Saving Grace
Pamela Fagan Hutchins
Quando il destino concede all’avvocata Katie Connell, profondamente ferita, nonché un autentico disastro, un'inaspettata seconda possibilità ai Caraibi, lei ritroverà sé stessa, o sarà un assassino a trovarla?
”Katie è il primo personaggio di cui mi sono follemente innamorata sin dai tempi di Stephanie Plum!” scrive Stephanie Swindell, libraia.
La carriera di Katie Connell, avvocata del Texas e trasandata alcolista, si è appena sgretolata davanti ai suoi occhi. Dopo un fallimento pubblico e la commovente fine di una relazione, sfugge alla disintossicazione ritirandosi sull’isola tropicale dove i suoi genitori hanno tragicamente perso la vita. Ma quando vi arriva, diventa sempre più chiaro che il presunto incidente dei genitori fosse stato, invece, freddo e calcolato. Mentre Katie si fa strada tra gli indizi, viene aiutata da una fonte inaspettata: uno spirito di nome Annalise. Tra il fantasma affine, l'atmosfera locale e un bellissimo chef, la bizzarria dell’isola scombussola l’ex-avvocata. Riuscirà Katie a rimettere insieme i pezzi della sua vita e a risolvere il caso di omicidio dei genitori, in questo nuovo inizio?
Le avventure di Katie hanno oltre 4000 recensioni, un punteggio medio di 4.5/5 e sono disponibili come e-book, libro cartaceo e audio-libro. Saving Grace è il primo volume a sé stante della trilogia di Katie, e il primo libro della collana poliziesco-romantica Cosa non uccide. Il sito Once Upon a Romance si riferisce all’autrice come ad una “promettente forza motrice della scrittura”. Se apprezzate scrittrici come Sandra Brown o Janet Evanovich, amerete Pamela Fagan Hutchins, vincitrice del premio USA Today Best Seller. Come ex-avvocata di origini texane, Pamela ha vissuto nelle Isole Vergini per quasi dieci anni, anche se si rifiuta di ammettere di aver trovato l’ispirazione per i suoi romanzi durante quel periodo.
Cosa dicono i lettori della serie Cosa non uccide, su Amazon: “Non riesci a staccartene.” “Piccolo avvertimento: cancellate gli impegni prima di comprarlo perché non riuscirete a staccarvene.” “Hutchins è una maestra nel dosare la tensione.” “Un mistero intrigante… un romanzo accattivante.” “Tutto è brillante: l’intreccio, i personaggi, la scrittura. Una delizia per i lettori.” “Mi ha preso sin da subito.” “Ammaliante.” “Un mistero frenetico” “Non riesco a staccarmene” “Coinvolgente, complesso e ricco di spunti.” “Un omicidio non è mai stato così divertente!” “Garantisco che amerete la lettura!”
Comprate oggi Saving Grace per addentrarvi in un mistero esilarante, da cui non riuscirete a staccarvi!
Translator: Francesca Catani
Saving Grace
Indice
Ebook gratuiti (#ub6190038-77c5-5e1e-b2e3-35cbfa8ae990)
Capitolo 1 (#ubc330667-43f7-59a4-b86b-616781093aea)
Capitolo 2 (#u8c510daf-0aeb-519c-8ba5-eac1e07c0a61)
Capitolo 3 (#u876220f5-6a9f-5f52-bc94-12c1d5a8afd1)
Capitolo 4 (#uef95ebee-720e-56e9-8b2e-3caee14237d2)
Capitolo 5 (#u29f13240-6b6f-5461-bf48-5604e2200732)
Capitolo 6 (#u1017f6cb-c73a-5825-9c35-26359cf48124)
Capitolo 7 (#u36970350-2cd4-5dc9-a5e0-9e2bf567ae04)
Capitolo 8 (#ub2fce3f7-4574-5219-8cad-e7833bb2e655)
Capitolo 9 (#u905a6cbe-3dcb-5c0b-ab92-1164eee507d1)
Capitolo 10 (#uddc0a7e9-c4c4-5dde-a65c-45e804212015)
Capitolo 11 (#u7340ec24-af2a-5e7d-bd87-168b2b087a4f)
Capitolo 12 (#u05ea029a-bd9b-5b08-a999-93b772ae3923)
Capitolo 13 (#ua9d3f4e3-e585-5488-b8fc-b89b53fbee18)
Capitolo 14 (#u385d40a0-7e74-5666-8f73-56b14ad32d87)
Capitolo 15 (#ue724a153-9ea0-5b87-b8c6-87b81c1ed8be)
Capitolo 16 (#ua47bd383-739f-5f1e-9e5c-4a5af67be20e)
Capitolo 17 (#u17c4b6ab-8026-59f7-a17b-acc18dc12648)
Capitolo 18 (#ub9b17f3a-ca02-56d8-8f86-2771ce59ac3a)
Capitolo 19 (#ud86dec3e-fd1f-506e-81ab-30bc7fc7da99)
Capitolo 20 (#u9752335a-892e-517a-b5b3-544d03f88a80)
Capitolo 21 (#u19f48e1c-2fd9-5c75-8ef2-b258aaa1d923)
Capitolo 22 (#uccfe71a5-abb8-530c-a0cb-c2823a6d0700)
Capitolo 23 (#uce6a349a-4571-51ed-8096-3c1de9627002)
Capitolo 24 (#ua31613e7-a981-5328-8973-41b5f7565ce6)
Capitolo 25 (#u00f6e669-333b-5d87-afbe-859bf3f5bd89)
Capitolo 26 (#u907f7f7e-9759-5153-a88b-323f7831bfdd)
Capitolo 27 (#u64af599b-6cd0-5510-8595-2eb472dadd57)
Capitolo 28 (#ue59dfc1b-3347-5fe1-a07c-40d841836928)
Capitolo 29 (#udd49f99f-6bfa-5e74-be86-43d7a4c964a6)
Capitolo 30 (#u3389d04c-004d-5d2f-ab52-cd1da11eecfb)
Capitolo 31 (#uf26e347b-1aca-5efb-9bf1-7641c0ac5a4d)
Capitolo 32 (#ub2d5edee-96d8-5516-9a75-20f27fe6135b)
Capitolo 33 (#u921082d7-994e-5974-9fbb-80dbe6fefc48)
Capitolo 34 (#udc97c575-51aa-594f-ad02-3ad1900e07ad)
Capitolo 35 (#uf850b0ad-3e75-5d14-93df-6302185e094e)
Capitolo 36 (#u63ed8a86-a5b1-5958-9a12-6ae3469ac49b)
Capitolo 37 (#u563ad3e3-3087-5810-8216-182532186689)
Capitolo 38 (#u978f24f5-cf95-50e0-9ba7-d626981e5a0c)
Capitolo 39 (#u0a6b074e-dda7-5090-bd7c-b202e714f80b)
Capitolo 40 (#u055bfd66-34fc-506c-8758-8dd33d2222fa)
Capitolo 41 (#u2a97c059-b549-5cbd-912b-066126a98da5)
Capitolo 42 (#u9df5d7e2-ede0-587e-9741-9b7d343b1ae1)
Capitolo 43 (#u91be3e26-a0d4-51d1-be73-56f5532dec31)
Capitolo 44 (#u1865d3b8-fa29-5420-bd92-31cdef573a78)
Capitolo 45 (#ubc9d689a-2c73-5ef1-a6e3-a20b638924ea)
Capitolo 46 (#ufda02ffb-f7ec-599e-8940-c3b7e4440e40)
Capitolo 47 (#u25447f7f-0f5c-52f0-abc5-cdb1b0ca4ebc)
Capitolo 48 (#u52aed5fa-dadf-58b8-b975-32986dc3eac4)
Capitolo 49 (#u074f1491-7a27-5016-a569-6ffc9be7b3d7)
Dedizione (#u57a68a9c-9655-5769-98f5-0c3d7cd4ad68)
Riconoscimenti (#ue2625c56-a1aa-5bb2-ab00-39090d1b2982)
Libri della stessa Autrice (#u6fc3132f-01ea-5fef-821c-1a5779d5c4b7)
Sull’Autrice (#ud2b3d5ec-5ded-5f1e-abc4-111827481d0b)
Apprezzamenti e premi di Pamela Fagan Hutchins (#u9484c6c4-f082-5a54-81b9-38e12ffcc7cf)
Altri libri della SkipJack Publishing (#u43127eb7-58f1-55ec-8783-3c540945061f)
Senza titolo (#u09c5d651-e289-5b2a-8aa4-6c133b3a7aa9)
Premessa (#u8be83470-b730-594c-b51f-eb0004f15b0c)
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Uno
Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana
14 agosto 2012
L’ultimo anno era stato un disastro, e il nuovo si stava rivelando essere ancora peggio.
L’anno scorso, quando i miei genitori erano morti in un “incidente” durante la loro vacanza ai Caraibi, stavo lavorando troppo per riuscire ad ascoltare i miei istinti, che gridavano sono stronzate! così forte da farmi quasi perdere il terzo orecchio. Stavo preparando il caso più importante della mia carriera – una scusa niente male per presentarsi in ufficio solo all’ora dell’happy hour – anche se in realtà la mia vera ossessione era l’investigatore privato assegnato al mio caso.
Nick. Il quasi divorziato Nick. Nick, il nuovo collega che a volte sembrava volesse strapparmi via la camicetta con i denti, quando non era impegnato ad ignorarmi.
Ma le cose erano cambiate.
Era stato raggiunto un verdetto sul mio mega-processo, il caso di licenziamento senza giusta causa del signor Burnside. Il mio studio raramente si schierava dalla parte del querelante, ecco perché mi ero assunta un grande rischio con questo caso – facendo vincere tre milioni di dollari al signor Burnside, un terzo dei quali spettavano allo studio. L’esatto opposto di un disastro.
Dopo la vittoria al tribunale di Dallas, io e la mia assistente legale Emily ci dirigemmo all’hotel dove lo studio aveva organizzato un ritiro aziendale, a Shreveport, in Louisiana. Shreveport non è di certo nella lista delle migliori destinazioni per vacanze aziendali, ma il nostro socio anziano aveva un debole per il poker, e amava la cucina cajun, il jazz e i casinò sull’acqua. Per Gino, questa vacanza era una bella scusa per concedersi un po’ di texas hold ‘em tra un seminario di team building e l’altro, senza perdere la sua reputazione fenomenale, ma per noi significava un viaggio di tre ore e mezza, andata e ritorno. Non era un problema per me ed Emily. Colmavano i vuoti del rapporto assistente legale/avvocato e amica/collega con disinvoltura, principalmente perché nessuna delle due pretendeva di darsi delle arie.
Una volta arrivate, ci precipitammo a fare il check-in all’Eldorado.
“Desiderate una mappa dei ghost tour?” chiese la receptionist poliglotta, con il suo accento texano.
“La ringrazio, ma no, grazie,” biascicò Emily. Nei dieci anni che era stata lontana da casa, non era ancora riuscita a togliersi il ritmo biascicato tipico della città di Amarillo dalla voce, o rinunciare alle corse dei cavalli.
Anch’io non credevo in quegli abracadabra, ma non ero nemmeno una patita dei casinò, che trasudavano puzza di fumo e disperazione.
“Avete per caso un karaoke, o qualsiasi cosa non sia un casinò, in loco?”
“Certo, signora. Abbiamo un bar panoramico con karaoke, tavoli da biliardo, questo genere di cose.” La ragazza si sistemò la frangia, per poi farla tornare esattamente dov’era prima, scuotendo la testa.
“Questo mi ispira,” dissi ad Emily.
“Karaoke,” rispose. “Di nuovo.” Alzò gli occhi al soffitto. “Se solo potessimo venirci incontro. Voglio giocare a blackjack.”
Dopo aver lasciato le valigie nelle nostre stanze ed esserci date una rinfrescata, parlando al telefono per tutto il tempo, ci unimmo al gruppo. Tutti i colleghi scoppiarono in un applauso non appena entrammo nella sala riunioni. La notizia della nostra vittoria ci aveva precedute. Ci inchinammo, per poi attribuirci il merito l’un l’altra.
“Dov’è Nick?” Chiesi. “Vieni qua.”
Nick aveva lasciato l’aula di tribunale mentre la giuria era uscita per deliberare, battendoci sul tempo. Si alzò in piedi da un tavolo dall’altra parte della stanza, ma non ci raggiunse. Lo applaudii comunque a distanza.
Mentre l’applauso si spegneva, alcuni soci mi indicarono di sedermi al loro tavolo, vicino all’entrata. Mi unii a loro e, nei quindici minuti successivi, ci concentrammo per riscrivere la missione aziendale. Emily ed io eravamo arrivate giusto in tempo per la fine della conferenza. Nel dividerci, il gruppo si precipitò dall’hotel all’imbarcazione ormeggiata che ospitava il casinò. In Louisiana, il gioco d’azzardo è permesso solamente sull’acqua o su terre tribali. D’impulso, mi diressi verso l’ascensore, anziché al casinò. Appena prima che le porte si chiudessero, una mano vi si infilò in mezzo, facendole riaprire, e mi ritrovai diretta alla mia stanza d’hotel in compagnia di niente meno che Nick Kovacs.
“Quindi, Elena, anche tu non giochi d’azzardo,” disse, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano.
Mi si capovolse lo stomaco. Una sdolcinata, lo so, ma quando era di buon umore, Nick mi chiamava Elena — come Elena di Troia.
Avevo promesso ad Emily una partita veloce a blackjack, prima di andare al karaoke, ma non era necessario che lo sapesse. “Se davvero esiste la fortuna del principiante,” dissi. “Giocare d’azzardo potrebbe rivelarsi pericoloso per me.”
La sua risposta fu un silenzio di tomba. Entrambi guardavamo giù, su, a destra, a sinistra, ovunque purché non l’un l’altra, il che era difficile, dato che l’ascensore era ricoperto di specchi. C’era un tantino di tensione nell’aria.
“Però ho sentito che c’è un tavolo da biliardo al bar dell’hotel, mi piacerebbe andarci,” proposi, buttandomi a gamba tesa e trattenendo il respiro nel mentre.
Di nuovo un silenzio di tomba. Un interminabile silenzio di tomba. Sarebbe stata dura riprendersi da questa batosta.
Senza incrociare il mio sguardo, Nick disse, “Okay, ci troviamo là tra pochi minuti.”
Ha davvero detto che ci troviamo là? Solo noi due? Insieme? Oddio, Katie, ma che cosa hai fatto?
Le porte dell’ascensore si aprirono e ognuno si diresse verso la propria stanza. Era troppo tardi per tirarsi indietro adesso.
Ero in stato confusionale. Iper-ventilando. Sudando. Con il cuore a mille. I miei vestiti erano completamente sbagliati, così mi liberai del completo di Ann Taylor e misi su dei jeans, una camicia bianca semplice, e sì, lo ammetto, una borsetta colorata di Jessica Simpson, con dei sandali alti coordinati. Il bianco faceva un bel contrasto con i miei lunghi e ondulati capelli rossi, che sciolsi e sistemai sulle spalle. Lungi dal sembrare un’avvocata, era proprio lo stile che cercavo. Per di più, non mi piaceva neanche il mio lavoro, quindi perché ostentarlo nello stile?
Solitamente sono ossessionata con l’igiene personale, ma mi limitai ad una lavata veloce di denti, una passata di deodorante e del rossetto. Stavo pensando di chiamare Emily per dirle che le avrei dato buca, ma sapevo che avrebbe capito una volta che le avessi spiegato le circostanze. Corsi in ascensore e maledissi ogni singolo piano in cui si fermò, prima di raggiungere il tetto.
Ding. Finalmente. Mi fermai a riprendere fiato. Contai fino a dieci, presi un’ultima boccata d’aria per darmi coraggio e mi diressi attraverso delle luci soffuse al bar. Mi affiancò l’uomo di cui avrei potuto annusare la mascolinità a metri di distanza. Il calore mi invase le guance. Il mio motore si accese. Proprio l’uomo che cercavo.
Nick aveva origini ungheresi e doveva ringraziare i suoi antenati gitani per i suoi colori scuri — gli occhi, i capelli, la pelle — e per gli zigomi pronunciati. Aveva una presenza animalesca che amavo, non la classica bellezza tradizionale. Aveva un naso piuttosto largo, e curvo, dopo averlo rotto così tante volte. Una volta mi aveva raccontato che i suoi incisivi storti erano dovuti ad una mattinata di surf andata male. Ma era affascinante in un modo che non si può spiegare e, dagli sguardi femminili che spesso notavo, non ero l’unica a pensarla così.
Si accorse di me. “Ciao, Elena.”
“Ciao, Paride,” risposi.
Sbuffò. “Oh, tutto ma non il tuo Paride. Paride era un rammollito.”
“Mmmmmm. Menelao allora?”
“Mm, birra, per favore.”
“Sono abbastanza sicura che non ci fosse nessuno chiamato “birra” nella storia di Elena di Troia,” dissi, storcendo il naso con aria superiore.
Nick si rivolse al barista. “Una St. Pauli Girl.” E finalmente sfoggiò il suo tipico sorriso, facendo scomparire tutta la tensione accumulata in ascensore. “Ne vuoi una?”
Mi serviva più di una boccata d’aria per prendere coraggio. “Una Amstel Light.”
Nick ordinò per entrambi. Il barista gli allungò le due birre ricoperte da una patina d’acqua e si asciugò le mani. Nick mi passò la mia, arrotolandogli un tovagliolo intorno e facendo combaciare le punte con la precisione militare che amavo. Nick canticchiava sottovoce, dondolando la testa. Honky-tonk Women dei Rolling Stones.
“Mi sa che mi piaci più a Shreveport che a Dallas,” dissi.
“Grazie, credo. E a me piace vederti felice. Immagino sia stato un anno duro per te, avendo perso i tuoi genitori e tutto quanto. Un brindisi a questo sorriso,” disse, allungando la sua bottiglia di birra verso di me.
Il brindisi mi aveva quasi fatto fermare il cuore. Ci aveva preso sul fatto che era stata dura, ma preferivo che l’argomento rimanesse sotterrato come i miei genitori. Brindai con lui, ma non riuscii a guardarlo negli occhi mentre lo facevo. “Grazie, Nick, davvero.”
“Vuoi giocare a biliardo?” chiese.
“Perché no.”
Ero su di giri: la ragazza del primo anno che esce con il capitano della squadra di baseball. Entrambi amavamo la musica, così parlammo di generi musicali, band – la sua vecchia band, Stingray, e “vere” band –, il mio corso di musica alla Baylor (https://www.subscribepage.com/PFHSuperstars), e di MDMA, o Mania Del Musicista Arrogante. Davanti ad un susseguirsi di birre, ci scambiammo aneddoti sugli anni del liceo, e mi raccontò di essersi una volta occupato di una passerotta malata.
“Una passerotta malata?” chiesi. “Sicuro siano affari miei? Palla otto in buca.” Colpa mia.
Riprese le palle dalle varie buche e le riposizionò nel triangolo, mentre io strofinavo il gesso blu sulla punta della mia stecca e soffiavo via la polvere in eccesso. “Sei un po’ di strette vedute. La passerotta è un uccello, Katie.”
Ripensai a come aveva usato il mio vero nome per una volta, e a come mi aveva fatto stare bene.
“Stavo surfando, e trovai una passerotta che non riusciva a volare. L’ho portata a casa con me e me ne sono preso cura fino a che non è stata ora di liberarla.”
“Oh, mamma mia! Puzzava molto? Ti ha beccato? Scommetto che tua madre fosse contentissima!” Parlavo a vanvera, un susseguirsi di esclamazioni. Che imbarazzo. Sembravo una ragazzina viziata sotto acidi. “Era calma, inizialmente era sotto choc, ma col passare dei giorni si agitava sempre di più. Avevo quattordici anni e mia madre era solo felice che non stessi in camera mia a prendermi cura di una vera passerotta, quindi le stava bene. Iniziò a puzzare davvero tanto dopo alcuni giorni, però.”
Aprii. Le palle schioccarono e rimbalzarono in tutte le direzioni, prima che una piena ruzzolasse dentro una buca laterale. “Piene,” dissi. “Quindi, tua madre ti aveva già beccato ad avere a che fare con una passerotta, eh?”
“Ehm, non ho detto questo...” disse, balbettando fino a tacere.
Ero più innamorata che mai.
Damn, I Wish I Was Your Lover stava passando in sottofondo. Non sentivo quella canzone da anni. Mi fece pensare. Per mesi, avevo combattuto l’impulso di saltargli al collo e stringerlo fra le braccia, consapevole del fatto che la maggior parte dei colleghi l’avrebbe giudicato inappropriato sul luogo di lavoro. Una mancanza loro, secondo me. Misi gli occhi sulla grande terrazza fuori dal bar e pensai che, se fossi riuscita a portare Nick là fuori, avrei finalmente potuto farlo, lontana da occhi indiscreti.
Credevo di avere delle buone possibilità di riuscita, fino a che un collega non entrò. Tim era un consulente dello studio. “Consulente” significava che era troppo vecchio per essere chiamato “associato”, ma che non era un mago degli affari. In più, teneva i pantaloni almeno due centimetri più in alto del dovuto. Lo studio non l’avrebbe mai promosso a socio. Nick ed io ci guardammo negli occhi. Fino ad ora, eravamo stati due radio ad onda corta stazionate sullo stesso canale, perfettamente sintonizzate. Ma adesso la sintonia si era trasformata in interferenza e il suo sguardo si è offuscato. Si era irrigidito e, piano piano, si era allontanato.
Fece un cenno a Tim. “Ehi, Tim, siamo qua.”
Tim ci salutò da lontano e attraversò il bar fumoso. Tutto si stava muovendo a rallentatore nel suo avvicinarsi, pesante passo dopo pesante passo. I suoi piedi echeggiavano ogni volta che colpivano il pavimento, risuonando no… no… no… O forse lo stavo dicendo io a voce alta. Non ne ero sicura, non che facesse alcuna differenza.
“Ehi, Tim, che bello. Prendi una birra, giochiamo a biliardo.”
Oh, ti prego non dirmi che Nick ha appena invitato Tim a stare qui con noi. Avrebbe potuto rifilargli un “ehi come stai divertiti io stavo andando via”, o qualsiasi altra cosa, ma no, ha chiesto a Tim di unirsi a noi.
Tim e Nick mi guardarono, aspettando la mia conferma.
Mi rifugiai in una breve fantasia, dove eseguivo un impeccabile calcio volante, colpendo Tim nella pancia e facendolo cadere per terra, dove rimaneva con i conati di vomito. A cosa erano serviti i tredici anni che mio padre mi aveva costretta a fare karate, se non potevo usarlo in momenti come questi? Ogni donna dovrebbe sapersi difendere, Katie mi diceva mio padre, mentre mi accompagnava al dojo.
Forse questa non era tecnicamente autodifesa, ma l’arrivo di Tim aveva infranto le mie speranze di saltare addosso a Nick, e tutto quello che ne sarebbe seguito. Non era forse un motivo valido?
Scacciai il pensiero. “In realtà, Tim, perché non prendi il mio posto? Sono stata tutta la settimana in aula, sono sfinita. Iniziamo presto domani. È l’ultimo giorno, il gran finale dell’équipe Hailey & Hart.” E passai a Tim la mia stecca.
Tim apprezzò l’idea. Chiaramente le donne lo spaventavano. Se mi aspettavo che Nick si opponesse, non lo fece. Riprese il teatrino “Katie chi?” che faceva fuori dall’ufficio.
Mi era toccato un “Buonanotte,” senza aggiungere né Elena né Katie.
Presi un’altra Amstel Light al bar per il tragitto fino alla mia stanza.
Due
Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana
14 agosto 2012
Quindici minuti dopo, avevo tirato fuori una bottiglia di vino dal minibar. Presi in mano il mio iPhone con l’intento di mandare un messaggio. Scrivere da ubriachi, mai una buona idea. Magari ci fosse stato un poliziotto lì ad arrestarmi: mi avrebbe salvata da quello che stava per succedere.
A Nick: “Mi hai scaricata per Tim. Mi sento sola.” A quel punto avrei anche potuto aggiungere, “Con amore, la tua pazza stalker.”
Nessuna risposta. Aspettai cinque minuti, mentre finivo un bicchiere di vino. Riempii di nuovo il bicchiere. Rilessi i trecento messaggi di Emily che chiedeva dove fossi, ai quali la mia riposta era stata “Nick!!! Scusami. Ci sentiamo dopo.”
Mandai un altro messaggio a Nick. “Ci sei? Sei ancora con Tim?”
“Ehi,” fu la sua riposta.
Un altro messaggio, pochi secondi dopo: “Dobbiamo parlare.”
Buon segno o cattivo segno, mi chiedevo. “Parlare” è un eufemismo per “non parlare”?
Risposi a Nick: “Ok. Dove, quando?”
“Lunedì, ufficio.”
Un pugno allo stomaco. Forza, Katie, forza. Non farti sfuggire questa occasione. C’è ancora speranza. “Non è giusto. Adesso? Scegli un posto.”
“Cattiva idea. Ho bevuto.”
“Me la caverò. Camera 632.”
Nessuna risposta. Pensa pensa pensa pensa pensa pensa pensa. Non ha detto di no. Non ha detto di sì. Potrei riscrivergli e chiedere una risposta chiara, ma potrebbe essere quella sbagliata. Supponi che sia un sì e ricomponiti, ragazza.
Ispezionai l’austera camera d’hotel, il piumone scadente, ingrigito dal lavaggio continuo in lavatrici industriali, il colore sbiadito delle tende risalente agli anni in cui la stanza era per fumatori, una stampa da catalogo raffigurante una barca, appesa sulla carta da parati metallizzata. Non era esattamente ciò che ci si aspetta per un interludio romantico. Misi a posto ciò che riuscivo, tra me e la stanza, e cercai di prepararmi per assumere un comportamento sobrio.
Niente Nick. Camminavo avanti e indietro. Mi lamentavo. Controllavo i messaggi. E poi, improvvisamente, sapevo che era lì, l’avevo sentito con il mio Nick-radar extrasensoriale.
Sbirciai dallo spioncino. Sì, era lì, facendo ciò che facevo io, ma dall’altro lato di quel pezzo di legno massiccio. Però non potevo aprire la porta, o avrebbe scoperto che stavo lì in piedi a guardarlo.
Alzò la mano per bussare. La abbassò. Si girò per andarsene; tornò. Come fosse un artiglio, si passò la mano fra i capelli e chiuse gli occhi.
Bussò alla porta. Trattenni il respiro mentre dicevo una breve preghiera. “Ti prego Dio, aiutami a non mandare tutto all’aria.” Probabilmente non la preghiera meglio concepita o eseguita già pronunciata. Aprii la porta.
Nessuno dei due disse nulla. Feci un passo indietro e lui entrò, stringendo un tovagliolo del bar nella sua mano sinistra. Passava invece la mano destra ancora fra i capelli, un tic nervoso che non avevo mai notato prima di questa sera.
Mi sedetti sul letto. Lui si sedette in una sedia sotto la finestra.
“Hai detto che dobbiamo parlare,” lo imboccai.
Si concentrò sul suo tovagliolo stropicciato per un bel po’. Quando alzò lo sguardo, indicò prima lui e poi me e disse, “La mia vita è troppo complicata adesso. Mi dispiace, ma questa cosa non può succedere.”
Queste non erano le parole che avevo sperato di sentire. Forse erano grossomodo quelle che mi aspettavo di sentire, ma non per questo avevo perso la speranza. La mia faccia andava a fuoco. Conto alla rovescia alla fusione.
“Con ‘questa cosa’ suppongo tu ti riferisca a una qualche ‘cosa’ fra noi due? Ovviamente non può succedere. Sono una socia dello studio.” Ascoltavo la mia voce come se venisse da lontano. Altezzosa. Distante. “So che a volte sembra che stia flirtando, ma faccio così con tutti, Nick. Non preoccuparti. Non ci sto provando con te.”
Potevo quasi intravedere il segno sul suo volto allo schiaffo delle mie parole.
“Ti ho sentita parlare al telefono con Emily quando sei arrivata, oggi pomeriggio.”
Inquietante. “Di cosa stai parlando?”
“Sono passato davanti alla tua camera. La porta era socchiusa, Ti ho vista. Ti ho sentita.”
Protestai, “Come sapevi che ero io?”
“Riconosco la tua voce. Stavi parlando di me. Ho sentito il mio nome. Mi dispiace di aver origliato, ma non sono riuscito a trattenermi. Mi sono fermato e ho ascoltato.”
Provai ad interromperlo, ma andò avanti.
“Hai detto,” e, oh, quanto non avrei voluto sentire ciò che stava per dire, “che non riuscivi a credere quanto fossi attratta da me. Che ti sentivi in colpa perché pensavi più a me che al lavoro o a ciò che è accaduto ai tuoi genitori…” Nick si mangiava le parole, faticava a parlare. “Hai detto ad Emily che non riesci a fare a meno di essere innamorata di me.”
Oddio. Mamma mia. Il sangue non mi arrivava più alla faccia. Avevo detto quelle cose ad Emily per telefono. Mi aveva chiamata per raccomandarsi che andassi alla conferenza e io avevo portato la conversazione su Nick. Era una cosa così normale che l’avevo dimenticata. Diavolo, così normale che probabilmente lei neanche mi stava ascoltando. Improvvisamente, mi resi conto di quanto ero ubriaca e la stanza iniziò a girare.
Forzai una risata acuta. “Sì, ho menzionato il tuo nome, ma questo non è ciò che ho detto.”
“Invece sì,” mi interruppe. “Non sono un idiota. So quello che ho sentito.”
“Beh, lo stai interpretando male,” insistetti. “Non ti sto addosso, Nick. Per quello che ne so, sei ancora sposato. E lavoriamo insieme. Mi dispiace se ti ho messo a disagio. Proverò a non farlo di nuovo.”
“Non mi hai messo a disagio.” Si interruppe e passò una terza volta la mano fra i capelli, fissando il tovagliolo di nuovo. C’era scritto qualcosa su quel maledetto coso. “È solo che…” Sospirò, e si fermò.
“Solo che cosa?”
Nessuna risposta. Vorrei poter dire che è solo per colpa dell’alcol che esordì con sarcasmo, ma è così.
“Perché non interpelli il tuo tovagliolo magico per sapere cosa dovresti dire?”
Si incupì. “Sei stata scortese.”
Iniziavo a scaldarmi. “Beh, sembra che tu sia venuto qui con il tuo discorso pronto. ‘Rimetti la povera Katie malata d’amore al suo posto’.” Inspirai profondamente e buttai tutto fuori, “Non riesco a credere che tu abbia dovuto annotare cosa dire in un tovagliolo da bar.”
“Non sono bravo quanto te con le parole, Signora Avvocata. Volevo fare le cose per bene. Non prendermi in giro perché ho preso la cosa seriamente.”
“Mi dispiace per averti sottoposto a tanto stress.” Allora non mi dispiaceva affatto, e sospetto che il mio tono l’avesse fatto capire. “Per carità, finisci di leggere il tuo tovagliolo.”
Si alzò in piedi. “Non c’è altro sul mio tovagliolo di cui dobbiamo parlare.”
Troppo tardi, mi accorsi di quanto mi stavo comportando male. “Nick, mi dispiace. Dimentica ciò che ho detto. Ho bevuto troppo. Merda, bevo troppo ultimamente, e di sicuro ci darò un taglio. Spero che questo non comprometta la nostra amicizia e che possiamo continuare a lavorare normalmente. Sai come sono fatta. Sono troppo diretta e ho la lingua lunga.” Smisi di blaterare inutilmente e lottai per mantenere il contatto visivo con lui.
I miei pensieri si confondevano. Come avevo fatto a fraintenderlo a tal punto? Avevo sempre creduto che, in fondo, provasse un’attrazione per me — non solamente a livello fisico —come io la provavo per lui. Che se gli avessi dato la giusta opportunità e spinta, mi avrebbe fatto mancare la terra da sotto i piedi e portato nella sua carrozza magica, per vivere felici e contenti.
Che pensiero ridicolo. Non ero Cenerentola. Ero Glenn Close con il coniglio bollito. E lui Michael Douglas che cercava di scappare.
Non sapevo come rimediare. Ogni secondo che passava, il suo sguardo era sempre più ostile. Senza rivolgermi un’altra parola, se ne andò furioso, con quel maledetto tovagliolo stropicciato.
Tre
Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana
15 agosto 2012
Mi svegliai con violenti postumi, tanto colpa dell’umiliazione quanto della Amstel Light e del vino del minibar, e mi ricordai di Nick nella mia camera, e di come mi ero comportata. Era difficile immaginare uno scenario dove fosse andata peggio di così, ma almeno non l’avevo trovato nudo alla mia porta con una rosa fra i denti. Mi sarei alzata e mi sarei rimessa in sesto. Avrei sfoggiato il mio maglioncino verde muschio di Ellen Tracy. Avrei sistemato le cose.
Ma prima, avrei controllato i messaggi, perché il mio telefono stava esplodendo. A quest’ora del mattino?
“Dove CAVOLO sei?” Era Emily.
“?? Mi sto preparando.”
Una verità un po’ distorta, ma la regola fondamentale degli SMS è di essere concisi, per questo omisi qualche dettaglio.
“Abbiamo iniziato. Muovi il sedere!”
Forse non era così presto come pensavo. “Sto arrivando.”
Beh, farmi bella e riprendermi allo stesso tempo era ormai fuori questione, anche se penso ci sarei riuscita comunque date le circostanze, indipendentemente dalla fretta. Mi rimisi in sesto in conformità con le norme igieniche ed estetiche di base e mi unii alla conferenza di team building, giorno due. Speravo di riuscire a fingere abbastanza bene da ingannare i colleghi.
Mi fermai davanti alla porta aperta della sala riunioni e mi misi ad ascoltare il moderatore. Lo studio aveva assunto uno sdolcinato consulente per aiutarci a risolvere gli attriti fra di noi in modo positivo e costruttivo.
“Buona fortuna,” pensai. Mi chiesi se potesse aiutarmi a risolvere il mio “Voglio andare a letto con il mio forse ancora sposato collega che, oh sì giusto, tra l’altro mi odia”.
Questa non era però una conferenza hippie: il consulente era in realtà molto bravo. Oggi si imparava come richiedere uno sforzo maggiore o minore da un collega. Ci chiese di fare coppia con il collega con cui avevamo più bisogno di costruire una relazione di lavoro efficace.
Feci la mia entrata nella sala riunioni a tema floreale. Nel giro di pochi secondi, le coppie erano formate. Analizzai la stanza per individuare i pomposi capelli biondi alla texana di Emily, sperando che mi avesse aspettata, ma era già accoppiata con il capo dei consulenti legali, prendendo l’attività troppo sul serio. Le lanciai un’occhiataccia e lei scrollò le spalle, alzando le sopracciglia, come per dire “Non è colpa mia se mi dai buca e poi non riesci ad alzarti dal letto prima di mezzogiorno.” Sbuffai e mi misi a cercare un partner.
Mentre scrutavo la stanza, gli occhi senza vita di Nick incontrarono i miei. Non bene. Anch’io non lasciavo trasparire alcuna emozione, uno sforzo considerevole considerando che gli snack del minibar della notte scorsa cercavano di tornare fuori. Iniziai a girarmi, quando vidi che stava venendo verso di me. Mi aspettavo che mi superasse, ma non lo fece.
Non disse nulla, così lo feci io. Non riuscii a trattenermi. Conduco sempre io il gioco. Non c’è da stupirsi se mio fratello maggiore mi diceva che allontano gli uomini.
“Quindi, non ne hai avuto abbastanza di me?” E forzai un sorriso autocritico.
Lui non sorrise. “Sembra il modo migliore per risolvere ‘questa cosa’, così possiamo chiarirci prima di tornare in ufficio.” Agitava la mano indicando prima lui e poi me. Mi ricordava la scorsa notte, e non in senso buono.
Ci sedemmo. I fiori sulla carta da parati e sul pavimento non mi stavano risollevando il morale. Le vigne sul tappeto iniziarono improvvisamente ad alzarsi e ad incatenarmi alla sedia per le caviglie. No, testa di rapa, è la tua immaginazione, e troppo alcol. Ugh. Snervante. Sfregai le mani sulle braccia, cercando di smussare la pelle d’oca.
Nick lesse le istruzioni a voce alta. Dovevamo fare una lista di esercizi a turno. Per prima cosa, dovevamo dirci a vicenda le cose che apprezzavamo a vicenda; poi, le cose di cui avevamo più o meno bisogno da parte dell’altro; e infine, cosa volevamo impegnarci a fare di più o di meno. In caso ci fossimo scordati le istruzioni, erano state stampate a caratteri cubitali e incollate in tutte le pareti. Grazie, poster, per smorzare questo incubo floreale, pensai.
“Inizia tu, Nick. Credo tu abbia bisogno di ricordare cosa ti piace di me.” Dissi in tono giocoso.
Non ricambiò, né esitò. “Apprezzo che tu sia una professionista che fa un buon lavoro e lavora sodo. Sei importante per lo studio.” Non proprio caloroso.
“Grazie, Nick. Nient’altro? Puoi andare avanti quanto vuoi con i complimenti.” Provai a sfoggiare un altro sorriso, con la testa inclinata a destra. Il mio lato migliore.
“Ho finito.”
Stava andando alla grande.
“Okay, allora, di te apprezzo che…” mentre lui aveva scelto un atteggiamento puramente professionale, io mi rifiutavo di essere così impersonale, “… la tua creatività e sesto senso, e il lavoro che abbiamo svolto così bene sul caso Burnside.” Internalizzai le frasi fatte di cui trasudava l’atmosfera, come in una versione giuridica di un brutto episodio del Dr. Phil. “E apprezzo che tu non abbia un tovagliolo da bar con te oggi.” Ding, ding — Forza Nick, lasciamocelo alle spalle.
Impossibile. “Adesso passiamo alla seconda parte, più o meno bisogno di.” Si passò le mani fra i capelli. Oh-oh. “Cosa vorrei tu facessi di più è informare Gino quando hai bisogno di aiuto da parte mia, e me ne occuperò io. Cosa vorrei tu facessi di meno è,” esitò, e poi disse, “mettermi all’angolo.”
Avevo sentito male o Nick mi aveva appena scaricata? E accusata di stalking? In altre parole. Anche dopo la fine infelice della nostra serata, le ricadute professionali sembravano esagerate. Stava forse insinuando che l’avessi molestato sessualmente? In meno di un secondo, passai da zero a sessanta in una scala di rabbia.
“Non vuoi più lavorare con me? Ti metto all’ANGOLO? Abbiamo una conversazione difficile a livello personale e tu ti rifiuti di lavorare con me?”
“Puoi abbassare la voce per favore?” sibilò. Gettai le braccia in aria. Lo prese come un sì e continuò. “Voglio solo minimizzare i contatti,” disse. La sua voce rifletteva lo sguardo.
“Assurdo.” Nick alzò la mano, e io aumentai di nuovo il volume. “Siamo un’ottima squadra. Quando lavoriamo insieme portiamo grandi benefici allo studio. Non capisco perché lo stai facendo. Tutto a causa di ieri notte?”
Cento occhi mi stavano guardando mentre cadevo a pezzi emotivamente. No, era solo paranoia. Portai le mani al colletto per cercare di allentarlo.
“Non intendo parlare del perché. Ho solo bisogno di spazio. Se hai un problema con me, devi rivolgerti a Gino.”
Tempo di decisioni e autocontrollo. Se avessi fatto una scenata, l’avrei messo in imbarazzo e non sarei mai riuscita a rimettere le cose a posto. Avevo passato metà della notte prima a fare pace con il fatto che non ci sarebbe mai stato un “noi”, un “Nick e Katie”. Non mi piaceva l’avvocatura, ma nell’ultimo anno, avevo amato lavorare con Nick. Lavorare con lui era meglio di niente. Forse era anche abbastanza. Ma se me l’avesse impedito, l’unica cosa che mi sarebbe rimasta sarebbero stati pensieri che volevo continuare ad ignorare.
Dovevo anche essere realistica. Ero importante per lo studio. Ma il futuro ex-suocero di Nick era il nostro maggior cliente. Questo screzio doveva rimanere fra di noi. Non mi sarei “rivolta a Gino”. Inoltre, cosa gli avrei detto? Gino, Nick non vuole lavorare con me perché pensa che voglia andare a letto con lui. Fai in modo che sia gentile con me o faccio la matta.
Misurai le mie parole. “Immagino di non avere scelta. Rispetterò le tue richieste, ma lasciami essere chiara al cento per cento: questa è una tua decisione. Non la capisco e non è ciò che voglio. Inoltre, prometto di essere sincera con te. Iniziando da adesso.” Sembrava un bell’inizio, dato che gli avevo mentito la sera prima e lui lo sapeva. “Questo mi ferisce. Mi tratti come se mi odiassi. Abbiamo avuto un momento spiacevole questo fine settimana. Penso ne dovremmo riparlare in ufficio.”
“Non la penserò diversamente,” disse Nick. Fece per alzarsi, ma lo fermai.
“Aspetta. Devo dire cosa vorrei tu facessi di più e di meno.”
Si rimise a sedere. Ignorai il dolore lancinante allo stomaco e cominciai. “Vorrei che tu tenessi una mente più aperta, giudicassi meno e prendessi meno decisioni impulsive.”
“Okay.”
“Okay, ti impegnerai a farlo?”
“Sì, ho capito.”
Ci guardammo negli occhi per molti altri secondi. Poi Nick si alzò. Le gambe della sua sedia emisero un orribile “criiiic” sfregando contro il pavimento in resina. Rabbrividii. Probabilmente al momento sbagliato, visto come aggrottò la fronte e strinse le labbra. Se ne andò.
Rimasi inchiodata alla mia sedia.
Un po’ di tempo dopo — secondi? minuti? — Emily interruppe la mia imitazione di un blocco di ghiaccio.
“Terra chiama Katie. C’è la pausa. Vieni?” chiese. Il suo tono era nervoso, ma non quanto i messaggi di questa mattina.
Rivolsi lo sguardo verso di lei. Con le sue gambe lunghissime, aveva messo degli stivaletti texani e un paio di jeans, che aveva poi abbinato ad una giacca in denim della Gap e una camicetta di cotone viola. “Ehm, no, grazie. Ci rivediamo dopo qui,” dissi.
Emily uscì dalla sala riunioni con un gruppo di consulenti legali. Mi precipitai al bar. Qual è un cocktail che sia accettabile bere alle dieci del mattino? Ordinai un Bloody Mary, un drink che non avevo mai provato. E chi lo sapeva quanto fosse buono il Bloody Mary? Il primo mi piacque, così ne ordinai un altro. Con l’aiuto del mio nuovo amico Bloody Mary, decisi che potevo rimettere le cose a posto con Nick. Solo, non riuscivo a trovarlo.
Una volta finita la paura, presi Emily da parte. “Hai visto Nick?” le chiesi.
Emily sospirò. “Se n’è andato. Ho sentito che diceva a Gino di avere un’emergenza familiare.”
Un fiasco.
La giornata voltò al termine. Non mi ricordo molto. Penso di aver fatto espressioni e commenti opportuni quando richiesto. O forse no. La lavatrice che avevo al posto del cervello stava centrifugando pensieri su Nick.
Ad una certa ora del pomeriggio, Emily mi riaccompagnò a casa sulla mia vecchia Honda Accord metallizzata. Il giorno si trasformò in notte, e la notte di nuovo in giorno, e quando mi svegliai il giorno seguente al sentire la voce di mio fratello, mi ritrovai stravaccata sul divano del soggiorno.
Quattro
Appartamento di Katie, Dallas, Texas
16 agosto 2012
“Hai una buona scusa per non aver riposto a nessuna delle mie chiamate?” disse Collin in un austero tono da fratello maggiore. Mi sforzai di aprire gli occhi abbastanza da vederlo gesticolare per il soggiorno del mio – una volta – bellissimo appartamento. Collin era come un gemello, più grande di me di undici mesi. Avevamo finito le superiori insieme, però, dato che nostro padre, un vero texano, aveva insistito che Collin aspettasse un anno per avere un vantaggio fisico nella squadra di football. Perciò non solo eravamo identici, ma anche compagni di classe. Eppure, Collin ha sempre avuto uno spirito paterno nei miei confronti, specialmente nell’ultimo anno, dopo aver perso mamma e papà.
Aprii leggermente gli occhi, abbastanza da vedere il casino che avevo lasciato. Non doveva avere un bell’aspetto. Normalmente sono inverosimilmente maniacale per quanto riguarda la pulizia. Collin ha sempre sostenuto che avessi un disturbo ossessivo-compulsivo, ma io non ero d’accordo. Passo l’aspirapolvere al contrario perché non mi piacciono le impronte sulla moquette. Organizzo i miei vestiti per stagione e li suddivido per scopo e colore, chi non lo fa? E anche se non tutti pettinano le frange dei cuscini come me, credo che dovrebbero faro. Frange aggrovigliate. Che orrore. Queste ultime settimane, però? Beh, non così tanto.
C’erano — oh — involucri di cibo pronto sul tavolo della cucina e un paio di bottiglie di Grey Goose vuote sul piano di lavoro. Per gli standard di Dennis la Minaccia, non era così antigenico, ma se mi conosceste come mi conosce mio fratello, vi preoccupereste. Avevo dormito con gli abiti da lavoro di ieri e i vestiti dei giorni precedenti erano in una pila che non avevo ancora portato in lavanderia, a lato del sofà — lo stesso sofà sul quale il cuscino dalle frange aggrovigliate mi stava innervosendo, con i suoi nodi e le sue trecce. Sulla televisione passava Runaway di Bon Jovi da un canale di musica anni ‘80. Un quasi prosciugato Bloody Mary si prendeva gioco di me dal tavolino da caffè, dove sedeva vicino al mio portatile Vaio, una bottiglia di Excedrin e il mio iPhone.
Mi misi a sedere nel modo più decoroso possibile e stiracchiai i vestiti. “Perché non ho sentito l’allarme quando sei entrato?” gli chiesi. Collin aveva una copia delle chiavi del mio appartamento, ma l’allarme avrebbe dovuto suonare quando aveva aperto la porta.
Senza mezzi termini, Collin disse, “Devi essere stata troppo ubriaca per ricordarti di impostarlo. O forse c’era un ospite che se n’è andato tardi?”
Si guardò intorno cercando un secondo bicchiere, ma avevo bevuto da sola. Collin iniziò a mettere a posto il casino.
“Collin, ci penso io,” dissi.
“No. Vai a darti una rinfrescata,” disse. “Ti porto a fare colazione. È un ordine.”
Lo guardai con i miei occhi tristi. Indossava i soliti jeans 501 con una maglietta della Hooters, e sprizzava la frase Io non ho problemi da tutti i pori. Non volevo fare colazione con lui. Volevo mettermi in posizione fetale. Volevo dormire e stare da sola. Volevo stare così ferma da non esistere più.
Mi guardò mentre rimanevo immobile sul divano e qualcosa gli fece mettere giù la mia roba e venire lì da me. Prendendomi la mano, mi mise in piedi. Trattenne il mio corpo rigido in un abbraccio da orso, dondolandomi piano per qualche secondo. Oh oh. In un primo momento, provai a trattenermi, ma poi mi ripiegai su di lui e iniziai a singhiozzargli sulla spalla. Dal singhiozzare passai a tirare su col naso, poi iniziarono i gemini e dopo i vennero i respiri irregolari. Mi inclinò la testa all’indietro mettendo il pollice sotto al mio mento e mi guardò negli occhi, scrutandomi.
“Vai a farti una doccia calda. Mangiamo in posto tranquillo, ma esco — con te in macchina — tra venti minuti.” Mi diede una pacca sulla spalla. “Hop hop. Sai che se devo ti vengo a prendere nella doccia. Non costringermi a farlo.”
Con una spinta leggera, mi spedì in fondo al corridoio, al bagno, da dove lo sentii mentre ricominciava a mettere a posto. Le lacrime mi scorrevano sul naso e sulle guance. Cavoli, avrei dovuto bere litri e litri d’acqua a colazione; visto il ritmo del mio pianto e la quantità di vodka che avevo bevuto la sera prima, ero ad un passo da un violento mal di testa per disidratazione.
Quarantacinque minuti dopo, ci sedevamo all’IHOP di Mockingbird Lane. Da sempre uno dei nostri posti preferiti da bambini, oggi notai che aveva molte rifiniture arancioni nell’arredamento, e per questo iniziò a piacermi meno. Collin mi sorprese quando chiese un tavolo per tre, ma non avevo le energie per fare domande. Capii solo quando vidi i capelli da sfilata di Emily all’entrata. Camminò verso di noi nei suoi pantaloni plissettati blu notte e la sua camicetta in seta gialla, stretta alla vita da una cintura in pelle che si abbinava ai tacchi marroni.
“Ciao, Katie.” Mi guardò per un secondo, poi distolse lo sguardo.
Alzai la mano in segno di saluto. Ottimo. Un’altra persona a vedermi in questo stato. Avevo evitato di fermarmi davanti allo specchio a casa, ma la rapida occhiata che avevo dato mi era bastata. Una coda di cavallo bagnata. Dei vecchi pantaloni della tuta e una maglietta. Occhi gonfi e giallastri. Bleah.
Evitammo di parlare, guardando ognuno il proprio menù, fino a che la cameriera di mezza età, che avrebbe dovuto indossare un’uniforme di una taglia in più, non venne a prendere l’ordine. I muscoli dello stomaco mi si strinsero mentre se ne andava. Quasi la richiamai indietro per farle togliere il succo d’arancia dal mio ordine, ma non lo feci. Perché ritardare l’inevitabile. Collin ci aveva riunito per un motivo e, per quanto spiacevole, la cosa stava per venire fuori.
“Emily ed io abbiamo parlato, e mi ha raccontato cosa ti sta succedendo,” Collin.
Speravo che Emily avesse omesso alcuni dettagli, ma non potevo incolparla per avere la mia salute a cuore. O per aver spettegolato con Collin. Era un poliziotto, aveva seguito la scia di nostro padre, e c’era testimone che non riuscisse a far crollare, gli piaceva dire.
Collin continuò a parlare. “Siamo preoccupati per te. Sei nei casini. Ti stai facendo del male.”
Volse lo sguardo ad Emily in cerca di una conferma e lei abbassò lo sguardo verso il copritavolo in formica. Conoscendo Collin, l’aveva trascinata in questa piccola sessione di terapia e, conoscendo Em, era venuta a malincuore. Emily era spigliata, ma dare ordini non era il suo stile.
Non avevo le forze di contrariare Collin e, sinceramente, non ero neanche in disaccordo con lui. Ero un disastro in questo momento, senza dubbio. Mi aveva presa in uno di quei rari momenti in cui la parte di me senza peli sulla lingua non era lì a difendere la parte più fragile. Probabilmente era ancora stravaccata sul divano a riprendersi dalla sbornia.
“Hai ragione,” ammisi. Queste parole erano come polvere sulla mia lingua secca. “Devo rimettermi in sesto.”
“Penso tu debba andare in un centro di disintossicazione.” Le parole di Collin erano forti, anche perché non c’è un modo per addolcire l’espressione “centro di disintossicazione”.
Quindi era così che si era sentita Amy Winehouse. E adesso era morta. Questo mi diede da pensare. Però io non ero Amy Winehouse.
“Sto passando un brutto periodo, sì, e sto bevendo troppo, ma solo da alcune settimane. Non penso sia il caso di mandarmi in un centro.” Il solo pensiero di dover parlare dei miei problemi con tutti quegli alcolisti mi faceva sentire claustrofobica. Gli Alcolisti Anonimi forse aiutano la maggior parte delle persone, ma io non sono una ragazza da lavori di gruppo. E poi, non ero un’alcolista.
“Queste ultime tre settimane sono state particolarmente dure, ma sei su questa strada da molto più tempo.” disse Collin. “Tipo un anno. Riesci a ridurre o smettere? Scommetto che ci hai già provato, vero?” Evitavo il suo sguardo. “E scommetto che non ha funzionato.”
No, stronzo, non ci ho provato stavo per dire. Stavo per. Invece, dissi, “Non ci ho provato. So che posso, quando sarò pronta.”
Arrivò la mia omelette al formaggio, ma non avevo fame. Nessuno di noi toccò il proprio cibo.
“Ammetto che avrei dei problemi a farlo qui a Dallas, anche se ci provassi. Quando ci proverò. Ma so che, se riuscissi a mettere in pausa la mia vita per qualche settimana, potrei tenere tutto sotto controllo. Sono disposta a cominciare da qui. I centri non fanno per me. Forse se un giorno mi trovaste a dormire in un cassonetto allora sì, ma non adesso.”
“Va bene. Ti darò una possibilità, fanne tesoro. Hai in mente qualcosa?” chiese Collin.
Inspirai tutta l’aria che potevo, per poi sforzarmi a espirarla tutta, fino a quando il mio stomaco non crollò. “St. Marcos. Ho bisogno di superare ciò che è successo a mamma e papà.” Iniziai a piangere, poi mi trattenni. Aprii la bocca per parlare e le lacrime iniziarono a sfociare di nuovo.
“Ne sei sicura?” chiese Collin.
Annuii e usai la parte pulita del tovagliolo per asciugare le lacrime. Come alzai lo sguardo, una giovane donna nera attirò la mia attenzione, un po’ perché mi stava fissando, e un po’ perché era scalza all’IHOP e i suoi vestiti sembravano di centocinquanta stagioni fa. Ora, lei aveva un problema. Droga, a quanto sembrava. Un’ottima candidata per un centro di disintossicazione. Non io. Mi asciugai gli occhi di nuovo e quando li aprii, non c’era più. Niente di niente. Stavo impazzendo. Deglutii.
Avevo un disperato bisogno di andarmene. Questo viaggio, questa disintossicazione in solitaria o periodo sabbatico o qualunque cosa fosse, sarebbe stato una manna dal cielo.
E così concordammo che sarei partita. Immediatamente. Tipo, domani. Porca miseria. Un po’ prima di quanto avevo previsto, ma Collin insistette, e Emily promise di aiutarmi a renderlo possibile. Collin mi fece promettere con una stretta di mano, quando mi riaccompagnò all’appartamento, e Emily era proprio dietro di noi a testimoniare.
Emily ed io ci presentammo a lavoro alla Hailey & Hart a metà mattinata, dopo essermi messa un tailleur estivo color crema, più adatto all’ufficio. Non facemmo molto se non pianificare il mio viaggio e liberare la mia agenda. Chiesi a Gino i giorni di ferie, aspettandomi di dover litigare, ma non fu così. Mi diede una pacca sulla mano. Ugh.
“Un po’ di tempo libero ti farà molto bene,” disse. “Hai lavorato sodo quest’anno, in circostanze terribili, hai bisogno di ricaricarti e riportare qui la migliore versione di te stessa.”
Ottimo. Che nella lingua dei capi, significava Sei un disastro, vai via da qui. Beh, lo ero. Un disastro mortificato. Domani non era poi così presto per andarsene, dopotutto.
Sotto richiesta di Collin, Emily passò la notte da me a sorvegliarmi, lasciando il marito a casa da solo. Emily era un’amica molto migliore di quanto meritassi, ma, tanto tempo fa, avevo fatto lo stesso per lei quando Rich aveva temporaneamente annullato il loro fidanzamento. Il karma.
Più tardi quella notte, finalmente menzionai il nome che nessuno aveva pronunciato per tutto il giorno. “Se Nick dovesse chiedere dove sono, per favore dagli la versione censurata.”
Emily era seduta su uno sgabello ed io ero in piedi all’altro lato del piano cucina. Si sporse verso di me. “Non pensarci nemmeno. Da quando siamo andate a Shreveport, Nick si sta comportando come Heathcliff di Cime Tempestose. Forza. Lascia perdere.”
Stavo ricevendo un sacco di consigli velati oggi. Questo era: la verità è che non gli piaci abbastanza. Ahia, ma aveva ragione.
Ma sarei davvero riuscita a lasciare qui i miei sentimenti per lui ed andare a St. Marcos con la mente sgombra? Mi rigirai tutta la notte nel letto, in balia dei pensieri sui miei genitori e su Nick.
Cinque
Aeroporto Internazionale DFW, Dallas, Texas
17 agosto 2012
“Si pregano i gentili passeggeri di spegnere e riporre tutti i dispositivi elettronici,” disse la voce dell’assistente di volo dall’altoparlante dell’American Airlines. Merda. Stavo scrivendo un’e-mail ad Emily, promettendo di offrirle una costata di manzo da Del Frisco, se avesse tolto gli avanzi di sushi dal frigo di casa mia, e arrivai a premere invia per il rotto della cuffia.
Mi ero sistemata al mio posto in prima classe, in attesa di arrivare a St. Marcos, con le cose più essenziali a portata di mano: passaporto, il mio portatile rosso della Vaio e iPhone, nella sua cover zebrata della Otter Box. So che la maggior parte degli avvocati preferisce i dispositivi della Dell e Blackberry, ma mi piaceva pensare che non ero come gli altri. Certo, ultimamente ero diventata il peggiore degli stereotipi sugli avvocati: quello che beve troppo. Purtroppo per me.
L’e-mail che avevo mandato ieri agli amici esterni al lavoro spiegava la mia partenza improvvisa come una vacanza. Potevano immaginarmi a sorseggiare una Piña Colada sulla spiaggia, ballando tutta la notte sulle note di musica calypso con un attraente uomo caraibico, mentre mi davo alla pazza gioia. Emily si sarebbe occupata di dare la notizia al lavoro questa mattina.
A proposito di uomini caraibici, l’uomo al mio fianco in prima classe stava cercando di leggere quello che scrivevo al telefono. Mi girai dall’altro lato. Dove sono le tue maniere da passeggero di prima classe?
Tornai ad occuparmi delle mie e-mail. Non avrei dovuto avvisare Nick in prima persona? Forse si era comportato un po’ come Heathcliff ma, prima di Shreveport, gli avrei sicuramente mandato un avviso provocante sulla mia partenza. Se fosse stato lui a scomparire, avrei voluto saperne il perché. Ipso facto, non lo avrebbe voluto anche lui? Seguendo questo raziocinio logico scadente, mi buttai a scrivere un’e-mail veloce.
A: nick.kovacs@haileyhart.com (mailto:nick.kovacs@haileyhart.com)
Da: katie.connell@haileyhart.com (mailto:katie.connell@haileyhart.com)
Oggetto: Viaggio
Nick:
Volevo farti sapere, nell’eventualità in cui tu notassi che me ne sono andata, che sono partita per una vacanza ai Caraibi. Torno fra una settimana. Emily si occuperà dei miei casi mentre sono via. E, Nick, mi dispiace. Per tutto.
Katie
Dopo Shreveport, gli avevo promesso di dire sempre la verità. Beh, ero stata quasi completamente sincera, era una sorta di vacanza. Chiusi gli occhi con il dito su invia, esitante.
“Signora, dovrebbe spegnerlo e riporlo immediatamente, per favore.” L’assistente di volo dai capelli grigi si abbassò su di me, con un sorrisino sulla faccia. Doveva odiare ripetere le stesse cose in continuazione a persone come me che mentono, imbrogliano e fingono, solo per avere qualche secondo di connessione in più prima di decollare. Però, ero una brava ragazza questa volta.
“Nessun problema,” dissi. Premetti invia e spensi lo schermo. Beh, più o meno brava. Risistemai lo schienale e sistemai le pieghe dell’abito lungo che indossavo.
“Mi chiamo Guy,” disse l’uomo seduto vicino a me. Mi porse la mano.
Nooo. Volevo dormire. Gli strinsi la mano — una mano molto morbida, morbida come se facesse il bagno nella vaselina — e dissi, “Katie. Piacere,” e distolsi lo sguardo. Appoggiai la nuca sullo schienale. “Non pensare alla forfora, pidocchi e altre schifezze che ci sono in testa,” mi dissi. E immediatamente non riuscii a pensare ad altro.
Un bebè iniziò a urlare. Sollevai la testa per cercare il colpevole. Un giovane padre che viaggiava da solo nella prima fila della seconda classe. Non un grande inizio.
Tornò l’assistente di volo. La sua pelle sembrava più giovane di quanto indicassero i capelli e aveva degli occhi vivaci. “Posso portarle qualcosa da bere prima del decollo, signora?”
Dopo aver inviato quell’e-mail a Nick, ero ansiosa. L’enfant terrible e il potenziale problema pidocchi mi davano da pensare. Stavo andando a combattere i miei demoni e affrontare i miei problemi personali in una terra sconosciuta. Anche un bevitore responsabile avrebbe ordinato un drink in prima classe, date queste circostanze.
“Bloody Mary,” disse qualcuno. Ero io. Ops.
“Certamente, signora.”
Beh, non ero al resort, non ero nemmeno ancora a St. Marcos. Se ci pensate, questo era il conto alla rovescia, ma la partita non era ancora cominciata. Non dovevo guardarmi dal bere prima di arrivare là. In più, a cosa serve viaggiare in prima classe se non per i drink gratis? Certo, servivano anche una ciotola calda di frutta secca e ti portavano un asciugamano tiepido con un paio di pinze da cucina, forse anche un biscotto cremoso alle scaglie di cioccolato se eri fortunata, ma l’alcool era il vero motivo.
“Ne porti due,” disse il mio nuovo amico Guy. Si allungò leggermente verso di me e disse, “Tutto ciò che mi ci voleva. Sono stato a Los Angeles per incontrare dei produttori televisivi a proposito di uno show che voglio registrare a St. Marcos. Sono stanchissimo.”
“Ma non mi dire,” dissi.
Quando atterrammo a St. Marcos, mi sentivo brilla dalle concessioni del volo. Augurai a Guy una buona permanenza e mentii sia sul mio cognome che sul resort in cui avrei soggiornato, per assicurarmi di non imbattermi in lui nuovamente.
Mi sedetti sulla navetta diretta al Peacock Flower Resort, dondolando la testa al ritmo di I Shot the Sheriff di Bob Marley. Arrivai all’hotel, che era ancora meglio di quanto avessi immaginato. Un’architettura fiera, imbiancata di rosa, due piani, circondata da maestose palme. Capii perché ai miei genitori piaceva soggiornare qui. Entrai di buon passo nella hall, dove il portiere mi allungò un bicchiere trasparente di punch al rum con una grande fetta di ananas. Frutta, Per cena. Le persone qui erano incantevoli.
Mi registrai e l’addetto alla reception chiamò un ragazzino gentilissimo per accompagnarmi alla mia camera. Riempì il mio bicchiere di rum prima di farmi strada. “Per non passare sete in questa lunga camminata alla stanza, signora,” disse facendomi l’occhiolino. Il suo accento era adorabile.
La mia camera era a ridosso della spiaggia, ma circondata da palme per preservarne la riservatezza.
“Molte persone famose occupano questa camera.” Mi fissava intensamente. “Dovrei forse conoscerla? È tremendamente bella, signora. È una modella?”
Scelsi di ignorare il fatto che mi aveva fatto questi commenti in procinto di lasciare la stanza, proprio quando stavo decidendo la somma che avrei dato di mancia. Dissi, “Macché, grazie,” mettendogli una banconota da venti dollari nel palmo della mano. Fece un mezzo inchino per ringraziarmi e mi augurò un “felice buon pomeriggio”.
Ispezionai l’ambiente. Ah, bene, lo studio era perfetto. Appoggiai la borsa in terra ai piedi della scrivania, il cui bordo si allineava perfettamente con quelli del mio portatile, proprio come piace a me. Controllai il telefono. Era senza batteria. Infilai la mano nella borsa del computer per cercare il caricatore e lo misi in carica. Chissà quanto tempo avevo perso aspettando di ricevere dei messaggi con il cellulare spento. Sicuramente proprio quando Nick avrebbe risposto alla mia e-mail, tra l’altro. Disfai la valigia, aspettando che il telefono si riaccendesse e connettesse.
Continuai il tour in solitaria della suite. Il sito del resort sosteneva che ci fosse una vasca grande abbastanza per due persone, ed era proprio così. Abbastanza larga da contenere me e il mio alter ego dalla lingua infuocata che beveva decisamente troppo. Delle mattonelle color terra in marmo, di diverse sfumature, trame, dimensioni, forme e fantasie riempivano il bagno. Sulla carta, la ricetta perfetta per un arredamento eccessivo, ma non lo era. Era mozzafiato.
La palette chiara del resto della suite si abbinava perfettamente con i toni naturali del bagno. Il meglio della natura portato delicatamente all’interno. I mobili e il ventilatore da tetto erano in bambù e le lenzuola rigate color avorio erano in un cotone egiziano, che sembrava avere mille fili, sotto un morbido piumone crema. Non vedevo l’ora di fiondarmi a letto e rotolarmi in quelle lenzuola, passandomi il cotone fresco sulla pelle. La maggior parte dei colori della stanza — giallo brillante, verde palma e fucsia — riprendevano piante e fiori locali.
Una portafinestra si affacciava dal bagno su un patio rivestito da piastrelle in travertino color mandorla. Il patio faceva poi spazio ad un piccolo giardino costellato di palme, che terminava con un accesso privato alla spiaggia. Oltre la spiaggia dorata si intravedeva il Mar dei Caraibi, color turchese e zaffiro. Sorrisi. Questo posto faceva per me.
Il mio iPhone si era caricato abbastanza da scaricare i dati. Lo presi in mano e mi misi a scorrere le e-mail. La mia segretaria aveva mandato qualche domanda e sia Collin che Emily mi avevano chiesto di avvisarli quando fossi arrivata. Lo feci, e mi rimisi a scorrere fra i messaggi, la maggior parte dei quali era spazzatura. E così giunsi a quello mi lasciò senza fiato: la risposta di Nick.
Misi giù il telefono fino a quando non ripresi a respirare normalmente. Asciugai i palmi sul vestito viola e ripresi in mano il cellulare. Niente di grave. Stavo bene. Il corpo della e-mail era breve:
“ok”
ok. OK!! Due lettere minuscole, una parola. Non molto a cui aggrapparmi. Avrebbe potuto cancellare l’e-mail senza leggerla. Avrebbe potuto leggerla senza rispondere. Avrebbe potuto leggerla e rispondere in modo maleducato (“ok” era maleducato?). O, avrebbe potuto leggerla e rispondere con qualcosa di incoraggiante, tipo “Ci vediamo quando torni” o “Buone vacanze”. Con la mente iniziai a ripercorrere tutti i possibili scenari che coinvolgevano Nick, un’aspirante NASCAR in un parcheggio di roulotte. Così non andava bene.
Scolai il mio punch al rum e cenai con la fetta d’ananas decorativa. Guardai dentro al minibar. Jackpot. Un’intera caraffa di punch al rum mi stava aspettando. Purtroppo, non c’era frutta. Il succo di frutta fa abbastanza bene però. Il punch al rum sarebbe stato un degno sostituto del Bloody Mary. Mi servii un bicchiere.
Nick. Quell’impassibile idiota. Dovetti sforzarmi per non rispondergli. Punch al rum. Mi sforzai più duramente. Più punch al rum. E così presi la mia decisione. Dovevo andarmene da lì. Presi la borsa, il telefono e la chiave della camera e mi diressi al bar che avevo intravisto durante il check-in.
Il bar in questione era un patio coperto in cima ad una collina con vista sulla spiaggia e sull’oceano. Mi trascinai su per gli scalini di pietra e scoprii una grande concentrazione di gente, sia davanti al bancone in mogano che ai tavoli, sparpagliati sul pavimento in ceramica. Alcune persone ballavano, una danza lenta e sensuale, sulle note della musica di un gruppo reggae che non sembrava niente male. Stavano suonando una canzone sui trentacinque gradi all’ombra. La cantante borbottava il ritornello — “Molto caldo, anche all’ o-o-o-ombra.” Mi sedetti al bancone e mi girai ad osservarli, mentre aspettavo che il barista dai rasta biondi mi servisse il mio Bloody Mary. Dopo il primo sorso, mi resi conto che così non andava bene, e ordinai del punch al rum.
“Butti via cocktail perfetto? Qual è tuo problema, amica?” Disse qualcuno, pronunciano “amica” in un modo tipo “amuica”. Ci misi un po’ a capire che era stata la cantante a parlare.
“Ho cambiato idea,” dissi.
“A meno che tu no abbia qualche strana malattia, dà me quella roba,” disse.
Le allungai il bicchiere, ignorando quanto fastidio mi desse il condividere germi con una sconosciuta. Non volevo fare la maleducata. “Ne ho bevuto un sorso,” la avvisai.
Tirò fuori la cannuccia dal bicchiere e la lanciò verso il bidone dall’altro lato del bancone. Non entrò. “Grazie. Cantare fa sete.” Mi porse la mano. “Io Ava.”
Le strinsi la mano. “Katie.”
“Mia gente loro via prima che finiamo nostro ultimo set. Problema.”
Provai a seguire, ma il suo accento spezzato non aiutava. Mi persi metà di quello che disse. Le feci pena.
“Lah, tu non mi capisci.” Buttò giù un po’ di Bloody Mary. “Ho detto che la band se n’è appena andata e non abbiamo finito il nostro ultimo set. Finiremo nei guai col proprietario,” disse con un accento impeccabile, pronunciando ogni parola perfettamente.
“Oh, wow, sì, adesso capisco.”
“Mi dispiace. Uso la parlata locale quando mi esibisco, o quando parlo con altri locali. Ma posso americanizzarmi al bisogno.”
“Americanizzarti?”
“Parlare come gli americani. È come essere bilingue. Parlare la lingua come la parlano i locali facilita le cose e fa colpo sui turisti. Fa parte dell’essere baan ya.”
“Cosa significa baan ya?”
“Tradotto, significa ‘nato qui.’ Puoi vivere a St. Marcos da quarant’anni, ma sei davvero dell’isola se sei baan ya. Come me. Ora, ti devo un drink,” disse, facendo un segnale al barista, “E con i miei amici, pago sempre i miei debiti.”
Sei
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Mi risvegliai su una chaise longue il mattino seguente, con ancora addosso il vestito lungo del giorno precedente. Stessa storia, posto diverso. Ma ero disgustata da me stessa anche più del solito. Ero qui per approfondire la morte dei miei genitori e rimettermi in sesto, il che doveva comprendere darci un taglio col bere. E pensare a qualcos’altro, anziché a Nick. Sembrava che l’unica cosa che avessi fatto finora fosse prendere i miei problemi e portarli in una realtà diversa, facendo del passato il mio presente. Bel lavoro, Katie.
In un momento di panico, mi tornò alla mente la notte prima. L’e-mail di Nick. Il punch al rum. Il bar dell’hotel. Gli avevo mandato un altro messaggio? Oh, ti prego, no.
Mi fiondai in piedi, con il cuore che mi batteva in gola. L’acqua azzurra giocava con la sabbia marrone proprio nella spiaggia davanti ai miei occhi. In lontananza, due bambini piccoli giocavano con i secchielli sul bagnasciuga. Sopra di me, il sole del mattino brillava attraverso le foglie di palma e baciava il tappeto d’erba davanti al patio. La pace di questo posto mi rasserenò. Sarebbe andato tutto bene.
Trovai il cellulare vicino a me e mi misi a scorrere tra messaggi ed e-mail inviate. Nulla, grazie Signore. Ieri sera avevo mandato tutto all’aria. Ma, oggi, avrei iniziato ad indagare sul mistero della morte dei miei genitori e avrei riiniziato da zero, sul fronte personale. Dopo un paio di altre ore di sonno. Mi riaccasciai sulla mia chaise longue.
“Lah, amica, una serata da rock star,” disse la voce di una donna. Una donna praticamente davanti a me, a quanto pare.
Mi alzai di nuovo, ancora più velocemente. Riconobbi quella voce roca. Anche se il nome della donna a cui apparteneva era un mistero. Mi sforzai. Abigail? Ariel? Eva? No. Ava. Era Ava.
Finsi una risata. “Sì, che serata. Almeno ciò che ricordo.”
Mi affacciai e scrutai la chaise longue dall’altra parte del patio e, eccola, c’era Ava. Si alzò in punta di piedi e stiracchiò le braccia sopra la testa, azione che può avere conseguenze inaspettate se svolta in quel suo mini-vestitino giallo in lycra. Distolsi lo sguardo. Una volta finito, si ributtò sulla sedia, stropicciandosi gli occhi.
“Beh, immagino dovremmo iniziare a prepararci,” disse, gettando le ciglia finte sul tavolino del patio e iniziando a lavorare sull’altro occhio. “Però io voto per una tanica d’acqua e due Excedrin con delle uova strapazzate prima.”
Non avevo la minima idea di cosa stesse parlando. Provai a liberare la mente dalla nebbia della sbornia. Dovevo preoccuparmi? Avevo letto a proposito dei pirati e dei furfanti dei Caraibi. Forse era una truffatrice di qualche tipo. Potevo essenzialmente essere sua prigioniera. Era un po’ esagerato, ma possibile. Per un momento i miei neuroni stavano per ricordare qualcosa, che poi svanì.
Ava continuò a parlare. “Conosco lo chef del ristorante. Ci penserà lui.” Ava si allungò per prendere il telefono dal tavolino del patio al suo fianco.
La ascoltai ordinare nel suo dialetto locale. Nonostante fosse al telefono, continuò il suo rituale — tolse orecchini, un braccialetto e una collana — e si alzò di nuovo finita la chiamata.
“Hop hop, Katie. Ci aspettano giù alla stazione.” Si tolse il vestito in un’unica mossa veloce, rivelando le proprie impeccabili curve color caffelatte, imbrigliate in un completo intimo leopardato in raso. Le mie mani si posarono sulle mie anche sporgenti, Pippi Calzelunghe e Beyoncé. Si infilò nella mia stanza.
Rimisi la mascella al suo posto e ripensai alle sue parole. Stazione, stazione di polizia. Sì. Doveva essere questo. Alcuni frammenti di ieri sera iniziarono a tornarmi alla mente, tra i quali io che racconto ad Ava di essere qui per scoprire cos’è successo davvero ai miei genitori, e lei che chiama un qualche agente di polizia con cui era uscita o che voleva uscire con lei, qualcosa così. Sì. Era così. Mi ricordavo. Sollievo.
Si affacciò dalla portafinestra e racchiuse i suoi lunghi capelli ricci in uno chignon. “Ti dispiace se faccio la doccia per prima?”
“Tranquilla,” dissi.
Sollevò un sopracciglio. “Stai bene?”
Balzai in piedi. “Certamente. Cerchiamo di darci una mossa con le docce e finire prima che passi il servizio in camera.”
“Yah mon,” disse, scomparendo di nuovo.
Buttai la testa all’indietro con gli occhi chiusi e mi tappai il naso. Solo perché iniziavo a ricordarmi di ieri sera, non voleva dire che passare la giornata insieme fosse una buona idea. Non conoscevo nemmeno Ava. Stavo esagerando? Riportai su la testa.
Beh, lo stavo per scoprire.
Sette
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
“Non riesco a credere che tu stia mollando tutto per aiutarmi,” dissi.
Ava aveva ingabbiato le sue curve in un bikini e una minigonna di jeans azzurra, entrambi miei, e si era messa una delle mie camicette facendo un nodo sopra l’ombelico. Rimase scalza.
“La migliore offerta del giorno,” disse. “Sono appena tornata sull’isola, sei mesi fa. Faccio la ballerina/cantante/attrice/morta di fame a New York, ma i miei genitori stanno invecchiando e, beh, non posso allontanarmi da St. Marcos per sempre. Ce l’ho nel sangue.” Prese in mano il telefono, si mise a cercare qualcosa fino a trovarla, poi me lo passò. Aveva aperto una sua fotografia, dove si trovava tra un uomo bianco molto più vecchio di lei e una donna dalla pelle scura, con un’età compresa fra quella di Ava e del marito. “I miei genitori,” spiegò. “Quindi capisco perché sei qui. Se qualcosa succedesse a mamma o papà, farei lo stesso.”
Evidentemente, le avevo detto tutto la sera prima.
“Siete molto belli,” dissi. “Sei l’esatta combinazione fra i due.” E le restituii il telefono.
Lo era. Ava trasudava sensualità, con la sua pelle cappuccino e i suoi ricci scuri poteva passare per ogni etnia. Italiana, egiziana, messicana, o tutte insieme. Una bella combinazione.
Tirò fuori un rossetto dalla sua minuscola borsetta e si diresse al bagno, continuando a parlare. “Yah, sono fantastici. Comunque, sono a casa, ma non c’è molto lavoro sull’isola per una laureata all’Università di New York con una specializzazione in musical di Broadway e nessun’altro tipo di competenze professionali.”
Alzai la voce per farmi sentire dall’altra stanza. “Ti capisco. Ho seguito un corso di musica all’università, prima di rinsavire. Tre anni spesi a farmi dire quanti pochi soldi avrei guadagnato come cantante.”
“Sai cantare? Amica, perché non me l’hai detto ieri sera? Avrei potuto farti salire sul palco.”
“Assolutamente no,” dissi, ridendo. “È passata una vita.”
“Non vuol dire nulla. Beh, comunque, sono contenta che tu sia qui. Questo è molto meglio che guardare Oprah con mia mamma.” Ava tornò in camera da letto e si mise a studiarmi, con un dito sulle labbra. “Il fatto è, penso tu sia una tipa a posto.”
Mi piaceva, anche se eravamo agli antipodi. E adoravo ascoltarla parlare, e stavo anche iniziando a capire meglio il suo dialetto. Yah era “sì” e Yah mon poteva essere “sì” o “nessun problema”, ad esempio. Non era poi così difficile.
Le dissi, “Beh, di nuovo, grazie dell’aiuto.”
Ava mise il piede vicino al mio e alzò la testa. “Mi serve un paio di scarpe. Le uniche che ho sono quei tacchi da rimorchio che avevo messo ieri sera. Ho i piedi abbastanza grandi, che ne pensi se proviamo il paio più piccolo che hai?”
Fui un attimo turbata da questa dichiarazione, data l’educazione impartitami dalla mia maestra d’asilo/madre, ma il commento sui miei piedi non mi offese. Ero dieci centimetri più alta di lei. “Cosa ne dici di queste?” chiesi, lanciandole dei sandali infradito della Reef che erano mezza taglia più piccoli di quanto avrei dovuto comprarli.
Vi infilò il piede dentro e si mise in posa come in un negozio di scarpe. “Cosa ne pensi?”
“Penso che la tua roba stia meglio a te che a me, e che dobbiamo sbrigarci, altrimenti inizierò a odiarti per questo.”
Rise e mi posò un braccio sulle spalle. “Yah, o io ti odierò per fare sembrare il mio bana ancor più grande di quanto già non sia,” disse, sculacciandosi il sedere con l’altra mano. “Dai, andiamo.”
Ava tolse il braccio dalla mia spalla. Si mise i miei occhiali da sole, prese la mia borsa dalla scrivania e mi infilò i piedi dentro ai sandali di Betsey Johnson che per fortuna erano troppo grandi per la mia nuova amica. Ava uscì dopo di me. Camminavo a passo sostenuto per i marciapiedi, alimentata dalla splendida mattina, per raggiungere l’auto a noleggio che il portiere aveva fatto recapitare qui per me.
“Rallenta e rilassati un po’, Katie. Stai andando troppo veloce per i ritmi dell’isola,” disse Ava dietro di me.
Aprii la portiera dell’adorabile Chevrolet Malibu verde. “Rilassarmi, ci posso riuscire. Fatto.”
Lungo il tragitto, Ava mi istruì sui convenevoli dell’isola, sottolineando quanto fosse importante integrarmi per la riuscita della mia missione.
“Non dire ciao. Dì buongiorno, buon pomeriggio, e buona sera. Lo dici quando entri in una stanza piena di gente, non alle singole persone. Non c’è bisogno di stabilire un contatto visivo. Dopo averlo detto, fai una lunga pausa, per dare la possibilità all’altra persona di rispondere e chiederti come state tu e la tua famiglia. Dopo, e solo dopo, puoi parlare di affari. Se non segui questo rituale, non otterrai mai nulla.”
“Sì, signora,” dissi, portando la mano alla fronte.
“Sono seria. Se fai le cose di fretta, parli velocemente e non dici le cose giuste, faranno finta di ascoltarti e anche se crederai che stia andando tutto bene, non sarà così.”
Tenni a freno la mia allegria. “Lo so che sei seria, e apprezzo il tuo aiuto.”
“Comunque, lascia che parli io.”
Non ero molto brava a lasciare che qualcuno parlasse per me, ma ci avrei provato.
Eravamo ormai nel centro della città e dovetti improvvisamente sterzare per evitare una limousine che stava uscendo da un parcheggio proprio davanti a noi. Mentre mi rimettevo a sinistra, sentii uno scricchiolio sotto una delle ruote. Suonai il clacson. Già era difficile guidare a sinistra, e adesso questo. Diedi uno sguardo allo specchietto retrovisore per leggere la targa. Una targa personalizzata. Ovviamente. Diceva, “BondsEnt”.
“Quello è il mio futuro marito,” disse Ava, indicando la limousine.
“Sul serio?”
“Nah, è solo abbastanza ricco da mantenermi.”
Un isolato più avanti, sentii un tum, tum, tum. Gomma a terra.
“Merda,” dissi, accostando.
“Domenica mattina,” disse Ava, come se in qualche modo spiegasse l’accaduto. Devo averla guardata con fare interrogativo, poiché aggiunse, “Vetri rotti delle feste in città.”
“Ah,” dissi. Una donna di molte parole.
“Non è un problema,” disse Ava, balzando fuori.
La seguii sul marciapiede. Scossando appena i capelli, una folla di uomini caraibici si fiondarono lì per darle una mano.
“Ah, mehson, i tuoi muscoli stanno facendo un ottimo lavoro.” Lusingò i suoi aiutanti, chinandosi in avanti in modo da mostrare la scollatura.
“Posso mostrarti altri modi di usarli, se vuoi,” rispose.
“Lah, sei troppo per una ragazza come me. Le altre donne devono litigare per te giorno e notte.”
“Sei l’unica ragazza per me, Ava. Sai che se mi vuoi, io sono qua.”
Una volta finito di cambiare la ruota, Ava si liberò della folla senza troppi sforzi. Rientrammo in auto.
“Sei stata incredibile,” dissi.
Ava si limitò a sorridere.
Continuammo a guidare per il centro e i suoi edifici in stile danese. Predominavano pareti in stucco e archi di diversi colori e dimensioni. Praticamente tutte le altre costruzioni erano ridotte allo sfacelo. Ad alcune mancava il tetto. Colpa degli uragani, forse? Altre avevano appena una pila di macerie al posto dei muri. La gente del posto si ritrovava a piccoli gruppi agli angoli delle strade. Più spesso di quanto mi aspettassi, sorpassammo dei senzatetto sgangherati che spingevano carrelli pieni di oggetti di fortuna. I turisti, in maglietta e pantaloncini, si facevano strada tra i locali con le loro straripanti buste della spesa e coni gelato tra le mani.
Presto, però, superammo il centro. Ai margini della città, arrivammo ad un edificio in stile danese a due piani, color carta da zucchero. Quartier generale della Polizia. Entrammo nel parcheggio e uscimmo dall’auto.
Era ora di fare la cosa giusta, per mamma e papà.
Otto
Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Ava si era accordata per vedersi con il suo amico alle 11:30 in punto. Entrammo nel vecchio edificio che fungeva da Stazione di Polizia con quindici minuti di ritardo, che Ava commentò essere “quasi in anticipo”. Ava, con il suo fare semplice e sexy, ed io, che cercavo di trattenermi dall’essere sempre di corsa, sfoggiando un ridicolo stile virgineo in confronto a lei, con il mio prendisole bianco. Tolsi gli occhiali da sole e li ficcai nella custodia, in borsa.
“Buongiorno,” annunciai, entrando nella stazione. Un coro di “buongiorno” si propagò per la stanza in risposta. Quasi mi misi a ridere. Ava si girò per guardare se la stessi prendendo in giro, poi si complimentò con me con un cenno del capo.
“Buongiorno. Siamo qui per incontrare Jacoby,” disse all’impiegata seduta alla scrivania dietro al front desk, interrompendo il suo dolce far niente.
Ava fu immediatamente circondata da agenti che offrivano il proprio aiuto, da chi diceva di conoscere Jacoby, di essere Jacoby, di essere più uomo di quanto Jacoby sarebbe mai stato. Affollarono la reception al primo piano, una stanzetta che probabilmente, cent’anni prima, era stata il salotto di qualcuno. Adesso era arredata con sedie pieghevoli e un tavolino da caffè in laminato, ricoperto da riviste e giornali piuttosto consumati. Ne presi uno, mentre Ava teneva a bada gli ammiratori, e lessi oziosamente dell’acquisizione di una compagnia telefonica locale da parte di un magnate dell’isola. Il suo nome era Bonds. Gregory Bonds. Risi tra me e me della mia stupida battuta. Ah, sì, doveva trattarsi del futuro marito di Ava, il ragazzo con un pessimo autista. Lo rimisi a posto, non sopportando più il servilismo del giornalista.
Quando il vero Jacoby si fece avanti, rimasi scioccata. Era una specie di Shrek nero, non il dio color ebano dell’isola che mi ero immaginata al fianco della bellezza sensuale di Ava. Ava si lasciò scappare un urletto adolescenziale — un’altra grande sorpresa — e si lanciò su di lui a braccia aperte, con conseguenti mormorii e grugniti delusi, insieme ad alcuni suoni che sembravano come se qualcuno stesse succhiando la saliva attraverso i denti, da parte del pubblico maschile. Bleah. Gli altri agenti di polizia si dispersero, chi tornando in ufficio o ai piani superiori, la cui scala d’accesso si intravedeva oltre la reception.
“Katie, questo è Jacoby. Siamo inseparabili sin dai tempi dell’asilo. Jacoby, Katie.”
Mi porse la mano. “Darren Jacoby.”
Gliela strinsi. “Un piacere conoscerla, Agente Jacoby. Sono Katie Connell.”
Jacoby indicò una delle porte della stanza e ci spostammo. Aprendo la porta in legno massiccio, ci ritrovammo in una sala conferenze vuota, con spesse pareti in cemento. Costruita per resistere a Madre Natura. C’era un tavolo in metallo ripiegabile, e lo stesso tipo di sedie dell’ingresso. Di nuovo, immaginai come potesse essere stata questa stanza una volta. Una camera da letto, decisi. Ci sedemmo intorno al tavolo.
“Quindi, Ava, immagino di non aver sognato la tua chiamata sexy di ieri notte,” disse.
Se cercate un esempio perfetto di come la speranza sia l’ultima a morire, eccolo.
“Hai sognato che fosse sexy, ma sì, ti ho chiamato,” rispose. “Katie ha bisogno di aiuto. I suoi genitori sono morti a St. Marcos l’anno scorso, erano qui in vacanza.”
Distolse lo sguardo da Ava. “Mi dispiace, Signora Connell,” disse.
“Mi chiami Katie, per favore. Grazie.”
Mi fece segno di continuare a parlare.
Ava non mi aveva chiesto di lasciarla parlare? Decisi che non l’aveva detto seriamente e presi il controllo. “La Polizia ha detto a me e a mio fratello che i nostri genitori sono morti in un incidente stradale. Senza offesa per la Polizia di St. Marcos, ma, date le circostanze per come ce le hanno spiegate, sentivo che c’era qualcosa che non tornava. Non era da loro. Speravo di poter parlare con l’agente che si è occupato del caso e se possibile leggere il loro fascicolo. Appianare i miei dubbi, fare i conti con la situazione,” spiegai.
Strinse gli occhi. “Conosce il nome dell’agente di polizia?” chiese.
“No,” dissi. “Mi dispiace.” Collin l’avrebbe saputo. Avrei dovuto chiederglielo.
“Ha detto che il cognome è Connell?” chiese.
“Sì. Frank e Heather Connell.”
Senza dire altro, spinse indietro la sedia. Una delle gambe aveva perso il cuscinetto ed emise un rumore stridulo che mi ricordò di Shreveport, e di Nick. Jacoby lasciò la stanza.
“Che brusco,” dissi ad Ava.
“Tendono a serrare i ranghi, specialmente se non sei baan ya,” disse Ava. “Ecco perché ti ho detto ieri sera che sarei dovuta venire con te, e che avremmo dovuto lavorare con Jacoby, almeno il più possibile.”
Mi sorse un dubbio. “Spero non fosse lui l’agente che se ne occupò. In quel caso, l’ho appena accusato di aver fatto un casino.”
Ava rimase seduta con un sorriso da Gioconda sulle labbra. I secondi ticchettavano sull’orologio da muro dietro di lei. Passò un minuto, poi un altro, e poi un altro. Ava tirò fuori il telefono e iniziò a smaneggiare. Tolsi la mano dalla bocca, rendendomi conto troppo tardi che avevo strappato la cuticola dall’indice. Stava sanguinando.
Poi Jacoby fece ritorno, riempiendo la stanza con la sua barba ispida. Teneva un fascicolo sotto il braccio e un piccolo pezzo di carta in mano.
“Ho parlato con il mio capo, il vicecomandante Tutein. Ha detto di darle questo.” Si era americanizzato adesso, a scapito della parlata locale. Mi allungò il pezzo di carta, che aveva i buchi da un lato, rivelando di essere stato strappato da un quaderno.
Lessi le parole scritte a matita: Walker, King’s Cross n°32. “È il nome dell’agente?” chiesi.
“No, l’agente che si occupò del caso è annegato undici mesi fa,” disse Darren, con voce piatta. Non aggiunse altri dettagli, e io non feci domande.
“Mi dispiace. Cosa sa dirmi del fascicolo? Posso vederlo?”
Mi fissò. “È stato un semplice incidente stradale.” Si passò la mano sulla nuca. “Abbiamo un rapporto dell’accaduto. Le ho fatto una copia. Forse la scientifica sa qualcosa di più.”
Tirò fuori la cartella e la aprì. Una pagina. La presi in mano cautamente, il mio sguardo cadde sui nomi Frank Connell e Heather Connell. Lessi il resto velocemente, fino a quando non trovai il nome dell’agente che rispose alla chiamata. Scritto con chiarezza, leggeva Michael Jacoby. Firmato in piccolo e storto, diceva George Tutein. Jacoby. Ma non questo Jacoby, perché questo Jacoby — Darren — era più che vivo.
“Walker è un investigatore privato, l’unico di St. Marcos. Tutein dice che Walker ha dei buoni contatti sull’isola e che lavora per un paio delle aziende locali più importanti. Forse può aiutarla.” Jacoby iniziò a farsi da parte. “Ma i suoi genitori sono morti in un incidente stradale. Non sembra esserci molto altro che possa scoprire.”
“Quindi non c’è nessun altro qui con cui possa parlare?” Un fuoco di rabbia si accese dentro di me e iniziò a diffondersi.
“Solo Michael. Ed è morto.” Si girò verso Ava. “È stato bello rivederti.” Girò i tacchi e se ne andò.
Le mie guance e orecchie stavano andando a fuoco. Tutto questo scatenava un campanello d’allarme per me. Feci per parlare ma Ava si portò un dito alle labbra. Chiusi la bocca strinsi i denti. Indicò l’uscita con un cenno della testa e si alzò per andarsene, gridando a tutti i presenti, “Un buon pomeriggio a tutti voi.”
Un muro di afa mi aspettava alla porta, ma mi ci lanciai all’interno, alimentata dalla frustrazione. Due agenti di polizia ci passarono vicino ed entrarono nell’edificio, e adesso eravamo da sole. Strizzai gli occhi, scavando nella borsa in cerca degli occhiali da sole.
Consapevole della loro amicizia, smorzai un po’ la mia collera. “Ava, so che è tuo amico, ma non ti sembra che volesse mettermi a tacere? So che non sono di qui, ma qualcosa non torna.”
Lo sguardo di Ava sfrecciò a destra e sinistra. “Shh, Katie. Le cose qui sono diverse dagli Stati Uniti.”
Aprii la macchina e sbloccai le portiere. Entrammo.
“Fammi vedere quel rapporto,” disse Ava.
Glielo passai. Non c’era molto da vedere. Incidente stradale, caduti da un dirupo sugli scogli sottostanti. Guidatore e passeggero deceduti. I miei genitori.
Senza alzare lo sguardo dal foglio, Ava chiese, “Cos’è che ti fa essere così sicura che non sia stato un incidente?”
“Non sono sicura. Credo molto nelle intuizioni, ed è una mia sensazione, che scaturisce da alcuni dettagli che non hanno molto senso. Come il fatto che mia madre indossasse l’anello di matrimonio di mia nonna, ma la polizia non l’ha ritrovato. Né su di lei, né tra le sue cose in hotel. Mi è sembrato strano. In più, parlai con i miei genitori quella sera. Erano stati a cena e stavano tornando al Peacock Flower Resort. Mi hanno chiamato mentre erano in macchina. Stavano benissimo. E poi sono morti.” Merda. I miei occhi iniziarono ad ingrossarsi.
“Okay, okay. Qui dice che tuo padre era abbastanza ubriaco.” La sua parlata si fece più formale. Più americanizzata.
“Sì, è un’altra cosa che mi disturba. Mio padre era un ex-alcolista. Non sembrava ubriaco quando gli parlai al telefono. E non riesco ad immaginare mia madre che lo osserva bere senza fare una piega.” Mamma aveva domato bambini dell’asilo per vent’anni e le piaceva affermare che quel tipo di lavoro aveva fatto sì che domare papà fosse una passeggiata. Era per metà dolcezza e per l’altra metà risolutezza d’acciaio. La sorpresa dell’arrivo di Collin era l’unica cosa che le aveva impedito di diventare avvocato.
“Forse non se n’è accorta?” Ava propose.
“Forse. Non lo so. Tutto è possibile.” Confessai. “È ciò che pensa mio fratello. Collin. È un agente di polizia. Quando i nostri genitori sono morti, ha chiamato la stazione e ha parlato con un agente del posto. Collin disse che era stato gentile, disponibile, e che aveva detto che succede spesso a St. Marcos che i turisti si ubriachino e si infilino in brutte situazioni. Collin pensò che forse papà avesse avuto una ricaduta e lo stesse nascondendo — il bere — a mamma.”
Ava mi appoggiò la mano sul braccio. “Odio doverlo dire, Katie, ma turisti e guidatori ubriachi sono come sinonimi per noi.”
Questo non aiutò i miei occhi a trattenersi dalle lacrime. “Ma il tuo amico è stato strano. Non credi?”
Mi guardò, con occhi dolci e tristi. “L’agente sul caso che è morto? Michael Jacoby? Era il fratello di Darren. Suo fratello minore.”
“Mi dispiace. Oddio, mi dispiace tanto. Sto pensando solo a me stessa. Io—”
Un improvviso colpo sul finestrino dietro di me mi interruppe. Feci un urlo e saltai sul sedile, sbattendo la testa contro il tettuccio. Anche Ava sussultò.
Mi girai e vidi il faccione di Darren Jacoby incorniciato dal mio finestrino. Provai ad abbassarlo ma i bottoni non funzionavano. Solo allora mi resi conto che eravamo sedute in macchina bollente con i finestrini alzati e aria condizionata spenta. Inserii le chiavi e azionai il motore, poi abbassai i finestrini.
Ava si sporse su di me, tornando ai suoi modi locali. “Jacoby, ci hai fatto prendere un accidente.”
Non sorrise. “Volevo dirle,” disse, guardandomi negli occhi, “Dirle, che dispiace per suoi genitori. So quanto duro perdere qualcuno che si ama. So che fa venire molte domande. Ma mio fratello era buon poliziotto, mi fido di lui. Se dice che sono morti in incidente stradale, è questo che è successo.” Era tornato ad esprimersi nella parlata locale.
“Mi dispiace per tuo fratello,” dissi.
Inclinò la testa, con lo sguardo abbassato, poi tornò a guardarmi negli occhi. “Buona giornata, signora Connell.”
Alzai nuovamente il finestrino mentre se ne andava. Ero più confusa adesso di quando ero arrivata alla Stazione di Polizia. Sarebbe stato meglio lasciar perdere, fidarmi del giudizio di Collin, cercare pace, non problemi. Lo sapevo questo. E normalmente mi fidavo ciecamente di Collin. Ma aveva avuto problemi sentimentali proprio prima della morte di mamma e papà. La sua futura moglie l’aveva lasciato per un’altra donna, e non era più lo stesso allora, era distratto dai suoi stessi problemi. Se avevo dei dubbi, lo dovevo ai miei genitori di cercare la verità. Li avevo delusi per un anno, lasciando che tutto fosse più importante dei miei istinti, di loro, e fintantoché anche il minimo dubbio non venisse risolto, dovevo continuare.
Uscii dal parcheggio e mi misi a guidare.
Nove
Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Quindici minuti dopo, io e Ava sedevamo di fronte alla scrivania di un certo signor Paul Walker, n°32 di King’s Cross Street. Il suo ufficio era una lunga e stretta stanza dalle pareti e pavimenti in mattone rosso. Probabilmente una volta si trattava di un corridoio o di un porticato. Era spremuto tra un mercatino dell’usato e un negozio di dischi abbandonato, il quale aveva ancora album coperti di polvere in vetrina ed emanava un’aura di vergogna, o fallimento. Mi chiedevo se ci fossero dei tesori nascosti nelle sue profondità. Probabilmente no.
Walker si era allontanato in fondo alla stanza per raggiungere un mini-frigo, dal quale prese due bottiglie d’acqua. Usò la manica per asciugare le bottiglie, mentre si faceva strada verso di noi sul pavimento irregolare. Le pareti si facevano sempre più strette alle sue spalle, o così mi sembrava. Era come una casa degli specchi ad un festival di carnevale di bassa lega.
“Allora, mi parli del caso, signora Connell,” disse Walker mentre ci porgeva l’acqua dall’altra parte della scrivania, per poi sedersi.
Avevo lavorato a stretto contatto con un solo investigatore prima d’ora: Nick. I due erano agli antipodi. A giudicare dalla pancia, racchiusa in una maglietta di rum Cruzan, Walker sembrava incinta di cinque mesi. Il sudore gli costellava la fronte. L’intero ufficio sembrava aver bisogno di una doccia. Se avessi avuto un fazzoletto con me, l’avrei usato per coprirmi naso e bocca, — dopo aver pulito la bottiglia d’acqua. Sistemai la bottiglia sul pavimento, accanto a me.
“I miei genitori sono stati a St. Marcos per una settimana l’anno scorso. Sono venuti per festeggiare quarant’anni di matrimonio. Si stavano divertendo molto, mi chiamavano ogni giorno.” Una fitta di senso di colpa mi attanagliò, nel ricordare come mi irritava vedere il loro numero sullo schermo. Persone che amavo interrompendo una vita che odiavo. E loro mi irritavano. “Facevano cose da turisti. Hanno preso un catamarano per raggiungere uno degli atolli. Hanno fatto una camminata nella foresta tropicale. Sono andati in una spiaggia isolata per fare snorkeling. Era come se stessero recuperando la gioventù persa. Mi hanno persino chiamata un giorno per dirmi che avevano visto due persone che facevano sesso in spiaggia. Mia mamma rideva come una ragazzina mentre me lo diceva, un tipo con dei lunghi e increspati capelli biondi e una ragazza nera mingherlina, mi aveva detto. Ma le stava piacendo. Stava amando tutto del viaggio.”
Arriva al punto, Katie. Buffo come io possa essere perspicace con i problemi altrui, ma goffa con i miei. Finii di raccontare la storia senza perdermi in dettagli irrilevanti.
Walker mi puntò con lo sguardo per tutto il tempo in cui parlai. Quando ebbi finito, rimase in silenzio, battendo lentamente la penna contro le labbra.
“Signor Walker? Ha qualche domanda?” chiesi.
“Oh. Scusi. Mi ricorda qualcuno che conoscevo,” disse. Il suo commento mi fece rabbrividire. “Sì, giusto alcune domande per cominciare. Prima che morissero, dove cenarono i suoi genitori?”
Me lo ricordavo. Avevano adorato il ristorante e ci erano tornati per la loro ultima cena sull’isola. “Da Fortuna. Lo conosce?”
“Sì, è un posto molto popolare.”
Il mio sguardo andò a posarsi sul riconoscimento per i dieci anni di servizio presso il Dipartimento di Polizia di New York che era appeso al muro, sopra la sua spalla sinistra. Accanto, era appesa una foto di pesca, oggetto di design obbligatorio sull’isola: Walker e un uomo nero ugualmente grosso, e un altro uomo biondo ancora più grosso, in piedi sul ponte di poppa di una barca chiamata Big Kahuna, sollevando insieme un enorme pescespada.
Per la prima volta da quando ci eravamo scambiati i saluti all’inizio dell’incontro, Ava parlò. “Il Promontorio di Baptiste non è esattamente nel tragitto tra il ristorante e l’hotel.”
Walker la ignorò e continuò a parlare con me. “Si diressero da qualche altra parte quella notte, che lei sappia?”
“Non che io sappia.”
“Al casinò? Una passeggiata al chiaro di luna sulla spiaggia, forse?”
“Mi dispiace, non lo so. Ho il rapporto dell’incidente della polizia, però. E hanno detto che la scientifica potrebbe averne un altro.” Sventolai il documento della polizia, e lui lo prese, lo aprì e lo sistemò davanti a sé.”
“Okay, mi procurerò quello della scientifica.”
“In più,” esitai, guardai Ava, poi proseguii. “L’agente che ha investigato sulle loro morti è deceduto poco dopo. Può vedere sul rapporto che un agente diverso da quello dell’investigazione ha firmato il documento. Non so se sia rilevante, ma—”
Walker mi interruppe. “Verificherò. Molto bene.” Buttò uno sguardo alla cartelletta sulla scrivania con il rapporto della polizia. “Penso di aver raccolto tutte le informazioni che mi servono da lei. Chiedo un acconto di cinquecento dollari, per iniziare la ricerca.”
Avevo bisogno di andare avanti, ma firmare un assegno a quest’uomo e fidarmi che avrebbe fatto il suo lavoro sarebbe stato abbastanza? Spendere gli inutili soldi dell’assicurazione mi avrebbe fatto sentire meno in colpa? Avrei voluto chiamare Nick e sapere cosa ne pensasse. Avrei voluto correre fuori dalla porta. Volevo un punch al rum. Volevo indietro mamma e papà. Deglutii e tirai fuori il libretto degli assegni.
Mentre gli firmavo l’assegno, continuò a parlare. “Ho molti casi da seguire al momento. So già che non potrò dedicarmici per alcune settimane. Non è un’emergenza, dopotutto, i suoi genitori sono già morti.”
Rabbrividii di nuovo. Però, aveva ragione. Era un cafone, ma aveva ragione. Misi l’assegno sulla scrivania insieme al mio biglietto da visita e, con le dita, li allungai verso di lui. Scavarono una striscia di pulito fra la polvere.
“Beh, grazie, signora Connell. Mi farò vivo,” disse, afferrando l’assegno prima che potessi togliere le dita.
Mentre Ava ed io ci alzavamo per andare, disse, “Oh, un’ultima cosa. È meglio se parlo prima io con i potenziali testimoni. Interferisce con la mia investigazione quando i clienti cercano di farlo prima da soli. Quindi, per favore, mi lasci fare ciò che mi ha ingaggiato per fare e si goda la sua vacanza sulla nostra isola paradisiaca.”
“Va bene,” dissi.
E ce ne andammo, più in fretta che potei.
Dieci
Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Ava ed io camminavamo lungo il marciapiede, in silenzio come una coppia sposata, invece che due donne che si erano conosciute quindici ore prima. Camminavo davanti a lei, ma cercavo di rallentare. Dalla vita, però, non tanto per prendermela comoda.
Quando raggiungemmo la macchina, Ava mise entrambe le mani sul tettuccio. “Dimmi che hai fame e che sei pronta per un drink.” Portò l’avanbraccio davanti alla faccia, come per controllare l’ora su un orologio immaginario. “Sì, decisamente ora di pranzo.”
“Devo vedere il Promontorio di Baptiste” dissi. “Devo solo vederlo. Non penso di poter lasciare tutto nelle mani di Walker senza vederlo coi miei occhi.”
Ava si mise come in posa, con le braccia piegate in aria, tutte e dieci le dita puntate verso il cielo, muovendo la spalla a ritmo. “Beh, ovviamente devi vederlo.” Lasciò perdere la posa drammatica e si chinò verso di me. “E ti ci porterò, ma avrai un panino di pesce volante in una mano e una Red Stripe nell’altra quando arriveremo là.” Indicò una strada davanti a noi e poi la sinistra. “Guida, segui questa direzione.”
Dopo essere rientrate nella caldissima Chevrolet Malibu, guidammo fuori città lungo la ventosa costa nord, l’azzurro alla nostra destra, il verde alla nostra sinistra. Abbassammo i finestrini e lasciammo volare i capelli. Avrei avuto bisogno di un uragano per far volare via la tempesta dentro di me nell’aria di mare, ma una forte brezza marittima andava bene per ora. Passammo un porto. Il tanfo di benzina e pesci morti si fece intenso per un momento e iniziai a buttare fuori aria dal naso. Tolsi dalla bocca alcuni dei capelli che il vento aveva spostato e presi un sorso dalla bottiglia d’acqua che avevo preso dall’ufficio di Walker. La stessa bottiglia a cui avevo dato una strofinata punitiva con le salviette disinfettanti che avevo in borsa, una volta arrivata in macchina.
Dopo dieci minuti al volante, Ava indicò una capanna sulla spiaggia.
“Fermati qui,” disse.
La capanna si rivelò essere un piccolo ristorante d’asporto, con un bar e qualche sgabello da spiaggia. Non c’era nessuna insegna che potessi leggere. Ava si tolse le (mie) scarpe e scese dalla macchina, ed io la seguii. Attraversammo la spiaggia per arrivare al ristorante senza nome e fummo accolte da un paio di cani.
“Cani della spiaggia,” disse Ava. Ordinò loro di stare indietro con una voce profonda che non l’avevo mai sentita usare, e i cani obbedirono, scodinzolando.
Ava salutò il proprietario come fosse un suo vecchio amico e gli diede il nostro ordine. Lasciò il palmo della mano aperto, così tirai fuori venti dollari. Gli brillavano gli occhi, e mostrò anche l’altro palmo. Tirai fuori altri venti dollari. Annuì, così misi una banconota in ciascuna mano. Mise il denaro in un cestino sotto al bancone e tornò alla friggitrice, risucchiando le gote nello spazio una volta occupato dai denti. Niente resto. Il paradiso non è economico.
Ava saltò sopra uno degli sgabelli, affacciati sul mare. Mi unii a lei. Che bel modo di pranzare. Mi sarei potuta abituare. Appoggiai i piedi sul supporto tra le gambe dello sgabello, con i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani.
“Il pranzo è sempre così caro su quest’isola?” chiesi.
“Yah mon. Se non sei baan ya.”
Ero indignata. “Quindi ti avrebbe fatto spendere meno di quanto ha chiesto a me?”
Tirò su col naso. “Lui? No, è un ladro. Ma normalmente c’è uno sconto per i locali.”
Ah beh. Non era sorprendente. Girai la testa, godendomi gli scricchiolii del collo. L’acqua mi stava chiamando a sé. “Ti dispiace se metto i piedi in acqua mentre aspettiamo?” chiesi ad Ava.
“Vai pure. Rimango qui e ti chiamo quando è pronto.”
La sabbia era tiepida, quasi calda. Appoggiavo prima i talloni, prendendomela comoda. Come mi avvicinavo al bagnasciuga, la sabbia si faceva più dura e fresca. Non esitai. Mi immersi nell’acqua, fino alle caviglie, fino alle ginocchia. Alzai di diversi centimetri il prendisole. Le onde si scontravano con le mie ginocchia, schizzandomi le cosce. Dopo che l’acqua si era infranta su di me, sentii la brezza marina che arrivò a seccarmi. Potevo vedermi i piedi, sul fondale dell’oceano. Lasciai entrare la sabbia fra le dita. Un’altra onda arrivò e mi sollevò con sé. Un banco di pesciolini argentati guizzava attorno a me, da un lato e dall’altro, a pochi centimetri dalla superficie.
“Katie,” mi chiamò Ava. “È pronto.”
Sarei potuta rimanere lì per ore. Ma uscii dall’acqua, schizzandola coi piedi negli ultimi passi prima del bagnasciuga. Immaginando mia madre, chiedendomi se avesse fatto lo stesso, se lo avesse fatto proprio qui, in questa spiaggia. Se l’uomo della capanna che mi guardava adesso da lontano l’avesse vista, e se avesse pensato che avessi un volto familiare. Sin dall’adolescenza, ci dicevano che sembravamo gemelle. Mamma alzava gli occhi al cielo e diceva: “Forse per un settantenne, da un centinaio di metri.” Si sbagliava. Era troppo giovane per morire.
Raggiunsi Ava e portammo i panini, arrotolati in un’unta carta cerata, in macchina. La Johnnycake è un pane fritto, l’equivalente caraibico dello Youtiao cinese o della Sopaipilla messicana. Tutto ciò di cui la mia cellulite aveva bisogno. Anche se in realtà la mancanza di esercizio fisico negli ultimi cinque anni, da quando avevo mollato karate, non le troppe calorie, era il mio problema. Ava reggeva anche due Red Stripes gelate fra le dita.
“Quanto manca?” chiesi.
“Dieci minuti,” disse.
Guidammo lungo la costa per un altro chilometro, poi ci addentrammo nell’entroterra, in salita. Non mi piaceva abbandonare la calma del litorale. Gli ultimi otto minuti di tragitto erano stati su strade sporche e dissestate che a cadenza regolare si trasformavano in foreste di cespugli.
“Non è un posto da esplorare da soli,” disse Ava, indicando una delle traverse. “Troppo isolato.”
“Però è bellissimo quassù,” dissi. Di fatto, ero scioccata da quanto fosse bello. Diverso dalla costa, ovviamente, ma diverso in senso buono, in modo perfetto. Gli alberi erano più alti e si intrecciavano sopra la strada, creando un tetto sopra di noi e smorzando il rumore dell’infrangersi delle onde sulla sabbia e sugli scogli, a un solo chilometro di distanza. Intravidi delle piume colorate fra gli alberi.
“È un pappagallo?”
“Yah mon. Vivono quassù.”
Al contrario di Ava, non credevo mi sarei mai abituata a questo tipo di flora e fauna. Ne venni assorbita: orchidee più belle di qualsiasi fiore cittadino, con venature fucsia e rosa, e Flamboyant da un arancione fiammeggiante, imponenti e maestosi, che mi ricordavano le mimose di casa.
“Gira qui,” disse Ava, così curvai velocemente, in direzione all’oceano, anche se a centinaia di metri più in alto.
Guidammo ancora mezzo chilometro, per poi uscire dalla boscaglia. Il cambio di scenario fu improvviso e spazzò via tutta la calma della foresta. Anche il mio umore cambiò. Ma chi voglio prendere in giro? Le mie emozioni erano grezze e il mio umore oscillava da su a giù più velocemente di Sarah Brightman nel Fantasma dell’Opera.
“Puoi parcheggiare dove vuoi,” disse.
Accostai l’auto e parcheggiai, spegnendo il motore e trattenendo il respiro.
Venire nel posto in cui i miei genitori erano morti era come entrare nelle chiese colorate della Navidad Valley, in Texas. Avevo visitato La Grange mentre ero alle medie, con la mia famiglia. In quelle antiche chiese di legno, sapevo di essere davanti a qualcosa di sacro e potente e che, sotto quei tetti, sofferenza e venerazione andavano di pari passo, proprio come era successo all’incontrarsi della foresta e degli scogli. Dove la vita incontrava la morte.
Ava era già scesa, di nuovo a piedi nudi, e stava procedendo verso la salita. Mi incamminai dietro di lei. Volevo sentire di nuovo i miei genitori, far loro sapere che ero venuta qui, che per me erano importanti. Che anche se non fossi riuscita a fare altro in questo viaggio, almeno avrei detto loro addio.
“Vi voglio bene, mamma e papà,” sussurrai.
Ava raggiunse la vetta della collina e in tre passi era già sparita, accelerai. Arrivando alla cima, mi mancò l’aria e feci un passo indietro per l’improvvisa vertigine. Il terreno scendeva per circa trenta metri, e poi semplicemente svaniva. All’orizzonte, solo il cielo, che si ricongiungeva in lontananza con il Mar dei Caraibi.
“Non sono i primi a cadere da questo promontorio,” disse Ava, con tono solenne.
“Oh mio Dio,” dissi, non riuscendo a pensare ad altro. Affondai nell’erba. Mi accovacciai in una collinetta, cercando di schiarirmi le idee. Perché? Perché erano venuti qui?
“Questo è come un ritrovo per gli innamorati, nel suo modo desolato e inaccessibile. Molte delle ragazze che conosco hanno perso la verginità qui. Alcuni si sono anche buttati per amore. Ha sempre avuto un fascino romantico a cui le persone non riescono a resistere.”
Rimuginai sulle sue parole. Era possibile che i miei genitori avessero cercato questo posto? Un’ultima avventura per concludere la vacanza? Li immaginai mano nella mano, testa contro testa. Speravo fosse così. Qualcosa dentro di me non ci credeva, ma Dio, se lo speravo.
“Addio, mamma e papà,” sussurrai. Chiusi gli occhi di nuovo, contai fino a cento, cercando di non pensare a nulla, e offrii il mio cuore al cielo.
Undici
Promontorio di Baptiste, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Ce ne andammo dal Promontorio di Baptiste, rientrando nella foresta tropicale, mezz’ora dopo. Il mio umore era in fase di ripresa, tanto che la bellezza dei fiori mi estasiò nuovamente. Sembravano adesso come un tributo ai miei genitori. Un allestimento floreale. La foresta tropicale non era solo un toccasana per i miei occhi, mi faceva sentire più vicina a mamma e papà. Odiavo dovermene allontanare.
“Sai, un amico offre un tour guidato della foresta. Organizza una navetta proprio dal Peacock Flower. Dovresti andare con lui domani. Lo chiamo per dirgli che ti unisci.”
“Un’escursione? Non sono un’escursionista. Sono una brava guidatrice, però. C’è un tour in macchina?”
“No. È un botanico, e adesso chiudi il becco e vai con lui. Ti cambia la vita.”
L’intero viaggio mi stava già cambiando la vita, ed ero arrivata appena ventiquattro ore prima.
Cedetti ad un impeto di sincerità. “Sono qui per questo, sai. Per cambiare la mia vita. O, meglio, dovrei essere qui per questo, il più possibile, in una settimana. Mio fratello ha insistito. Pensa che beva troppo. Sto cercando di ignorare i sintomi per andare dritta alla fonte. Non è l’alcol in sé. Sono i miei genitori. Le mie cattive scelte. Lo struggermi per il ragazzo sbagliato. Etcetera etcetera.” Cercai di sviare il discorso, imbarazzata dalle parole che non potevo più rimangiarmi.
La mia confessione non turbò Ava. “Quasi tutti stanno scappando da qualcosa quando vengono qui. Spendono la maggior parte del tempo cercando di capire se stanno cercando di scappare dalla cosa giusta, o se la cosa sbagliata li ha seguiti qui.”
Era una frase profonda. Era stata una giornata abbastanza profonda, così rimasi in silenzio.
Ma non Ava. “Non hai detto che tuo padre era un alcolista? Penso di aver letto che è una questione genetica,” disse.
“Sì. Forse.” Ma io non ero un’alcolista.
“Molte persone che si trasferiscono qui diventano alcolisti,” disse. “Non è un posto facile per smettere di bere.”
“Me ne sono accorta.” Almeno non si era concentrata sulla parte del ragazzo sbagliato, ma ero pronta a lasciar perdere del tutto l’argomento dei problemi di Katie. Eravamo quasi arrivate in città. “Dove ti porto?” chiesi.
“Portami a casa, così posso cambiarmi. Ho un appuntamento più tardi, ma sono in cerca di compagnia fino ad allora.”
“Non canti stasera?” chiesi.
“Non ufficialmente.”
Qualunque cosa significasse.
Accostammo a casa di Ava e mi invitò dentro. Era piccola, ma pulita. Carina, la maggior parte dei mobili erano di vimini, con vaporosi cuscini bianchi. Gironzolai, guardando le sue foto, fino a che non uscì dalla camera indossando un vestito da bambolina color verde acqua con una scollatura a goccia. Indossava anche dei sandali bianchi dove tornava il motivo a goccia, sulla parte superiore in pelle.
“È chi penso che sia?” chiesi, indicando la foto di una giovane Ava con un bellissimo e famoso attore.
“Sì, sono andata all’Università di New York con lui. Non dire a nessuno che te l’ho detto, ma è gay. Tutti i più belli sono gay.” Infilò un tubetto di lucidalabbra nella borsetta bianca. “Pronta?”
“Dipende dalla cosa per cui dovrei essere pronta ma, in generale, sono pronta ad andare.”
“Sembri un avvocato.”
“In realtà, sono un avvocato.”
“Oh, questo spiega molte cose,” disse in un tono di voce che implicava ci fosse molto da spigare.
“Sì, sì, sì. Ma per cosa dovrei essere pronta?”
“Per cantare.”
Scoppiai a ridere. “Così, a caso. E no, non sono pronta.”
“Va bene. Allora andiamo al casinò. Hanno un open bar di cibo e bevande.”
Nessuna obiezione.
Dopo esserci fermate al mio hotel più a lungo del previsto, dovendo io rispondere a delle e-mail di lavoro, arrivammo al Casinò Porcus Marinus. Il casinò si trovava sulla costa sud dell’isola, vicino all’omonimo resort e a pochi passi da una spiaggia di sabbia bianca. La luna piena si rifletteva sulla superficie increspata dell’acqua. Si trattava di un enorme edificio simil-bunker, accompagnato dal più grande parcheggio dell’isola. Salimmo gli scalini per il bunker e passammo sotto ad un grande cartellone sulla porta che leggeva “Serata Karaoke”.
“Serata Karaoke?” chiesi ad Ava, con sguardo sospetto.
“È il destino,” rispose.
Entrammo, e io tossii immediatamente. Una nube di fumo aleggiava sul tetto del casinò. Per la prima volta da quando ero arrivata a St. Marcos, avevo la sensazione di essere in un posto senza tempo. Nessuna finestra. Rumori continui: il rumore bianco delle campanelle delle slot machine e i boati che erompevano dai tavoli da gioco come a comando.
E un altro rumore. In sottofondo, riuscivo a distinguere solo la voce di un DJ che cercava di convincere le persone a prendere parte al karaoke. “Chi sarà il prossimo? Sarà lei, bella signora? O lei, signore, là con la camicia rubata a Jimmy Buffett?”
Ava mi diede una piccola spinta fra le scapole, in direzione al palco. Il posto era affollato e non erano neanche le nove di sera. Ci snodammo tra la folla di caraibici confusi e turisti barcollanti. Sembrava che la maggior parte di loro avrebbe fatto meglio a spendere i propri soldi in un buon pasto o alcuni vestiti puliti.
Fui colpita da un’angosciante e indesiderata epifania. Il Porcus Marinus non era diverso dal breve assaggio che avevo avuto del casinò dell’Eldorado a Shreveport. Cercai di distrarmi. Era diverso. Un altro mondo. Diverso in un modo di cui non dovevo vergognarmi. Camminai a testa alta.
Quando arrivammo al palco, Ava non fece una piega. Mi passò davanti e raggiunse il DJ. “Signorina Ava,” disse lui al microfono. Alcune persone nel pubblico applaudirono e gridarono. “Cosa ci canterà stasera, bellissima?”
“Metti qualcosa dei No Doubt, dei Fugees, e,” si girò verso di me, “cos’altro?”
“Sono del Texas. Dammi qualcosa delle Dixie Chicks e di Miranda Lambert.”
Il DJ disse, “Miranda chi?”
“Non importa. Delle Dixie Chicks.”
“Quelle tre ragazze bionde?” chiese.
Sono sicura che avrebbero amato venire descritte così, ma gli era andata meglio che a Miranda. “Sì.”
“Yah, ce le ho.”
Ava lanciò il portafoglio alla postazione del DJ come fosse un frisbee. Io mi avvicinai e lasciai il mio sul tavolo. “Va bene?” chiesi.
Aveva già fatto iniziare Underneath It All dei No Doubt e stava muovendo la testa a ritmo della musica che usciva dalle casse e dalle cuffie che indossava in un orecchio solo. Neanche mi guardò. Il suo sguardo era fisso su Ava.
“Che cavolo,” dissi, e mi diressi verso un tavolo di fronte al palco per guardarla.
“Oh no,” disse al microfono. “Porta il tuo bana sul palco, amica.” Il suo accento si stava facendo sempre più forte.
Il pubblico applaudì ancora di più.
“Ottimo,” dissi fra me e me. “Sono l’americana incapace. La turista imbranata.”
“Il tempo passa quassù,” disse Ava, battendosi una mano sul fianco. Okay.
Sospirai e mi diressi verso il palco nello stesso prendisole bianco che stavo indossando da quando ero uscita quella mattina, salii quei tre scalini sventurati e la raggiunsi davanti al telone nero di fondo. Ero tutta angoli retti e spigoli vivi, vicino al suo vavavoom e curve. Se devi farlo, fallo con stile, pensai, e alzai di nuovo la testa.
Ora il pubblico si unì ad Ava nell’urlare e applaudire per me. Mi passò il microfono e indicò lo schermo. “Canta,” ordinò.
Così cantai. E anche lei cantò, così cantammo insieme, e fu incredibile: la mia voce vibrante, capace di raggiungere le note più alte ma troppo esile da sola, intrecciata e ispessita dalla sua voce più profonda e espressiva. Armonizzavo con lei, la accompagnavo, e lei mi restituiva il favore. Mi rilassai e immaginai i miei spigoli che si smussavano, anche solo un po’. Fu divertente.
Lasciammo il palco dopo venti minuti con una standing ovation, che rimaneva tale anche se formata da dieci uomini ubriachi e una signora dai capelli blu che si era persa tornando dal bagno nel tragitto alle slot machine.
“Chi sarà così coraggioso da seguirle?” chiese il DJ. La folla urlante rispose, “Non io”, “Niente da fare”, “No, signore”. Mise su una playlist, ci fece le congratulazioni e andò in pausa.
Collassai sulla sedia. “Champagne,” dissi alla cameriera che ci aveva seguite al tavolo.
“Anche per me,” disse Ava.
Scarabocchiò il nostro ordine e se ne andò dondolando, dandomi la miglior lezione su come vivere la mia vita con calma finora.
“Abbiamo spaccato, Katie Connell,” disse Ava. “E cavolo, sei ancora più alta sul palco.”
Non avevo più cantato, eccetto in macchina e nella doccia, da anni ormai. Ero elettrizzata. Viva in un modo che fare l’avvocato non mi faceva sentire, questo sicuramente. “Siamo da sballo,” dissi, per poi mettermi a ridere. Da sballo. Come se l’avessi mai detto prima.
“Yah mon,” disse Ava.
La cameriera stava dondolando di nuovo verso di noi, portando i nostri drink su un vassoio. Mentre passava davanti ad un tavolino rotondo dall’altra parte della sala karaoke, una donna si alzò e la prese per il braccio che aveva libero. La sua voce echeggiò tra il rumore della folla.
“Dov’è il mio drink? Ho ordinato cinque minuti fa,”
“Lo porto al più presto,” disse la cameriera, togliendosi il braccio della donna di dosso.
“Voglio il mio drink adesso. Che cosa ridicola. Dov’è il tuo capo?” chiese la donna, lasciando trapelare dal suo accento di essere di New York o dintorni.
La cameriera annuì, sorrise, e disse, “Oh, sì, signora, glielo porto subito.”
Riprese a camminare verso di noi, ancora più lentamente. Quando ci raggiunse, Ava le disse, “Wow, qualcuno si crede speciale.”
“Davvero,” concordò la cameriera. “Sta per passare una bella sete.”
Lasciò i nostri drink sul tavolo e se ne andò. “Cosa ti ho detto?” mi disse Ava.
“Me la devo prendere comoda,” dissi.
Bevemmo il nostro champagne da dei bicchieri di plastica con dei delfini blu disegnati sui lati. Presi un sorso e le bollicine mi solleticarono il naso. Ridacchiai di nuovo. Non bevevo mai questa roba. Non ridacchiavo neanche. “Salud,” dissi, alzando il bicchiere. Ava ed io battemmo i bicchieri, schizzandoci lo champagne sulle braccia. Ridacchiai di nuovo.
“Questa sedia è occupata?” chiese una voce profonda. Uno dei nostri ammiratori, forse? Le sue spalle larghe bloccavano i raggi del sole, wow. Peccato non ci fossero raggi di sole nel casinò. Bloccavano la luce dei dozzinali lampadari. In controluce, non riuscivo a vedere il volto a cui apparteneva la voce.
Ava però la riconobbe. “Jacoby, siediti, meh son.” Diede una pacca alla sedia rivestita in ecopelle accanto a lei. Che piccola quest’isola.
Darren Jacoby, ancora in uniforme, si sedette davanti ad Ava e i due si scambiarono baci sulla guancia.
“Salve, signora Connell,” disse, da sopra la spalla.
Sembrava proprio non volesse chiamarmi Katie. E vabbè. “Salve, Agente Jacoby.”
“Non posso fermarmi a lungo,” disse ad Ava. “Sono in servizio. Il mio turno finisce alle dieci. Ero qui di pattuglia, quando ti ho vista. Cosa fate?”
“Siamo state dall’investigatore privato che ci ha consigliato,” dissi al suo profilo.
Si girò verso di me, senza espressione sul viso. “Beh, spero che si dimostri utile. Quando torna negli Stati Uniti?”
Non andava per il sottile. “Tra cinque giorni,” dissi.
“Faccia attenzione, allora.” Spostò nuovamente l’attenzione su di Ava. “Vuoi fare qualcosa dopo? Ho il DVD di Love and Basketball.”
Oh mamma, ancora meno per il sottile. Ormai poteva anche farle un cartellone.
“Oh, Jacoby, non posso. Ho un appuntamento.”
Strinse la mascella e la rabbia gli riempì gli occhi così velocemente che quasi non me ne accorsi. “Sempre con qualcuno, eh, Ava?” Rilassò la mascella. Le sue grandi spalle si fecero piccoline. “Beh, un’altra volta.”
“Certo,” rispose.
“Me ne vado, allora.”
Si scambiarono di nuovo baci sulle guance, lui si girò, chino il capo verso di me e se ne andò, con la sua stazza da orso delle nevi. Non mi piaceva molto, ma mi dispiaceva comunque per lui.
Ava aveva una faccia triste. “Non cambia mai. Non si arrende facilmente.” Tirò fuori il telefono e disse, “Fammi controllare per l’appuntamento”. Qualche click più tardi, disse, “Guy ha prenotato una stanza qui, sulla collina. Una suite. Oh là là.”
“Me lo farai conoscere?” chiesi.
“No. È molto discreto su di noi.” Indicò l’anulare della mano sinistra e sussurrò la parola sposato. “Non mi contatta nemmeno personalmente. È come avere una relazione con il suo assistente, Eduardo.”
“Mi dispiace,” dissi, dal momento che non sapevo che altro dire. Sembrava un viscidone.
“Oh, va tutto bene,” disse Ava, allontanando con la mano il problema immaginario. “È un senatore. Le persone lo conoscono. È un’isola piccola.”
L’avevo notato.
Ripensai a come mi sentivo quando Nick mi ignorava in pubblico. E non eravamo nemmeno in una “relazione”. Anche Jacoby non stava con Ava, ma questo non gli impediva di avere opinioni forti sui suoi appuntamenti. “Ma non ti fa stare male?”
Ava serrò le labbra. “Non lo amo, Katie. È carino, e sta cercando di far girare uno show televisivo sull’isola, con la sottoscritta come protagonista. Otteniamo ciò che vogliamo l’uno dall’altra. Preferisco la ricchezza al potere, comunque, e lui non è ricco.” Prese un altro sorso di champagne.
Sistemai i capelli dietro le orecchie. Uno show televisivo? Il senatore Guy doveva essere il mio compagno di bevute sull’aereo. Decisi di non raccontaglielo, dal momento che ci aveva provato spudoratamente con me. Ehi, se il loro accordo stava bene ad Ava, avrei dovuto farlo stare bene anche a me. Forse sarei più felice se fossi distaccata quanto lei. Forse. Ma probabilmente no.
“Quindi, chi è il ragazzo sbagliato che mi dicevi?” disse.
“Cosa?” chiesi, pensando per un momento che stessimo ancora parlando del suo ragazzo sbagliato.
“Quello per cui non dovresti struggerti.”
Ah, lui. Feci segno alla cameriera di portare più champagne. Poi, scrupolosamente, iniziai a raccontare la storia, cercando di non attivare nessuna bomba che potesse far andare in frantumi lo statuto di pace tra me e Nick.
Ava disse, “Stai meglio senza di lui. Mi prenderò cura io di te, e troverò un uomo che possa farti tenere la mente occupata questa settimana.”
“Niente uomini, Ava.”
“Uhm. Quindi continuerai a struggerti? Sembra che tu non voglia allontanarti da lui.”
“Non mi struggerò. Mi voglio allontanare. Davvero.”
Ava non sembrò convinta. “Se lo dici tu, Katie. Se lo dici tu.”
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