tutto ciò che abbisognava per la cura delle nuove piantagioni. Debiti su a debiti che venivano saldati con l’accaparramento da parte del padrone del 70% dei frutti. Una nuova schiavitù che non aveva speranza di affrancarsi, in quanto perfettamente legalizzata: l'ex schiavo, malgrado non ancora cittadino Americano, godeva tuttavia di diritti civili pari a quelli degli altri uomini liberi e, come tutti, aveva il dovere di assumersi la responsabilità dei propri debiti. In questi casi, si sa, la Legge è sempre bianca. Ci si chiederà come sia possibile, almeno per consistenza numerica, che il nero non abbia deciso di ribellarsi, di affrancarsi da uno stato di cose che alla lunga lo avrebbe di certo annientato. La risposta risiede nella stessa natura dell’uomo di colore, capace di adattarsi e piegarsi come nessun altro, nella propria concezione della vita, nella sua ignoranza, nel forte credo religioso che lo avrebbe in seguito portato al vero riscatto e, purtroppo, alla nascita del Ku Klux Klan. Questa ignobile organizzazione nacque già nel 1865 per volere di ex ufficiali dell’esercito confederato come ”reazione e opposizione” al governo centrale, che si era completamente dimenticato delle vedove e degli orfani di guerra, concedendo però la libertà e il diritto di voto al nero, sgretolando in più le leggi segregazioniste che impedivano agli schiavi di espatriare. Fondatore fu il Generale Forrest, appellato poi Grande Mago recuperando se vogliamo l’odore di società segreta e massoneria. Gli infami individui spadroneggiavano per le piantagioni punendo i neri, colpevoli di essersi ribellati alla propria condizione ”naturale” di schiavitù. Picchetti di frontiera uccidevano senza controllo chi tentava di espatriare, e le violenze su donne e bambini ritornarono cose di tutti i giorni. Il Ku Klux Klan inoltre aveva pieno controllo sulla polizia locale, sui giudici e su una folta schiera di politici, a cui lo schiavismo faceva comodo. I pochi proprietari bianchi che osavano denunciare questo stato di cose al Governo Centrale venivano trattati alla stregua dei neri, soprattutto quando l’esercito dell’Unione abbandonò definitivamente il sud.
Bande del Ku Klux Klan metà 1800
La musica rimane per l’Afro-Americano l’unica ancora di salvezza: e lui se ne serve in duplice maniera. Da un lato la utilizza come riscatto morale, spirituale, gridandola in chiesa come l’appello di un’ anima tormentata al proprio Dio, a cui il dolore viene offerto come speranza di liberazione. Dall’altra, invece, si aggrappa al lato più oscuro dell’ anima Africana, si sposa al voodoo e alla magia nera e, utilizzando lo schema atavico del botta e risposta, diviene codice segreto di comunicazione tra gli individui. Il double talk (il doppio senso) già conosciuto al pubblico bianco nell’ambito dei MINSTRELS dove il nero diveniva parodia di se stesso, ORA assume un significato di comunicazione ad ampio raggio. Determinati vocaboli cominciarono ad acquisire significati occulti atti a favorire le riunioni collettive, informare delle condizioni di vita di chi espatriava e perfino a rivelare i luoghi in cui si nascondevano i neri ribelli. Piuttosto che di Musica si può quindi parlare di ”pratiche” musicali che tra il 1865 e il 1871 assunsero significato fondamentale per il cambiamento della società Afro-Americana.
Le primissime canzoni del nero liberato che utilizzano il double talk per esprimere la condizione sociale in cui viveva, senza timore di venire maltrattato per ciò che cantava, aveva lo stile delle vecchie ballate medioevali anglosassoni, ma con un sapore del tutto Africano. Tali canzoni ci sono arrivate già epurate del loro significato occulto, ma è possibile ancora trovarne qua e là alcune tracce: parlo di UNCLE RABBIT, oppure THE GREY GOOSE, in cui il bestiario umano veniva ”nascosto” in quello animale; ma mi riferisco soprattutto alle bellissime JOHN HENRY, BOLLWEAVILLE, STEWBALL e altre dello stesso periodo.
Abbandonato il banjo, divenuto ormai trofeo del Country, l’ex schiavo rivolge il proprio dolore e il proprio senso di solitudine alla chitarra e all’ armonica, strumenti semplici, economici e in grado di ricalcare l’abitudine Africana del botta e risposta. Ben presto quindi la ”ballata” lascia il posto ad un modo del tutto nuovo di interpretare la musica del silenzio, della disgregazione e dell’alienazione sociale. Un semplicissimo giro di DO, che poteva eseguire anche un bambino, accompagnava discretamente la vera arma della comunicazione tra ex schiavi: la voce e il suo delirio.
Molti degli Stati del Sud affermano di essere la patria del Blues. Tuttavia oggi è certo che la vera anima della musica che cambiò il mondo abbia visto i natali sul Delta del Mississippi, quelle fertili zone a ridosso dell’Arkansas e che ospitavano immani piantagioni di tabacco e cotone. Qui trovavano rifugio centinaia e centinaia di ex schiavi, che vi lavoravano 15 ore al giorno, mischiati alla feccia della popolazione bianca, quella fetta poverissima di immigrati provenienti per lo più dall’ Irlanda e che nessuno voleva assumere. All’epoca neri, zingari, Irlandesi e (ahimè) Italiani erano invisi alla civilissima società Americana, che li appellava ”straccioni, ubriaconi e rissosi ominidi di Oltreoceano”. Separati dagli altri i Cinesi, che comunque costituivano una comunità a sé, già oppressa dalla loro brutalissima Mafia. Negli Stati del Nord, se gli andava bene, tutta questa gente veniva confinata in ghetti dal nome grazioso, tipo Little Italy o China Town, o quartieri come il Bronx, dove ci si uccideva per nulla e dove prostituzione, alcool e assassinio era la semplice quotidianità. Chi voleva sperare di sopravvivere in queste realtà doveva soccombere e piegarsi ai soprusi di ogni genere, oppure auto-confinarsi negli Stati del sud, dove le immani opere di bonifica, costruzione di ferrovie, spaludamento di fiumi e piantagioni reclutavano continuamente gente. Qui la vita era un inferno: la malaria, il colera, le malattie polmonari, la sifilide mietevano vittime, la paga era irrisoria e il cibo uno schifo. L’alcool veniva fabbricato con le bucce di patate, l’ età media delle prostitute era di 12 anni e la speranza di vita non superava i 35. Tuttavia fortissimo era il senso di comunità, di aiuto reciproco tra diseredati e, per forza di cose, nulli erano gli ostacoli di natura razziale. Strimpellare due note e cantare le proprie disgrazie divenne una grande valvola di sfogo e tutti, senza eccezione alcuna, se ne servivano. In questi luoghi abbandonati da Dio la religione e la spiritualità contavano poco, e il blues di queste zone si riempie di carnalità, di depravazione, di rancore verso il potere e di speranza di ribellione. E, poiché Dio era assente, rimaneva comunque Satana. Attingendo a piene mani al proprio retaggio Africano, alla cultura animista, al rito del voodoo e di tutto il grande calderone di superstizioni, riti pagani e invocazioni agli spiriti superiori mischiati insieme, nacque una musica che era contemporaneamente un inno di ribellione e un grido di dolore. Accadde che bianco e nero non solo ”cantarono” ma ”partorirono” insieme una nuova lingua, di impatto così immediato e di tale facilità musicale che si allargò a macchia d’olio con la forza di un uragano. La fine dell’800 vede così uno sdoppiamento tra la società dei derelitti: da un lato chi abitava nelle città, frequentava la Chiesa e attingeva la propria forza di sopravvivenza dalla consapevolezza che gli uomini erano tutti uguali al cospetto di Dio; dall’altra i veri bluesman, gli emarginati tra gli emarginati, che vivevano in una realtà a parte e che Dio non solo non lo conoscevano affatto, ma neanche lo avrebbero voluto. Poiché se Dio esiste COME può non volgere gli occhi sulla sofferenza umana?
La spaccatura diviene evidente quando si affronta il contenuto delle blues songs. Accadde che la società nera "emancipata“, quella che svolgeva lavori umili ma integrati nella società bianca
(i facchini, gli scaricatori di porto, gli operai di bassa lega ma anche le donne delle pulizie, le cuoche, le balie, le serve) cominciò a servirsi del blues per narrare ad altri la propria quotidianità, un esperimento che riusciva ad inserirci la famiglia, l’amore, i fatti della propria vita e - perché no? - anche Dio. Canzoni alla portata di tutti, definite spesso Urban songs, diffuse da una folta schiera di uomini sia bianchi che neri che vivevano come zingari, viaggiavano clandestini sui treni e si sfamavano facendo lavoretti qua e là, narrando poi in musica le proprie avventure. Alla fine dell’800, quindi, si può dire che esistevano DUE tipi di blues, nettamente diverse tra loro e la cui linea di demarcazione era rappresentata dalla classe sociale di appartenenza. Da un lato un Blues popolare e decisamente ”annacquato“, pubblicizzato dalle varie organizzazioni di bianchi che ne avevano compreso il grande potere commerciale .Dall’altro il blues delle paludi, dei derelitti con la D maiuscola, che cantavano la rabbia dello schiavo nei confronti del padrone bianco e che, mischiando Satana nelle proprie canzoni, risultano invisi ai bianchi quanto ai neri. Un blues carnale e prepotente lasciato, insieme ai propri autori brutti, sporchi e cattivi, nel completo oblio fino alla sua riscoperta artistica alla fine degli anni ’50. Chiaramente di quest’ ultimo ”verace” blues non esistono registrazioni dell’epoca.
Sulle rive del Mississippi, 1870
I due blues ebbero sorti diverse: tra il 1870 e il 1890 il folk nero iniziò a diffondersi per le campagne grazie a dei teatrini improvvisati su carrozzoni ambulanti, gestiti da bianchi o da neri emancipati che si autodefinivano dottori o guaritori. Essi vendevano pozioni miracolose ( in genere erbe mischiate all’ alcool o ancora più spesso acqua e alcool) per curare ogni male i quali, per attirare più pubblico, obbligavano i propri lavoranti neri ad esibirsi in canzoni improvvisate strimpellate sulla chitarra o con l’armonica, che narravano di una semplice e fantasiosa quotidianità. Canzoni che, rivolgendosi a un pubblico eterogeneo ma che richiamava molti bianchi, era volutamente adattato ed epurato da significati oscuri. I primi artisti erano ex braccianti agricoli i quali, per mangiare, si piegavano anche alle regole dei Minstrels Show, accettando quindi di divenire parodia di se stessi. In seguito furono preferiti gli ex galeotti, i quali potevano attingere alle cosiddette Midnight Special, brani molto suggestivi nati in prigione e che erano musicalmente più articolati. In breve, a questi rurali artisti ne furono aggiunti altri: giocolieri, ballerine, maghi, che resero i carrozzoni una vera attrazione, tale da definirli Varietà neri. I primi ad organizzare un teatro stabile di questo tipo di blues furono due Italiani, i Fratelli Barrasso. Essi inaugurarono il loro locale a Memphis nel 1907,dando alla luce Il TOBA, una delle più schiaviste e famigerate Organizzazioni che si arricchirono letteralmente sulla pelle degli artisti neri, a cui veniva concesso solo di che vivere stentatamente. Un mercato in cui giravano fior di quattrini e che ben presto destò l’interesse delle prime grandi Case discografiche, le quali registrarono negli anni ’20 delle canzoni ”su misura” scritte da compositori specializzati come William Handy, il quale in breve sfornò 4 grandi successi. ST.LOUIS BLUES (1914), MEMPHIS BLUES e BEALE STREET BLUES (1917) e la famosa HARLEM BLUES (1923). Furono proprio le case discografiche ad appellare questo genere di musica nera “BLUES” (triste, malinconico), per distinguerlo dai Minstrels ancora abbastanza diffusi. Un grande giro d’affari, ma soprattutto un fortunato impatto emotivo che andava OLTRE la condizione sociale e le barriere di stampo razziale. Un pubblico gremito affollava i teatri dove si esibivano le Grandi Stelle del Blues, quelle pochissime cantanti nere che, grazie alla propria voce e alla capacità empatica di entrare direttamente nel cuore di tutti, riuscirono ad affrancarsi dalla povertà, entrando contemporaneamente nella Storia. Un successo economico e uno status sociale invidiabile raggiunti a caro prezzo: angherie inaudite e abusi sessuali di cui le stesse protagoniste non accettarono mai di parlare.
L’Anima Nera
Il blues è fango. E’ l’aria polverosa e sporca delle paludi, è il senso di abbandono e di solitudine dello schiavo nato libero; ma, soprattutto, è l’anima Africana che grida nel silenzio e che, a dispetto del padrone bianco, riporta a casa chi ha perduto la strada. A differenza di ciò che è capitato ad altre popolazioni nate e cresciute in America, come gli indios al sud e i Pellerossa a nord, il cui passato è morto con loro, l' Afro-Americano non ha mai perso la propria tradizione e la propria identità. Malgrado i secoli di schiavismo, i padri hanno continuato ad educare i propri figli alla pratica del ricordo, che in Africa è scuola di vita. E paradossalmente in tale pratica hanno goduto dell’aiuto involontario degli stessi negrieri, che hanno continuato l’importazione degli schiavi anche quando non solo in America ma in tutto il mondo lo schiavismo era stato definito illegale. Essi, nella loro cupidigia, avevano sottovalutato il fatto che lo schiavo che arrivava direttamente dall’ Africa era guerriero, cacciatore, sciamano. Catturato nel fiore degli anni, maschio o femmina che fosse, aveva già passato le fasi di iniziazione atte a forgiarlo alla durezza della vita, ed era ormai edotto in tutte le pratiche della narrazione orale, del canto liberatorio dell’anima e della fierezza nelle proprie tradizioni. Se l’importazione fosse terminata agli inizi dell’800 piuttosto che continuare illegalmente fino quasi al 1875 il nero d’America forse avrebbe in parte dimenticato l'origine Africana, in quanto già integrato nella società padronale bianca in un paese in cui d’ altra parte era nato. Invece la continua mescolanza di individui nati liberi con altri nati schiavi, in un periodo storico di fermenti che erano sotto gli occhi di tutti, ha permesso e stimolato negli Afro-Americani la ricostruzione di una identità ormai dimenticata. Generalmente si fa risalire agli inizi degli anni ’20 la ”nascita del Blues“, con le prime registrazioni di Charlie Patton e in certa misura di “Blind” Lemmon, nell’area definita ”il delta del Mississippi“. Ma il blues c’è sempre stato: è un retaggio Africano di cui non si può stabilire un' esatta data di inizio, in quanto NON è un genere musicale: furono i bianchi a definirlo tale, in un periodo in cui le prime case discografiche tentarono di appropriarsene a scopo di lucro.
In realtà il BLUES è una ”pratica collettiva di liberazione“, una ”medicina dello spirito“ e una educazione al riconoscimento della propria individualità in stretto equilibrio con l’ambiente. Esso fa parte dell’ Africa dalla notte dei tempi e aveva inizio dal primo vagito del bambino, benedetto ed educato dal Griot.
A metà strada tra sciamano e menestrello, il Griot è una figura predominante nella cultura Africana. Depositario della saggezza degli anziani, esperto delle condizioni di trance e in continuo rapporto con gli spiriti, egli utilizzava la musica per raccontare le gesta degli antichi e tramandare alle nuove generazioni il sapore del passato.
La ritmica era la sua arma principale: attraverso il suono del tamburo egli ” lanciava in alto il suo cuore“, facendolo ricadere nella terra dei sogni. Figura emblematica, il Griot accompagnava la sua arte con due strumenti musicali, la KOR A e l’HALAM .
Si tratta di una sorta di ”antenati” del banjo, a cui i Griot solevano affidare le proprie composizioni.
In Africa tuttavia la musica non era atto di Creazione bensì un MEZZO per arrivare allo spirito: cantare equivaleva a liberarsi, poiché questa vita non è che un passaggio da una dimensione all' altra, e una prova per fortificare la nostra anima..
L’abbinamento tra musica e magia verrà in seguito come evoluzione naturale di questo pensiero..
Entrambi Sciamani, il Griot e il Bluesman utilizzano la musica per guarire dalle malattie dell’ anima, ma con un’unica differenza: il contesto ambientale e socio- culturale in cui si muovevano.
In Africa la musica è rituale, partecipa ai fenomeni naturali ed è intrisa di acqua e vento. Parla alla collettività veicolandone le emozioni attraverso la tecnica del ricordo ed è spesso affidata alle cure degli uomini anziani che in essa trasferiscono tutta la saggezza accumulata negli anni. E' fonte di insegnamento per le nuove generazioni ed è anche un modo semplice e immediato per imprimere il bagaglio culturale della Tradizione negli adolescenti.
Il Bluesman, invece, sradicato dalla sua terra e privato del balsamo del ricordo, riconduce tutto alla propria interiorità, alla quale chiede disperatamente di ritrovare la strada che riporta a casa. Il Griot racconta, il Bluesman grida. Entrambi si affidano ad uno strumento musicale, che ne diviene l’inseparabile compagno e sul quale operano un vero e proprio transfert. Malgrado ciò entrambi rimangono soli… Il Griot non è un essere sociale; egli vive isolato e si accompagna agli altri unicamente quando gli viene richiesto, diffondendo la storia degli avi e la sua saggezza.
Per il resto del tempo si rifugia nella sua capanna o sale su alte colline, portando con sé la Kora o l’Halam a cui confida la propria solitudine. Ama il proprio popolo ma è asceta per scelta, al fine di elevarsi dalle passioni quotidiane e divenire un essere puro, in grado di portare agli altri aiuto e insegnamenti imparziali.
Anche il Bluesman è solo, ma per motivi diversi. La schiavitù lo ha privato della propria individualità e quindi non ha diritti. Non ricorda più le favole della sua terra e quindi disperatamente ne inventa di nuove per convincersi di essere ancora un uomo. Anche lui si accompagna quotidianamente ad uno strumento a corde, che non è quello Africano ma uno strumento legato alla terra in cui è schiavo e che lui chiama Banjo.
Non avendo ricordi da raccontare canta se stesso e il proprio quotidiano, utilizzando la musica come arma contro la solitudine e balsamo per guarire dalla rabbia e dalla frustrazione. Un tentativo inconscio di guarire l’anima e di tornare a casa. Esperimento spontaneo per il quale vengono utilizzati simbolismi ed archetipi che vengono dall’ inconscio e che pongono il Bluesman in diretto contatto con una natura Africana che egli non sa di possedere.
Come il Griot, l’Afro-Americano conia una musica sul battito del proprio cuore.
Non c’è armonia nelle sue note ma solo senso ritmico, a cui egli aggiunge un eccezionale e personalissimo strumento: la sua voce. In Africa le distanze sono enormi. Ogni uomo o donna sa utilizzare la propria voce come mezzo di comunicazione ad ampio raggio, sia che viva da solo o in collettività. Unita alla ritmica delle danze tribali la voce acquisisce potere taumaturgico, e permette di guarire le malattie del corpo quanto quelle dell’anima. I parossismi vocali permettono l’estasi, attraverso cui l’essere umano si libera dalle proprie catene e parla direttamente con gli spiriti. E' l'unico modo in cui l' individuo può chiedere il loro aiuto, nel bene quanto nel male. Come cassa di risonanza egli utilizza dei rudimentali strumenti musicali, che hanno il compito di riprodurre i suoni della natura: tamburi (il cuore umano), zufoli ( l’aria, il soffio vitale) e gli strumenti a corde, che rappresentano la spinta dell' anima verso il cielo. Condotto a forza in America, lo schiavo era messo a lavorare nei campi, dove rimaneva costantemente in compagnia di altra gente ma in pratica era solo, in quanto il suo padrone gli vietava di stringere reali rapporti con i suoi simili. Ogni attività sociale era strettamente controllata dalla frusta dei sorveglianti, che impedivano qualsiasi forma di aggregazione. Gli era stato sottratto anche il prezioso tamburo, strumento eccezionale di comunicazione per il deportato Africano. Le uniche attività concesse dal padrone bianco ai suoi schiavi erano la danza e il canto. E l'Afro-Americano le utilizza egregiamente entrambe.
Neri ai lavori forzati, 1880
Lo schiavo sbarcherà in America con il suo Spiritual, una sorta di grido accusatorio nei confronti del padrone bianco e una vera e propria richiesta di aiuto a Dio, dal quale però non viene ascoltato. Lo Spiritual d’origine è un canto di umiliazione e di sconfitta, che si tramuterà in canto di liberazione solo molto tempo dopo, quando il nero d’Africa sposerà la religione Cristiana. Lo schiavo trascinato in catene tuttavia non si arrende. Si adatta alle angherie della vita ma NON SOCCOMBE alla nuova realtà. Cerca disperatamente un nuovo codice di comunicazione che gli permetta di mantenere viva nel cuore il sapore della propria terra e di entrare in contatto con i fratelli di sventura. Ci riesce quasi subito, attraverso la creazione delle Work Songs. Si trattava di arie improvvisate basate su un botta e risposta apparentemente innocuo e tale da non destare sospetti, ma che in definitiva contenevano codici nascosti di comunicazione. Per i negrieri le Work Songs rappresentavano una valvola di sfogo atta a mantenere il ritmo di lavoro degli schiavi, e per questo non furono mai vietate. In realtà esse permisero all’ Afro-Americano di mantenere deste dentro di sé le tradizioni della propria terra e l'abitudine al ricordo. Nel tempo, egli le utilizzò per comunicare ai compagni piani di fuga o riportare notizie di confratelli altrimenti vietate: ciò alimentò una sorta di comunione spirituale tra gli individui che, a dispetto dell’opera di disgregazione messa in atto dai padroni bianchi, stimolò nello schiavo il sentimento di rivalsa e fomentò la sua speranza di tornare a casa.
Parallelamente a questi canti collettivi ci sono poi quelli solitari, chiamati Hollers. Intonati dagli schiavi che lavoravano nei campi in solitudine o da quelli tenuti isolati nelle proprie celle di fango, questi canti iniziavano con un richiamo ad effetto, molto spesso un grido o un suono acuto che fendeva l'aria e destava l’attenzione di chi ascoltava. Anch’esso retaggio dell' Africa, dove questa tecnica permetteva di ritrovarsi empaticamente anche a grande distanza e di abbattere le barriere dello spazio, l’Holler NON aveva il fine di liberarsi ma quello di ”trasferire" le proprie pene all’anima di chi ascoltava. Lo schiavo Afro-Americano lo utilizzava con una duplice valenza: colpevolizzare il padrone bianco e nel contempo commuovere e indignare il fratello nero. In seguito la mescolanza tra Spirituals, Work Songs e Holler, unitamente alle suggestioni della musica Europea, partorì ciò che viene definito comunemente Blues. Prendendo origine da codici nascosti, truci passioni e richiami costanti alla parte oscura dell' individuo, tali da negare anche l'esistenza di Dio, il Blues acquistò ben presto un significato negativo e malefico, soprattutto poi quando si legò ai rituali voodoo e alla Magia Nera.
Blues e Magia
Blues e Magia nera. Se ne parla tanto, a volte in modo inesatto, a volte ripercorrendo la strada già tracciata ai tempi in cui agli schiavi ne era vietata la pratica definita malefica, e fissata nell’immaginario collettivo grazie al libro del 1884 Haiti or the black Republic, scritto da S. St John, che descriveva il voodoo come culto oscuro e lo legava indissolubilmente al Blues. In realtà di oscuro nel blues c’è solo il ricordo della patria perduta, il famoso ”ritorno a casa” che avviene ( perché solo lì può avvenire) in una dimensione spirituale, e c’è il dolore della schiavitù che tuttavia non ha annullato nell’ Afro-Americano l’orgoglio delle proprie radici. Lo schiavo, anche nelle condizioni più disperate, non ha mai smesso di essere figlio della propria patria. Ed è riuscito a mantenere vivo il legame con essa grazie alle poche armi con cui è salito sulle navi negriere, cioè la sua musica e la sua religione. Due armi ”nude” eppure infallibili, in quanto profondamente e indissolubilmente radicate in ogni individuo.
L’Africa è un continente dagli ampi spazi che l’uomo, unicamente con le sue forze fisiche, non può percorrere da solo. Ai tempi in cui lo schiavismo moderno fu legalizzato, nel 1510, distanze enormi separavano i piccoli villaggi e ogni uomo era solo a lottare con il volere del cielo. Perfettamente integrato nel suo piccolo universo l’Africano viveva in stretta simbiosi con tutti gli elementi della natura, a cui riconosceva una specifica identità. Ogni cosa aveva un’anima, il vento, l’acqua od un semplice sasso; in questo contesto l’uomo era soltanto UNA delle tante cose che costituivano il mondo, né migliore né peggiore delle altre. La possibilità di sopravvivenza era quindi determinata dal rispetto verso ogni forma vivente e dalla eventuale comunicazione che poteva stabilirsi con essa.
L’idea di un eventuale Dio Creatore nell' Africano è sempre stata molto pallida, rispetto al credo Europeo. Egli concepiva Dio non come un Essere Supremo presente e attivo nella vita terrena bensì come un'Entità astratta e poco definibile, che vive di riflesso nelle sue creature, a cui infonde parte della sua energia. Possederne anche solo una piccola parte era dunque per l’Africano dei villaggi l'unica modalità per dominare le forze della natura e riuscire infine ad elevarsi nel mondo degli Spiriti.
L'espressione più straordinaria dell' Energia è la "vibrazione", che è facilmente percepibile in ogni creatura vivente ma anche negli agenti atmosferici, negli oggetti inanimati e in tutto ciò che i circondai. I rituali Africani, quindi, si basano sull’utilizzo della vibrazione, sulla sua riproduzione attraverso il suono, la ritmica e la parola, e l’incanalamento di essa in oggetti riproducenti nelle fattezze il destinatario della Magia, oppure una sua rappresentazione simbolica.
Lo Sciamano, attraverso la ritmica del tamburo, delle mani o delle stesse voci dei componenti della tribù che partecipavano al Rito, entrava in contatto con l’essenza delle cose per carpirne i segreti e aiutare la sua gente a sopravvivere.
Aiutato da droghe vegetali, che ne alteravano lo stato di coscienza permettendogli di attingere alla parte più profonda dell’anima (ossia al sistema limbico del cervello umano, che controlla l’aspetto emozionale dell’uomo), lo Sciamano ”prevedeva” le gli esiti della caccia, combatteva gli spiriti malvagi che portavano le malattie, e si ingraziava le forze della natura parlandone la stessa lingua.
L’utilizzo del ”feticcio” era quindi strumentale: la riproduzione materiale di ciò che era una forza astrale, che quindi fungeva da catalizzatore di energia. Il feticcio ne assorbiva la potenza, riusciva a mantenerla nel tempo e, adeguatamente trattato, conferiva il suo potere a chi lo possedeva. Un gioco di vibrazioni che non ha nulla a che fare con la cosiddetta ”Magia Nera“.
Maschera Sciamanica Costa d’Avorio, 1700
Fu solo in seguito all' importazione forzata degli schiavi in America che la religione Africana subisce profondi cambiamenti. Una tratta che durò circa quattro secoli e che iniziò per opera dei Portoghesi allo scopo di sostituire la manodopera Africana, più robusta e longeva, a quella Indigena ormai decimata dalle malattie Europee. e dal super lavoro. Le Americhe, infatti, erano ricche di immense piantagioni che richiedevano costantemente manodopera a basso prezzo, e il mercato degli schiavi Africani si rivelò ben presto per tutti un’ attività estremamente redditizia.
Ebbe origine in territori come il Togo, il Ghana, il Benin (ex Dahomey) e la Nigeria, grazie al supporto dei Re locali che si arricchivano sulla pelle dei loro stessi connazionali vendendoli ai negrieri. Primi tra tutti gli AGASOUVI, i famosi Figli della pantera, la cui capostipite, Principessa di Aligbonon, secondo la leggenda si era accoppiata con una pantera. La dinastia era profondamente radicata nel Dahomey e fungeva da governo centrale per tutti i principi e i capo villaggio della zona, imponendo le proprie leggi grazie alle forti tecniche guerriere e, non ultimo, all’ ausilio delle mitiche Amazzoni.
Re del Dahomey, fine 1800
Rara foto di Amazzone
Esse sgozzavano con ferocia qualsiasi nemico, arrivando a strapparne la carne coi denti, ed erano altresì famose perché amavano ”spolpare” i crani dei loro nemici, offrendoli poi in dono agli alti funzionari Europei i quali, chiaramente, ne erano inorriditi. E giacché tutte le compravendite si svolgevano presso il Palazzo Reale dei figli della pantera in Abomey, ecco spiegata l’origine del termine abominio.
Se a ciò aggiungiamo che il trono di Ghezo, Re di Abomey, fino al 1858 poggiava vistosamente su 4 teschi umani… capirete come fosse facile abbinare l’Africa alla magia nera e all’idea del Male!
Altrettanto ”abominevole” era il tipo di pagamento degli schiavi ai re di Dahomey. Questa volta però non sembra che i Governi Europei, tanto facili a inorridire in materia di magia nera e di sacrifici di sangue, ne provassero orrore. Lo storico e scrittore Bruce Chatwin nel suo romanzo Il vicere di Ouidha ha ricostruito gran parte del primo periodo dello schiavismo in America, in particolare quello per opera dei Portoghesi, che usavano corrispondere dei Cipridi ai Re Africani in pagamento per gli schiavi. Si tratta di una sorta di lumache di fiume che prolificano sul fondo fangoso dei fiumi, agendo come naturali spazzini e cibandosi di tutta quella poltiglia di microorganismi dannosi che rendono tossiche le acque. Una moneta preziosa, dunque, per l’Africa da sempre afflitta dal problema della sete, e che vedeva nel guscio di queste creature non solo moneta corrente ma anche talismano propiziatorio. Purtroppo questi gasteropodi sono estremamente aggressivi e…carnivori, ghiotti di tessuti molli e spugnosi tipici dei mammiferi, per cui la loro cattura in acqua risultava assai problematica. Il Mississippi tuttavia ne era pieno, per cui i negrieri escogitarono un modo molto economico per pagare gli schiavi ai Re: sceglievano uno schiavo, gli legavano mani e piedi e lo buttavano in acqua a testa in giù. In tal modo i cipridi gli si attaccavano addosso e, mentre mangiavano vivo lo sventurato partendo dagli appetitosi occhi e dalla bocca, potevano facilmente essere tratti in secca e chiusi in bolle di vetro, e infine offerti in pagamento per gli schiavi. Il prezzo naturalmente variava a seconda della richiesta, ma in generale per ogni lumaca era facile ottenere almeno 10 individui in buona salute.
Mercato degli schiavi, fine 1700
Comprenderete dunque ”la forza del ricordo“ che ha sempre gonfiato le acque del Mississippi nell’ anima dell’Afro-Americano. Il luogo dell’olocausto diviene fulcro dell’identità dello schiavo, con doppia valenza: il dolore dell’ingiustizia e il desiderio di rivalsa. Quando si dice che il Blues è nato sul delta del Mississippi non si fa riferimento al solo elemento geografico, ma al culto della memoria che la Black People ha elaborato nei secoli. Ogni vittima del sacrificio si tramuta in un Dio che ha perduto la luminosità originaria e non alberga più nei cieli. Gli Dei degli schiavi divengono oscuri e minacciosi e l’acqua, da sempre portatrice di vita, si tramuta per l' Afro-Americano in una tomba fangosa.
Papa Legba Africano
Eppure, queste povere anime trasformate in Dei sono facili da raggiungere: essendo state una volta uomini conoscono le difficoltà dell’esistenza, e possono comprenderne i bisogni. Tuttavia la loro morte dolorosa le ha private del balsamo del perdono e sono divenute ostili nei confronti dell’umanità. Il loro potere è enorme, superiore perfino a quello degli Dei della luce, in quanto non conoscono limiti e non sono ostacolate da alcun senso di Giustizia. Esse rappresentano il vero ponte tra questa dimensione e quella ultraterrena, e solo tramite il loro aiuto è possibile ottenere favori.
Così nel pantheon degli Dei Africani, in genere legati alle forze benefiche della natura, si inseriscono terribili creature, gli EXU’ della Nuova Terra, raffigurate come ominidi armati di pala (la stessa con cui gli schiavi venivano recuperati dal Mississippi dopo il sacrificio delle cipridi) e conchiglie al posto degli occhi e della bocca.
Questi Dei feroci che non avevano ancora perso la nostalgia della dimensione terrena, venivano lusingati con doni molto semplici, ma non certo alla portata degli schiavi, come alcool, galline e sigari.
Un Papa Legba della religione voodoo. Dahomey, fine 1700
Non avendo ricevuto degna sepoltura, era facile richiamarli in luoghi silenziosi legati alla morte: cimiteri chiaramente, ma anche campi di grano, vecchie mura diroccate e lì dove si erano svolte esecuzioni capitali. I Rituali invece si svolgevano nei crocicchi, a rappresentare il punto di intersezione tra la dimensione umana e quella ultraterrena.
E' ciò che diverrà iconografia classica non solo del voodoo ma anche del Blues delle origini.
Signore dei crocicchi e padre di tutti i nuovi Exù era il temuto PAPA LEGBA, una figura emblematica già presente nella tradizione Africana, ma il cui significato originario di Luce portatrice di vita viene stravolto, fino ad assumere sembianze maligne e legate alla stregoneria. Erroneamente confuso con il Lucifero Cristiano, Papa Legba divenne l’elemento scatenante della feroce repressione nei confronti dei culti Africani e della musica che li celebrava, prima tra tutte il Blues. Molte canzoni del blues originario parlano esplicitamente di pratiche magiche e di possessioni demoniache. Vi ho già espresso le condizioni di degrado in cui vivevano gli schiavi, durante ma anche dopo la guerra di secessione. Il “To have the blue devils” che ha dato origine poi al termine BLUES è un mirabile modo per esprimere una condizione dell’ anima rintracciabile in tutti i bluesman dell’ epoca.
Il colore blue nella lingua inglese indica uno stato di sofferenza, di malinconia e di profondo disagio esistenziale; ma l’associazione al termine ”devil” (diavolo) ne amplifica le suggestioni, le lega al Male, rendendo doppiamente viva l’ immagine che ne scaturisce.
Il Blues NON è canto di rassegnazione ma di rabbia. NON è solo disperazione ma ansia di reazione.. Le famose NOTE BLUES (la III, la V e la VII della scala maggiore) che vengono abbassate di un semitono rendendo l'armonia leggermente calante, creano appositamente un’ atmosfera di luci e di ombre che fanno di ogni canzone un brano ”in divenire“, un' immagine proiettata nel futuro, un' attesa in musica di ”ciò che avverrà”, un futuro possibile in cui tutto sarà diverso. La cosiddetta FINE DEL TUNNEL, per essere chiari.
Il rifugiarsi nel talismano catalizzatore di energia e nella pratica magica, motivo dominante del primo blues, non è solo retaggio della cultura Africana ma un tentativo efficace di riversare il dolore dell’anima nell’oggetto catalizzatore, che potrà concedere al cantore la forza necessaria per vivere. Essa verrà fuori direttamente dall’oscurità, dagli abissi delle acque del Mississippi e dagli Dei limacciosi che la abitano, per portare la LUCE. Pregare Il diavolo equivale quindi a servirsi di lui per ottenere giustizia, poiché alla fine della notte c’è sempre il giorno, e in ogni piega del Male si nasconde il calore del Bene.
Satanizzazione di Papa Legba
I riferimenti alla Magia, bianca o nera, del primo blues si sprecano. Dalla figura emblematica dell’HOOCHIE COOCHIE MAN di Willie Dixon, l’eremita e stregone portatore della buona quanto della cattiva sorte, ai crocicchi di Robert Johnson, alle citazioni specifiche del ”lavoro con polveri magiche” di Muddy Waters, il Blues elargisce a piene mani i significati profondi della propria cultura. A conferma di ciò vi cito solo alcune delle frasi più indicative di famosi brani musicali. Partiamo dall' intramontabile Bessie Smith. Impensabile che anche nel Blues di città si alludesse alla magia nera? Niente affatto. Ecco cosa dice Bessie in Blue spirit Blues.
The devil came and grabbed my hand
Took me way down to that red hot land…
Mean blue spirits stuck their forks in me
Demons wid their eyelids dripping blood.
Il diavolo è arrivato e mi ha preso per mano
E mi ha portato in quel luogo così rosso e caldo
Turpi spiriti blu mi infilzavano con le loro forche
Demoni sprizzavano sangue dalle palpebre.
Questo invece è Robert Johnson in Hellhound on my trail di qualche anno dopo.
I got to keep movin’,
I got to keep movin’
There’s a hellhound on my trail.
Mi devo muovere, mi devo muovere,
C’è un cane infernale sulle mie tracce.
Per non parlare del termine ”MOJO” che troviamo praticamente in TUTTE le canzoni del primo Blues. Si tratta di un sacchetto di polveri magiche costituite da varie erbe afrodisiache ma soprattutto dal famoso John the Conqueror, un tubero di bosco che concede potenza fisica a chi lo possiede. E che dire dell’altrettanto famoso "black cat bone", un osso di gatto nero offerto in sacrificio al Dio dei crocicchi che, messo sotto la lingua, conferirebbe il dono dell’ invisibilità?
Evidente Americanizzazione di Papa Legba
Furono proprio l’esplicitazione delle pratiche magiche mescolate ai riferimenti satanici e sessuali a rendere inviso il Blues ai bianchi quanto ai neri, maledetto dalle Chiese e dalle masse, a far ripiombare i primi Bluesmen nel fango delle paludi da cui erano venuti….
Il cammino del Blues
Dal Delta alle grandi etichette discografiche
Il Blues non è solo musica viscerale. E’ un riflesso dell’ anima sulla solitudine della vita, è il grido di liberazione di un popolo vessato che ha saputo riscattarsi dalla schiavitù, ma soprattutto è l’odore della Nuova Era che si leva dalle paludi del Mississippi. Erroneamente considerato musica ripetitiva, di schema minimalista e poco armoniosa. ”Fare Blues” è un’arte per pochi.
Simile all’acqua del fiume dal quale si origina, questo genere musicale, esattamente come l’acqua, prende la forma dell’ambiente circostante, adattandosi pienamente agli usi e costumi del luogo pur mantenendo intatta la sua anima originaria.
I primi musicisti Blues, i famosi BLUESMAN ”brutti sporchi e cattivi” non avevano armi per esprimersi, se non un rudimentale strumento allestito artigianalmente col materiale che riuscivano a trovare, e la propria voce; in ciò esistono delle affinità con la musica di altri disperati, i cowboys. Tuttavia le similitudini finiscono qua: se li paragoniamo tra loro, ci rendiamo subito conto che tra questi due generi musicali non c’è altro aggancio se non quello di utilizzare chitarra e voce o chitarra e armonica.
Ciò che li separa NON E’ il senso di degrado che li accompagna, NON E’ la cultura Afro od Europea e NON E’ nemmeno il colore della pelle. I Cowboys, i Ramblers e i Bluesmen sono tutte persone sole, che esprimono attraverso la musica il proprio mal vivere e la rabbia dell’alienazione. Ma, se il cowboy e il rambler appoggiano la propria malinconia agli echi del passato Europeo che risuona nelle melodie Old Time, nel Bluesman si assiste ad un fenomeno che non ha precedenti nella storia: privato anche del ricordo delle proprie tradizioni egli riesce a costruire per se stesso una identità NUOVA, che tuttavia rimane istintivamente Africana .
Nato nel Nuovo Continente, lo schiavo Africano conia una musica con riflessi ATAVICI, ANIMISTI e SCIAMANICI che tuttavia si proietta inconsapevolmente verso il futuro, utilizzando un gioco di vibrazioni e suggestioni che si legano perfettamente alle tradizioni del proprio popolo, malgrado egli non le conosca affatto. Gli ideali di uguaglianza, liberazione e indipendenza saranno poi elementi costanti del Blues, rappresentativi di un punto di svolta non solo per l' Afro-Americano ma per l' intera America.
Sulle rive del Mississippi. Schiavi liberati,1875.
E, come la storia rivela che l’Adamo della Bibbia era nero di pelle, risulta ormai chiaro che la prima grande musica dell’Era MODERNA è Africana.
Il grande fiume è fangoso; le sue acque spesso sono vortici e rapide cascate, che a tratti si mutano in burrascosi torrenti. Poi scende a valle e finalmente si ferma, rendendo limpida l’onda prima nerastra.
Così è il Blues. Un giro di accordi dai forti accenti ritmici che si gonfia in un urlo e si spegne in un sussurro, straziato in stanche dissonanze o rianimato dal vibrare della voce. L’ emblema di un popolo che rimane sempre se stesso ma che pure assorbe l'anima dell'ambiente in cui vive.
Tecnicamente il Blues è costituito da 12 loops che si ripetono per l’ intera melodia, con un tempo di 6/8 0 12/8 battute in terzine.. ma in pratica NON HA regole fisse ed è un genere musicale assolutamente INDETERMINATO. Questo perché, parlando a livello tecnico, se lo si suona in Maggiore non si ha MAI la sensazione netta dell’accordo, ma a volte anzi sembra di suonarlo in MINORE, la nota ci appare IMPRECISA e dallo sgradevole effetto calante. Ciò è in parte vero.
La famosa scala Blues, che ne è l' elemento caratteristico, viene in effetti suonata in Minore ma utilizza ANCHE la scala pentatonica Maggiore, che viene PRIVATA della sua componente armonica naturale. Per esprimere in parole povere il concetto, esistono nel Blues delle note ”non centrate” ma leggermente calanti le quali, pur arrivando alla melodia precisa, lo fanno ”con qualche esitazione”.
Ne consegue che la melodia risulterà non immediata ma, leggermente rallentata, e non orecchiabilissima. Per questo ”fare un buon blues ” dipenderà dalla gamma di variazioni che si utilizzeranno, dal gioco della voce e dal sapiente utilizzo della scala pentatonica maggiore, cioè quella classica, che andrà a riempire armonicamente quegli spazi un po’ cacofonici
Sembra difficile? Beh, LO E’.
Il Blues delle origini è sicuramente ”brutto, sgraziato e asincrono“; tuttavia era in grado di parlare alla gente. Si dice che sia nato sul delta del Mississippi e sicuramente, quando l’industria discografica l’ ha ”scoperto”, accaparrandosene i diritti e facendoci una banca di denaro, i neri lo cantavano già da tempo.
Se si parla del delta si deve parlare del Tennessee, di Memphis e di Vicksburg, che furono le prime terre conquistate e abitate dagli Spagnoli e poi dai coloni Inglesi, o ancor di più la zona delle antiche piantagioni, Bolivar, Cohaoma, Issaquena, Warren, Washington e Yazoo, dove la mescolanza tra Europei e Afro-Americani era più antica ed evidente. Nel 1850 tale zona contava una popolazione di 51.847 abitanti suddivisa tra 13.153. bianchi e …38.711 schiavi neri! Le piantagioni, con annesse farms, erano 306.000.
Tutta questa gente viveva in un angusto ma stabile equilibrio: gli schiavi erano ormai…di casa in America e, benché i padroni mantenessero su di loro il diritto di vita o di morte, i tentativi di fuga erano rarissimi e le condizioni di vita decisamente migliori di quelle che saranno solo 20 anni dopo, con la fine della guerra di secessione.
Dopo la lunga giornata di lavoro allo schiavo veniva permesso di sfogarsi con la musica. Vietata definitivamente la pratica del tamburo, dato il suo possibile utilizzo come arma di sovversione e di rivolta, ai figli d’Africa restava la possibilità di utilizzare o costruirsi strumenti personalizzati, in genere a fiato o a corde.
Cigar box dei primi del ‘900
Pochi fortunati riuscivano ad acquistarne qualcuno, in genere violini, halam e banjo con i quali spesso allietavano le serate danzanti dei padroni.
Tuttavia costruirsi uno strumento a corde con striscioline di budella di animali era abbastanza facile. IN seguito, a questi strumenti rudimentali si aggiunsero le JUGS, bottiglioni dal grosso collo entro cui si soffiava, e anche semplici arnesi di utilizzo comune, come le assi di legno per lavare i panni. La chitarra sarebbe arrivata solo molto dopo, con gli immigrati Spagnoli e le prime ferrovie. Essendo molto costosa e difficile da procurarsi gli schiavi puntarono a dei suoi surrogati costruiti con materiali di recupero, come ad esempio…le scatole di sigari! Le CIGAR BOX GUITARS, imperversarono per vari decenni in tutti gli Stati Uniti del Sud e di loro non si è affatto spenta la tradizione. Pensate che ancora oggi a LOUISVILLE, nel Kentucky, ogni anno si celebra il CIGAR BOX GUITARS FESTIVAL che accoglie musicisti professionisti e non da ogni parte del mondo per sfidarsi a suon…di sigari! Ma già così il primo Blues è una scala pentatonica, con note appiattite e uso del vibrato, grida parossistiche e ritmi sincopati in grado di ”adattarsi” anche alle fini orecchie dei padroni Inglesi e Scozzesi che, d’altra parte, amavano ascoltare i loro schiavi suonare. Miscelandosi alle suggestioni dei canti Spirituals, al lamento degli Hollers e passando indenni attraverso le Work Songs, il Blues delle origini si eleva poi con ”la Liberazione” della Guerra Civile. Sbandati, costretti a emigrare nelle paludi da bonificare o assorbiti al nord nel duro lavoro delle Ferrovie, gli ex schiavi si trovano a respirare la stessa aria degli emigrati Bianchi, i ”pezzenti tra i pezzenti”, dai quali imparano a suonare la chitarra o l’armonica a bocca. Altri, più fortunati, incontrano il balsamo della religione Cristiana, ne intuiscono il forte potere liberatorio e la integrano con le superstizioni Africane.
Assistiamo quindi, tra il 1860 e il 1890 alla famosa ”spaccatura del Blues” che, sulle medesime sponde del Mississippi, da un lato affonda nelle paludi e dall’ altro sale al Paradiso…
Una nascente Chicago del 1886.
Nel Blues l’utilizzo dell’armonica arrivò intorno agli inizi del ‘900 come appendice” della voce umana, prendendo spunto direttamente dalle tradizioni del Delta e passando poi attraverso gli influssi degli emigrati che venivano dall’ Europa. Gli Spagnoli avevano già introdotto la chitarra che, come abbiamo visto, veniva reinterpretata in chiave artigianale con degli scatoli di sigari. Questo perché l’armonia della vibrazione, che si poteva ottenere facilmente con gli strumenti a corde, è sempre stato elemento basilare della tradizione musicale Afro-Americana. Inizialmente ”musica da strada” o ”da lavoro” in quanto accompagnava le ore di solitudine dei neri che emigravano a nord nel periodo immediatamente precedente al Proibizionismo, divenne poi affare commerciale di altissimo livello per le nascenti etichette discografiche, che vedevano nella nuova musica la possibilità di espandersi oltreoceano con una spesa irrisoria. Tecnicamente parlando, lo Chicago Blues è forse uno dei più plastici e gradevoli, grazie alla vasta gamma di possibilità stilistiche che permette e alla successiva introduzione di numerosi strumenti musicali. C’è chi lo definisce un primo abbozzo del jazz…ma io non concordo pienamente.
E’ vero che, rispetto al primo Blues, qui l’utilizzo della scala maggiore è evidente, ed è anche vero che l’ utilizzo anche di strumenti a fiato gli conferiscono un suono più caldo tipicamente da orchestra, ma l’approccio viscerale viene mantenuto se non addirittura amplificato dalle note stridenti dell’armonica prima e dal famoso ”rotolamento” poi, una tecnica oscillatoria e prevalentemente ritmica che ispirò i musicisti Anglosassoni e il successivo Rock’n Roll.
Stringband Chicago, 1900
Se si fa un discorso puramente cronologico possiamo riconoscere nello Chicago Blues due periodi di fondamentale importanza, a cavallo tra le due guerre mondiali.
Il primo, quello di cui sto parlando e che vide l’esplosione delle etichette discografiche, è forse il più puro e legato alla tradizione Afro. L’utilizzo dell’armonica e degli strumenti di fabbricazione casalinga che lo contraddistinguono rimangono l’espressione più autentica di questo “canto dell’anima“ che solo in seguito, sulla spinta dei mercati economici che lo inghiottirono, si commercializzò assumendo connotati Europei ed Urbani. Intorno al 1950, infine, l'uso della chitarra elettrica e l’amplificazione e la correzione manuale del suono asciutto dell’armonica, lo defraudarono della originaria visceralità, rendendolo fenomeno di costume e quindi più adatto al pubblico.
Emigranti, primi del ‘900
Quando i primi neri arrivarono a Chicago si trovarono in una città in pieno sviluppo. Nata per accogliere i ricchi Europei, Chicago in seguito si spaccò in due, concedendo ai nuovi immigrati ”bevitori e puzzolenti” di installarsi nella parte sud meno servita e in certo senso porto di sbarco degli ex schiavi. D’altra parte Chicago era costretta ad assorbire quanta più manovalanza possibile, dato lo sviluppo crescente delle industrie e la costruzione incessante delle ferrovie. Il lavoratore nero, o anche Irlandese, Spagnolo e Italiano, arrivava nelle fabbriche facendosi a piedi mezza città ma portandosi appresso sempre la sua armonica, che gli faceva compagnia nella breve pausa tra un turno e l’altro. A dispetto di ciò che si crede, tra i lavoratori neri finalmente affrancati dalla schiavitù non esisteva capacità di coesione, e l 'operaio Afro-Americano era solo.
L' isolamento e la separazione tra le razze era in parte favorita dagli stessi datori di lavoro, sulla scia delle nascenti Leggi segregazioniste, e in parte auspicata dallo stesso Bluesman, un individuo ormai disadattato e incline alla solitudine. Durante la pausa pranzo, quindi, si formavano spontaneamente gruppetti isolati di lavoratori: Afro-Americani, Inglesi, Irlandesi, qualche Olandese e gli Italiani. Altri gruppi di Europei costituivano ulteriore minoranza, come Francesi e Spagnoli. Ancora più isolati i Messicani, i Nativi Pellerossa e rarissimi Indiani. Per tirarsi un po' su il morale tutta questa gente faceva musica: cominciavano gli Irlandesi con le loro ballate, seguivano gli Italiani con le canzoni natie ma gli Spagnoli tenevano banco con le loro chitarre. L' Afro-Americano con l’ armonica non era da meno. Tuttavia la musica non fungeva da collante sociale ma anzi stimolava litigi e minacce che si tramutavano non di rado in sfide musicali, le quali assorbivano e mescolavano le suggestioni dei vari gruppi, dando origine a stili e variazioni di grande impatto sonoro, che gli Afro-Americani riuscivano a riproporre in chiave decisamente originale. Queste gare improvvisate attirarono ben presto l' attenzione di commercianti e uomini d'affari che bazzicavano le fabbriche, i quali presero a organizzare le attività musicali degli operai. Molti di loro gestivano o avevano rapporti diretti con le giovani etichette discografiche; l' interesse per la nuova musica Afro, che fondeva voce e armonica con rabbia e dolore, divenne palpabile tra i bianchi. D’altra parte Chicago si stava riempiendo di Blues. Ad ogni angolo di strada gruppetti di musicisti improvvisati cercavano di sbarcare il lunario offrendo ai passanti la propria arte. La maggior parte erano Afro-Americani che dormivano sui marciapiedi e facevano letteralmente la fame. Benché le porte della Grande Città fossero aperte, infatti, non c’era lavoro per tutti. Agli inizi degli anni ’20 il sovraffollamento era ormai evidente.
Chicago cambiava a vista d’occhio. Qui nel 1928
E qui come appare solo due anni dopo, nel 1930!
Per fortuna la nuova musica cominciò a girare: inizialmente ospitata nei numerosissimi Club Afro di cui Chicago era piena e disdegnata dal pubblico bianco, in seguito alla sua commercializzazione da parte delle grandi case discografiche divenne la moda del momento e…grande affare per pochi. Diciamo che lo Chicago Blues più che fenomeno di massa fu soprattutto una miniera d’oro per le etichette, che fiorirono e ingrassarono grazie all’ ispirazione di musicisti poverissimi e sconosciuti, che venivano risarciti con pochi spiccioli per l' acquisto in blocco delle loro incisioni. Queste divenivano proprietà esclusiva e patrimonio multimiliardario dei produttori. Anche se moltissimi furono gli interpreti di colore dello Chicago Blues, tuttavia NESSUNO di loro si arricchì mai e anzi quasi tutti morirono nella più squallida miseria. Un fenomeno generalizzato per tutta la musica Afro-Americana che però a Chicago assunse tinte vergognose, viste le cifre astronomiche che incassarono i primi dischi venduti.
Locandina esplicativa dei "miti" del Blues a Chicago e del BOOM della nuova musica. Locandina dei miti del Blues a Chicago e del BOOM della nuova musica.
Una delle primissime e quotatissime etichette fu la BLUEBIRD RECORD, che godeva di un produttore decisamente dinamico, il quale seppe cavalcare la grande l’onda del blues. Sto parlando del mitico LESTER MELROSE che, tra il 1930 e il 1942, riuscì a gestire un monopolio economico multimiliardario, producendo musicisti passati poi alla storia non solo per il Blues ma anche per il nascente R&B e perfino per il Rock’n Roll: ROOSEVELT SKY, TAMPA RED e SONNY BOY WILLIAMSON furono solo alcune delle numerose stars della valente scuderia, che trasformò una piccola casa discografica in un affare faraonico, lasciando dietro di sé un’ impronta denominata appunto Sound Bluebird .
Uno dei primi dischi della BLUEBIRD RECORD
Grande capacità di promozione contraddistingueva invece la CHESS RECORD, gestita dai fratelli Leonard e Phil, che tra il 1950 e il 1969 riuscirono a farsi attribuire il primato di ”più grande etichetta discografica d’America” addirittura dal quotatissimo (e rognosissimo!) critico musicale Cub Koda!
E che dire dei MITICI artisti della CHESS RECORD? I MITICI artisti della CHESS RECORD
La più nota, anche se la meno longeva, fu la COBRA RECORD, che operò solo dal 1956 al 1959. Divenne famosa perché riuscì ad accaparrarsi cavalli di razza come il compianto OTIS RUSH, l'indimenticabile MAGIC SAM e il meraviglioso BUDDY GUY. Gestita benissimo da WILLIE DIXON, musicista e arrangiatore di grande calibro lui stesso, l'etichetta si attirò ben presto l'odio e la rivalità delle colleghe più danarose che molto probabilmente operarono un sottile e sotterraneo sabotaggio. Pensate che in origine l' etichetta era….un negozio di dischi che fece il salto di qualità grazie all' abilità del suo proprietario, tale ELI TOSCANO, che di mestiere faceva il tecnico di televisori! Abilissimo venditore, talent scout e imprenditore, Toscano fu coinvolto insieme alla sua etichetta in affari poco chiari e in un inspiegabile tracollo finanziario. Morì in uno strano incidente in barca nel 1960, poco dopo avere dichiarato fallimento, ma molto probabilmente fu ucciso. Si sussurra che fosse riuscito ad impossessarsi di scottanti documenti che rivelavano il coinvolgimento di personaggi politici nel suo crack finanziario.
Ecco come appariva il marchio della COBRA RECORDS
Un affondamento pilotato portò sicuramente al collasso la più intelligente etichetta del settore, che ebbe il merito di allargarsi anche al R&B e al Soul, definendoli evoluzioni naturali del Blues delle origini (come in effetti sono). Sto parlando della TWILIGHT RECORD che in soli 5 anni di vita lanciò musiche e interpreti straordinari. Stella del marchio era SYL JOHNSON che dal 1967 al 1969 portò al successo brani come Different Strokes , o Reservation Concrete , che permisero all’ etichetta di avere riscontri eccezionali.
Peccato per la quotatissima TWILIGHT RECORDS!
Tra il 1950 e il 1970 il nuovo piano urbano di Chicago fortemente voluto dal miopissimo Sindaco Richard J. Daley, che non comprendeva l’importanza storica e culturale della musica per la città, costrinse i locali storici, punti focali della trasmissione del Blues, a chiudere i battenti. Lentamente ma inesorabilmente lo Chicago Blues e le case discografiche che se occupavano finirono nel dimenticatoio.
Unica della vecchia squadra che ancora oggi continua il suo lavoro di promoter del Blues è la grandissima ALLIGATOR RECORD, creata da Bruce Iglauer nel 1971. Grazie a lei lo Chicago Blues continua a diffondere la sua magica armonia con interpreti del passato e del futuro, come BUDDY GUY, OTIS RUSH, HOUND DOG TAYLOR e il mitico EDDY "Chief” CLEARWATER.
L' ALLIGATOR RECORDS, ha già festeggiato 40 anni!
Un’eco che non riuscirà a spegnersi e che ci accompagnerà ancora a lungo nella moderna frenesia dell’OGGI, strizzando l’occhio alle dolci e malinconiche suggestioni di IERI….
E terminiamo questo viaggio sulle orme del Blues con uno degli stili forse più puri e articolati, in grado ancora oggi di ”spingere” su suggestioni interessanti, a dispetto dell'opinione di molti critici e storici, che affermano che il tempo del Blues sia ormai finito. Mi riferisco al TEXAS BLUES, un’ondata di ritmo e invenzioni sonore che impegnò non solo il territorio del Texas da cui nacque, ma gran parte degli Stati Uniti ispirandosi alle tradizioni Afro e poi aprendosi a influenze Europee, che ne determinarono, e ne determinano ancora oggi, una eccezionale modernità. Possiamo distinguerne tre periodi, non del tutto collegati tra loro: il primo, quello vergine, inizia intorno al 1890 e si colora delle tradizioni Anglo-rurali, ma anche di quelle Ispaniche, del Cajun e perfino della musica Creola. Il motivo sta ancora nelle possenti migrazioni degli Afro-Americani che, liberi ormai dal giogo della schiavitù, cercavano zone franche in cui lavorare e sopravvivere, insieme a migliaia e migliaia di immigrati Europei che tentavano di sfuggire alla fame e alle guerre dei loro paesi di origine. All’epoca il Texas era una terra ancora da scoprire, con una densità di popolazione tra le più basse dell’America inizi ‘900.
Sostanzialmente il lavoro veniva dalle ferrovie, ma non dimentichiamo che molti tra i neri immigrati vennero assorbiti dal ”cowboy job”, di cui poco si parla. In definitiva la condizione dell’Afro-Americano non cambiava di molto: diseredati tra i diseredati, gli ex schiavi affidavano la propria anima al triste canto BLUES, che innestava un certo non so che di ”maligno” sulle loro persone. SON JACKSON, un grande bluesman conosciuto per decine di anni solo…dagli addetti del settore, spiega molto bene quello che era l’ atteggiamento della gente comune nei confronti del Blues. “Il Bluesman è un animale ferito che grida le proprie sofferenze senza speranza di essere ascoltato. Ora, se lo facesse in chiesa, tutti lo comprenderebbero poiché sarebbe un’ anima che si affida a Dio. Ma dato che lo fa per le strade o da solo o davanti a un pubblico di poveracci bevitori e donnaioli, allora per la gente è solo uno fuori di sé e dalla Grazia di Dio, e la sua anima sporca lo attira verso Satana.” Quindi, la differenza sta nell’ approccio: in Chiesa sarebbe un peccatore che chiede la Grazia, cosi invece è un peccatore e basta, anche se le cose che dice sono più o meno le stesse. Il primo periodo del Texas Blues è nelle mani di disgraziati ed ex schiavi a cui spesso viene concesso di suonare nelle feste di piazze o in quelle da ballo per i bianchi ricchi, ma è costretto a farlo con i regolamentari violino e chitarra per non turbare ”col proprio peccato” le orecchie degli altri. Conosciamo alcuni dei primi Blues del periodo grazie al collezionista GATES THOMAS , che raccolse alcune delle canzoni dei piantatori di cotone emigrati in Texas. I brani ALABAMA BOUND e C.C RIDER, ad esempio, vennero poi rielaborati dal famosissimo Jelly Roll Morton (che il grande pubblico ha conosciuto grazie al film Il Pianista sull' oceano), ma appartengono al filone della tradizione orale, alla tradizione di una musica non scritta e all'Eco di musicisti neri dei quali si è persa memoria. Una delle più vecchie canzoni nelle quali sono già presenti le famose BLUE NOTE è Baby, Take a look at me! trascritta poi da Thomas e Charles Peabody nel Mississippi qualche anno dopo. E’ interessante notare come il Blues del periodo abbia ancora due facce: quella un po’ schizzata ma allegrotta delle feste e quella devastante e malinconica della solitudine, spesso accompagnata da tecniche di variazione che ne amplificavano l’opera di transfert sul musicista. Già agli inizi del ‘900 in Texas troviamo l’utilizzo della SLIDE GUITAR, in gergo chiamata BOTTLENECK (collo di bottiglia). Si tratta di una tecnica innovativa che alcuni confondono con il BENDING del Delta, ma che in realtà parla una lingua completamente diversa. In pratica, attraverso lo ”scivolamento” del collo della bottiglia (in genere di vetro) sulle corde, il Bluesman riusciva a ricavare un effetto ”lamentoso” (per intenderci un po’ HAWAIANO) che non alterava la trazione sulle corde come succedeva con il Bending, dove il musicista, avvolgendo le dita in pezze di cotone, era costretto a tirarle per ricavarne un suono.
Tecnica del bottleneck, un collo di bottiglia che si fa scivolare sulle corde.
L’effetto è completamente diverso: duro e a scatti col Bending, glissato e prolungato con lo Slide. In tal modo il Blues si colora di una magia difficilmente riproponibile con altre modalità. Mischiati al Blues altri stili come il JIGS (una tipica danza Irlandese) e il REELS (altra danza ma di origine Scozzese). Potrete quindi comprendere la complessità del nuovo modo di fare musica, che per la prima volta non si limita ad assimilare stili diversi, come ad esempio è successo per il Blues del Delta, ma si “apre” al mondo per portarvi un prodotto già rielaborato alla luce delle vicende non più solo personali ma storiche e sociali. Inizialmente ostracizzato, guardato come rozza espressione di una sotto-classe e inviso dalla stessa comunità religiosa nera, il Blues esplose poi in tutta l’America negli anni ’20. Non solo grazie a W.C. Handy di cui parleremo a breve e nemmeno sulla scia del successo delle Blues Singers di città, il cui stile non aveva molto in comune con quello che impazzò per l’America qualche anno dopo. Ancora una volta furono le etichette discografiche a determinarne il successo che, ricordiamo, non beneficò MAI i Bluesman ma solo i grandi produttori e gli investitori bianchi.
In Texas la moda del Blues arrivò nel 1923 e si concentrò tutta a Dallas, dove le principali etichette decisero di portare sul mercato ”quella roba da negri” che però piaceva tanto anche ai bianchi. Qui esse stabilirono un vero e proprio Quartier Generale casalingo. Prima la OKEH ma poi anche la VOCALION, la BRUSWICK, la COLUMBIA, l' RCA e infine la PARAMOUNT inviarono a Dallas, ormai urbanizzata e ricca di conforts nonché ben servita dalle ferrovie, i propri tecnici e talent - scout i quali, insediatosi negli alberghi per ricchi, vi montarono il proprio studio di registrazione, allo scopo di incidere ”seduta stante” e senza spese aggiuntive le cosiddette RACE RECORDS, cioè quelle sotto-marche economiche dedicate al nascente mercato Afro-Americano. Parte così il secondo grande periodo del Texas Blues.
Il primo grande artista ad essere registrato in loco fu lo storico BLIND LEMON JEFFERSON, un personaggio controverso che sarà soggetto di uno dei prossimi capitoli.
In realtà il musicista cieco (?) era già abbastanza famoso nell’ East Texas da dove proveniva ma…come artista di inni sacri! Fu solo con le grandi etichette che la sua immagine si convertì in quella di musicista maledetto.
La classica (e forse UNICA) foto ufficiale di Blind Lemon Jefferson. 1927
Fu proprio in chiesa all’angolo tra Elm Street e Central Avenue che egli venne scoperto da un talent-scout della Paramount, e infatti la prima incisione porta lo pseudonimo DEACON
( Diacono) L.J BATES. Come a dire che tra il Blues sacro e quello profano in fondo NON C’E’ una così profonda differenza! L’artista si firmò poi col suo vero nome per tutte le altre 70 registrazioni seguenti con la Paramount, fino al 1929, quando mori improvvisamente e con parecchie ombre.
Jefferson era un mirabile chitarrista e probabilmente il termine Texas Blues nacque con lui. Era in grado di ”martellare” la chitarra per ottenere dei bassi essenzialmente ritmici e ripetitivi subito seguiti da note ”aperte” e dal suono quasi arpeggiante. Il suo stile fece scuola influenzando gli innumerevoli artisti che si susseguirono in quelle sale d’incisione improvvisate, come SAM HILL, BUDDY WOODS, WILLIE RED, nomi che forse non vi diranno molto perché non sono mai balzati ai cosiddetti onori della cronaca, ma che rappresentano una pietra miliare della storia del Blues. Qualche anno dopo ecco l’oscuro LEADBELLY e l’aggressivo T. BONE WALKER, che applicarono le tecniche di Jefferson alla chitarra elettrica e combinarono il Blues con le neonate suggestioni del Jazz e dello Swing. L’utilizzo della chitarra amplificata segna infine l’ ingresso del Blues nell' epoca moderna.
Probabilmente fu EDDIE DURHAM con la sua band a darle quel risalto che in T. BONE WALKER era apparso come intuizione. Avvicinandosi sempre più al Rithm’n Blues. il ruolo della chitarra solista supera nel Jazz persino quello del sassofono, mentre nel Texas Blues sostituisce in larga misura il ruolo fino ad allora primario della voce!
Il DEEP ELLUM, fulcro del Texas Blues durante la Grande Depressione. 1930
Nel frattempo lo scoppio della Grande Depressione degli anni ’30 allontana temporaneamente le etichette dal mondo del Blues: si spengono le luci delle sale d’incisione portate ”a casa” degli artisti e inizia un periodo di semi-oblio mantenuto fortunatamente in vita da uno sparuto gruppetto di musicisti neri che si spostano nelle sale da ballo della zona sud del Texas, come la sala da Ballo ROSE, che a cavallo tra gli anni ’30 e '40 fu davvero una vetrina di eccezione per i talenti del Blues tipo BIG JOE TURNER, WILLIE NELSON o PEE WEE CRAYTON. Successivamente i musicisti si spostarono a Houston, soprattutto quando negli anni ’60 la zona Deep Ellum, il quartiere eccellente delle band, fu spogliata della ferrovia e relegata a ghetto industriale. Veramente a Houston molti musicisti avevano già preso alloggio, proprio per le migliori condizioni di vita e le possibilità di integrazione: vi troviamo SAM ”LIGHTNING” HOPKINS e suo cugino TEXAS ALEXANDER, ma anche ROBERT SHAW e HERSAL THOMAS, il fratello di SIPPIE WALLACE. Incidere a Houston era molto difficile. Le grandi etichette FREEDOM, MACY e PEACOCK arrivarono solo nel 1947 e trovarono una vera e propria antologia vivente del Blues che esprimevano ancora una volta il cocente dolore del nero emarginato arrivato lì da una terra lontana, per trovarvi solo fame e miseria. In questo filone ritroviamo nomi oggi abbastanza conosciuti, come ALBERT COLLINS, JOE HUGHES e JOHNNY WATSON, che comunque sono da molti considerati gli esponenti ”storici” del terzo ed ultimo periodo del Texas Blues, quello ormai agonizzante sposato al rock, al BEAT e al mondo trasformato dalle campagne Hippie che lo hanno defraudato delle ataviche radici. Queste nuove correnti giunsero infine nella città di Austin, ultimo baluardo di un Texas che cambiava...insieme alla sua musica. Dagli anni ’60 ad oggi è storia recente. Chi sta leggendo questo libro è sicuramente un appassionato del Blues e della Old America, ma anche se non lo fosse immagino che almeno uno tra i nomi STEVE RAY VAUGHAN, JIMMY VAUGHAM, JOE ELY e ANGELA STREHLI sia di suono familiare. Con loro la tradizione ”nera” del Blues si colora di ”bianco” e l’interesse verso questo genere inimitabile, in grado di plasmarsi con l’ ambiente circostante e di rinnovarsi al suono del tempo che passa, è cresciuto in tutta l’ America e non solo. E’ stato proprio grazie al Texas Blues che esso ha finalmente goduto del riconoscimento ufficiale della grandezza di un popolo martoriato e mai sconfitto, che è stato in grado di insegnare al mondo che nella musica risiede l’ anima di ognuno, e che grazie alla musica i popoli sopravvivono alla sopraffazione. Dopo la raccolta delle tradizioni blues degli storici LOMAX, padre e figlio, grazie ai quali un intero universo di musica e di tradizioni non è stato perduto, il Texas si è fatto promotore di una campagna mediatica di celebrazione e diffusione del Blues, di cui l’intero Stato è intriso fin dentro le ossa. Centinaia di manifestazioni e organizzazioni ogni anno coinvolgono la rete dei media e quello delle feste popolari per continuare una tradizione che non intende spegnersi. Una campagna di sensibilizzazione che ha contribuito in maniera eccelsa al riconoscimento dei diritti civili e sociali della popolazione Afro-Americana, e che è culminata nel 1987 con un evento storico per l’ intera nazione: una borsa di studio al pianista Blues Afro-Americano ALEX MOORE, che viene consegnata direttamente dal patrimonio nazionale del FOLK ART PROGRAM del NATIONAL ENDOWMENT for the ARTS. Il primo mattoncino di un edificio di Uguaglianza, Amore e Rispetto che ci auguriamo arrivi presto a toccare il cielo.
Charlie Patton
Il Padre del Blues?
Figura emblematica, da sempre considerato ”Il padre del Delta Blues” Charlie Patton è per molti un eroe leggendario approdato al Blues, musica ”malefica e corrotta“, proprio grazie alla sua degradata condotta ai limiti di una follia schizoide e del malessere tipico di chi vive ai margini.
Abbiamo già ampiamente parlato di come l’Afro-Americano ”liberato” in realtà galleggiasse in una sorta di limbo, privato della sua stabilità e delle sue tradizioni. Suonare il Blues era un tentativo di liberazione effettiva che coinvolgeva non solo la Black people ma anche moltissimi immigrati Europei, in genere Inglesi e Irlandesi, sfuggiti alla povertà dei sobborghi natii per finire nei meandri puzzolenti del Mississippi. La vita era dura per tutti: la speranza di sopravvivere molto scarsa. La famiglia Patton non era diversa. Dalla documentazione del censimento del 1900 si fa luce sul mestiere del padre, bracciante agricolo, e sulla data di nascita del piccolo Charlie, avvolta spesso in strane ombre.Contea di Hinds, sul Mississippi, aprile 1891.
Famiglia poverissima, costituita da padre, madre e due sorelle più grandi.
Il piccolo Charlie non frequentava molto la scuola ma aiutava nei campi. Tra castighi e scorrerie, data la natura ribelle del piccolo futuro ”genio“, la sua infanzia scorre tranquilla fino all’età di 9 anni, epoca in cui per mancanza di lavoro la famigliola si trasferisce nella piantagione di cotone di Dockery, venti miglia più a sud. E qui inizia il capitolo maggiormente misterioso e romanzato della sua vita, su cui tanti hanno scritto e discusso. Un capitolo strano, oscuro, degno delle migliori tradizioni Blues.
Ecco il certificato di nascita di Charlie Patton
Se Robert Johnson ebbe il suo mentore qualche anno dopo, e si dice che fosse il DIAVOLO, per Charlie Patton le cose cambiano solo in apparenza. Sicuramente il fatto che per entrambe le due mitiche figure l’incontro con il Blues e il momento in cui prendono in mano la chitarra si accompagnino alla frequentazione di personaggi equivoci con alle spalle un mix di musica, sangue e magia nera, alimenta la leggenda. Nel caso di Charlie la firma oscura del suo genio fu un Bluesman primigenio di nome Henry Sloan. Le cronache non ci dicono molto di lui. Ma la mia proverbiale cocciutaggine mi ha sguinzagliata alla ricerca di dati esaurienti che potessero in parte chiarire quale influenza e quale eventuale condizionamento avessero esercitato una così mirabile opera sul giovane rampollo Patton.
Il delta del Mississippi così come appariva nel 1900
Ho trovato quindi una piccola storia del personaggio ”Ombra” di Charlie, devo dire mooolto interessante! Costui, tale Henry Sloan, era figlio di Sam e Laura, due ex schiavi senza professione che si erano trasferiti dalla South Carolina nella Contea dii Hinds. (a soli 3 km dalla famiglia Patton!)) già agli inizi del 1870. Nel censimento della zona del 1880 si parla di un bambino, figlio della coppia, di nome James, nato nel 1871. Ricontrollando poi i dati dell’ ulteriore censimento del 1900 abbiamo conferma che James ed Henry siano la stessa persona. Molto probabilmente, come si usava a quell’ epoca, Henry portava il nome di un fratello deceduto neonato e poi mescolato negli annali dell’epoca. Fatto sta che nel censimento che ci interessa detto Henry risultava vivere ancora coi genitori, tre dei suoi figli e la seconda moglie, essendo poi divenuto vedovo nel 1898. Di professione Agricoltore è interessante notare che si sottolinea che Henry Sloan sapeva ”leggere, scrivere e leggeva molti libri”. Particolari interessanti, visto che Henry era un Afro-Americano povero e che, come tutti i suoi coetanei, probabilmente aveva potuto frequentare solo la prima elementare! Non esistono foto a riguardo, ma anche qui abbiamo delle dichiarazioni di due futuri ”discepoli” di Charlie Patton, SON HOUSE e TOMMY JOHNSON, che riferiscono chiaramente di una mania ossessiva di Charlie nei confronti del suo alter ego Henry, definito ”alto, grosso, dal naso camuso e gli occhi penetranti e spaventosi. che contrastavano nettamente con la sua età matura”. In base alle ricerche del famoso storico DAVID EVANS, Henry Sloan poteva essere addirittura la misteriosa figura di Bluesman che W.C. Handy incontrò sul treno a Tutwiler e che lo iniziò psicologicamente al Blues! All’epoca Handy nella sua autobiografia ce lo descrive come ”alto, magro e nero, che pizzicava accanto a me una chitarra mentre dormivo. I suoi vestiti erano stracci, i suoi piedi spuntavano fuori dalle scarpe. Sul volto c’era dipinta la tristezza dei secoli. Mentre suonava ha tirato fuori un coltello e lo ha premuto sulle corde della chitarra, tirandone via un suono mai sentito che era come un lamento dell’anima. Per tre volte fece questo strano gesto, che a pensarci poteva essere una rozza croce sulla chitarra." Stiamo comunque parlando del 1903 ed è probabile che la famiglia Sloan, insieme a molte altre della Contea di Hinds, si sia trasferita da poco nella piantagione Dockery. C’è da chiedersi allora COME MAI l’incontro fatidico tra Henry e Charlie sia avvenuto solo in loco e non già nella contea di Hinds! Ancora secondo SON HOUSE ”costui da anni lo teneva d’ occhio e attendeva con ansia che crescesse”.
La piantagione Dockery, una fattoria molto ben attrezzata, come appariva agli inizi del 1900
Comunque siano andate le cose, quando inizia la chiara frequentazione tra i due Charlie ha ormai 10 anni e il Delta Blues, di cui si è detto sia stato ”il Padre” era già ampiamente diffuso su tutto il Mississippi e conosciuto come musica oscura, maligna e che portava alla perdizione dell’anima. Abbiamo già parlato dei rapporti tra il Blues e la Magia nera. I legami tra il Voodoo e gli ex schiavi, che proprio sulle rive del Mississippi hanno subìto le peggiori sevizie, sono fortissimi e volutamente celebrati attraverso questa strana musica che libera l’anima. Sporca e fangosa come il fiume sulle cui sponde nasce, la musica Blues primigenio utilizzava dei rozzi ausili ”correttivi” affinché le note NON fossero limpide e pure, in quanto l’ anima ferita non può alzarsi PULITA verso il cielo. Operando quindi un trasfert tra strumento musicale e Bluesman la musica veniva ”sporcata” ad arte bendando le mani del musicista o utilizzando un coltello a lama piatta che, tirando le corde, originava una melodia poi divenuta famosa grazie ai musicisti Hawaiani, ma che sul Mississippi aveva una valenza del tutto simbolica e magica. Il famoso coltello di cui parliamo, infatti, dopo essere stato utilizzato per riti magici come l’ uccisione della gallina nera e la celebrazione del demoniaco spirito Papa Legba, ”impregnato” del sangue della vittima sacrificale veniva poi passato sulle corde della chitarra affinché l’energia vitale si trasferisse al musicista. Divenuto quindi sciamano, il Bluesman partiva col suo canto ossessivo e improvvisato, seguito a ruota da altri musicisti che ne accompagnavano il ritmo con la mani, la chitarra o il suono della voce. Questo esperimento empatico poteva durare delle ore e costituiva per i neri che lo eseguivano ulteriore causa di alienazione e di abbandono da parte dell’ intera comunità, per la quale questi rituali erano espressione di possessione diabolica. E’ chiaro quindi come agli inizi del 1900 il Blues fosse considerato una musica maledetta, che solo adepti o iniziati potessero conoscerla. Lasciato solo con se stesso, ostracizzato, visto come schiavo di Satana il Bluesman entrava gradualmente nella convinzione di essere un dannato e volutamente si perdeva nell’ alcool, nel sesso sfrenato, nella violenza e nel sangue, cosa del resto molto facile per un Afro-Americano dell’epoca. Entrava insomma in un circolo vizioso da cui era impossibile uscire e che si concludeva quasi inevitabilmente con la morte prematura per sifilide, cirrosi epatica o duelli all' ultimo sangue. Molti di questi poveracci semplicemente ”sparivano”, probabilmente fatti fuori da loro connazionali animati da fervore religioso (la nascente Chiesa Afro-Americana ne fece di assassinii!) o da amanti gelosi oppure dalla stessa Polizia del luogo. Tuttavia le prime ”sette” che praticavano il Blues primigenio erano fortemente motivate a portare la loro musica fuori dai confini del Mississippi, e possibilmente fuori dall’ America: lo scopo era di emancipare e riabilitare la black people, rivendicando quei concetti di uguaglianza e di umanità da sempre negati. Lottando contro l’ ostracismo della loro stessa gente, i Bluesmen si impegnarono costantemente nella trasmissione orale di una cultura che poteva valersi solo dell’insegnamento diretto, del condizionamento personale e della possibilità per il discepolo di entrare in una comunità magica e oscura, in quanto dichiaratamente in lotta col sistema. Quando si parla del diavolo non si sbaglia di tanto. La differenza sta nella sua interpretazione: il vero demonio era la condizione di "non vita” nella quale era relegato l’Afro-Americano, che si sentiva ormai uno zombie. Liberarsi equivaleva ad attingere a quelle energie ataviche rimaste nella terra di origine e che ogni uomo porta dentro di sé. Quelle forze oscure che dalla palude fangosa del Mississippi potessero elevare l’uomo fino alla società vera, quella in cui tutti sono uguali e fratelli fra loro. L’abbinamento tra le figure di Papa Legba e Lucifero ne nasce automatica, ma solo perché entrambi lottano contro un’ Autorità Superiore che li costringe ad una condizione di schiavitù. Il Blues quindi non fu solo una ”musica dei neri d' America” ma una vera e propria rivoluzione culturale che segnò l 'inizio del cammino, sofferto e avvelenato, verso l’integrazione razziale, con le sue vittime e i suoi martiri. Ciò che avvenne a Charlie Patton e poi a Robert Johnson fu appunto questo. Essi furono ”iniziati” da mentori oscuri affinché imprimessero sulla propria pelle il marchio della lotta del nero contro la sopraffazione della società bianca, e lo facessero utilizzando l’arma terribile di una MUSICA che ogni uomo, di qualsiasi razza, porta nel proprio sangue. Una musica che è lo scorrere del tempo attraverso il battito del cuore, di cui emula il ritmo. In un’ intervista nella quale gli chiedevano di spiegare al pubblico quella strana musica del Mississippi, SON HOUSE rispose: ”Metti la mano sul tuo petto e ascolta il battito del tuo cuore. Beh, QUELLO è il Blues!” Ecco la spiegazione, ecco la semplice chiave d’accesso. Fu quindi facile per Henry Soan, e per tutte le altre figure oscure di cui la tradizione Blues è piena, penetrare con la forza di un uragano nella mente del giovane Charlie Patton e ”dannarlo” per sempre.
Black Indian, il ceppo genetico da cui discendeva anche Charlie Patton. L’ esistenza degli Indiani neri era un problema per il Governo degli Stati Uniti che lo risolse NON OCCUPANDOSENE. Questa minoranza etnica rimase così privata per lungo tempo del riconoscimento dei propri diritti civili e sociali. Attualmente la situazione generale è migliorata solo apparentemente.
La famiglia Patton era comunque un esempio abbastanza diffuso di disagio e difficoltà di integrazione. Lo stesso ceppo etnico di appartenenza la dice lunga sulle traversie quotidiane che i suoi componenti, tra la scuola e il vicinato, avevano dovuto sopportare. Se guardiamo l’unica fotografia conosciuta di Charlie Patton, appartenente al collezionista John Tefteller, ci rendiamo conto che non si tratta di una persona ”tipicamente” Afro-Americana. C’era una chiara mescolanza di sangue bianco, nero e Indiano in lui, e oggi si sa che la nonna materna era una Cherokee, cosa puntualizzata anni dopo dallo stesso Patton che cantava nella sua Dirth Road Blues della permanenza nei territori aviti quali ”IL TERRITO”. Si trattava di un territorio Indiano divenuto in seguito parte dell’ Oklahoma, dove sua nonna si recava spesso prima di morire, per unirsi a quelli della sua tribù nella lotta per la rivendicazione della terra che veniva concessa dal Governo degli Stati Uniti ai pochi Nativi rimasti. Il problema dei Black Indians, cioè quello dei figli nati da unioni di ex schiavi o Black Cowboys con donne Indiane, rimase comunque un problema irrisolto e contribuì alla povertà della famiglia Patton, che subì pesantemente ogni sorta di umiliazione.
Indiano Cherokee Black. Notate l’evidenza somiglianza etnica con Charlie Patton.
Molti rancori si agitavano quindi nell’animo del decenne Charlie, quando conobbe Henry Sloan. Affascinarlo e coinvolgerlo nel pericoloso gioco del Blues fu impresa da poco.
Che Charlie soffrisse per le condizioni di povertà e di emarginazione della sua famiglia è ampiamente dimostrato non solo dal suo stile di vita rivoluzionario, evidente soprattutto quando fu oggetto di interesse da parte delle grandi case discografiche, ma ne troviamo riprova anche in molte delle sue canzoni. Ad esempio in DOWN the DIRT ROAD descrive con crudezza le condizioni di degrado dei mezzadri e dei braccianti agricoli del sud, e di quanto sia impossibile cambiare le cose se non fuggendo, dal Paese, cosa che lui stesso fece a 19 anni.
Vado via per un mondo sconosciuto, ho paura, ma non sarà per sempre.
Ogni giorno sembra un omicidio, qui. Io andrò via domani.
Il viaggio di Patton inizia all’ indomani di questa canzone lungo tutto il Mississippi, fermandosi in ogni città dove sconvolgeva gli abitanti non solo per la sua musica maledetta ma anche per gli atteggiamenti rissosi e attaccabrighe.
Per tutto il territorio del Texas, in Georgia, nell’ Illinois e nel Missouri, il suo arrivo era considerato ”una piaga“ in virtù del seguito di scalmanati che l'artista si portava appresso. A Dockery, Patton era considerato già una star e la sua fama, come artista e come pazzo, lo precedeva. Bevitore incallito, ossessionato dall’ idea della perdizione, profondamente convinto che ”chi nasce nell’ Inferno non può redimersi” portava il vessillo di Satana sempre con sé. Giovanissimo era stato ferito alla gola in una rissa (o forse da un’amante gelosa) ed era scampato alla morte per miracolo; c’è chi sussurrava che il suo alter ego Henry Sloan avesse patteggiato con esseri oscuri per farlo sopravvivere. Dalla profonda ferita che gli danneggiò irreparabilmente le corde vocali venne fuori una voce terrosa, cavernosa e inquietante. Spesso, anche nelle migliori registrazioni di qualche anno dopo, molte delle parole delle sue canzoni risultano incomprensibili al grande pubblico, e ciò contribuì nettamente alla creazione di un’ immagine tenebrosa, oscura ma di grande impatto sui giovani. Non dimentichiamo la grande influenza di Patton sui giovanissimi talenti che incontrava nei suoi pellegrinaggi canori. SON HOUSE ne rimase letteralmente affascinato ma WILLIE BROWN andò anche oltre, se cercò per tutta la vita di imitare il maestro nella sua Crossroads Blues, un brano che sarebbe poi divenuto uno standard e che influenzò tutte le stars venute dopo, come MUDDY WATERS, JOHNNY LEE HOOCKER e, pensate, perfino il Satanico ROBERT JOHNSON!
Son House
Molti considerarono Charlie Patton un grande intrattenitore più che un Bluesman. Decisamente l’impatto visivo sul palco era notevole: pensate forse che il primo a coniare esibizioni Shock, con tanto di rogo di chitarra e sfumazzate di spinelli, sia storia recente e che sia patrimonio di Jimmi Hendrix negli anni ’70? Se è così vi sbagliate di brutto. Patton saliva su un palco con l’atteggiamento di un clown triste e aggressivo, che prendeva a calci i tavoli, aggrediva i clienti e suonava la chitarra in tutti i modi possibili: di schiena, bendato, ponendola tra le gambe, con una sola mano e a testa in giù. A volte il respiro affannoso miscelato alla voce gutturale calamitava le donne e atterriva gli uomini, che vedevano in lui un ”posseduto”. Probabilmente era così. Non sappiamo se la figura ammaliatrice di Sloan lo abbia condizionato al punto da ritenersi un ”perduto” o se invece il suo mentore non abbia invece ”liberato” le ossessioni naturali della sua psiche. Non conosciamo molto della primissima giovinezza di Patton, tranne quello che riferirono le sorelle all’ indomani della sua morte. Sappiamo quindi che non amava andare a scuola e che non si recava mai in chiesa. Che era un bambino obbediente sul lavoro quanto scapestrato coi compagni di gioco. E, soprattutto, sappiamo che fino all’ incontro col temuto Sloan NON SAPEVA SUONARE LA CHITARRA. Quando approfondiremo altri personaggi del Blues vedremo che QUESTO è uno dei fulcri su cui si innestano moltissime delle leggende metropolitane che hanno ampliato e corroso la fama degli artisti del periodo. Comunque sia, se l’influenza artistica di Sloan è documentata, è probabile che anche tutto il contorno ne venga di conseguenza. Patton era un donnaiolo incallito, un bevitore eccezionale e un attaccabrighe incorreggibile. In più fumava come un turco, era dedito all’ oppio e maltrattava le donne. Malgrado ciò si sposò 8 volte, ebbe innumerevoli amanti e numerosi figli, dei quali quasi nessuno gli sopravvisse. Qualcosa su di lui la riportò, tanti anni dopo, una vecchissima Rosetta Patton cresciuta anch’ ella nel ricordo del malefico padre: ma il ritratto che ne viene fuori non è affatto confortante.
Rosetta Patton, unica figlia sopravvissuta dell'artista, negli anni '60 con in mano la fotografia del padre.
In tutta la sua follia ( vera o costruita?) Patton scrisse testi che fecero storia.
Accanto alle commercialissime canzoni d’ amore commissionate dalla Paramount al solo scopo di vendere dischi, troviamo brani crudi e suggestivi che ci parlano di emigrazione (Pony Blues), di carcere (High Sheriff Blues), e di vita (Oh,Death! ).
Era un cantore delle piaghe sociali spesso volutamente sottovalutato e ostracizzato, proprio perché poneva l’accento sulle mancanze del Governo.
Ma imbavagliarlo non era facile. Se gli si poneva un veto Patton faceva di tutto per abbatterlo e, quando proprio non gli era possibile, egli partiva lasciando a metà delle sessioni di registrazione, facendo perdere le sue tracce per mesi. Aveva uno stile chitarristico molto particolare, ruvido e duro, e utilizzava spesso lo slide che con lui raggiunse vette liriche ed espressive fino ad allora impensate. Benché non sia stato l’ inventore del Delta Blues, tuttavia ne fu il più grande interprete e l’appellativo ”Padre del Blues” gli rende giustizia. Dopo di lui, a parte l’influenza che BLIND LEMMON JEFFERSON esercitava sui musicisti dello steso periodo, TUTTI GLI ALTRI venuti dopo (e questo mi attirerà le ire di moltissimi estimatori) son stati ESECUTORI VIRTUOSI, Robert Johnson compreso. Ognuno dei grandi Bluesmen, chi più chi meno, attingerà alla grande scuola di Patton, apportandovi modifiche personali che non incideranno mai sulla STRUTTURA del Delta Blues, anche se meravigliose e appassionate. Qualche critico ha addirittura considerato Patton come il Primo Rock and Roller della storia…ma questo, francamente, non posso sottoscriverlo
Inondazione del Mississippi del 1935. Patton si ispirava a scene di vita vere nelle sue canzoni, e parla di una delle tante esondazioni del fiume proprio In HIGH WATER BLUES. Inondazione del Mississippi del 1935. Patton si ispirava a scene di vita vere nelle sue canzoni,e parla di una delle tante esondazioni del fiume proprio In HIGH WATER BLUES.
Uno dei più grandi musicologi del settore, ROBERT PALMER, lo descrive come un ”jack-of-all-trades bluesman”, cioè un tuttofare della musica, capace di suonare con la stessa maestria il Blues quanto le ballate folk, l’Hillibilly e tutto ciò che era in circolazione nel periodo, senza fare distinzioni tra musica White o Black. Oltretutto Patton era un grande imprenditore di se stesso, in grado di abbinare senza sforzo l'Arte con il denaro arricchendosi smisuratamente, il che non fece che gonfiare la sua fama oscura. (Tutto ciò che lui tocca diventa oro.) Troppo bravo, troppo capace, troppo furbo e troppo ”perduto” per non essere stato toccato dal Maligno! Possiamo definire il suo personaggio come la prima grande Rock Star che si ricordi: a differenza degli altri Bluesmen tutte le sue esibizioni erano studiate e progettate a tavolino, organizzate fin nei minimi dettagli e sempre in pompa magna, nei locali di lusso quanto nelle bettole. Amava intrattenere il pubblico con la sua voce rumorosa e le sue porcate da bordello, e resisteva a qualsiasi fatica bevendo, fumando e litigando con tutti. Malgrado la protezione della Paramount finì in galera almeno un paio di volte, per rissa e lesioni nonché per vilipendio alle forze dell’ Ordine, e ogni volta ficcava le esperienze personali nelle proprie canzoni. Questa è la sua ingente discografia, realizzata in poco più di cinque anni:
Mississippi Boweavil Blues
Screamin’ and Hollerin’ The Blues
Down The Dirt Road Blues
Banty Rooster Blues
Pea Vine Blues
It Won’t Be Long
Tom Rushen Blues
A Spoonful Blues
“Shake It And Break It (But Don’t Let It Fall Mama)”
“Prayer Of Death Part 1 & 2”
“Lord I’m Discouraged”
“I’m Goin’ Home”
1929, Grafton
“Going To Move To Alabama”
“Elder Greene Blues”
“Circle Round The Moon”
“Devil Sent The Rain Blues”
“Mean Black Cat Blues”
“Frankie And Albert”
“Some These Days I’ll Be Gone”
“Green River Blues”
“Hammer Blues”
“Magnolia Blues”
“When Your Way Gets Darl”
“Heart Like Railroad Street”
“Some Happy Day”
“You’re Gonna Need Somebody When You Die”
“Jim Lee Blues Part 1”
“Jim Lee Blues Part 2”
“High Water Everywhere Part 1”
“High Water Everywhere Part 2”
“Jesus Is A Dying-Bed Maker”
“I Shall Not Be Moved”
“Rattlesnake Blues”
“Running Wild Blues”
“Joe Kirby”
“Mean Black Moan”
“Farrell Blues”
“Come Back Corrina”
“Tell Me Man Blues”
“Be True Be True Blues”
1930, Grafton
“Dry Well Blues”
“Some Summer Day ”
“Moon Going Down”
“Bird Nest Bound”
1934, New York City
“Jersey Bull Blues”
“High Sheriff Blues”
“Stone Pony Blues”
“34 Blues”
“Love My Stuff”
“Revenue Man Blues”
“Oh Death”
“Troubled ‘Bout My Mother”
“Poor Me”
“Hang It On The Wall”
“Yellow Bee”
“Mind Reader Blues”
La sua morte, avvenuta il 28 aprile 1934, resta ancora avvolta dal mistero.
Se ne conoscono molte versioni, alcune delle quali ci parlano di infarto, altre addirittura che ”fosse stato colpito da un fulmine”, cosa del resto molto in linea con il suo personaggio.
In realtà fu una morte sicuramente ”provvidenziale” per la Paramount, che aveva investito moltissimo nella sua figura Dark e nelle sue canzoni oscure. Sembrava infatti che negli ultimi tempi Patton, oppresso dalle conseguenze nefaste di una sifilide contratta in gioventù, si fosse in certo senso redento e avesse iniziato a frequentare la Chiesa di Re Salomone, molto amata dagli Afro-Americani del periodo. Qui egli sembrava felice di cantare salmi e addirittura predicava ai confratelli. Sembra anzi che si era messo in testa ( lo dice sempre SON HOUSE ) di scrivere un album Gospel, genere tra l’altro che cantava piacevolmente anche in gioventù. Una sua nipote presente al capezzale di un Patton malato MA NON MORENTE afferma di averlo sentito ripetere in modo ossessivo diversi capitoli della Rivelazione, sermoni della Bibbia. E qui inizia il vero mistero sulla sua morte, con versioni, personaggi e date che non collimano tra loro.
Cercherò di riassumere in breve.
Certificato di morte di Charlie Patton
Versione Ufficiale: Infarto dovuto a un difetto congenito della valvola mitralica. Una conseguenza molto frequente della sifilide, per cui sembrerebbe tutto a posto. Eppure il vizio della mitrale era facilmente riconoscibile anche a quei tempi mediante una semplice auscultazione: come mai il suo medico curante, imposto peraltro dalla sua casa discografica, NON SE NE ERA MAI ACCORTO? Come mai non gli furono somministrati i farmaci atti a contrastare un eventuale prolasso? E soprattutto…se il difetto era così grave da condurlo alla morte, COME MAI NON GLI FU PROIBITO di lavorare fino alla fine? Inoltre il mezzadro JIM EDWARDS, suo amico d’infanzia, riferisce che la veglia funebre si svolse a Longswitch vicino a Leland. Tuttavia nel certificato di morte si parla di Sunflower Count come luogo del decesso. Ancora più strano è il fatto che Charlie non abitasse in nessuno di questi due posti bensì al 350 di Heatman Street in Indianola, dove conviveva con la sua ultima amante BERTHA LEE, che tuttavia non viene mai menzionata come presente al fatto. Si registra invece come testimone oculare della morte di Patton tale WILLIE CALVIN, altro personaggio misterioso ignoto a chiunque frequentasse Patton, amici e parenti compresi. CHI ERA COSTUI? E perché citarlo nel certificato di morte a dispetto di testimonianze più autorevoli come quella della convivente o dei parenti stretti?
Seconda versione: colpito da un fulmine. Lo riferisce HAYES McCULLAN, amicissimo di WILLIE BROWN e dello stesso Patton. In realtà alcuni parlarono di infarto o comunque di una morte improvvisa. Non ci sono ulteriori testimonianze su questa versione, che scarterei. Terza versione: parotite. Lo sostiene SON HOUSE, che disse di aver ricevuto un telegramma da Bertha Lee in cui veniva avvertito della sua morte. Stranissimo visto che la parotite, anche se trascurata, ha dei tempi abbastanza lunghi di azione. Visto lo stretto rapporto tra i due amici E’ IMMAGINABILE che Son House fosse rimasto a casa sua o anche in tournèe senza correre al capezzale dell’ amico? Inoltre vari dati rendono sospetta questa morte. Il medico (che NON viene nominato e la cui firma appare illeggibile) che aveva in cura Patton specifica che l’agonia di Patton durò…92 giorni. Ma esistono anche altre testimonianze scritte dallo stesso medico in cui la durata della malattia scende a ..13 giorni. Come mai queste incongruenze? E comunque…Patton NON FU MAI trasportato in ospedale. 13 o 92 giorni che siano NON si trattò di una morte rapida. E allora COSA FECERO TUTTI in quel lasso di tempo in cui Patton moriva? Ancora più interessante è che, malgrado Bertha Lee abbia spergiurato che Patton sia morto tra le sue braccia, si fa menzione a una certa MINNIE FRANKLIN WASHINGTON come sua ultima moglie, la quale viene anche indicata nel certificato di morte dell’artista. Considerando i trascorsi di Patton non ci stupirebbe che fosse una ennesima consorte occasionale. Tuttavia il certificato di matrimonio dei due NON E’ MAI stato trovato. E volete l’ ultima ciliegina sulla torta? Si sussurra che l’oscuro Willie Calvin di cui sopra fosse in realtà…una DONNA, ultima amante di Patton e l’ UNICA PERSONA (cosa invece sicurissima) che informò le Autorità della morte dell’artista. Si, ma …a distanza di 24 ore precise dal decesso. C’è da chiedersi COME MAI questo ritardo e COSA STESSE FACENDO in quelle stesse ore il medico che firmò il certificato di morte! Probabilmente non sapremo mai come realmente andarono le cose... e in fondo ogni grande artista porta con sé nella tomba un alone di mistero. Purtroppo devo aggiungere con amarezza che la morte di Charlie Patton passò quasi in sordina in un mondo trasformato per sempre dalla sua musica. NIENTE annunci ufficiali, NIENTE cortei funebri e NESSUNA commemorazione pubblica. Neanche i giornali ne parlarono. Soprattutto….NESSUNA LAPIDE. Charlie Patton finì all’ossario comune di Holly Ridge. Solo nel 1990 il musicista JOHN FOGERTY dei CREEDENCE CLEARWATER depose una pietra tombale nel punto in cui il vecchio guardiano del cimitero, tale C. HOWARD, ricordava di avere seppellito l’artista. La grafia del nome Patton e l’epitaffio furono invece coniati da Jim O’ Neal. E questo fu tutto. E SLOAN…che fine fece? Pare che morì, settantenne, nel marzo del 1948 in Arkansas…ma anche qui NON esiste la certezza assoluta che i due Sloan siano la stessa persona. Come in ogni buona leggenda Blues su questa ultima vicenda è impossibile scrivere la parola FINE.
Lapide dell’artista
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