Anestesia
Francisco Garófalo
ANESTESIA
Francisco Garófalo
ANESTESIA
© Francisco Garófalo, 2021
© Traduzione di Genny Becchi, 2021.
© Tektime, 2021.
© Libros Duendes, 2021
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A Dio, per tenermi ancora in vita. Ai miei genitori, per avermi dato un buon esempio e per avermi dato l'educazione.
A tutti i miei amici che mi hanno ascoltato, che hanno letto la mia opera e mi hanno dato la loro opinione. A loro dedico questo scritto.
I
Era seduto su una panchina a bere una tazza di tè. Viveva in una casa bianca, anche se non gli è mai piaciuto quel colore. Aveva lo sguardo perso, non puntava nessuna direzione. Era calmo, niente lo interrompeva, niente lo disturbava, niente lo tormentava, finché la sua mano non toccò un oggetto quadrato che percepì come un ostacolo nella sua giacca.
La curiosità lo assalì così decise di estrarlo dalla tasca; era un vecchio taccuino rugoso, con le paste sgualcite, sporco dai tanti anni di abbandono. La cosa curiosa per lui fu trovare il suo nome scritto sul quaderno, il titolo recitava Il diario di Lorenzo.
Lorenzo aprì il quaderno per dargli un'occhiata e dopo una breve revisione lo chiuse. Fu invaso da un profondo interesse e angoscia. L'ha aperto di nuovo. Erano parole che non ricordava, frasi senza senso, aneddoti o semplicemente memorie che tempo fa aveva pensato di scrivere? Non ne aveva idea, doveva indagare. Sentì un dolore al petto. Erano eventi che non ricordava più, un'esistenza già vissuta, un'infinità di pensieri che si accumulavano per momenti passati? Doveva scoprire di cosa si trattava. Si sistemò sulla panchina per leggere attentamente.
Io, Lorenzo, ho deciso di scrivere questo diario nel caso in cui un giorno mi dimentichi di ciò che ho vissuto. Non riporto il mio cognome perché non ce l'ho. Le circostanze che mi hanno spinto a compiere atti che non avrei mai dovuto compiere sono quelle che ora mi tormentano nel presente. Sono caduto in debiti in passato e non li ho saldati. Li sto pagando oggi. In realtà, tutti noi paghiamo quello che dobbiamo, anche se a volte un po' di più del dovuto. La cosa peggiore è che non ricordo tutto quello che ho fatto e che ho smesso di fare. Chi desidera ricordare la proprio miseria? Anche se nessuno può affermare che tutta la mia vita sia stata una miseria, forse era già scritto il mio destino. Non lo so.
Non ricordo dove è accaduto tutto questo, né le ore, né i luoghi, né i momenti in cui forse ero felice. Non ricordo molto. Per questo scrivo. Per questo ho scritto: per ricordare, per non dimenticare ciò che ho fatto, per non dimenticare i peccati, per non dimenticare ciò che ho già dimenticato.
Persi mia madre il giorno della mia nascita e non seppi mai dove fosse mio padre. Per questo andai a vivere a casa di mia zia Carlotta. All'epoca non sapevo perché mia zia si prendesse cura di me.
Siamo arrivati alla casa blu che si abbinava all'osso delle sue pareti interne, devo confessare che quei colori non mi piacevano. Non sono stato molto magnanimo con i colori e, devo dirlo, tanto meno ho seguito un ordine cronologico nella mia narrazione. Non credo che un colore faccia la differenza nella vita quotidiana, come sostengono alcuni psicologi narratori di teorie che potrebbero anche essere vere. Personalmente credo che sia pura fantascienza. Solo le nostre buone azioni o le nostre fallanze fanno la differenza.
Il nostro modo di agire e di procedere in questo maledetto mondo, e dico maledetto non perché in realtà lo sia, lo dico solo perché non ho avuto fortuna o perché mi hanno prestato troppo e non ho voluto pagare.
Sappiamo di essere bravi a chiedere, ma molto cattivi a pagare. Lo sappiamo e continuiamo a farlo lo stesso e ci giustifichiamo con il banale pretesto che “siamo umani”. Ma se siamo umani, dovremmo sapere che siamo gli animali più intelligenti al mondo. Forse è la nostra intelligenza che ci uccide. Non lo so e forse non lo saprò mai.
II
Arrivai in un posto dove non ero il benvenuto, dove nessuno era felice della mia presenza. Ero semplicemente un qualcuno che arrivava ad irrompere nella vita di tutti. Ancora di più nella sua di vita. Poco dopo mi sarei reso conto che mia zia non mi amava, né suo marito, né suo figlio, anche se c'era da aspettarselo, ero un essere che con il suo arrivo ha messo a disagio la famiglia, una famiglia che apparentemente stava bene e sottolineo in apparenza perché tutto era una copertura, una vita finta come la maggior parte delle persone. Come la maggior parte delle persone che vivono quotidianamente senza sapere perché vivono. Che non hanno uno scopo e che camminano addormentati nelle strade vuote, piene di fantasmi, senza idee. Di quelle persone meccaniche che vivono perse e imprigionate per le cattive azioni che condannano loro ad una reclusione in libertà, ad una vita senza senso e senza sogni.
Quando feci il mio primo passo, nessuno si rallegrò, quando dissi la mia prima parola, nessuno fu eccitato. Chi potrebbe emozionarsi se per loro era come se non esistessi? Era qualcosa di nullo, nemmeno un rigonfiamento in quella casa. Qualcuno che non è mai stato nelle loro priorità.
Quando compii cinque anni, nessuno mi fece una festa, nessuno mi fece gli auguri, nessuno si ricordò di me, ma lo comprendevo perché nessuno mi amava. Lei è stata l'unica ad avvicinarsi. Me la ricordo. Certo che me la ricordo. Con la sua camicetta rosa, acconciata come se i suoi capelli fossero cachi, le sue labbra rosse, i suoi occhi neri, il suo sorriso che mi ispirava voglia di vivere.
Lei cominciò a diventare la mia ragione di vita, era per lei che mi tenevo in vita in quella casa, era lei che mi faceva respirare; era lei che mi faceva sognare, lei era quella che mi fece gli auguri, che mi diede un bacio come regalo e mi disse Ti voglio tanto bene. E da quel giorno ho capito cosa sarebbe stata lei per me. Sarebbe stata mia moglie per tutta la vita.
Sì, ero un bambino con sogni da bambino, un bambino che amava con l’amore di un bambino; un bambino che si aggrappava a lei perché era l'unica che gli prestava attenzione. Un bambino che desiderava amore.
III
Imparai. Iniziai a conoscere molto. Imparai le cose da solo. Nessuno mi insegnò. Ero un bambino che imparava ogni giorno e passavo tutto il giorno a guardare la TV perché era l'unico modo, per me, di distrarmi e di conoscere il mondo. Ho imparato, o forse no. Che cosa può insegnarci la televisione? Forse molte cose. E la maggior parte delle cose sono cattive, a seconda delle scelte. E cosa può scegliere un bambino di cinque anni? Cartoni animati dove si vede violenza o due tipi sciocchi che fanno da protagonisti e sono anche animali parlanti. È per divertimento, questo è l'obiettivo, almeno così dicono.
Ma la verità è che finisci per comportarti come loro e ti avvolgi in un circolo vizioso di idiozie e di malvagità. Le soap opera cosa ti insegnano? Le canzoni che finiscono per parlare senza senso e senza rispetto per gli ascoltatori? Questa è stata la mia scuola.
Non sapevo selezionare i programmi. I film d'azione mi affascinavano. L'intelligenza che avevano per uccidere e le diverse forme di lotta. Sono finito incastrato in film pornografici che avevo trovato nel cassetto della credenza di mia zia. Una donna apparentemente moralista. Com’è possibile trovare pornografia nel suo cassetto? Apparentemente la falsità della gente non ha limiti e si mettono la maschera in modo che non le riconoscano. Mi sono riempito la testa di stronzate. È quello che il mondo mi offriva in quei momenti e io ne ho approfittato. Ho imparato tutto quello che ho visto, tutto quello che ho ricevuto, tutto quello che sono riuscito a far entrare nel mio cervello. Se me lo chiedete oggi, confesso che è stato il modo peggiore di imparare. Forse avrei dovuto scegliere i libri, ma a un bambino che importa dei testi. Non avrei nemmeno capito le estensioni dei vari capitoli senza senso, perché non avevo la preparazione per decifrare il messaggio nascosto tra le righe, non avevo nemmeno qualcuno che me lo spiegasse. I miei cugini impararono in modo diverso dal mio. Avevano dei genitori che li istruivano e si preoccupavano della loro educazione. Avevano orari per guardare la televisione. Per poter vedere i loro programmi preferiti. Prima dovevano studiare, eseguire i loro doveri e poi alcuni altri consigli dei loro genitori al pranzo e così riuscivano ad ottenere il premio. Tutte le notti, prima di andare a letto, i loro genitori leggevano loro le favole con la morale per imparare cose buone, così da diventare grandi professionisti di successo. Tuttavia, le parole false non danno mai frutti
Non si può insegnare quando si afferma qualcosa con la bocca e con le mani si fa tutt’altro. L'esempio è il migliore insegnamento. Dobbiamo parlare meno e fare di più quello che viene proclamato. Non imporre, perché non è questo il modo, piuttosto incoraggiare.
Se vuoi che tuo figlio sia interessato alla lettura, impara a leggere tu. Se non vuoi che menta, non mentire. Questo è il modo di educare. Non si può educare quando non si dà l'esempio. Non si può raccogliere buoni frutti quando si seminano erbe cattive. Non si possono ottenere buoni risultati se predichiamo bene ma razzoliamo male. Non si può, neanche volendo.
IV
Io non valevo niente in quella casa, buttato di qua e di là, sporco. Se volevo cambiarmi dovevo farlo da solo. Solo mia cugina Carla, che aveva 8 anni, mi aiutava e mi sistemava un po', anche se credo fosse un sentimento che si avvicinava più alla compassione. Carla era l'unica a cui importava di me e grazie a lei sono sopravvissuto in quella casa. Ho dato un nome a quel peccato che provava. Quel giorno delle mie cinque primavere, salii nella stanza di mia zia Carlotta per rubarle dei soldi, capii che quella era la mia unica via d'uscita e l'unico modo per ottenerlo. Non avevo scelta.
Avevo imparato a farlo, un altro insegnamento dei programmi televisivi. Ho aperto la porta della stanza molto lentamente perché non ero sicuro che fosse uscita.
Entrai molto cautamente, evitando di fare rumore, cercando di non fare allertare nessuno, mi affacciai e guardai mia zia sdraiata sul suo letto e accanto a lei un uomo che non era suo marito. Mi avvicinai un po' di più per guardarlo in faccia e capii che era il miglior amico di don Arnulfo, don Nicolas.
Quello che non succede davanti ai tuoi occhi non puoi vederlo, ma sappiamo che la verità viene sempre a galla. Per quanto tu stia cercando di nasconderla, per quanto tu creda che nessuno ti veda, sappiamo che ti stanno guardando e che non c'è nulla da nascondere, paghiamo tutto in questa vita
Don Nico come lo chiamavano tutti, veniva sempre a mangiare a casa e tutti lo adoravano, ancor di più don Arnulfo che parlava sempre bene di lui. Diceva che Nicolas era il suo migliore amico ed è per questo che lo considerava un fratello.
Quel giorno capii perché mia zia non si arrabbiava mai quando tornavano a casa ubriachi, piuttosto lei si prendeva cura di loro e portava subito don Arnulfo in camera per farlo riposare poi accompagnava don Nicolas nell'altra stanza e restava con lui per qualche ora, dopo tornava dal marito. Capii anche perché mia zia invitava sempre don Nicolas quando i suoi figli erano a scuola e suo marito al lavoro e trascorrevano il tempo in camera. Io non dicevo niente perché non lo capivo, ma quel giorno capii cosa stava succedendo davvero.
Mia zia era come quelle cattive dei romanzi. Quelle donne che ingannano i loro mariti e si fanno passare come sante. Quelle donne senza cuore che pensano solo ai soldi. Come la prima donna che è esistita nel mondo. Come quella donna che ha mangiato il frutto proibito. Quella che ha portato l'uomo alla perdizione. All’adulterio. Odiavo mia zia, devo confessarlo. Avevo avuto l'opportunità di vendicarmi. Un'idea balenò nella mia testa, mi piaceva e per la prima volta sentivo un desiderio. Un desiderio che cominciò a invadermi sempre più intensamente.
V
Sono uscito dalla stanza di mia zia correndo a cercare Carla. Solo di lei mi potevo fidare. Sapevo che lei poteva aiutarmi a smascherare mia zia. Volevo che scoprisse che sua madre era una puttana, non per farle del male, ma per farle vedere cosa faceva sua madre e per ricevere un ringraziamento da parte sua.
Non so perché l'ho cercata. Questa notizia le avrebbe fatto male, le avrebbe spezzato il cuore. Forse perché mi fidavo solo di lei, perché anche lei era una rifiutata, perché sentivo che mi capiva. L'ho cercata per tutta la casa e non l'ho trovata, l'ho cercata nel giardino, nella sua stanza e alla fine l'ho trovata in cucina che aiutava a preparare il cibo. Un'altra qualità a suo favore.
Era una bambina che amava sempre aiutare gli altri. Non disprezzava o trattava male la domestica. La aiutava sempre nelle sue faccende.
L'ho presa per il braccio, senza dirle una parola, e l'ho portata con me.
Mentre mi dirigevo nella stanza di mia zia, mi fece una domanda.
—Dove mi stai portando?
—Voglio che tu veda una cosa.
—Che cosa?
Con un colpo solo si è liberata dal mio debole braccio.
— Dimmi cosa vuoi che veda.
— Tua madre.
—Mia madre, eh?
— Sì, sta tradendo tuo padre. È una stronza.
— Chiudi il becco!
Per poco non mi colpiva per quell'offesa.
— Guardalo con i tuoi occhi e poi mi dirai. Se pensi davvero che stia mentendo.
Per caso hai paura?
—Non ho paura.
—Allora andiamo.
—Va bene, ma se mi stai mentendo, non ti aiuterò più.
Siamo entrati nella stanza e Carla è quasi svenuta alla vista di sua madre che faceva l'amore con Don Nicolas. Voleva urlare, ma le sue parole non sono uscite, un nodo alla gola gliel'ha impedito.
I suoi occhi sembravano andare fuori dalle orbite.
Il suo viso ha cambiato colore.
Siamo usciti senza interrompere gli amanti.
Siamo andati nella mia stanza. Piuttosto io l'ho portata, lei non reagiva.
Ha smesso di pensare, cercando di digerire ciò che aveva visto. Non dev'essere facile per un figlio scoprire che sua madre non è quella che credeva essere, quello che sembrava.
—Cosa devo fare? - Ha chiesto alla fine.
Non sapevo cosa rispondere.
Volevo vendicarmi di mia zia, sarebbe stato facile per me suggerirle di chiamare suo padre e distruggerle il matrimonio, ma non volevo che Carla soffrisse, non volevo vederla piangere. Distruggere il matrimonio di mia zia significava distruggere la casa di Carla e non volevo farlo.
—Ricorda che anch'io ti voglio molto bene.— ho baciato le sue labbra senza pensare.
Era una cosa che avevo pianificato di fare molto tempo fa ma non sapevo come, anche se ci avevo già provato.
Ha fatto un passo indietro.
— Che fai?
—Non lo so.
— Dove l’hai imparato?
— L’ho visto in televisione e mi sono esercitato con il cuscino.
Quella confessione la fece ridere.
E io, nel mio mondo immaginario, sentivo che le era piaciuto, che lo desiderava anche lei.
Volavo con le mie idee. Né i pensieri né i sogni hanno limiti. Pensavo che anche lei provasse lo stesso per me.
Che anche lei aveva sognato questo bacio.
Uscimmo dalla stanza e Pietro, suo fratello maggiore, che aveva undici anni, ci ha tagliato la strada; aveva visto la scena del bacio.
Si avvicinò a Carla e la prese bruscamente per il braccio destro, mentre minacciava di colpirla in faccia. Sono intervenuto immediatamente per impedirle di colpirla, ma con un solo pugno nel mio addome, ha gettato l'eroe a terra. Carla voleva aiutarmi ma non ci è riuscita, suo fratello l'ha schiaffeggiata e l'ha trascinata via. Ho guardato dal pavimento mentre la trascinava. Si sono allontanati da me ma non avrei mai pensato che sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei vista.
Penso ancora a quel giorno nelle mie eterne mattine insonni, immaginando cosa ne è stata della sua vita, della sua sorte, del suo destino. Dove sarà?
Mi sono arruolato dopo dieci minuti e sono corso a prendere Carla, ma la zia che aveva già saputo, mi ha bloccato la strada, mi ha preso per il braccio e mi ha portato nella mia stanza. Una volta lì, mi ha pestato a sangue e mi ha tenuto sveglio tutta la notte.
VI
Il giorno seguente mi portarono in collegio con il pretesto, secondo loro, della mia educazione. Non era questo. Era un buon modo per liberarsi di me e allo stesso tempo allontanarmi da Carla e impedire al marito di mia zia di scoprire il segreto.
Mi hanno messo su un furgone nero.
Ho alzato lo sguardo verso la sua finestra. Forse lei era dietro quel vetro nero che guardava la mia partenza in lacrime, dicendomi addio da lontano. Sentivo che mi amava. Forse semplici illusioni, sogni ad occhi aperti, speranze. Una speranza di cui avevo bisogno per sopravvivere. Una vita che già vedevo persa, ma lei era l'illusione, la ragione di vita, rivederla un giorno e baciarle di nuovo le labbra. Arrivammo in collegio e non era niente di piacevole, pareti macchiate, pavimento deteriorato, un ambiente di tensione che si respirava nell'aria, maglie di quattro metri e un’infinità di guardie come se fossero state necessarie, donavano l'aspetto della prigione che in realtà lo era. Una prigione per le mie aspirazioni, la mia anima, i miei sogni, la mia vita, il mio amore in gabbia.
Ci ricevette la direttrice, una donna molto avanti negli anni. Si chiamava Josephine. Era molto amareggiata, cattiva, non si sposò mai e quindi non ebbe figli. Non mi volevano ricevere perché non avevo ancora avuto la mia carta d'identità, non ero mai stato iscritto all'anagrafe. Per la società non avevo un nome né un appellativo. Mia zia gli diede del denaro e le disse: Chiamalo Lorenzo. E la vecchia accettò.
Sappiamo che è sempre così che si risolvono i problemi. Questi stati problematici. Il denaro è il re dell'umanità. Di quell'umanità malata che pensa che i soldi risolvano tutto. Compra tante cose, ma non comprerà mai la felicità, la vera felicità. I soldi sono potere e ne stavano dando la dimostrazione.
Una volta all'interno del collegio donna Josephine mi predicò un grande sermone che sembrava non sarebbe mai giunto ad una fine. Io finsi di prestare attenzione. Mi ha letto le regole del suo istituto, ma le ho anche dimenticate.
Mi hanno dato l'uniforme ed ero pronto per il mio primo giorno di scuola con l'insegnante di fisica.
La professoressa Rosa era la più giovane delle maestre, aveva appena 17 anni; con le sue gambe lunghe, i suoi capelli neri, i suoi occhi color miele e con un viso angelico. Mi ha accolto con un enorme sorriso e mi ha abbracciato come se mi conoscesse già.
Le lezioni passarono più normali del previsto, fino a sentirmi a mio agio. Nella notte i miei compagni si misero d'accordo per darmi il benvenuto. È quello che ho pensato.
Arrivai in camera e tutti mi circondarono. Avevo paura, pensavo che mi avrebbero picchiato, ma no, mi hanno solo abbracciato, non hanno detto una parola e sono andati a letto. Mi sentivo bene. Pensavo di aver finalmente trovato un buon posto dove vivere. Non è andata così. Le cose stavano per cambiare.
VII
A mezzanotte mi hanno svegliato con dei pugni, mi hanno spogliato e mi hanno bagnato con acqua ghiacciata.
Ridevano tutti e mi davano il benvenuto all'inferno.
In quell'istituto esisteva un gruppo di studenti composto da dieci compagni che comandavano tutti gli altri. Il capo era un bambino di nome Sebastian e il secondo al comando era Marco Maldonado.
Avrei passato anni a sopportare pestaggi a mezzanotte e non c'era nessuno che mi avrebbe difeso.
Una volta sono andato dalla preside, ma Sebastian era il figlio di un uomo d'affari di successo e molto amico di Donna Josephine, così mi hanno detto. Per poco non mi picchiava se non avessi tolto la presunta falsa testimonianza.
—Esiste una sola regola -mi disse—. Non mentire mai, perché se lo farai, mi occuperò io di correggere quella brutta abitudine.
L'ha detto mentre mi mostrava una cintura.
La notte non mi lasciavano dormire. Mi picchiavano e mi prendevano in giro.
Solo un bambino guardava da un angolo. Un bambino che a quanto pare non era interessato a farsi coinvolgere in un tale problema. Un bambino isolato da tutti, forse con problemi psicologici, un bambino che avevo già conosciuto e visto.
Eravamo bambini, ma sembravamo adulti. Senza responsabilità e pieni di odio. Un odio che ti consuma e ti brucia dentro, che può essere saziato solo dalla vendetta.
Ho dovuto trovare un altro posto per riposare.
Dovevo scappare dalla banda di Sebastian.
Ho trovato riposo nel bagno. È diventato il mio rifugio.
VIII
Compii dieci anni e capii che le cose dovevano cambiare. Non ero disposto a rimanere il pupazzo che sopportava tutto con rassegnazione. Non volevo più essere preso in giro da tutti i mediocri che mi circondavano.
Dovevo fare qualcosa per farmi rispettare da tutti.
Ho preso una delle mie pillole che mi aveva prescritto il medico dell'istituto.
La verità è che queste pillole mi aiutavano a rilassarmi e a sentirmi più sicuro nelle mie decisioni. Non ricordo bene il nome, ma mi aiutavano.
Ho preparato tutto per la mia vendetta.
Sono andato in cucina senza che nessuno se ne accorgesse.
I cuochi avevano lasciato il posto.
Dopo la toilette si prendevano due ore di riposo. Lo sapevo. Li avevo studiati.
Era la mia occasione.
Ho preso il coltello, l'ho portato nella mia stanza e l'ho nascosto sotto il cuscino.
Ero pronto ad uccidere Sebastian. Avevo pianificato tutto. Quando sarebbe andato a letto, gli avrei piantato il coltello nel petto.
Sono andato in bagno e ho aspettato.
Ero nervoso, non sapevo se avrei avuto il coraggio di farlo.
Provavo molto odio, non avevo mai ucciso, nemmeno un animale. Il coraggio stava scomparendo, ma dovevo farlo. Ho preso un'altra pillola per calmarmi.
È giunta la mezzanotte e sono salito nella stanza, cercando di non fare rumore.
Aprii quella porta che non aveva mai la sicura, stava per cigolare ma non glielo permisi; feci un passo evitando di inciampare nell'armadietto, mi avvicinai al letto di Sebastian; era profondamente addormentato, alzai la mano per conficcargli il coltello, ma non ebbi il coraggio, non potevo farlo, quegli attacchi improvvisi che si impossessavano della morale non me lo permettevano, o forse la paura di quello che poteva succedere.
Non ce l'ho fatta, mi è mancato il coraggio.
Ho tenuto il coltello sotto il cuscino e sono andato nel mio rifugio.
La mattina seguente la signora che faceva le pulizie trovò il coltello nel mio letto e riporto la novità alla direttrice.
La direttrice appena lo scoprì mi fece chiamare.
Sono entrato nel suo ufficio e lei era già pronta con una cintura fatta di pelle di mucca.
Non mi ha chiesto cosa ci facesse il coltello nel mio letto, non mi ha lasciato parlare, ha iniziato a picchiarmi così forte che sono finito nell'infermeria del collegio.
Odiavo la preside, ma dopo quel pestaggio la volevo uccidere, anche se mi ha fatto un favore dopotutto, in infermeria mi sono finalmente riposato dal gruppo di Sebastian e sono riuscito a dormire in un letto, con una coperta e un cuscino che baciavo immaginando fosse Carla.
Sono stato dimesso il quinto giorno.
Ho indossato l’uniforme, ho preso lo zaino e sono andato in classe, ma non c'era nessuno lì, le sedie non sono state smontate, c'erano dei fogli sul pavimento e sembrava che nessuno fosse entrato. Sono uscito dalla stanza per prendere i miei compagni e li ho trovati nei dormitori.
— Che succede? Domandai alla maestra Rosa che piagnucolava.
—Qualcuno ha ucciso Sebastián. Qualcuno l’ha ucciso!
La notizia non mi colpì molto perché io lo odiavo e anche gli altri compagni.
— Vieni qui, Lorenzo. — Disse la direttrice che aveva notato la mia presenza e che stavo sorridendo.
Mi avvicinai a lei e mi portò nel suo ufficio.
— Hai ucciso tu Sebastian, vero?
— No, non sono stato io.
Il coltello della cucina era conficcato nel petto di Sebastian e siccome l'avevo preso cinque giorni fa, aveva perfettamente ragione a pensare che gli avessi tolto la vita io.
—Sei un assassino -disse.
—Non l’ho ucciso io.
— Allora chi è stato?
—Non lo so, come potrei saperlo!
—Tu avevi il coltello. L'hai portato tu?
Non ho risposto alla domanda.
—Rispondimi. Se non mi rispondi, ti picchierò di nuovo.
Non ho risposto alla domanda.
Non mi ha picchiato, ma mi ha chiuso in una stanza che chiamava di punizione, per i bambini incorreggibili, per i bambini ribelli come me. Non so cosa stesse succedendo là fuori e non volevo saperlo. La paura mi invase; l'essere solo in quella stanza oscura, l'oscurità mi terrorizzava, non mi piaceva la chiusura, credo di soffrire di claustrofobia. Forse è per questo che non sono riuscito a uccidere Sebastian.
Qualcuno aprì la porta e la chiarezza non mi permise di vedere di chi si trattasse, e quando riuscii a farlo, la vidi, era la direttrice, stava in piedi, beveva una tazza di caffè e mi fissava. — Cosa devo fare con te, Lorenzo?
Disse mentre dava un sorso al suo caffè.
—Tu sei troppo problematico e io non sono più disposta a sopportarti, non hai nessuno e io non mi prenderò più cura di te.
Diede un altro sorso mentre mi guardava fisso negli occhi. Era uno sguardo pieno di solitudine, amarezza e rancore accumulato dentro.
-Sei un bambino problematico. Nessuno ti ama. Sei un ostacolo per la società.
Quelle parole mi hanno ferito, umiliato, e la cosa peggiore era che era la verità.
— Ma ora ricordo che hai qualcuno.
Si fermò. Lasciò cadere la sua tazza di caffè e cadde a terra.
Non capivo cosa stesse succedendo, non sapevo cosa fare, era svenuta o morta, non volevo scoprirlo. Sono scappato via senza capire cosa fosse successo alla preside. Nessuno avrebbe creduto alla mia versione. Sono corso in giro in cerca di una grata per uscire, non avevo possibilità di fuga. Ero disperato, mi immaginavo rinchiuso in prigione per qualcosa che non avevo commesso. La mia testa girava, avevo le vertigini, la nausea, non trovavo una via d'uscita, non sapevo cosa fare, ho sentito dei passi che mi si avvicinavano molto velocemente, non ho esitato e sono corso via per non essere visto, non sapevo dove nascondermi. C'era, davanti a me, la bara del mio compagno, forse era la mia unica speranza di fuga.
Non c'era altro modo per uscire da quel posto.
Mi sono ricordato alcune parole della preside.
Da qui possono uscire solo morti.
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