Voglio Morderti Il...

Voglio Morderti Il...
Gemma Cates


Voglio morderti il...

Indice
Voglio morderti il... (#u21bf1cc2-6f45-5393-9a2b-89ab6a1e7813)
Introduzione (#uf095fe57-da88-5e7e-8eeb-c2ab61d7e7d8)
Capitolo 1 (#u8fbb3302-6bb4-5bf2-8c9e-a8d1fb2d843b)
Capitolo 2 (#u5fd19e04-5ab2-5670-9b9f-1e6d76595fc3)
Capitolo 3 (#u1c2fa032-7112-57eb-83d0-ac3844f20a62)
Capitolo 4 (#u08718c90-c304-51b1-b016-80206a678a59)
Capitolo 5 (#ue19d7cb0-2a1a-5052-aa85-edc1efa1898c)
Capitolo 6 (#u1107b526-972b-54cc-ad08-40a5cc2f217f)
Capitolo 7 (#u673fb4fb-e50d-533a-8b0a-6437e8758e60)
Capitolo 8 (#u342551a0-d010-5754-b86e-1ed2fabf3079)
Capitolo 9 (#u173df3fd-a642-5f46-a7cc-b698fa2471b2)
Capitolo 10 (#u7b65b022-5e76-511e-80ea-914d0a997364)
Capitolo 11 (#u3519a111-d235-5574-81ee-15343a10af05)
Capitolo 12 (#u3550699b-f3c0-5f8b-90fb-f69cb3a96dec)
Capitolo 13 (#u8740d658-5898-593f-9678-c02692369379)
Capitolo 14 (#u6dc334cb-41d8-5db6-8c2f-99eee378efc0)
Capitolo 15 (#uea0cbdf4-d92f-55b9-b92c-6d30a300392a)
Capitolo 16 (#uab819251-b96c-5cd7-9752-751ae3a086fd)
Capitolo 17 (#u7878f470-1694-57fd-804c-59e3ef994404)
Capitolo 18 (#udd74e023-ca03-5fe0-8f4a-79c07596f508)
Capitolo 19 (#ub2227f6b-8987-52fd-a367-d7433fd08a7e)
Capitolo 20 (#u199a86a5-e83d-515d-aba6-a97c7e829df7)
Epilogo: Oliver (#uc9e03140-d454-542a-bbe2-41942f209c7b)
Ringraziamenti e Note dell’Autrice (#u5c5f9d83-92f0-5159-89dd-11854e36b4fd)
Titolo Originale (#ub34069ed-169f-5fd5-926f-91413c1b43cc)
Note (#u59537f2c-569c-5aa1-9368-afb1fd3c7084)
L’autore (#u91f8ca33-24f1-5ae0-bc0a-003da4e6b0bf)

Voglio morderti il...
Gemma Cates
Voglio morderti il...
Storia d’amore quasi umana di una vampira
Secondo volume
Titolo originale: I Wanna Bite Your…
Traduttore: Roberto Felletti

Introduzione
Voglio morderti il...
Qualsiasi cosa. Tutto. Perché mi fai impazzire e mi fai sentire speciale.
Non dovrei essere attratta da te, ma lo sono.
Sei un bambinone. Un ragazzo che non è mai diventato un adulto. Un musicista barista che non saprebbe cosa sono una buona assistenza sanitaria e un piano pensionistico neanche se ti mordessero quel tuo culo delizioso.
E custodisci dei segreti. Su chi sei, forse su che cosa sei.
Sei tutto quello che evito negli uomini. Non corrispondi a nessuno dei miei criteri per uscire con qualcuno.
Ma il sesso non è uscire con qualcuno... giusto?
Una vampira ossessionata dagli elenchi con l’amore per le regole (io) conosce uno schianto non-proprio-umano con troppi segreti (lui) e facciamo yoga nudi. Anche il sesso. Il sesso lo facciamo, decisamente. Ma è tutto quello che abbiamo. Non siamo compatibili sotto tutti gli aspetti adulti che una vera relazione richiede. O lo siamo?
Avvertenza dell'autrice: questo libro contiene bravate erotiche vampira/non-proprio-umano, abbastanza parole osé da far arrossire qualcuno (non me) e una vampira che desidera il suo vissero felici e contenti, ma che non necessariamente lo riconosce quand’esso la fissa negli occhi.

1
C’era un fastidioso bambinone alla mia festa.
Ad essere sinceri, ce n’erano alcuni. Anche Robert, normalmente un tipo un minimo decente al lavoro, stava manifestando il coglione che era in lui mentre si ubriacava con cocktail a tema Halloween e troppe birre.
E poi, chi è che va a una festa vestito da versione vampiresca di Jon Snow? Questo era strano.
Ma c’era un bambinone in particolare che non avevo invitato, non conoscevo e che pensavo di buttare fuori a calci.
Le mie feste sono esclusive? No. La gente porta amici, e quegli amici sono i benvenuti. Avevo da bere e da mangiare in abbondanza. Ce n’era abbastanza per tutti. Anche se qualcuno – probabilmente un gruppo di voraci selvaggi – aveva fatto man bassa dell'enorme vaschetta di queso che avevo preparato. Becca si sarebbe incazzata se si fosse fatta vedere.
Sospettavo l’extra-fastidioso bambinone irsuto.
Aveva quello sguardo. Era come un vagabondo affamato che migra da festa a festa, sostentandosi con stuzzichini e queso. Il tipo di ospite che beve tutta la tua birra, rutta i suoi grazie e semina peli umani nel tuo bagno.
Aveva una folta barba, scura con tracce di rosso, e una zazzera altrettanto folta di capelli castano scuro che gli dava un aspetto un po’ selvaggio ma comunque con stile. Potevo solo immaginare il tempo che aveva impiegato per sistemarsi quel casino di barba onde evitare che gli nascondesse la faccia.
Beh, non era un casino. Era ben curata.
Ma gli orli sfilacciati dei suoi pantaloncini cargo, le infradito (a ottobre, a una festa) e la logora maglietta a righe la dicevano lunga. Quando mi era capitato di stare accanto a lui, prima, in fila al bar, avevo chiesto, “Tu chi saresti? Un barbone da spiaggia?”
Il sorrisetto del bambinone era cresciuto lentamente per poi diventare un gran sorriso cala-mutande. “Sono semplicemente me stesso.”
Poi ero abbastanza sicura che stava per presentarsi quando ero stata informata della scarsità di queso. Andare a indagare – e stabilire che effettivamente eravamo senza queso, per quanto improbabile fosse – non mi era passato ancora per la mente. Fino a quel momento.
Lui mi stava infastidendo.
Lui mi stava guardando.
E non il solito sguardo da “wow, quella tipa ha le tette grosse”. Quello dura da due a tre secondi, fino a cinque se il tipo è un pervertito o ubriaco. Ma quello di Mr. Sono Semplicemente Me Stesso era più persistente - e lui fissava tutto di me.
Mi faceva rizzare i peli sulla nuca. Io ero la predatrice, che cazzo. Non venivo braccata; ero io quella che braccava. E questo tizio non aveva recepito il messaggio.
Non stava socializzando.
E apparentemente non era venuto insieme a qualcuno.
Quello era strano. Perché era venuto se non socializzava o non era con qualcuno? Cosa aveva in mente? Come faceva a sapere che io organizzo fantastiche feste in cui ci si può imbucare, se effettivamente non conosceva nessuno?
Inoltre, poteva anche smettere seduta stante quella stronzata di fissare. Mi ero avvicinata a lui, cercando per prima cosa tracce di sale delle patatine o gocce di queso. Era lui il colpevole del queso; ne ero sicura. Non avendo trovato nulla – la sua logora maglietta era assottigliata dai troppi lavaggi, ma era pulita - lo avevo guardato negli occhi fingendo un sorriso. “Conosci qualcuno, qui?”
Lui aveva inarcato le sopracciglia, come se fosse sorpreso di essere stato sgamato per la sua apparente mancanza di invito. Tendendo una mano, aveva detto “Conosco te, se questa volta mi permetti di presentarmi. Oliver Watson.”
Si dava il caso che fossi una fan di Sherlock Holmes, e io ero rimasta offesa dal nome di quel tizio. Quella bestia di bambinone, con i suoi bicipiti sporgenti, le gambe robuste e le spalle larghe, non era un personaggio di contorno. Era l’attrazione principale.
Aspettate, torniamo indietro. Era sciatto e sembrava un barbone, e non corrispondeva affatto agli standard del fidato assistente di Holmes.
E, dannazione, la sua mano. L’appendice che mi aveva proteso, come se io fossi felice di prenderla, parlava da sé. Avrei dovuto capirlo guardando quel tizio con una sola occhiata. Aveva dita lunghe e forti, con calli ai polpastrelli. La mano di un chitarrista. Era mancino, altrimenti mi sarebbe sfuggito.
Ero indecisa se accettare il gesto, ma poi avevo perso l'occasione quando l'aveva ritirata. Aveva sorriso, come se la mia sgarbata esitazione lo avesse divertito.
“La tua barista è discreta.” Aveva inclinato la testa in quel modo impudente, egocentrico, tipico degli uomini che pensano di governare il mondo.
“Io sono più bravo, ma lei non è male.”
“Quindi, sei un barista?” Quando non era un musicista colpito da povertà. Figurati. Aveva l’aria di uno che scopava molto. Musicista più barista equivaleva a una fottuta vagonata di sesso.
Una piccola parte del mio cervello saltellava su e giù, sottolineando il fatto che lui avesse un impiego, uno dei requisiti del mio elenco. E nel mio elenco degli scopabili, avere un impiego poteva essere assai ampiamente interpretato come qualsiasi lavoro che contribuisse a pagare le bollette.
Un impiego… con orari infernali, circondato da donne arrapate che ci provavano costantemente, e probabilmente lui non metteva da parte niente per quando sarebbe andato in pensione. Questa osservazione l’aveva fatta l’altra parte del mio cervello, quella scettica.
“Preparo un buon margarita, e un ancor più buono Bloody Mary.” Aveva stretto gli occhi e il suo sguardo mi trafiggeva.
Avevo la spiacevole sensazione che stesse insinuando… qualcosa con quel commento sul Bloody Mary. Ma non che fossi una vampira. Era assai improbabile che quel trasandato, testosteronico barista suonatore di chitarra sapesse qualcosa sui vampiri. Stavo cominciando a sentirmi sbronza, quindi probabilmente era soltanto l’alcol che mi rendeva paranoica. Non che l’alcol, di solito, facesse quell’effetto, ma d’altronde, di solito, non tracannavo nemmeno bicchierini di Fireball.
“Dovrai lasciarmi il tuo biglietto da visita. Giusto in caso abbia bisogno di qualcuno per la mia prossima festa.” Lo stavo prendendo in giro. Era improbabile che quel tizio avesse un biglietto da visita.
Invece aveva tirato fuori il portafoglio e me ne aveva dato uno. Oliver Watson, un numero di telefono e un indirizzo email. Nient’altro.
Chi è che va ancora in giro con i biglietti da visita? Specialmente i biglietti da visita che non sono da visita. Che cavolo di biglietto era quello?
Forse li tirava fuori quando si proponeva per qualche serata… sebbene quello non fosse tipico dell’appartenenza a una band di ragazzi cattivi.
“Suoni la chitarra?”
Aveva guardato il suo biglietto, poi me, chiaramente confuso su come avessi fatto a giungere a quella conclusione.
“La tua mano. I calli sono caratteristici.”
Aveva annuito e si era rilassato. “Righteous and Feral.” Poiché non mi ero messa a saltare su e giù immediatamente come una fangirl, aveva spiegato, “È una band locale.”
Ma non mi dire. Ma non avevo alzato gli occhi al cielo.
“I Giusti e gli Spietati?” Sì, sembrava un vagabondo con la barba, e poi c’erano quei capelli selvaggi, seppure con stile. Ma spietato? Per favore.
Aveva annuito, con un barlume di divertimento negli occhi.
Pensava che la mia incredulità fosse divertente? Vabbè. Poteva pensare di essere giusto e spietato finché voleva. Quello non lo rendeva vero, a parte il suo precedente sguardo fisso da predatore.
“Siete una cover band?” avevo domandato, cercando di non sembrare una stronza altezzosa. Mi piaceva una buona cover band tanto quanto la persona accanto. Ma molti musicisti aspiravano a suonare la loro musica… e fallivano.
“Un po’ di questo e un po’ di quello.” Aveva fatto spallucce. “Puoi chiamarmi a quel numero se ti serve qualcuno al bar. Mi piace preparare un buon cocktail speciale.”
Perché quella proposta sembrava così indecente? Come se lui avesse sottolineato “cock”
facendolo seguire da “tail”.
Ce la stavo mettendo tutta per sbronzarmi.
E che razza di musicista era questo tizio? Non andava avanti a parlare della sua musica, delle sue influenze, dell’erba che raccoglieva strada facendo suonando nei dive bar
del Texas centrale. C’era qualcosa di ambiguo in questo tizio. Conoscevo dei musicisti, e lui era fuori schema.
Una cosa che avevo imparato dopo diciassette anni vissuti insieme a un chitarrista stronzo come sua c’era-una-volta una groupie era che i musicisti sono presi fino al punto di essere narcisisti e vogliono parlare sempre di musica. La loro, quella che amano, quella che amano odiare, qualsiasi cosa purché riguardi la musica. Mio padre, i suoi ex compagni della band e i loro amici rocker non perdevano mai l’occasione di parlare a profusione del loro argomento preferito.
Ma non Watson.
Mi ero infilata il biglietto nel bustino lanciandogli un’occhiata sospettosa.
Lui aveva seguito la mia mano mentre sistemavo il biglietto vicino al seno; avevo lasciato che il suo sguardo indugiasse sulla mia scollatura.
Grazie, bustino da Wonder Woman. Le mie ragazze avevano un aspetto particolarmente favoloso quella sera.
Per questo Halloween avevo deciso di mettere in mostra le mie curve. Non che non ci fossero altre ragioni per scegliere il costume. Wonder Woman era la più cattiva dei cazzuti. Primo, il Lazo della Verità – non è necessaria alcuna spiegazione ulteriore. Ma nel caso in cui non fosse stato sufficiente, avevo anche un paio di fantastici stivali da dominatrice da indossare come parte del costume.
Sono bassa per fare l’amazzone – cavolo, sono semplicemente bassa – ma quello non significava che non avessi un look da sballo.
Watson sembrava essere d’accordo.
A parte il bustino, avevo trovato dei fortissimi pantaloncini da uomo a stelle e strisce che abbracciavano le mie curve. Tra le spalle scoperte e le cosce nude, esibivo un bel po’ di pelle. Avevo persino eliminato la mantellina perché la serata era rimasta abbastanza calda. O forse quello era successo dopo il quinto o sesto bicchierino. È difficile dirlo.
Pelle nuda o no, quello non significava che lui avesse un lasciapassare gratuito per continuare con quella stronzata del fissarmi.
“Hey.”
Il suo sguardo errabondo era tornato sulla mia faccia.
Quando, alla fine, il contatto visivo era stato ripristinato, io avevo riportato la conversazione sulla rotta originale. “Non mi hai ancora detto con chi sei venuto.”
“Non mi ero reso conto che fosse una festa a invito.”
“Ti mostri, non socializzi, non provi a rimorchiare nessuno. Te ne stai lì a guardare e basta. È inquietante, e non nel senso di Halloween. Perché sei qui?”
“Chi ha detto che non provo a rimorchiare nessuno?” Aveva fatto una smorfia. “Ma veramente la gente dice così? Rimorchiare qualcuno. Sembra qualcosa uscito da un brutto film degli anni ‘70.”
Chi voleva prendere in giro questo tizio? Mr. Artista del Rimorchio in persona. Forse, questa stronzata del “Aw, ma dai!” di solito funzionava per lui, ma non funzionava per me.
“Certo che la gente lo dice.”
“Ma lo fa?” Mi aveva sorriso, i denti brillanti in mezzo a tutta quella barba.
“Sei uno stronzo fastidioso.”
“Dipenderà da te. Molte persone mi trovano affascinante.”
Proprio mentre stavo prendendo in considerazione l’idea di andarmene, lasciando il suo villoso corpo sexy a osservare e fissare le persone, lui aveva detto, “Millie.”
“Cosa?”
“Millie. Hai chiesto con chi sono venuto. Tecnicamente, esco con lei.”
Primo, la mia vicina Millie ha più di 70 anni, è esuberante, spiritosa, forte da morire, è un’assoluta arrapata e non il tipo di donna che mi aspetterei per Watson.
Secondo, Millie non si vedeva da nessuna parte.
“Peccato che non sei qui con Millie.”
Si era guardato intorno, come se fosse sorpreso di ritrovarsi senza la sua donna. “Oh, giusto. Lei mi ha dato buca.” Poi aveva fatto spallucce, come per dire che sono cose che capitano. A lui? Improbabile.
Avrei scommesso sul fatto che nessuno avrebbe mai dato buca a Oliver Watson in tutta la sua vita. La sua specie non doveva affrontare quel genere di offesa. Poteva ficcare la sua nonchalance giù per la gola di qualcun’altra. Una che non fosse stata lasciata in un bar tre giorni prima a bere due Mexican Martini da sola, mentre aspettava che un grande stronzo si presentasse all’appuntamento.
Era stata una fregatura, e me ne ero pentita non appena avevo accettato. Ma mia madre – sì, quell’imprevedibile e attraente donna che mio padre aveva sposato e che mi aveva dato alla luce per poi dimenticarsi prontamente della mia esistenza – si era ricordata per due secondi di avere una figlia e aveva organizzato un appuntamento con… il cugino del suo commercialista? Il fratello del suo avvocato? Il figlio del suo consulente finanziario personale?
Non ricordo i dettagli, soltanto la parte in cui mi è stata data buca. Non avrei nemmeno accettato se non avessi provato una certa ansia per il mio incombente compleanno e per il non avere qualcuno per questa festa. La stessa festa invasa da un cazzone irsuto che aveva mangiato tutto il queso.
Avrei dovuto ridere – per il cazzone irsuto – ma ero troppo infervorata.
Dirigevo la frustrazione che covavo e che provavo nei confronti degli uomini in generale verso quel bambinone presuntuoso, barbuto e sotto-occupato, in piedi davanti a me in quel momento.
“Ti diverti a dare buca alle donne?” avevo domandato, incrociando le braccia.
“No. È incredibilmente sgarbato.” Sembrava confuso.
E doveva esserlo, poiché gli stavo attribuendo una qualche brutta intenzione che probabilmente non meritava. Non questa volta. Ma Oliver Watson aveva tutte le caratteristiche di quel genere di uomo.
Quello che non si fa vedere al bar per un drink, nemmeno dopo avere mandato un messaggio per confermare che non sei tu a scaricare lui.
Quello che si presenta a cena con una maglietta logora e i jeans sfilacciati, mentre tu ti sei presa la briga di andare dalla parrucchiera.
Quello che ti chiede i risultati delle analisi al primo appuntamento, perché dà per scontato che non solo farai sesso con lui dopo aver mangiato insieme una volta soltanto, ma anche che tu prendi la pillola e che non dovrà usare il preservativo se tira fuori un pezzo di carta che attesta che non ha nessuna malattia venerea.
Gli uomini sono tutti dei fottuti pezzi di merda.
“Hai ragione. È sgarbato.” Gli avevo lanciato un’occhiataccia. “Ricordalo.”
“Certo, lo farò, ma tu ricordi che sono io quello a cui è stata data buca questa sera, vero?”
“Come vuoi. Sembri il tipo d’uomo che dà buca alle donne.” Il mio tono era troppo sprezzante, il risultato di sette bicchierini di Fireball e più di dieci anni di delusioni amorose.
Apparentemente avevo permesso a quel cugino del commercialista, o fratello dell’avvocato, che mi aveva dato buca di irritarmi. La goccia che fa traboccare il vaso. Inoltre, non avrei dovuto scegliere dolci cocktail speciali, perché avevo bevuto un Poison Apple Martini e deciso che per quella sera avrei preso il resto del mio Fireball in un bicchierino.
La mia tolleranza all’alcol era migliore della media – salve, c’è una vampira qui – ma del resto non avevo avuto la possibilità di consumare il mio normale pasto, ricco di carboidrati e grassi, per compensare l’alcol… perché qualcuno aveva mangiato tutto il queso.
Gli avevo lanciato un’occhiataccia, incerta del perché quell’uomo, quella sera, fosse il destinatario di tutta la mia rabbia; ma guardarlo mi faceva solo incazzare di più, perché lui se ne stava lì, in piedi, tutto muscoli e barba e completamente divertito da me.
E quello aveva premuto i miei pulsanti.
Il che era l’unico motivo che mi veniva in mente (a parte i sette bicchierini di Fireball) per la mia ulteriore discesa nella terra delle accuse infondate.
“Hai mangiato tutto il queso.”
L’espressione divertita che gli si leggeva in faccia si era trasformata in un sonoro scoppio di risa, come se lo avessi sorpreso con le mani nel sacco. “Sei fatta? C’era un’intera pentola di quella roba. Nemmeno un esercito sarebbe riuscito a mangiare tutto quel queso.”
“Fatta? No.” Forse era giunto il momento di confessare il mio potenziale stato alterato. “Ma ho bevuto sette bicchierini di Fireball a stomaco vuoto, perché…”
“Qualcuno ha mangiato tutto il queso.” Aveva alzato le mani nel classico gesto che indica innocenza. “Non sono io il colpevole, ma sai una cosa? Penso di poter risolvere il tuo problema col queso.”
Aveva tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloncini logori un telefono super figo da un fantastilione di dollari e aveva mandato un messaggio. Perché i ragazzi squattrinati spendono sempre tutti i loro soldi in prodotti tecnologici? È una decisione talmente strana che non capirò mai.
Cavolo, avevo davanti a me un esempio perfetto di Tipo Squattrinato Che Spende Soldi in Tecnologia alla Moda. Dovevo decisamente chiedere.
“Risolvi questo mistero per me.” Avevo sorriso in ritardo, rendendomi conto che, forse, il mio tono aggressivo non era l’opzione migliore se volevo una risposta.
Con le labbra ancora contratte da un divertimento che non avrebbe dovuto provare – si sarebbe dovuto vergognare per le mie parole di verità – aveva detto, “Certo. Sarà bello.”
“Perché i tipi come te, barista part time e musicista part time, spendono sempre fino all’ultimo centesimo per dei gadget costosi che non possono permettersi?”
Le sue labbra si erano assottigliate, rivelando una tensione che non avevo ancora visto sulla sua faccia. Forse, finalmente, avevo premuto i suoi pulsanti, ma lui aveva inspirato a fondo e si era visibilmente rilassato. Una frazione di secondo dopo quell’ormai familiare inclinazione delle sue labbra era tornata.
“Domanda interessante. Forse ci dà l’impressione che possiamo ottenere qualcosa. Tipo vestirsi bene, ma in stile tech.” Aveva fatto una pausa e inarcato le sopracciglia. “O forse i nostri gadget costosi non sono stati comprati con l’ultimo centesimo ma sono stati un regalo.”
“Oh.” Quello non era per niente utile. Gli avevo dato delle pacche sul petto. Wow, quello sì che era un petto saldo. “Tante grazie, ma non penso che tu abbia risolto il mistero del mio uomo.”
Aveva emesso un suono di scontento. “È questo il punto, un solo uomo non rappresenta tutta l’umanità.”
Mi ero fermata a riflettere su quello. Fermata letteralmente… accarezzandogli il petto. Perché, apparentemente, lo stavo palpeggiando a livello subconscio da quando gli avevo messo le zampe addosso. Una pacca ed ero stata risucchiata dai suoi muscoli e dal suo silvestre odore di pino.
Annusando a fondo, cercavo di analizzare i vari profumi, ma senza fortuna. Tutto quello che percepivo erano pino e bosco, deliziosi.
“Cosa stavi dicendo?” Avevo spostato lo sguardo dal suo petto, che avevo ripreso ad accarezzare, alla faccia.
Gah. Perché lui mi faceva sentire così bene e aveva un così buon odore? Non era per niente il mio tipo. Non mi interessavano i bambinoni, nemmeno per una botta e via, cosa per cui gli umani andavano bene, perché non era come…
Oops. Avevo perso la concentrazione mentre il suo odore mi faceva sballare e mi eccitava.
“Um, penso di essermi persa qualsiasi cosa tu abbia detto.” Stavolta avrei dovuto cercare di concentrarmi sulle sue parole.
“Adesso mi stai oggettivando?”
Dall’espressione del suo viso non potevo dire se fosse compiaciuto o infastidito dal pensiero, per cui avevo scelto la via della sincerità. Separando il pollice e l’indice di circa due centimetri, avevo alzato la mano e avevo detto, “Un pochino. Tu sei sexy e hai un odore ridicolo.”
Inarcando le sopracciglia aveva risposto, “Non sono sicuro di cosa intendi dire. Tu sai di cannella.”
Perché stavo trangugiando Fireball come un ragazzo di una confraternita, ma vabbè.
Quello che era successo dopo era inatteso. Ero nel mezzo di una festa. Erano presenti alcuni dei miei colleghi di lavoro. Certo, organizzavo regolarmente feste alcoliche, ma avevo degli standard per il mio comportamento.
Standard che non comprendevano maltrattare un ospite, anche se era un imbucato.
Non sono del tutto sicura del perché avessi deciso per quella festa, quella sera, quel tipo… ma lo avevo fatto.
Avevo fatto scivolare la mano – quella che aveva ripreso a sfregare i duri piani del suo petto – sulla clavicola e lungo la nuca, abbassando la sua testa verso la mia.
Cercando di abbassare la sua testa verso la mia.
Essendo a malapena sette centimetri sopra il metro e mezzo, avevo difficoltà a baciare Mr. Sexy e Villoso e Buon Profumo senza il suo aiuto. Doveva essere alto più di 1,80.
Come poteva avere un odore così buono e non baciarmi all’istante? Non andava bene così. Avevo alzato lo sguardo per vedere che cavolo di problema avesse e aveva ancora quella medesima espressione divertita. Che mi aveva fatto lanciare un’occhiataccia.
Un’occhiata alla mia espressione da stronza dagli occhi di ghiaccio e lui…
Si era messo a ridere.
Ridacchiare, per l’esattezza. Sembrava che il mio atteggiamento da stronza cattiva non lo spaventasse, e quello mi eccitava fottutamente.
Se non mi avesse baciato seduta stante, mi sarei arrampicata su di lui come se fosse stato un fottuto albero e l’avrei fatto succedere.
Questa volta, quando avevo cercato di abbassargli la testa, lui mi aveva lasciato fare. L’odore di bosco e di uomo pulito aveva riempito il mio naso prima che le nostre labbra si incontrassero.
Questo coglione stava sorridendo?
Sì. Sì, stava sorridendo.
E in quel momento era cominciato lo strapazzo.
Avevo infilato entrambe le mani tra i suoi capelli folti, scuri, non-proprio-selvaggi, avevo premuto le mie tette contro di lui, avevo inclinato la testa e mi ero concentrata sul farlo volere.
Quello che era cominciato come una delicata esplorazione era diventato un attacco violento con pressione e respiro affannoso e un desiderio di mordicchiare, morsicare, lasciare segni che non avevo mai provato prima.
Avevo intrappolato il suo labbro superiore tra i miei denti e lo avevo succhiato. Il suo ringhio mi aveva colpito basso, nell’addome, e proprio mentre stavo pensando a come fare per avvicinarmi, lui mi aveva preso per le natiche e mi aveva sollevata.
Dea. Volevo sentire ogni centimetro di lui premuto contro di me. Volevo strofinarmi contro di lui. Volevo… volevo e basta.
Aveva risposto alla mia aggressione frontale, la sua bocca dura ed esigente, e mi piaceva.
Le nostre lingue si erano attorcigliate in una guerra di calore e passione per non so quanto tempo.
A un certo punto mi era venuto il pensiero fugace che, praticamente, eravamo nel bel mezzo della mia festa.
Ma… chi se ne frega?
Lui era sexy, il suo bacio rovente, e io volevo imprimere il suo corpo muscoloso, il suo sapore, la sensazione delle sue labbra nel profondo della mia anima.
Poi aveva ammorbidito il nostro bacio.
La qual cosa era avvenuta quando il mio cervello aveva ripreso a funzionare.
La qual cosa era avvenuta quando mi ero resa conto di essere avvinghiata a lui come una spogliarellista squattrinata nel mezzo di una lap dance privata.
Poiché non lavoravo per le mance ed ero nel mio soggiorno, circondata da amici e colleghi di lavoro, probabilmente sarebbe stata una buona idea scendere da quell’albero villoso e sexy sul quale mi ero arrampicata.
Ero scivolata giù dal suo corpo, desiderando che lui non si sentisse il mio personale regalo di compleanno. Non poteva essere un regalo per me? Per piacerissimo?
Magari.
Non nel mezzo della mia festa di Halloween.
Ma magari.
“Sei ubriaca.” Mi aveva sussurrato le parole all’orecchio, ma comunque erano cadute con una spiacevole fermezza.
“No. Non lo sono.” Sfortunatamente, in quel momento il mio corpo aveva scelto di tradirmi e mi era venuto il singhiozzo.
“Uh-huh.” Mi aveva girato i capelli dietro l’orecchio, passato il pollice sulle labbra e in generale mi aveva fatto rimpiangere – duramente – quegli ultimi bicchierini. Perché altrimenti, forse, avrei preso altro di lui. Altro suo calore, altro suo odore e altro della sua bocca. Proprio lì e in quel momento, alla mia festa di Halloween.
Poi era sparito.
Il patetico bastardo se n’era andato.
Gli uomini fanno schifo.
Certo, aveva salutato.
E mi aveva ricordato che avevo il suo numero.
Aveva anche detto che sarebbe stato interessato a sentirmi. E quando aveva detto “interessato”, avevo pensato che intendesse… forse, entusiasta?
Ma che cazzo, poi. Mi aveva lasciato eccitata e insoddisfatta, il coglione. Anche se ero circondata da amici e colleghi a una festa che io ospitavo, comunque lui aveva lasciato me.
Prima che potessi decidere se ero arrabbiata, triste, o forse anche solo minimamente grata, un tizio che reggeva un’enorme borsa di carta aveva gridato, “Megan! Sto cercando una certa Megan.”
Alcuni ospiti avevano indicato nella mia direzione.
“Sei tu Megan?”
“Sì.” Sembrava proprio che la mia festa avesse ufficialmente una porta aperta. Lasciavamo entrare chiunque, anche chi portava borse di carta.
Aspetta un attimo.
Un tizio che portava una borsa di carta? Perché c’era un fattorino della consegna a domicilio alla mia festa?
“Consegna per te. Qualcuno ha ordinato questo e ha detto che dovevo assicurarmi che venisse consegnato direttamente a Megan.” Mi aveva guardato come se avessi dovuto saperne qualcosa. Come se l’avessi pianificato. Come… oh, voleva la mancia.
“Seguimi.” Avevo degli spiccioli in cucina. Gli avevo dato una banconota da venti dollari per un ordine che non avevo fatto, lui mi aveva ringraziato e aveva posato la borsa.
Dopo averla spacchettata, avevo trovato alcune vaschette grandi di queso. Ma certo. Se non fossi stata mezza sbronza, lo avrei capito prima.
Avevo trovato anche una ricevuta che mostrava l’addebito per il queso, le spese di consegna e una lauta mancia per il fattorino, tutto prepagato.
Mi sentivo un’idiota totale e non solo per la mancia da venti dollari.

2
Ero andata a letto davvero tardi quella sera.
Davvero tardi.
Dopo altri drink. Potenzialmente parecchi altri drink, perché non riuscivo a ricordare esattamente quanti fossero stati.
Quello che ricordavo erano i messaggi.
Con un villoso sexy.
Messaggi da ubriachi.
Quando la sveglia s’era messa a suonare, a una certa ora strana, mi ero girata e l’avevo spenta, perché ero troppo stanca, con troppi postumi da sbornia, troppo impreparata ad affrontare la vita anche solo per cominciare a prendere in considerazione gli eventi della sera prima.
Ma poi la sveglia aveva ripreso a suonare, e poi ancora.
Alla quarta volta ero abbastanza sveglia da ricordare quei fottuti messaggi. Tranne che nessuno era così stupido, nemmeno la me ubriaca delle tre del mattino.
Mi ero sfregata gli occhi e avevo toccato l’icona dei messaggi, cercando di ignorare il fatto che erano le 6:37 del fottuto mattino e la notte prima avevo dormito meno di quattro ore.
Ma lì c’era tutto: la mia stupidità, immortalata per sempre nello storico dei miei messaggi.
Io: Hey figo chitarrista barista uomo peloso
Figo peloso: Fammi indovinare… Megan
Io: Sì! Sei molto più intelligente di quanto sembri
Wow, stavo veramente incarnando la mia malefica stronza interiore con quello. Apparentemente, la mia malefica stronza interiore era meno carina alle tre del mattino di quanto fosse stata prima, durante la serata, perché erano trascorsi parecchi minuti senza ricevere risposta da Oliver. La me ubriaca aveva deciso di pungolarlo.
Io: Grazie per il queso. È stato molto carino da parte tua.
Figo peloso: Era il minimo che potessi fare dopo che mi hai accusato di averlo mangiato tutto.
Apparentemente, la me ubriaca era confusa per questo, non vedendo l’ironia di un uomo ingiustamente accusato che faceva quella dichiarazione, ma sapendo che c’era qualcosa di sbagliato.
Io: Dannatamente diretto. Aspetta. Sei stato tu a mangiare il queso? O non sei stato tu a mangiare il queso?
Figo peloso: Ti sembro uno che consuma due chili di queso in una sera?
Io: Sembri uno che scopa molte donne
Io: e uno che ha decisamente molta energia nel cazzo
Io: O forse no?
Io: Oppure il tuo cazzo è così grosso che nessuno nota la pancia da queso
Wow. La me ubriaca delle tre del mattino era fottutamente sfacciata. E giudicante. In realtà non pensavo che un uomo dovesse avere gli addominali scolpiti per essere fisicamente attraente.
Però non avevo detto che la sua ipotetica pancia da queso fosse non attraente, solo che in confronto al suo mostruoso cazzo spariva.
Bel problema. Qualcuno dovrebbe togliermi il telefono quando sono ubriaca. La mia migliore amica, Becca, mi chiama stronza malefica, ma per lo più è per scherzo. In realtà non sono una stronza malefica… di solito.
Io: Ci sei?
Figo peloso: Sto ancora elaborando.
Forse, a questo punto avevo rivisto i miei messaggi e mi ero resa conto di avere esagerato? Non ero sicura di cosa pensassi. L’intera conversazione era piuttosto maledettamente confusa.
Io: Um, scusa?
Figo peloso: Pensi di chiedermi scusa o mi chiedi scusa?
Io: È più che certo che ti chiedo scusa, ho deciso di mandarti messaggi da ubriaca nel cuore della notte
Figo peloso: Perché l’hai fatto?
Io: Perché hai risposto?
Oh, guardami, ubriaca e ancora in grado di essere evasiva. Bel lavoro, Megan ubriaca.
Figo peloso: Ero sveglio. Non riuscivo a dormire.
Figo peloso: Ed ero contento di sentirti.
Io: Davvero?
Beh, cavolo. Avevo fatto bene per un minuto, ma la me ubriaca aveva decisamente bisogno di un po’ di attenzioni.
Figo peloso: Davvero. Ti avevo dato il mio numero. Sono decisamente contento di sentirti. Anche alle 3:17 del mattino.
Figo peloso: Esci con me.
Io: Lo dici così?
Figo peloso: Non è così che funziona? Un ragazzo conosce una ragazza e le dà il suo numero. La ragazza chiama. Il ragazzo le chiede di uscire.
Io: Non sono sicura che funzioni in questo modo.
Figo peloso: Ok
E poi Oliver aveva fatto un po’ il malefico di suo. Quell’uomo sapeva di avere a che fare con una donna ubriaca che aveva una durata dell’attenzione pari a quella di un moscerino e la pazienza di una pulce.
Aveva aspettato. Tre minuti.
Io: Cosa intendi con ok?
Figo peloso: Hai detto che non funziona in questo modo. Sono d’accordo.
Io: Ma… non dovresti semplicemente rinunciare.
Di nuovo il bisogno di attenzioni. La me ubriaca faceva pena.
Figo peloso: Cosa dovrei fare?
Io: Riprovare?
Figo peloso: Hm.
Oh, sì. Quell’uomo stava incanalando la sua parte malefica. Questa volta la stronza ubriaca aveva resistito soltanto un paio di minuti, e visto il modo in cui le marche temporali funzionano, suppongo che in realtà fosse passato un minuto e mezzo.
Io: Dovresti decisamente riprovare.
Figo peloso: Dovrei? Magari il mio ego è fragile. Magari, distruggendomi come hai fatto, hai mandato in frantumi quel po’ di fiducia in me che avevo.
Io: Balle. Dovresti decisamente ritentare.
Figo peloso: Che ne dici di sistemare la cosa con una sfida?
E bam, quell’uomo mi aveva fatta sua. Mi piace una buona sfida. A chi non piace?
Io: Ci sto.
E a parlare era stata decisamente la Megan ubriaca che più ubriaca non si può. Mi potrà anche piacere una buona sfida, ma tutti sanno che non accetti senza stabilire i parametri, i paletti e le regole.
La me ubriaca aveva appena fatto una mossa da principiante.
Figo peloso: Eccellente. Yoga all’alba tutti i giorni per tutto il mese di novembre.
Forse la me ubriaca aveva avuto un barlume dell’idiozia delle sue azioni. Sicuro come la morte che doveva averlo avuto. Avrei voluto prendere a schiaffi la me ubriaca, ma sarebbe stato controproducente vedendo quanta me ubriaca fosse ancora me. Dannazione.
E sarebbe stata questa me che avrebbe fatto cose che sembravano un po’ una tortura. Alzarsi all’alba. Piegare il mio corpo in modi in cui non era predisposto a piegarsi.
Figo peloso: Ci sei?
Io: Sì. Parametri?
Figo peloso: La seduta da venti minuti di yoga comincia all’alba. Il primo che salta una seduta perde. D’accordo?
Io: Maledizione, sì.
Figo peloso: Ti manderò un link. Devi collegarti ogni mattina all’alba. C’è un’app.
Tutto questo sembrava assai sospetto alla luce del giorno. Oliver, così per caso, conosceva un’app per sfide di yoga all’alba? Il tipo era chiaramente uno yogi o come volete chiamare le persone che eccellono nel piegarsi in varie pose allenandosi ossessivamente.
Oh, giusto, quelle persone vengono definite pazze.
Specialmente quando si alzano al sorgere del sole per fare quelle stronzate di piegamenti.
Io: Regole?
Figo peloso: Fatti vedere in orario, resta per l’intera seduta e fai un tentativo onesto per ogni posa, modificandola appropriatamente.
Io: D’accordo. E i paletti?
Figo peloso: Chi perde paga un forfait a scelta del vincitore.
E questo è il motivo per cui soltanto un’idiota avrebbe accettato una sfida prima che parametri, regole e paletti venissero stabiliti chiaramente. Sapevo che era meglio farlo prima di buttarsi alla cieca in una sfida. Peccato non poter dire lo stesso della Megan ubriaca.
Io: Va bene.
Figo peloso: A proposito, domani l’alba è alle 6:46.
La mia risposta era stata una varietà di emoji e comprendeva il mio dito preferito.
La sua risposta era stata la faccina che ride così tanto da piangere.
E poiché anche la Megan ubriaca odiava perdere una sfida, avevo messo cinque sveglie. Ecco perché ora ero sveglia alle…
Una rapida occhiata al telefono aveva rivelato che era un’ora impossibile: le 6:44.
Cazzo!
Avevo due minuti. Non avevo intenzione di perdere quel patetico pezzo di merda di sfida proprio il primo giorno. Avevo cercato il link e mi ero rapidamente registrata, riuscendo appena in tempo a presentarmi alla prima seduta in programma.
Sul display c’era un timer che visualizzava un conto alla rovescia; erano rimasti ventisette secondi. Mentre quei secondi scorrevano all’indietro, il mio Io stanco, con i postumi della sbornia, ma non ubriaco, aveva considerato che da quella stupida sfida Oliver non avrebbe guadagnato assolutamente niente.
Quell’uomo doveva sapere che ero stata sul punto di accettare di uscire con lui. Se si fosse solamente preso la briga di chiederlo di nuovo, avrei detto sì.
E a cosa sarebbe servito, a entrambi, un mese di fottuto yoga?
Quando la prima seduta era cominciata, mi ero resa conto di come esattamente mi avrebbero fatta sentire i successivi trenta giorni di yoga mattutino.
Arrapata.
E frustrata.
Probabilmente anche con tendenze omicide, se l’immagine sullo schermo era un assaggio dei successivi trenta giorni.
Oliver era l’istruttore.
E no, Oliver non aveva la pancia da queso. Non aveva nemmeno un pacco da sei.

No, aveva un pacco da otto, di cui riuscivo a vedere ogni cresta e ombra – persino sul minuscolo schermo del mio telefono – perché l’essere divino precedentemente conosciuto come Oliver, detto Figo Peloso, era a torso nudo.
E che cazzo indossava come pantaloni?
Mi era venuto bisogno di farmi aria.
Pantaloni, un corno. Non erano nemmeno pantaloncini. Sembravano più degli slip.
Beh, non coprivano solo le natiche. Saranno stati a mezza coscia, ma mentre lui si muoveva, gli short, che aderivano ai suoi glutei muscolosi, mostravano flash dei suoi quadricipiti gonfi.
Avevo inspirato profondamente, come da sue istruzioni, poi avevo cominciato a seguire il divino Oliver e la sua voce flautata mentre mi guidava in una routine yoga di venti minuti.
Come avrei fatto a gestire una cosa del genere per trenta giorni?

3
Avevo finito la routine yoga, ma non mi sentivo Zen né rilassata, né come cazzo ci si dovrebbe sentire dopo aver fatto yoga all’alba.
Mi sentivo arrabbiata.
Frustrata. Dal punto di vista sessuale, naturalmente. Chi non lo sarebbe stato dopo aver guardato Oliver Watson e il suo perfetto, potente corpo muoversi fluidamente su un grande schermo per venti minuti? (Sì, ovviamente avevo trasferito il suo corpo sensuale sul mio televisore a grande schermo. Quell’uomo era un’opera d’arte.)
Sciocca. Mi sentivo decisamente sciocca. L’ubriachezza non era una scusa sufficiente per impegnarmi trenta giorni in quello.
E testarda, perché anche se potevo porre fine al mio tormento – o guardarlo su uno schermo più piccolo – non volevo. Avevo intenzione di vincere questa sfida, anche se avessi dovuto vivere in uno stato di arrabbiata frustrazione sessuale per il mese successivo.
Dopo avere provato, senza riuscirci, a ritornare a letto – apparentemente lo yoga arrabbiato mi aveva dato energia – avevo preso una tazza di caffè. Poi un’altra.
E proprio mentre stavo per chiamare Becca – perché chi, meglio della mia migliore amica, poteva capire il mio irrazionale bisogno di continuare questa sfida nonostante la follia che era il corpo mezzo nudo di Oliver Watson? – mi chiama lei.
Con un problema. Uno di quelli seri, che richiedeva il mio totale supporto emotivo. Il mio problema, che era minuscolo e auto-inflitto, avrebbe dovuto aspettare.
Il riavvolgimento della percezione di Becca dava i numeri, la qual cosa, sinceramente, mi spaventava. Senza la capacità di accedere ai ricordi recenti di un donatore umano per manipolarli, come avrebbe fatto a nutrirsi?
I vampiri non hanno bisogno di molto sangue fresco per sopravvivere, ma senza una piccola quantità a intervalli regolari noi soffriamo di privazione di sangue (che non è bello) e poi di inedia da sangue (potenzialmente fatale).
E poiché i vampiri sono sempre stati un grande, grosso segreto, lei non avrebbe potuto semplicemente andarsene in giro per la città a mordere persone a caso senza alterare la loro percezione del morso. Avremmo risolto la cosa, e nel frattempo mi sarei assicurata che ricevesse il suo nutrimento, ma la faccenda restava preoccupante. Il nutrimento di squadra non sarebbe stato una buona soluzione a lungo termine, per cui dovevo avere fede nel fatto che avremmo trovato un sistema.
E come se non bastasse, la mia migliore amica soffriva anche di un caso di forti emozioni, il che era… complicato.
I suoi problemi erano decisamente più grandi dei miei. Questo era uno di quei momenti nell’amicizia in cui io dovevo essere quella che sosteneva e non quella da sostenere.
Dopo avere parlato con Becca dei suoi problemi, avevo bevuto un’altra tazza di caffè e avevo deciso che era ora di chiamare gli altri mieirinforzi. Becs era la mia persona di riferimento. L’amica più intima che avessi. E sebbene non le avessi rivelato alcuni segreti (per il suo stesso bene), lei mi conosceva meglio di chiunque altro.
Ma, in realtà, avevo altre amiche. Poiché volevo limitare l’umiliazione della sfida a seguito dei miei messaggi da ubriaca, per quanto possibile, dovevo scegliere: Yvette o Kayla?
Kayla, ultimamente, non si era fatta viva molto. In parte perché viaggiava per lavoro, ma anche quand’era in città era sempre difficile da trovare. Stava affrontando qualcosa. Avevo provato a contattarla, ma era una persona riservata, per cui non ero rimasta sorpresa quando aveva dichiarato che andava tutto bene. Tutto quello che potevo fare era offrirle di esserci – e magari non scaricare su di lei il mio dramma personale.
Quindi, Yvette era la fortunata vincitrice della mia lotteria dell’eccessiva condivisione.
Yvette era un tesoro. Un tipo dai modi grezzi, ma per me andava bene così. Se fosse stata del tutto arrendevole, beh… l’avrei lasciata perdere.
Lei ascoltava e mi dava dei buoni consigli. Dopo se la faceva sotto dalle risate. Ma io meritavo di essere derisa; la me ubriaca era un disastro.
Oltretutto, Yvette era stata alla festa ieri sera. Magari aveva notato Oliver.
Avevo deciso che potevo parlare e lavoricchiare in casa allo stesso tempo. Ero più che sveglia, per cui avrei anche potuto dedicarmi alle mie tradizionali pulizie post-festa, quelle che facevo dopo ogni festa alcolica che davo. Era più un riordinare post-festa, perché il servizio di pulizia era programmato per lunedì, ma doveva ancora venire e io potevo decisamente lavorare in multitask.
Yvette aveva risposto subito, un buon segno poiché era abbastanza presto. Lei non era rimasta alzata fino alle 3:17 a scrivere messaggi da ubriaca a un musicista barista.
“Qual è l’emergenza? Passo a prenderti e ti porto all’ospedale?” Non sembrava in preda al panico, quindi quella era la sua idea di essere spiritosa.
“Per quello c’è Uber. Ho bisogno di un consiglio.”
“Per quello ci sono le ambulanze, Megan. Che la dea ci salvi. E non sono sicura di avere preso abbastanza caffeina per qualsiasi cosa tu stia per dirmi.”
Pura Verità. Non telefonavo di frequente, preferivo mandare messaggi. E chiedevo consigli con ancora minore frequenza.
“Prepara il caffè mentre ascolti.” Ma il mio suggerimento non era necessario. In sottofondo potevo sentire scorrere l’acqua dal rubinetto. “Ricordi il bambinone peloso di ieri sera?”
“Tu pensi che qualunque uomo che non indossi un completo a tre pezzi sia un bambinone. Sii più specifica.”
Forse una quarta tazza di caffè era una buona idea. Decisamente.
Dirigendomi in cucina avevo detto, “Viviamo a Austin. Nessuno indossa un completo a tre pezzi, a meno che non vada a un matrimonio.”
“Um-hmm. Al tuo matrimonio, forse. Allora, stavamo parlando di uomini pelosi. Un uomo peloso in particolare, che non indossava un completo a tre pezzi. Quando dici peloso, di cosa parliamo? Peli sul torace anni ‘70, abbastanza lunghi cosicché la sua catena d’oro si perda tra essi? Riccioli fluenti imbrigliati in uno chignon da uomo? Dammi qualche indizio.”
Nel sentire il riferimento alla catena d’oro, mi era quasi caduta di mano la tazza di caffè appena riempita. “Wow, non so cosa dire. Ho la sensazione che, forse, di nascosto guardi vecchi porno.”
“Aw, tesoro, non sono vecchi porno. Sono classici porno.”
Non lo aveva negato. “Guardi classici porno senza di me?”
Una volta, a tarda sera, eravamo capitate su un film per adulti e c’eravamo divertite a ridere della storia – quale storia? – e dei movimenti con sottofondo musicale di lui. Avevamo guardato soltanto l’inizio. Guardare la parte dove lui asfaltava l’aiuola della povera donna con il suo attrezzo per trenta ore di fila e lei se ne stava lì a prenderlo non sarebbe mai successo.
Quel genere di porno era il motivo per cui il mondo, ora, è diventato amichevole verso le donne, porno non-completa-merda, quindi forse non era stata una completa perdita di tempo?
Nah. Del tutto inutile, a parte le risate.
“Aspetta.” Alla richiesta di Yvette era seguito il rumore di un macina-caffè. Quando era ritornato il silenzio, lei aveva detto, “Faccio fatica a fare battute senza un pubblico. E c’è così tanto materiale. La musica, le luci, la trama, il trucco. E le acconciature.” Aveva fatto un suono di disapprovazione. “Negli anni ‘70 avevano davvero problemi ad avere una peluria decente, sopra e sotto la cintura.”
“Hmm,” avevo mormorato, dopodiché avevo sorseggiato il mio caffè. “Non lo nego, ma ho un problema che deve essere gestito, per cui dovremo mettere da parte il fatto che mi stai tradendo.”
“Va bene. Ho ancora qualche minuto prima che il mio caffè francese sia pronto. Finché non avrò preso la mia dose mattutina, dovrai parlare lentamente e chiaramente, ed evitare qualsiasi rivelazione scioccante.” Il rumore di una sedia che veniva trascinata aveva sottolineato la sua richiesta. “A meno che non si tratti di quel tipo sexy che hai baciato ieri sera. Quello che palpeggiavi nell’angolo non-interamente-buio del tuo soggiorno.”
Mi ero sistemata su uno dei due sgabelli infilati sotto la sezione bar dell’isola della cucina. Meglio lasciar perdere le pulizie mentre facevo quella conversazione. Sedersi era un’opzione molto migliore.
“Dal tuo silenzio, suppongo che tu presuma che nessuno l’abbia visto.” La sua voce si era ammorbidita.
“Uh, non esattamente. Speravo solo che non fosse l’attrazione della serata, visto che c’erano anche alcuni miei colleghi.” Avevo spinto via la tazza. Forse tre tazze e mezza di caffè erano troppe.
“Oh, tesoro.” Yvette si era messa a ridere, allentando parte della tensione che provavo. “I tuoi colleghi si ubriacano persi alle tue feste. L’ultima cosa che fanno è giudicarti per le tue attività sessuali.”
“Lo spero. Non credo di perdere il lavoro per un bacio fuori dall’orario di lavoro che ho dato a casa mia, ma in genere non mischio dimostrazioni pubbliche di affetto con eventi sociali para-lavorativi.” Esprimendo il fatto che non essere disoccupata lunedì sarebbe utile. Era solo che avevo quell’altra cosa di cui preoccuparmi. Quella cosa alta più di 1,80, non-così-pelosa, molto flessibile.
“Esattamente. Quello di ieri sera è stato un comportamento atipico. Probabilmente se ne saranno già dimenticati. Inoltre, non è che ti puoi presentare come un Jon Snow vampiresco. Adesso quel tipo ha qualcosa per cui essere in imbarazzo. Si può soltanto presumere che abbia preso quella decisione da sobrio, il che rende la cosa molto peggiore.”
“Ha! Quello era Robert. Già, non so cosa c’entri lui con i vampiri.”
“Abbiamo superato la parte in cui sei moderatamente a disagio per il fatto che i tuoi colleghi ti hanno visto baciare e palpeggiare aggressivamente un tizio?”
Io palpeggiavo aggressivamente? Maledizione, suppongo di averlo fatto.
Ma… Ero a casa mia. Fuori dall’orario di lavoro. Non era una riunione di lavoro.
Certo, l’avevo superata.
“Uh-huh.” Mi preparavo per qualsiasi cosa sarebbe arrivata dopo.
“Porca merda, quell’uomo era eccitato forte. E voi due, tra il palpeggiare e il folle, intenso baciare e la parte in cui ti ha tirata su… semplicemente…” Aveva sospirato. “Non puoi vedermi, ma mi sto facendo aria.”
“Super-eccitante, vero?” E lo era stato. Davvero eccitante. Mi aveva sollevato il culo come se non pesassi niente. Quello era stato una spinta per l’ego, perché non sono leggera. Le curve aggiungevano massa. Poi lui aveva concentrato tutta quella deliziosa attenzione maschile su di me. La sua calda bocca sulla mia, il suo forte corpo premuto contro di me… cazzo.
“Um-hmm. E tanto per chiarire, una folta barba e una testa piena di capelli non rendono ‘pelosi’, svitata che non sei altro.” Aveva fatto una pausa, poi aveva aggiunto, “A meno che tu non ammetta di averlo visto nudo.”
“Per quello… Peloso potrebbe essere fuorviante.” Decisamente fuorviante.
Non c’era niente di peloso in Oliver, a parte gli stupendi riccioli e la barba curata a livello professionale. Quell’uomo doveva avere un’abilità non umana con le forbici, oppure trascorreva molto tempo dal parrucchiere.
Per quanto riguardava il resto del corpo, aveva una peluria addominale deliziosamente osé e una leggera spolverata di peli sul petto. Decisamente non era peloso.
“Lo sapevo!” Yvette aveva lasciato cadere il telefono mentre rigurgitava bestemmie. Un secondo dopo era tornata. “Cazzo, ragazza, mi hai fatto versare il caffè.”
“Non parlare con le mani!” Riuscivo a vederla, circondata dai colori vivaci della sua cucina, mentre gesticolava tenendo in mano una tazza piena di caffè.
Ignorando il mio ammonimento, aveva risposto, “Hai dormito con lui. Sono così fiera di te. Dopo chissà quanto tempo hai visto un po’ d’azione. Quanto è passato? Un anno?”
Yvette, al contrario di Becca, era pienamente consapevole del mio periodo di magra. Sospettava anche che il mio elenco “sesso, sì” fosse precedentemente esistito come qualcos’altro di completamente diverso.
“No, non ho dormito con lui. È un musicista. Un musicista barista.”
Yvette sapeva anche tutto sui miei genitori. Sapeva che mia madre era una bambina mai cresciuta con un fondo fiduciario. Sapeva che mio padre, una volta (per brevissimo tempo), era stato un rocker di successo che aveva sposato una ricca groupie. Sapeva che nessuno di loro era in grado di agire come un adulto, compresi (tra l’altro) i rapporti tra loro e con me.
Yvette sapeva dei miei genitori soltanto perché, quando ci eravamo conosciute, ero stata un’assoluta, perfida stronza. Anche lei era stata una bambina con un fondo fiduciario. Non come per i miei genitori, come si era scoperto, ma inizialmente non le avevo dato la possibilità di mostrarmi che era diverso.
Dopo la nostra falsa partenza, mi ero resa conto di averla giudicata male per le azioni dei miei genitori e avevo scaricato parte del bagaglio della mia famiglia durante il processo di scuse per il mio comportamento di merda. Lei aveva contraccambiato raccontandomi che anche lei aveva le sue difficoltà parentali, sebbene fossero di natura differente rispetto alle mie. Da quel momento siamo state piuttosto intime.
Poiché Yvette conosceva i miei genitori e sapeva quanto avessero influenzato il mio atteggiamento nei confronti sia dei non-adulti irresponsabili sia dei musicisti, capiva perché inizialmente avessi liquidato Oliver, alla festa.
Era il resto che l’aveva sorpresa.
“Cazzo. Che peccato per quella cosa del musicista barista. A meno che tu non stia sperimentando il rimpianto.” La nota speranzosa nella sua voce era graziosa. Come se credesse ancora nella possibilità di una semplice, facile scopata.
Oh, giusto. Lo credeva. Yvette prendeva tanti cazzi quanti Becca pensava ne prendessi io. Non ero sicura di come ci riuscisse. In giro non c’erano così tanti uomini scopabili.
Poiché non rispondevo, aveva suggerito, “È questo il motivo per cui hai chiamato? Ti prego, dimmi che sei indecisa se lasciarlo. Ti prego, ti prego. Perché se è così, ti dico: butta quel fottuto elenco e dormi con quell’uomo. È troppo carino per rinunciarvi, qualunque possa essere la sua professione o per quanto merdose siano le sue capacità di conversazione.”
“Non ricominciare.”
Yvette mi aveva accusato di chiedere troppi requisiti agli uomini che frequentavo. Non era la prima volta che mi incoraggiava a mettere da parte il mio elenco.
Mi aveva anche detto, non così terribilmente tanto tempo prima, di buttarlo. Qualcosa sul fatto che dovrei seguire il mio cuore, e se non il mio cuore, almeno le mie parti femminili.
Buttare l’elenco? Neanche per sogno.
Ma che ci potevo fare se ogni singolo bambinone che conoscevo, indipendentemente dal suo quoziente di arrapamento, mi lasciava meno che entusiasta? Volevo fare sesso con uomini, non con ragazzi cresciuti e mai diventati maturi.
“È un po’ più complicato di un semplice ‘voglio, non voglio’ fare sesso con lui.”
E le avevo raccontato dei messaggi da ubriaca, della sfida di yoga all’alba, e poi della rivelazione di quella mattina, che il figo peloso dopotutto non era così peloso, verità che avevo scoperto perché avevo visto gran parte del suo corpo nudo.
Lei era rimasta in silenzio dopo che avevo finito. Troppo in silenzio.
“Beh?” l’avevo spronata.
“Dammi un secondo. Sto pensando. Ugh, cosa sto dicendo? Non sto pensando. Sto cercando di prevedere la mia conclusione. Sto dubitando di quello che so essere vero.”
A volte la mia amica Yvette può essere un tantino teatrale. Dico io. Lei lo nega.
“Sputa, dai.”
Il suono di un respiro profondo aveva preceduto la sua risposta. “Alza i tacchi. Non richiamarlo. Non mandare messaggi. Non fare lo yoga mattutino. Dimentica di averlo conosciuto.”
“Cosa? Perché?” Stava dicendo sul serio? Yvette, tra tutte le persone, era proprio quella che avrebbe dovuto incoraggiarmi. Stava mettendo il dito nella piaga del mio ultimo periodo di magra, che durava da troppo tempo, ormai.
Stavo cercando un consiglio per capire se lasciar perdere oppure no la sfida, non per scegliere se avrei dovuto oppure no mollare il tipo. Il tipo che ero pronta a scopare – bloccandolo facendogli perdere l’interesse prima che avesse la possibilità di infilare il suo uccello – e come avevamo già discusso, la mia astinenza tendeva a una durata epica.
La sfida era il problema. Mi piacevano le sfide, abbastanza fino al punto che odiavo l’idea di andarmene, anche se sapevo che Oliver la usava come un modo per tormentarmi con il suo corpo assurdamente in forma, come rappresaglia per averlo respinto.
“Perché?” aveva domandato Yvette. “Hmm. Vediamo. Io, diversamente da te, faccio sesso occasionale. Tu fai sesso con gli uomini come se fosse un colloquio per capire se possono essere partner per la vita. Ma lo neghi, così di tanto in tanto dormi con un umano occasionale.”
Negavo quel non-fatto. Non c’erano colloqui in corso per cercare un partner per la vita, perché gli uomini facevano schifo. Ma al momento non avevo intenzione di affrontare la cosa.
“E tutto questo cos’ha a che fare con Oliver?”
“Dea. Ascoltati. Non riesci nemmeno a dire il suo nome senza che suoni arrapante da togliere il fiato e sessualmente frustrato allo stesso tempo.” Aveva fatto una pausa, e io potevo immaginarla nella sua cucina mentre si stringeva le mani e cercava di assumere un’espressione pensosa. Era difficile con tutti quei capelli biondi e quella sua adorabilità. “Se pensassi che potresti semplicemente fare sesso con lui e passare oltre, ti direi fallo. Sai che lo farei.”
“Non pensi che potrei farlo?” Ero abbastanza sicura che avrei potuto. Se avessi fatto sesso con lui, il che era un grosso se, visto che era un adolescente sulla trentina destinato a mollarmi prima o poi.
“Quel tipo ti piace, anche se non corrisponde a tutti i tuoi requisiti. Anche se non corrisponde al requisito principale; è umano. Solo quello lo rende insolito. Aggiungi un esteso periodo di continuo contatto con lui, trenta giorni passati a fissare il corpo del tuo sexy istruttore di yoga e penso che ti prepari per un immenso dolore. Con un umano, Megan.”
“Ma lo è?” Perché c’era stato quel commento tagliente sul preparare un favoloso Bloody Mary, accompagnato da uno sguardo stranamente d’intesa. “Pensi… voglio dire, è un’idea folle, ma pensi che ci sia la possibilità che possa essere un vampiro senza che noi lo sappiamo?”
“No.” Il suo tono privo di emozione non lasciava spazio alla discussione.
Ma… io un po’ volevo che fosse un vampiro.
Mi rifiutavo di contemplare da vicino quel desiderio. “E se si fosse semplicemente trasferito qui?”
“L’ha fatto?”
Maledizione. La sua band. Ed era anche amico di Millie. “Non credo.”
“Allora non è un vampiro. Conosco tutti i vampiri del posto.”
Ed era vero. Era una piccola comunità, ma il modo in cui Yvette sapeva tutto di tutti era davvero inquietante. Era informata a livelli da stalker.
“Il tuo consiglio è di alzare i tacchi. Concedere la sfida, dimenticare il non-così-peloso figo peloso. Fare finta che non mi abbia mai baciata, palpeggiata o sfregata. Tutto perché tu pensi che io possa diventare completamente sdolcinata o stupida per questo tizio. Perché non pensi che possa avere una relazione puramente sessuale con lui.” Avevo fatto una pausa, poi avevo tirato fuori un pezzo di informazione vitale che fino a quel momento avevo tenuto nascosto. “Ho detto che ha un cazzo enorme?”
Se qualcuno, anche solo un giorno prima, me lo avesse chiesto, avrei detto che la dimensione del cazzo era irrilevante. A parte proprio il minimo sindacale, per me è più una questione di attenzione mirata, di mani, di lingue e di denti. E di baci. Adoro i baci. Sono il tipo di ragazza per cui conta di più saperci fare che la dimensione, e il bacio batte tutto il resto.
Ma… potevo sbagliarmi.
E se il tipo ci avesse saputo fare e fosse stato dotato?
“Cazzo,” aveva borbottato Yvette. “Farai sicuramente sesso con questo tizio.”
Le parole di commiato di Yvette, prima di chiudere la telefonata, erano state: fai attenzione. E non stava parlando di sesso sicuro.
Stava decisamente parlando del mio cuore.

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Тип: электронная книга

Жанр: Современная зарубежная литература

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Voglio Morderti Il..., электронная книга автора Gemma Cates на итальянском языке, в жанре современная зарубежная литература

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