Riflessioni Ironiche Di Un Moderno Migrante Italiano

Riflessioni Ironiche Di Un Moderno Migrante Italiano
Massimo Longo E Maria Grazia Gullo
“Questo stato non consiste in una semplice malinconia, ma nel malessere di non ricono-scersi né nel posto da cui sei partito, né in quello in cui sei arrivato. In modo particolare, all’inizio del trasferimento, sei al nord e vor-resti essere al sud, in cambio quando sei al sud vorresti essere al nord. Ti ritrovi a non sopportare i difetti di entrambi i posti in cui vivi e, contemporaneamente, ad amarli en-trambi.”


Massimo Longo

Riflessioni ironiche di un moderno migrante italiano

“Esperto in tutti i tipi di saldature e il travaglio della vespa”
Copyright © 2019 M. Longo
L'immagine di copertina e la grafica sono state realizzate e curate da Massimo Longo
Tutti i diritti riservati.
Indice


Prologo

Mi sono chiesto spesso il perché volessi scrivere queste mie piccole disavventure da immigrato, ma non sono ancora riuscito a spiegarmelo. A dire il vero ne ho pensate di ogni, ma nessuna motivazione collimava con la realtà. Alla fine sono arrivato a questa considerazione: un po’ l'ho fatto per far sorridere il lettore, un po’ perché, nonostante i dati incredibili elencati dai tg nazionali (“Nel 2016 sono stati 114.512 gli italiani che si sono trasferiti all’estero” “Secondo il rapporto Svimez 2016, negli ultimi venti anni il Sud ha perso 1 milione e 113 mila unità, la maggior parte dei quali concentrati nelle fasce d’età produttiva tra 25-29 anni e 30-34 anni.”), l’argomento emigrazione italiana, interna ed esterna, viene sminuito e trattato come un argomento irrilevante di cui enunciare solo cifre, come se spostarsi lontano dalla propria terra non fosse un piccolo trauma.
Per amor del cielo, niente a che vedere con il dramma degli sbarchi, naturalmente, neanche con gli arrivi da paesi come la Nigeria o la Cina.
A queste persone, purtroppo, che si trovano ad affrontare i problemi della lingua, della società, delle condizioni di lavoro e del razzismo, manca anche la consolazione, a causa della distanza e del costo, di poter rivedere le loro terre e i loro cari in tempi ragionevoli.
Ricordo lo strazio di una famiglia cinese che conoscevo molto bene a cui era nata da pochi mesi una bellissima bimba.
L'uomo, dopo aver lavorato regolarmente e duramente per quattordici anni presso una cooperativa all'interno dello stabilimento della Miralanza, nel 2008, in piena crisi e con modi Ottocenteschi, fu informato da un giorno a l'altro che avrebbe potuto starsene a casa. Non saprei dirvi con che tipo di contratto fosse inquadrato, ma rimase senza nessun tipo di sussidio, tanto da portarlo ad una scelta familiare che in nessuna parte del mondo e soprattutto in Italia si dovrebbe mai essere costretti a fare. Mi ricordo gli occhi intrisi di tristezza della coppia, quando mi spiegarono che a causa dei problemi di riorganizzazione abitativa e lavorativa che stavano attraversando, avrebbero portato e lasciato ai parenti in Cina la loro unica figlia per parecchi mesi, in attesa di poter riprendere una vita regolare.
Nonostante ciò, ed esclusi i paragoni, non si può nascondere il disagio di un trasferimento dalla propria terra.
Per poter comprendere e sorridere di questi piccoli episodi, bisogna relazionarli al periodo di accadimento. Mi spiego:
Ha iniziato a lavorare a 11 anni ecc. ecc. In Italia nel 1946 era normale iniziare anche a otto, nove anni, pensare come tutto si sia svolto in tempi relativamente moderni, mostra la cosa sotto un altro punto di vista.
Il racconto infatti non si riferisce al tempo di “Marco Cacco” per dirla in erudito, e premetto, non "è una brutta storia" come dicono nei film e non ero l’unico trentacinque anni fa a fare queste esperienze, ciò nonostante stiamo parlando dei "favolosi anni Ottanta" quelli mostrati ed esaltati adesso in tv come periodo floridissimo.
"Colpo di mille riflessioni", ma! Se li mostrano in tv, “oh, no!” "Il cuore!” Ma! Se prima facevano i programmi sugli anni ‘60 a uso e consumo dei nonni, poi sui ‘70, ora addirittura sui ‘90, vuol dire che i nati negli anni Settanta sono vecchi? Un po’ lo siamo, bisogna rassegnarsi. Nonostante ormai in tutti i programmi di informazione non fanno altro che definirci giovani. Non si fa altro che ripetere “giovane precario di trentacinque, quarant’anni”: giovane un paio di ciufoli! A quell'età sei un adulto bello e formato e dovresti avere un lavoro, una famiglia e abbastanza cervello da essere definito così.
E questo mi porta ad esporre il mio “Primo pensierone” sulla necessità dei media di utilizzare questi termini per descrivere l'età lavorativa. Non vi nascondo che durante il racconto vi illuminerò con i miei brevi “Pensieroni sui fatti” di cui non riuscirete più a fare a meno.
Secondo la mia ignoranza, le notizie vengono esposte in questo modo per perseguire un obbiettivo ben preciso, niente nel mondo moderno e nella relativa informazione è fatto in modo casuale, credetemi. Il motivo è semplice. “I Motivi e gli Scopi sono sempre semplici”, la cosa difficile è rendersene conto, ma una volta afferrato il concetto la domanda nasce spontanea: “Come ho fatto a non pensarci?” “Era talmente elementare Watson": è fondamentale convincere l’opinione pubblica del fatto che sia normale, altrimenti qualcuno dovrebbe rispondere al dramma di tutti questi “giovani adulti”, come
dicono loro, di 30,35,40, perfino 44 anni, ancora precari e impossibilitati ad un minimo di futuro. Chiamarli "adulti precari" potrebbe far sorgere delle domande nella gente, dei dubbi sul nostro sistema di vita e di distribuzione della ricchezza, allora molto meglio "giovani precari". Le parole giovani e precari hanno una certa assonanza, danno un senso di sicurezza, di normalità, che adulti e precari non procurano.
Io, in fondo, di cosa mi lamento? Dovrei esserne felice, messe così le cose, sono relativamente giovane!
In verità, sapete come mi guardano i miei figli di sei e undici anni quando gli racconto del telefono a rotella (allego foto)?

Dove, un tempo, per comporre il numero, si infilava il dito dentro il foro, e girando, tra tatatatatatatatata (descrizione del rumore) il primo numero e, tra tatatatatatatatata il secondo numero e così via per nove o dieci volte per effettuare una chiamata?
O quando racconto l'arrivo della telefonata del fratello in servizio militare lontano da casa?
Non bastava accendere il tablet o il cellulare e chattare, bisognava aspettare pazientemente che la vicina di casa, posseditrice di un telefono, miraggio del quartiere, bussasse alla porta di casa gridando:
"SBRIGATEVI, CORRETE C'È FRANCESCO" il nome di mio fratello " AL TELEFONO".
Tutti, piccoli e grandi, invadevamo l'ingresso di casa sua, per sentire e vedere il telefono in funzione. Ci accalcavamo stretti nonostante sapessimo che solamente mio padre avrebbe afferrato la cornetta luccicante per dire poche parole, prima che i gettoni dall'altro lato, cadendo a velocità smodata, interrompessero una telefonata veramente "breve". L'evento, a causa dei costi e del disturbo alla vicina, si sarebbe ripetuto dopo almeno un mese.
Per non parlare dello sguardo sperduto del piccolo, quando gli descrivo la tv in bianco e nero senza telecomando, non proprio senza telecomando, c'ero io che al comando di tutta la famiglia la sintonizzavo su richiesta su uno dei pochi canali esistenti. Per non parlare del fatto che, sul più bello di qualunque trasmissione o partita, l'immagine trasmessa iniziava a scorrere dal basso verso l’alto dello schermo lasciando per un attimo i piedi del presentatore su e la testa giù. L'unico rimedio era colpire sul fianco la Tv come un asino che non vuole spostarsi, facendola ripartire e facendo tornare, come in un trucco di magia, il presentatore tutto intero. Ecco, i miei figli mi guardano come il dinosauro dei loro cartoni.
In questi piccoli aneddoti, che mi accingo a raccontarvi, ho incrociato, come nella vita, della gente comune come me, che generalmente suddivido in:
Persone ininfluenti: spesso non ricordi nemmeno di averle incontrate.
Cattive, con la sottospecie invidiose e arroganti, è la sotto-sottospecie peggiore, ignoranti/arroganti insieme. Perché se sei ignorante, nel senso che ignori, allora ci si parla, si discute sino a trovare un punto di incontro, ma se all’ignoranza dell'individuo aggiungi anche l’arroganza allora è finita, qualunque speranza di trovare un accordo è fallito in partenza.
Brave o buone: le quali rendono questo mondo un posto un po’ più lieto.
Per ultimo quelle Superiori, rare: quelle che se hai la fortuna di incontrare, ti aiutano a fare un salto di qualità e a vedere il mondo con occhi diversi.
Nel racconto, non potrò descrivervi solamente cosa porta dentro un immigrato, quando si trova in quello stato d’animo pessimo, simile alla Saudade come la chiamano i brasiliani, per questo mi dispiace ma dovrete emigrare. Questo stato non consiste in una semplice malinconia, ma nel malessere di non riconoscersi né nel posto da cui sei partito, né in quello in cui sei arrivato. Con gli anni questa sensazione un po’ va attenuandosi, ma personalmente, dopo vent'anni, la soffro ancora. In modo particolare, all’inizio del trasferimento, sei al nord e vorresti essere al sud, in cambio quando sei al sud vorresti essere al nord. Ti ritrovi a non sopportare i difetti di entrambi i posti in cui vivi e, contemporaneamente, ad amarli entrambi.
Capitolo primo

“Esperto in tutti i tipi di saldature”

Devo a tutti costi iniziare questo libro spiegando a cosa sottintende il sottotitolo. "Sottintende il sottotitolo?". Forse era meglio non scriverlo. Comunque, dicevo:
“Esperto in tutti i tipi di saldature”
Questa frase racchiude infatti la forza e la convinzione che si può avere solo ad una certa età, quella "GIOVANILE", la quale non è solamente una questione anagrafica, ma soprattutto la predisposizione dello spirito in quella certa parte della vita dove si guarda con illimitata speranza nel futuro come se questo non avesse fine. Ed è una frase scaturita nei giorni precedenti alla mia avventura principale da immigrato, dopo essermi recato presso quello che era, ed è, il mio settimo fratello, un piccolo grande uomo, basso, tarchiato, ex capello riccio, pizzetto nero, pelo da scimmia sulle spalle, con dentro un grande cuore da vero artista.
Io provengo da una delle ultime famiglie numerose del sud, quattro fratelli e due sorelle a cui si aggiunge l’esterno Settimo. Fortunatamente, queste mire espansionistiche Siciliane, attuate con famiglie enormi che si sperdono per l'infinito Universo, invadendo il globo, stanno terminando, adesso al massimo due figli, si guardano quasi con orrore le famiglie numerose. Provate a pensare, "nel mondo ovunque ti giri, trovi un Siciliano".
All’epoca dei fatti ero completamente diverso da Settimo, alto e magro da paura, 1,83 per 68 chili, ossatura pesante, testa leggera, con un numero, il diciassette, onnipresente nella mia vita.
Un numero né fortunato né sfortunato, solo tutta una serie di date coincidenti, come la data di nascita di mio padre, la mia lettera di partenza per il C.a.r, la data di chiamata per il militare e della partenza per il Nord, e un’infinità di tantissime altre. Essendo un ateo e un agnostico credevo fossero solo delle coincidenze fino alla mia definitiva rassegnazione, indubbiamente mi seguiva. Mi convinsi dell’inseparabilità dal numero nell’occasione della nascita della mia prima figlia. Sembrava oramai non potesse più accadere, aspettavamo il suo arrivo, mia moglie aveva una pancia talmente grande da doverla portare in giro con il carrello usato per i pacchi grandi, "mi ucciderà quando leggerà questa frase", ma bisogna essere onesti sembrava ne portasse due, poi essendo diversamente bassa e piccola sembrava posseduta da Aliens. Oramai era passato il 17 novembre ed il parto era già in ritardo, pensai non potesse essere possibile che si spingesse un mese dopo la data prevista, eppure, inesorabilmente, un mese dopo la dottoressa decise di indurre il parto, la mia prima figlia nacque il 17 dicembre.
Ma torniamo a Settimo, lavora come fabbro del ferro e dovreste vederlo lavorare davanti alla forgia, sul limite della fusione, con il martello o il maglio (grande martello
automatico), cosa ne riesce a tirar fuori. Però il suo lavoro, come succede spesso al sud, non è pienamente apprezzato e soprattutto pagato. Mi viene in mente una mostra estemporanea in cui si esibiva creando delle forme spettacolari in diretta

(allego foto). Trovandomi tra il pubblico sentii da alcuni uomini di “scienza tuttologa”, ormai diffusa in Italia, con una sicurezza indiscutibile affermare: "Bravo, ma! Ma poi, in officina? Figurati se perdono questo tempo, ti assicuro li realizzano in fusione". Già immaginavo Settimo con la sua tuta in amianto color alluminio, davanti al suo alto forno da duecento metri, in mezzo ad un mare di scintille, con in mano
il suo bastone con la tazza contenente metallo fuso da immettere nello stampo, creato apposta in un’altra grande officina con il tornio numerico… versarlo su uno stampo da cui ricavava “LETTI IN FERRO BATTUTO...” Insomma, va bene non fidarsi, ma informarsi?
Adesso, quando ci sentiamo al telefono, lo trovo sempre al lavoro, spesso anche la domenica. Ah! Penso! Si fosse trasferito al nord, calcolando solamente le ore lavorate ed escludendo la specializzazione, sarebbe stato semplicemente ricco, macchina di lusso, villetta di lusso, fine settimana bianca, come un piccolo imprenditore Veneto e, invece, a furia di dover concorrere con officine dove esiste solo lavoro nero, pagamenti elemosinati e problemi burocratici, fatica a tirare il mese, nonostante sia ancora senza famiglia.
Settimo è una di quelle persone oneste che ha usufruito dei soldi per creare impresa, il famoso, “Prestito d’onore”, cifra concessa in prestito dallo Stato in parte da restituire ed in parte a fondo perduto. Ma in Italia, con le sue enormi contraddizioni, un’idea buona riesce facilmente a trasformarsi, per mancanza di controllo, in una truffa ai danni dello Stato.
In Italia esiste una regola assoluta riassunta in un proverbio Siciliano: “Futti, Futti ca poi u Stato aiuta a tutti” tradotto “Frega e ruba, che poi lo Stato aiuta tutti”.
E così successe anche in questa occasione. Tantissime persone smisero di pagare le rate del prestito e in cambio cosa accadde? “Vualà” un bel condono fiscale e tutto cancellato.
Qual è la novità? Nessuna, direte, ma sentite questa. Settimo, persona dai principi saldi, è stato l’unico o tra i pochi, che si sia impegnato per restituirlo, e così ha fatto fino alle ultime due rate, quando, per vere difficoltà economiche, ne saltò il pagamento.
Ora direte, saranno stati clementi visto che tutti gli altri non ne hanno pagata quasi nessuna e beneficiato del condono? E invece NO! Si vide contestare multe enormi e senza senso per le ultime due rate, ripeto, ultime due rate. Alla fine, Settimo con sforzo riuscì a pagarle, ma questa piccola storia è esemplificativa di come vanno le cose in questo Paese, 1° comandamento: “Evadi e ti verrà condonato tutto”, 2° comandamento: “Sii onesto, paga tutto e se sgarri ti caccio solo una mora del 300%”.
Settimo, nonostante la sfiga lo colpisca ripetutamente, è come Holyfield. Chi è Holyfield?
Chi è Holyfield! Provate a cercare su internet. Io non amo la boxe, mio malgrado mi trovai, in compagnia di mio fratello, a vedere il suo incontro con Tyson. Tyson lo conoscete, vero? In quel famoso incontro, Tyson gli staccò l’orecchio per rabbia a causa della sua frustrazione, dovuta al fatto che nonostante lo colpisse con tutta la sua ferocia, Holyfield continuasse ad avanzare a testa bassa, inesorabilmente. Ed è così che posso descrivervi Settimo, inarrestabile, fiducioso verso gli altri, sorridente, pronto ad andare avanti con follia ed entusiasmo, come un Holyfield insomma.
Uno dei miei più grandi rimpianti, purtroppo ero già emigrato, fu quello di non poterlo seguire in una delle sue follie, quando, per allenarsi, in verità per fare conoscenze femminili, si iscrisse alla scuola di danza aerobica, per lo stupore di tutti. Avete capito bene, provate a chiudere gli occhi e immaginare un soldato romano in pantaloncini e maglietta, ballare con la sua leggiadria da vichingo, insieme a tutte le donnine in calzamaglia che gli giravano in tondo, me lo immagino come “Gigi la trottola”, ma più romano. E vi posso assicurare, sarà stato uno spasso, almeno come quando un giorno, entrando a casa sua, lo vidi saltare come un grillo avanti e indietro per la casa.
Il motivo?
Gli chiesi cosa stesse succedendo:
- Ho messo le gocce per la tosse!
- E allora? - domandai - Ti hanno fatto venire un'irritazione alla gola che corri così?
- Nell’occhioooo - mi urlò - non ridereeeeeeeeee c…".
Ora, voi direte, ma è un idiota. Ma io vi sfido dopo una settimana di saldatura e di schegge di metallo in entrambi gli occhi a distinguere la boccetta dell’antibiotico per la tosse posizionata da qualcuno ancora sconosciuto vicino al collirio per gli occhi nel suo frigo. No, no, non ero stato io.
Settimo, fino al mio fidanzamento e tradimento da infatuazione per mia moglie, è stato il mio inseparabile fratello, e notte e giorno compagno di giochi.
Veramente, su suo suggerimento, ero io ad invadere casa sua fino a sera inoltrata, distruggendogliela. Come quando, tirandogli un colpo con il cuscino, feci saltare una delle bocce del lampadario o come mentre, a furia di cincischiare con la mia inutile e insistente curiosità con gli attrezzi del fratello, vidi salire un leggero fumo dalla radiotrasmittente che aveva costruito con cura. Provai a spegnerla, ma era troppo tardi, era andata. A volte ero capace di invadergli casa anche a ora tarda, dopo un rientro da una festa, per chiacchierare ore nella sua camera. Suo padre per controllare l’ora del nostro rientro e mettere un freno alle mie invasioni, appoggiava a terra davanti all’uscio di casa una sveglia. Settimo conosceva il trucco ma dimenticò di avvertirmi, di conseguenza la presi in pieno scagliandola sul muro con un calcio, il rumore svegliò tutta la sua famiglia e a quel punto non mi restò che darmi alla fuga.
Parlo di giochi perché non si potevano definire avventure alla Indiana Jones, ma giochi veri e propri in ogni momento della giornata. Uno, ad esempio, consisteva nel far indispettire quegli automobilisti che allo stop, appena passa meno di un secondo da quando ti sei fermato, già iniziano a suonare il clacson per farti fretta, come se da loro dipendessero le sorti di Wall Street e dovessero correre a vendere tutte le azioni prima del crollo della borsa. Allora scattava il nostro piano di ritorsione. Facendo finta che la nostra moto o il motorino o l'auto, si spegnesse proprio in quel momento, gli facevamo prendere una “crisi d'attesa”. Mentre fingevamo di riavviare, aspettavamo che il manager iniziasse a fare manovra per cercare di evitarci e affacciarsi allo stop, ma proprio in quel momento, "miracolo", il nostro mezzo si riavviava mettendosi ancora di traverso e impedendogli di passare, facendo scattare la furia da clacson del deficiente.
Ci divertiva anche quando, nei locali affollati, mentre facevamo la fila al bancone, facevamo finta di essere una coppia gay. Lo facevamo in modo grottesco ed esagerato per vedere le reazioni dei proprietari e degli avventori. Non potevamo mai pensare che qualcuno, vedendoci, lo smilzo vatusso, cioè io, e il romano peloso, cioè Settimo, potesse veramente credere che avessimo una relazione, i gay non si comportano mica in quel modo. Eppure, mi dovetti rassegnare davanti all'evidenza, quando mia madre e mia sorella mi chiamarono di là in salotto con una faccia da funerale. Io ero stupito, non era mai successo.
Mia sorella con voce scossa, evidentemente mia madre non era in grado di pronunciare “gay”, mi chiese:
- Non è che sei gay?
Io rimasi di stucco, non sapevo se ridere o arrabbiarmi e risposi:
- Perché?
Non mi vollero spiegare il motivo, per cui uscii non badandogli. Riflettendo negli anni a venire, mi chiesi se quella domanda potesse essere legata a quegli scherzi e al fatto che non ci separavamo mai. In fondo noi eravamo anime serene, ci fregava poco di cosa pensasse la gente, non ci facevamo troppe pippe mentali, forse però “il paese è piccolo e la gente mormora” ed era nata la voce sui due amanti. In realtà per capire l'entità e la quantità di gente arretrata e bigotta bisogna arrivare ad un’età adulta.
Capitolo secondo

“Le tre fasi delle strutture del comune”

Anche lo sport era fra i nostri passatempi preferiti. Lotta, motocross con il motorino, tennis, un po’ di salti su muri e staccionate, adesso lo chiamano con un nome fico, parkour, insomma tutto quello da evitare con le nostre schiene. Infatti, oltre tutto, condividevamo anche il pessimo stato delle nostre colonne vertebrali, ma “Holyfield insegna” spingere avanti. Le nostre passioni erano fiorenti non come il nostro stato finanziario, insomma eravamo spiantati e senza una lira, e si! Era tempo delle lire ancora. Il tennis era una delle passioni passeggere e, viste le nostre finanze, non ci saremmo mai potuti permettere il costo del campo, figurarsi un maestro, poi a cosa serviva? Ci mettevamo noi quello che mancava. Utilizzavamo un sistema molto in voga ai nostri tempi “allargo e scavalco”. Allargo la rete e scavalco il muretto. Voglio precisare, non eravamo vandali, avevamo grande rispetto dei posti in cui entravamo, non distruggevamo niente, utilizzavamo solamente le strutture comunali nei quartieri dei dintorni, le quali, per motivi inspiegabili, erano abbandonate ma in buone condizioni. Ad esclusione di quella notte, in cui utilizzammo le reti a molla a pagamento di un privato. Durante il giorno bazzicavamo proprio nei dintorni delle reti e a volte in momenti di fortuna riuscivamo ad accumulare abbastanza soldi per fare un giro, e intendo numero 1 giro. Era frustrante, appena iniziavi a prenderci gusto, vedevi l'omone di guardia farti cenno di uscire, era già finito il tuo turno, nacque allora il piano notturno. Le reti si trovavano sotto un bellissimo castagno secolare isolato e quella sera le luci erano stranamente spente, così, con un commando di altri ragazzi, ci avvicinammo. Mentre alcuni facevano la guardia, a turno ci infilavamo sotto la recinsione, per saltare sulle reti sino a sfinirci. Fortunatamente andò bene, visto che non distruggemmo niente e non ci rompemmo niente.
Per capire perché utilizzavamo queste strutture abbandonate ho bisogno di spiegarvi alcune cose. Nel posto da cui provengo i comuni sperperavano (sperperano) i soldi per costruire strutture “utili per i giovani” solo nelle solenni occasioni pubbliche in cui le annunciano. Purtroppo, in verità servono solamente ad ingrassare i costruttori legati a chi è al potere nel Comune in quel momento. Un fatto lo rende evidente, queste strutture passano tutte per le stesse fasi, che constano in tre, prima le costruiscono, poi le inaugurano e per ultimo, terza fase, le abbandonano al degrado, non permettendo un ingresso regolare con un custode. Finita la terza fase, iniziano a progettare una nuova struttura, il tutto per ricominciare dalla prima fase. La più eclatante l'ho scoperta durante un mio rientro vacanziero dal nord. Invitato da Settimo a casa della sua famiglia per un pranzo (nonostante da ragazzo gli devastassi casa mi hanno sempre voluto bene), fui accompagnato fuori in balcone ad ammirare la nuova costruzione del Comune, non potevo credere ai miei occhi, una struttura enorme in calcestruzzo aveva consumato parte del bellissimo giardino di limoni antistante la sua casa. Era uno spettacolare campo da hockey, devo dire molto bello se non fosse già alla terza fase, cioè all’abbandono. Settimo dovette faticare non poco per farmi comprendere cosa fosse, pensavo mi stesse cogl…ando, prendendo in giro. Non potevo credere alle mie orecchie, un campo da hockey in una terra dove le pietre si crepano al sole, dove ci sono i problemi più svariati, la mancanza dell’acqua, la disoccupazione. La maggior parte dei miei compaesani sconoscevano persino l’esistenza di questo sport. L'hockey? Se avessi chiesto a qualcuno cosa fosse l'hockey avrebbe fatto segno con il pollice in alto e mi avrebbe risposto “okey”. Quale motivo poteva averli spinti a costruire uno stadio da hockey in un posto dove nelle abitazioni nessuno conosce il termosifone? Nelle costruzioni delle case non erano proprio previsti, soprattutto nelle case popolari. Mentre in alcuni paesi del centro della Sicilia l’acqua è disponibile una, due volte alla settimana? Cosa scandalosa, da riempire i telegiornali in un Paese civile. Come mi sembrano ancora attuali oggi quelle parole della meravigliosa canzone di Rino Gaetano "L’acqua che vale più del vino", naturalmente senza l’intenzione di favorire le autobotti di aziende poco trasparenti…
Non mi permetterei mai di dire che molti Comuni della Sicilia fanno di tutto per evitare che l'acqua arrivi nelle case in modo continuativo, costringendo le persone a costruire vasche e autoclavi!
Eppure, il Comune era riuscito a finanziare un campo da hockey senza nessun controllo dello Stato centrale: “Evviva l’autonomia degli enti locali”.
Ci sarebbe da discutere su quale utilità questa autonomia abbia portato negli anni al nostro Paese.
Tutto questo sembrava un record sino a quandoooo, rulli di tamburi, dopo aver costruito un ospedale completamente nuovo e all'avanguardia e averci trasferito il vecchio lo abbandonarono appena qualche anno dopo alla fase tre, lasciando la popolazione in balia di un X-FILE a cui nemmeno Skally e Murder avrebbero potuto dare una spiegazione.
Mia moglie, leggendo la parola avanguardia, mi ha fatto notare che forse proprio all'avanguardia l'ospedale non era, visto che mia cognata ci raccontò questo agghiacciante avvenimento: la malcapitata, dopo aver partorito la sua seconda figlia, piena di punti per il parto cesareo, veniva trasportata sulla barella per i corridoi dell’ospedale, portandola dalla sala operatoria a destinazione, la camera. Improvvisamente arrivarono ad un punto cieco, davanti a loro solamente un grande finestrone. Ancora stordita dall’anestesia non riusciva a capire perché gli infermieri si affaccendassero attorno all'enorme finestrone, quando lo capì fu troppo tardi, si vide trasferire da una barella ad un'altra attraverso quel grande foro nel muro.
Gli infermieri, alla richiesta di spiegazioni, la informarono di come il progetto della costruzione fosse sbagliato e mancasse un passaggio dalla sala operatoria alle camere dei pazienti.
Nessuna delle istituzioni centrali si interessò a questi sprechi finendo così come normalità nella fossa del "così vanno le cose", nonostante un servizio del telegiornale satirico più famoso lo dichiarò tra i Comuni con più opere incompiute d'Italia
Strano come qualcuno ancora si domandi dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse.
Il fastidio è irritante, nel sentire certe frasi di alcuni politici, che quando gli vengono poste queste questioni, come le pensioni d’oro, il costo al km dell’autostrada, il costo dei vitalizi, le costruzioni inutili o abbandonate ecc. ecc. si esprimono in questo modo:
“Sì, ma vede, questi sono fatti etici, di principio, le dico onestamente, portano pochi soldi alle casse dello Stato, non fanno la differenza. Dalle pensioni d’oro, per farle un esempio, si ricaverebbero solamente 200 milioni di euro”.
“SOLAMENTE!”
Proverò ad improvvisare un dialogo teorico, tra l’uomo della strada e padre di famiglia che deve far quadrare i conti e il politico di turno. Il primo risponderebbe:
“Intanto 200 milioni di euro non sono pochi, paragoniamoli solo al budget con cui lo Stato finanzia le disabilità e poi 200 di qua, 300 da là e via così, si volatilizzano i miliardi e comunque anche fossero 2 euro andrebbero tagliati prima delle pensioni o dell’assistenza ai disabili, partiamo da là poi, se non bastano, saremo tutti felici di fare qualche sacrificio”.
È però pronta la risposta: “Si, ma per fare le leggi ci vuole troppo tempo, ci sono le lungaggini parlamentari ecc. ecc.”
Contro risposta:
“Saranno lunghe ma la riforma Fornero della pensione l’avete fatta in due settimane”.
Lasciamo perdere questo dialogo che nella vita reale finirebbe con la lapidazione del secondo e torniamo a cose più frivole.
Torniamo al tennis, noi riuscivamo a trasformare i normali sport, in sport estremi. Ad esempio, avevamo aggiunto al tennis i piegamenti, infatti, in un momento di impasse, ci balenò in mente un'idea. Chi avesse rotto il palleggio, avrebbe dovuto fare, per penitenza, dieci piegamenti a terra, trasformando la partita in un massacro dove alla fine non si beccava una palla. Non che all’inizio si scambiasse alla "meckie in ro"(l'ho scritto così come l'ho sempre sentito).
Oppure, per citarne un altro, fare fuoristrada, sì, ma con il motorino Ciao.
Comunque, senza soldi e telefonini, ci si divertiva un sacco.
Capitolo terzo

“Erano finiti i bei tempi”

Erano finiti i bei tempi, le giornate in cui nel quartiere da ragazzino mi bastava scendere le scale di casa, dopo che il mio caro compagno di infanzia Giovanni aveva suonato il campanello, e con un semplice bastone di legno andavamo a lottare come Jedi contro i fiori spinosi con la cresta viola, che dalle nostre parti diventano altissimi, mozzandogli le teste. O le infinite partite sotto il sole cocente, con le scarpine buone eleganti da scuola, che distruggevo in un attimo per la disperazione di mia madre.
Oppure alle bellissime calie (da noi si chiama così quando marini la scuola) in cui andavamo direttamente al mare a fare il bagno in pieno giugno tuffandoci sotto le onde.
La prima calia al mare, causa la mia inesperienza, non andò bene. Mia madre appena misi il primo piede in casa mi chiese se fossi andato a scuola: “Certo torno dà la proprio adesso”, le risposi.
Con voce suadente e tenebrosa mi disse:
” Va bene, vieni, vieni, avvicinati”.
Mi avvicinai, lei con la dolcezza ineguagliabile di una mamma mi baciò su una guancia.
In verità, mi leccò leggermente la faccia.
Il suo viso si scurì, indubbiamente sapevo di sale.
Mi puntò il dito contro e sentenziò:
“Sei andato al mare!”
Io negai ma non potei sottrarmi a qualche cinghiata.
Qua tutti i perbenisti diranno: ”La violenza, le cinghiate, gli schiaffi, o no, orrore” invece io non lo ricordo assolutamente come un trauma e non ho nessun risentimento nei confronti di mia madre. Penso, mettendomi nei suoi panni, quale problema fosse mettere un limite alle mie monellerie valutando il fatto che ero già più grosso di lei. Difficile sculacciarmi, così un rimedio doveva trovarlo, penso senza esagerare che “quannu ci volunu su megghiu du pani” tradotto “quando ci vogliono sono meglio del pane”.
Questo non mi convinse a non fare più calie al mare, solamente a farmi più furbo. Infatti, prima di tornare a casa, ci fermavamo alla fontanella del paese e, tolta la maglietta, ci lavavamo dal bacino in su.
Effettivamente ero una peste, qualche giorno prima mi stavo arrampicando sulla cima di un albero alto venti metri quando sentii la sua voce chiamarmi:
” MASSIMO, SCENDI! “
Mi girai e la vidi gridare dal balcone facendo tutti i segni possibili:
“SCENDI, TI AMMAZZERAI!”.
Scesi senza ammazzarmi. Senza dargli tregua nei giorni seguenti, trascinai anche la mia sorellina nella calia che anche quella volta scoprì.
Mi stupisco ancora a pensarci come in soli trent’anni possa essere cambiato radicalmente il modo di divertirsi dei bambini e dei ragazzi, non che uno sia migliore di un altro, ma come siano completamente differenti.
Non sono di quelli convinti che le nuove generazioni siano pessime e quelle vecchie rincoglionite. Non mi lascerò trascinare da tanti miei coetanei e colleghi in questa giostra stupida. Ogni generazione è fatta di idioti e gente sveglia, anzi io ho molta speranza nei giovani, magari sono un po’ rimbambiti fisicamente e nella scaltrezza, ma hanno una
marcia in più, una mente più flessibile e immediata.

Niente a che vedere con certi miei amici che da un momento all’altro dicevano “Salto! Ci riesco” e saltando da una duna di sabbia solida alta quattro metri si andavano a schiantare sulla sabbia a testa in giù come da disegno descrittivo.
Va bene buttarsi giù dai muretti o direttamente in mare dal pontile del porto con le bici ma a tutto c'è un limite.
Certo di cose stupide ne facevamo, come quella volta in cui rimanemmo soli in casa in spiaggia da un amico.
Arrivati a sera la fame cominciava a farsi sentire, così Pietro, mio amico di infanzia, mi offrì la cena preparata da lui.
Orrore culinario, aveva versato un pacco di biscotti dentro una ciotola in cui aveva tagliato a fette un'anguria e li aveva lasciati a macerare per un paio d’ore. Non li mangiammo naturalmente. Fortunatamente,
arrivò una luce, proveniente dal giardino in comune con i vicini, che ci abbagliò. Facevano festa e quando ci videro da soli ci invitarono a mangiare con loro.
In compenso ho un bellissimo ricordo della mattina seguente. Andammo, alle cinque o alle sei, a fare il bagno nudi sugli scogli in riva al mare. Fu una sfida, toglierci il costume e incastrarlo in immersione da qualche parte in fondo a quel tratto di mare per poi recuperarlo in una seconda immersione.
Abbiamo smesso solamente quando avvicinandosi l’orario di arrivo dei bagnanti, una signora ci scorse mentre passeggiava sugli scogli, ci vollero due sguardi per capire, con il primo pensò si stesse sbagliando, poi però non credendo ai suoi occhi, sconvolta scappò via.
Altre follie affollavano le nostre giornate, come quella con Pollicino, il soprannome era dovuto ai suoi pollici non proprio della misura giusta. Girovagavamo con la sua vespa, mentre degli amici ci inseguivano con i motorini. Giravamo per le viuzze nei dintorni dei paesi, quando, ad un tratto, ci trovammo davanti ad una rampa naturale in terra battuta.
Pensavamo portasse ad una via adiacente così, senza pensarci troppo, decidemmo di saltare, senza prevedere che dall’altro lato della rampa ci fosse il vuoto. Fortunatamente per noi, dava sulla spiaggia dove precipitammo infossando le ruote, il pianale della vespa miracolosamente ci tenne in piedi. I bagnanti, al rumore del nostro arrivo, si spaventarono e ci guardarono basiti. Noi ridevamo a crepapelle e facendo finta di niente, come se fosse stata nostra intenzione arrivare in spiaggia in quel modo, ci sdraiammo a prendere il sole e ad aspettare. Quando gli amici ci trovarono, ci volle un’ora per trascinare il vespino fuori dalla sabbia.
Quando ero ragazzo, dal balcone di casa mia, oltre a poter ammirare il vulcano e la costa sino al piccolo rilievo di Castelmola dove si inserisce Taormina e il suo splendido mare, potevo godere dei profumi di un bellissimo frutteto, pieno di limoni e alberi da pesca.
Ricordo il profumo delle pesche bagnate dal sole e il loro sapore legnoso, dovuto al fatto che le mangiavamo ancora un po’ verdi, prima che la raccolta ce le portasse via.
Spesso mi ero messo a osservarlo dall’alto, ma non avevo mai notato un raro albero di ciliegie. Doveva essere nascosto in qualche angolo, perché lo trovammo per caso in uno di quei pomeriggi durante i quali andavamo a zonzo senza meta. Girovagando ci trovammo, di fronte al bellissimo albero, così, senza esitare, salimmo sui rami più alti e ci sedemmo a godere il sapore dei frutti.
Improvvisamente sentimmo i passi di due uomini proprio nelle vicinane, ci nascondemmo al meglio dietro le foglie e fortunatamente non ci videro. Ma fu un cattivo presagio, perché non ci salvammo quando fummo invitati a mangiare da delle amiche che abitavano a S. Alfio, un paese in alto sul vulcano.
Ricordo ancora lo schifo, fecero la pasta con la salsa in brik dolciastra, una novità a quei tempi, e ci offrirono del vino in brik, altra delizia, in più aggiunsero alla pasta lo zucchero al posto del sale. Finito il pranzetto le abbandonammo, la noia ci stava uccidendo, ancora le femminucce non erano il nostro primo pensiero. Invece di aspettare che la madre delle nostre ospiti tornasse e ci riaccompagnasse a casa, decidemmo di correre giù in discesa per i 16,5 km di tornanti. Arrivati sfiniti a tre quarti di strada ci imbattemmo in una piantagione di ciliegie affacciata sulla strada. Le potevano cogliere senza entrarci e noi non ci facemmo sfuggire l’occasione. Seduti sul muretto circostante iniziammo a mangiarne qualcuna, tutta quella scarpinata ci aveva fatto venire fame. Ad un certo momento, si accostò a noi una macchina, da cui scese un panzone con aria sorridente che si avvicinò al mio amico. Sembrava volesse dirgli qualcosa, invece era una strategia per non farci fuggire, arrivato a tiro, partì da quella sua manona un muffittuni (in dialetto uno schiaffo a mano piena), di cui sento ancora l’eco a pensarci, e poi si lanciò invano su di me. Vista la scena mi tuffai all’indietro dal muretto stile parkour dentro il giardino e scappai.
Questa volta era andata male “non può mica andare sempre bene” comunque non ho capito perché per due ciliegie se la sia presa tanto, sicuramente non era il caso di rimanere e chiederglielo e con il mio amico riprendemmo la strada di casa.
Altra reazione esagerata mi accadde sempre in sua compagnia. Stavamo aspettando Settimo quando sorse un'urgenza impellente. Per fare presto saltammo una recinzione in una vecchia costruzione abbandonata e andammo a fare pipì proprio a ridosso di un muro scorticato. Al che sentimmo una voce gridare:
“ALTOLA!”
Ci girammo e ci trovammo di fronte un tizio con le gambe larghe che ci puntava la pistola tipo Starsky & Hutch nella favolosa serie.
Penso lo avesse sognato una vita, lui, una guardia giurata, incastrare due criminali con l’oggetto in mano. Aveva un’aria soddisfatta e ridicola allo stesso tempo. A certe persone non si dovrebbe affidare una pistola. Fortunatamente lo lasciammo andare dopo che la mise via (si perché in verità volevamo picchiarlo per avercela puntata contro). Era la guardia dello stabile.

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Riflessioni Ironiche Di Un Moderno Migrante Italiano Massimo Longo и Maria Grazia Gullo
Riflessioni Ironiche Di Un Moderno Migrante Italiano

Massimo Longo и Maria Grazia Gullo

Тип: электронная книга

Жанр: Юмор и сатира

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: “Questo stato non consiste in una semplice malinconia, ma nel malessere di non ricono-scersi né nel posto da cui sei partito, né in quello in cui sei arrivato. In modo particolare, all’inizio del trasferimento, sei al nord e vor-resti essere al sud, in cambio quando sei al sud vorresti essere al nord. Ti ritrovi a non sopportare i difetti di entrambi i posti in cui vivi e, contemporaneamente, ad amarli en-trambi.”

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