Quattro Destini
Powell Michael
Quattro giovani di quattro nazionalità si incontrano in Germania prima della guerra. Il loro destino è di morire contemporaneamente in guerra in un isola dell'Egeo. l libro racconta le vite di quattro giovani uomini, tutti nati nel 1920, Godfrey (inglese), Rolf (tedesco), Marco (italiano) e Yiannis (greco) e delle loro famiglie. Marco eYiannis provengono dalla piccola isola di Leros, all'epoca parte delle isole del Dodecanneso governate dall'Italia. Si incontrano tutti nel 1936 al raduno della gioventù di Norimberga dove Godfrey fa visita a Rolf on nell'ambito di uno scambio studentesco e Marco è invitato a trovare il suo secondo cugino, Rolf, insieme al suo amico Yiannis. Quando scoppia la guerra i quattro si mettono al servizio delle loro nazioni in vari campi di battaglia. Nel 1943, l'Italia passa con gli Alleati e le loro vite si riuniscono di nuovo quando Yiannis, diventato un marinaio nell'importante cacciatorpediniere greco, ‘Queen Olga’, trasporta le truppe britanniche a Leros e incontra Godfrey, ora un membro del British Long Range Desert Group, e Marco, in servizio per l'esercito italiano a Leros. Rolf, ora di base in Grecia come pilota di bombardieri ha in sorte di lanciare una delle bombe che affonda l'Olga e, come atto finale prima che il suo aereo precipiti, di mitragliare la batteria antiaerea di Marco.
Michael Powell
Quattro Destini
Michael Powell
Quattro Destini
Una Tragedia Greca in Tempo di Guerra
Tradotto da Alberto Favaro
Questo è un lavoro di fantasia. Sebbene basato su eventi storici reali e comprenda alcuni personaggi reali, ora morti, la maggior parte dei nomi, dei personaggi e degli avvenimenti sono da considerare come prodotti dell'immaginazione dell'autore o sono stati usati in modo fantasioso. Qualsiasi somiglianza tra personaggi di fantasia e persone reali, vive o morte, è da considerarsi puramente accidentale.
Copyright © 2017, 2018 by Michael Powell. Tutti i diritti riservati
Tradotto da Alberto Favaro (fvaalb1@libero.it)
Revision 1c 29/11/2018 (con mappa)
http://www.foursdestiny.uk
Dramatis Personae
Inghilterra e Francia
Ernest Jenkins – Ufficiale marittimo
Margaret Jenkins – Moglie di Ernest
John Smith – Collega di Ernest Jenkins
Godfrey Jenkins – Figlio di Ernest e Margaret
Lizzie Jenkins – Sorella di Godfrey
Chalky White – Amico di scuola di Godfrey
Smythe – Alunno al King’s
Mr Berman – Insegnante al King’s
Mr Bradley – Insegnante al the ‘Shop’
Duncan Charters – Pescatore, proprietario del ‘Dayspring’
Ralph Bagnold – Fondatore dell’LRDG
David Lloyd-Owen – Vicecomandante dell’LRDG
Jamie Stewart – Sergente dell’LRDG
Colonello d’Ornano – Comandante della Francia Libera
Jake Easonsmith – Comandante dell’LRDG
Germania
Kurt Müller – Soldato
Paula Müller – Moglie di Kurt
Herr Finkelmann – Proprietario ebreo del negozio di riparazione di orologi
Hans Langsdorff – Ufficiale marittimo tedesco, amico di Kurt
Rolf Müller – Figlio di Kurt e Paula Müller
Baldur von Schirach – Leader della gioventù hitleriana
Hans Schiller – Pilota di Me109 e amico di Rolf
Gunther – Fuciliere posteriore di Stuka in Spagna
Hans-Ulrich Rudel – Asso nel pilotaggio degli Stuka
Alfred Scharnowski – Fuciliere posteriore di Rudel
Ernst-Siegfried Steen – Comandante della squadriglia di Stuka
Greta – Cameriera a Neubeuren
Schmidt – Ufficiale SS a Neubeuren
Italia
Giuseppe Malpaiso – Ufficiale della marina italiana e ingegnere
Maria Malpaiso – Moglie di Giuseppe e cugina di Kurt
Marco Malpaiso – Figlio di Giuseppe e Maria
Tenente Gramatika – Amico di Giuseppe e governatore di Lero
Capitano Gotthard – Ufficiale tedesco
Ammiraglio Mascherpa – Governatore italiano di Lero
Grecia
Spiros Raftopoulos – Costruttore
Despina Raftopoulos – Moglie di Spiros
Yiannis Raftopoulos – Figlio di Spiros e Despina
Costas – Capitano della ‘Taxiarchis’
Tassos – Membro dell’equipaggio della ‘Taxiarchis’
Capitano Zarokostas – Primo comandante della ‘Olga’
Manolis – Membro dell'equipaggio della 'Olga'
Comandante Blessas – Comandante della ‘Olga’
Prologo
Rolf Müller era a capo della squadriglia di bombardieri Ju88 della base aerea, controllata dai tedeschi, di Megara situata nella terraferma greca vicino alle isole del Dodecaneso. “Un obiettivo diverso oggi, ragazzi,” disse al suo equipaggio. “Abbiamo finito con Coo, ora ci occuperemo di Lero. É solo una piccola isola, ma è piena di armi e dobbiamo sistemarla.”
I bimotori volarono attraverso l'Egeo, passando sopra le zone già sotto al controllo tedesco. Un ulteriore gruppo di isole, disposte da nord a sud, si materializzò nella foschia della linea dell'orizzonte a est, brillando alla luce del sole. Sotto di loro, il mare, gentilmente increspato dai leggeri venti che soffiavano in quel periodo dell'anno, era calmo e tranquillo.
“Eccola!” disse Rolf, indicando un'isola che sembrava come se fosse stata schiacciata tra le dita di un gigante per creare due baie profonde su ogni lato, con delle strette penisole tra di loro. Scendendo a un'altitudine inferiore, condusse l'avvicinamento alla baia posta a sud ovest, sfiorando alte colline accidentate fino a quando, al di sotto, comparve una profonda insenatura. “Siamo fortunati!” gridò quando individuò due navi da guerra all'ancora, “Due obiettivi in vista.”
Portò il suo aereo sopra la baia e lo inclinò per una rapida discesa, puntando a una delle navi. Mentre lo faceva, vide degli sbuffi di fumo provenire dalle armi dell'altra imbarcazione. Il suo obiettivo non stava ancora rispondendo e, avvicinandosi, vide gli uomini che correvano verso le loro postazioni, come formiche in preda al panico. “Troppo tardi, amici miei” pensò amaramente.
I caccia torpedinieri erano la nave greca “Olga”, di supporto alla flotta britannica nel Mediterraneo, e la nave inglese, “Intrepid”. I mitraglieri inglesi erano già alle loro postazioni quando comparvero gli aeroplani tedeschi e si resero conto che erano sotto attacco prima che i Greci avessero avuto neppure il tempo di reagire.
Sulla Olga un ufficiale britannico, Godfrey Jenkins, stava parlando con un marinaio greco, discutendo I piani per trasportare alcuni dei suoi commilitoni, appartenenti al Long Range Desert Group, dalla loro base ad Haifa per rinforzare le difese sull'isola. Il marinaio, Yiannis Raftopoulos, era nato sull'isola e la conosceva bene anche se era stato lontano per alcuni anni.
Yiannis alzò gli occhi allarmato quando risuonò la sirena della nave. “Bombardieri” urlò, “tutti ai posti di combattimento!” Corse verso la sua postazione antiaerea, lasciando Godfrey osservare con orrore il primo aereo che si abbassava verso la nave.
In alto, sulla collina a nord della baia, presso una postazione antiaerea italiana, era seduto un gruppo di soldati disillusi. Il loro mondo era stato rivoltato un paio di settimane prima quando il loro governo aveva firmato un accordo per cambiare parte e allearsi con i loro nemici precedenti contro i nazisti tedeschi.
Uno di loro, Marco Malpaiso, era nato sull'isola. La sera precedente, aveva ritrovato il suo amico d'infanzia, Yiannis, che non vedeva da molti anni. Stava proprio pensando a quell'episodio quando risuonò l'allarme e si rese conto che l'isola era sotto attacco.
Una forte esplosione fu seguita da un'enorme nuvola di fumo nero oleoso che si innalzò sopra la cresta davanti a lui, accompagnata dal rumore degli spari frenetici provenienti dalle navi nella baia. Comparve un grande aereo bimotore, che volava incredibilmente basso poco al di sopra del terreno che si innalzava, con un motore balbettante e del fumo che usciva da un'ala. Marco, unico tra I suoi compagni indolenti, cercò di puntare la sua arma verso l'aereo colpito mentre passava sopra di loro, sparando con la sua mitragliatrice e perdendo quota mentre si dirigeva con difficoltà verso la baia successiva.
Capitolo 1
Lero 1912
Il sole luccicava sul blu del mare Egeo mentre l'incrociatore italiano San Marco navigava lungo la costa orientale dell'isola di Calimno nel Dodecaneso, superando lo stretto passaggio tra di essa e l’isola di Lero, in una luminosa mattina del maggio 1912. Un giovane guardiamarina, Giuseppe Malpaiso, da poco assegnato a quella grande imbarcazione, guardava dal ponte mentre la nave superava due isolette ed entrava nell'ampia baia di Agia Marina. Sulla riva, vide un gruppo di case neoclassiche dall'aspetto ricco, che correvano lungo la costa e riempivano una valle poco profonda che percorreva l'isola. Al di sopra c'era una ripida collina dove una fila di torri rotonde, da ognuna delle quali partiva una serie di vele di tela, stava al di sotto di un maestoso castello veneziano.
“Mio Dio, guardate lì!” disse Giuseppe, “che posto fantastico!”
La nave da guerra entrò nella baia e si diresse verso gli edifici appena al di là dell'ingresso. Il capitano si rivolse a Giuseppe e ai suoi compagni.
“Preparate le scialuppe. Ogni ufficiale sarà accompagnato da un gruppo di marinai. Non appena getteremo l'ancora voglio che le barche partano.”
Uno degli ufficiali chiese, “Ci aspettiamo dei problemi?”
“Sinceramente spero di no. Ci è stato detto che qui c'è solo una piccola unità amministrativa, ma possono esserci dei soldati. Stiamo occupando tutte le Sporadi del Sud e apparentemente non ci sono state grosse difficoltà se non a Rodi. I Turchi hanno abbandonato senza opporre resistenza. A meno che non incontriamo problemi, voglio che li trattiate come ospiti non benvenuti e li incoraggiate ad andarsene!”
L'incrociatore gettò l'ancora nella baia. Giuseppe e i suoi compagni erano pronti e in attesa e quando le scialuppe furono messe in acqua vi salirono velocemente. I marinai afferrarono i remi e remarono rapidamente verso la banchina.
Giuseppe, che non era mai stato in missione in precedenza, sentì stringersi lo stomaco per il nervosismo quando abbandonarono la sicurezza della nave. Anche se teoricamente era al comando del tender, sapeva che i marinai ai remi stavano in realtà prendendo gli ordini dall'esperto nostromo seduto al suo fianco. Quando si avvicinarono alla costa vide un piccolo gruppo di uomini assembrato sul molo. Gli uomini seduti sulla barca presero le armi nel caso di un possibile scontro a fuoco.
“Tranquilli, ragazzi, state calmi. Non voglio nessun errore. Non sparate a meno che non ve lo ordini” Gramatika, il loro comandante, gridò da un'altra barca.
Quando la barca di Giuseppe arrivò sulla banchina, la prima della piccola flotta a raggiungere terra, i marinai misero i remi nella barca e lui saltò giù di lato insieme a un agile marinaio che prese abilmente la cima da ormeggio. I soldati scesero disordinatamente, le armi in pugno quando un piccolo uomo dalla pelle scura, che indossava un vecchio e piuttosto malridotto costume turco uscì da un gruppetto con le braccia alzate. “Non vi creeremo problemi – sappiamo di essere in un numero inferiore” disse in inglese – una lingua che Giuseppe aveva studiato a scuola. “Per cortesia venite con me nella casa dell'Amministratore.”
Le altre barche stavano attraccando e facendo sbarcare le guarnigioni di soldati che si stavano allineando sulla riva. C'erano solo cinque turchi, un gruppo raffazzonato, vestiti con vivaci ma rovinati costumi ottomani. Dietro di loro c'era un gruppo più numeroso di greci che stavano salutando i marinai italiani e stavano sventolando la bandiera nazionale greca. “Sembrano in uno stato pietoso,” disse uno dei soldati italiani. “Dove sono i loro soldati?”
“Non sottovalutate i turchi,” disse il comandante vicino a lui, richiamando l'attenzione dei suoi uomini. “Possono sembrare in rovina ma sanno anche essere dei guerrieri molto fieri come abbiamo scoperto in Africa del Nord. Mostriamo loro come sono dei veri soldati.”
Giuseppe fu orgoglioso dei suoi compatrioti quando si misero in riga con le loro armi moderne e si posero sull'attenti pronti a marciare – o a combattere. Il piccolo gruppo di turchi, però, si fece da parte per farli passare, e seguirono il primo uomo verso il piccolo ufficio sul molo.
“Combattiamo contro di loro dall'anno scorso in Libia,” disse Giuseppe “Mi chiedo come diavolo siano riusciti a bloccarci.”
“Sono stato uno dei primi a sbarcare a Tripoli” disse il soldato. “Non sembravano per nulla pronti a lottare e prendemmo subito il controllo. Proprio quando pensavamo che sarebbero caduti, arrivò un gruppo di arabi – la cavalleria. Dio, avevano dei cavalli meravigliosi! Ma sono anche estremamente sanguinari, glielo assicuro. Non fanno prigionieri e son sicuro che non vorrebbe vedere cosa fanno a chi cerca di arrendersi, “l’uomo tremò al ricordo. “Comunque, quasi ci batterono. Ci assediarono. Cominciammo con 20000 uomini ma ne rimasero solo circa 1000 quando riuscimmo a venirne fuori.
“Per nostra fortuna, noi” disse indicando la San Marco, “la Marina, siamo troppo forti per loro. Non hanno nessuna nave moderna per combatterci.”
Gramatika, accompagnato da un piccolo gruppo di soldati, seguì l'ufficiale turco all'interno dell'edificio per incontrare l'amministratore dell'isola. Dopo pochi minuti, uscì accompagnato da un turco dall'aria trasandata che parlò al suo piccolo triste gruppo. Il comandante italiano aspettò fino a quando ebbe finito. Poi si rivolse alla folla, le sue parole furono tradotte in greco da un interprete che era venuto a riva con loro dalla San Marco.
“Rivendichiamo quest'isola in nome del governo italiano. L'amministrazione turca se ne andrà. Dovranno essere trattati con rispetto e dovranno ricevere tutta l'assistenza necessaria per la loro partenza. Istituiremo subito una nuova amministrazione e l'ordine sarà mantenuto.”
I greci, sentendo questo, acclamarono gli italiani e fischiarono gli ottomani abbattuti mentre scendevano verso una barca che li stava aspettando per portarli verso la terraferma turca poco più a est.
Gramatika ritornò nell'edificio e chiamò all'interno gli ufficiali. “C'è un sacco di lavoro da fare qui e voglio che rispettiate la gente del posto che stiamo liberando dagli Ottomani. Lasceremo qui un gruppo per prendersi in carico l'amministrazione e mantenere la pace. La nostra priorità, una volta che ci saremo assicurati che gli ottomani se ne siano andati, sarà quella di mantenere l'ordine. Nel frattempo, voglio che troviate degli alloggi per gli uomini.”
Giuseppe tornò fuori con Gramatika e l'interprete. La sua piccola compagnia era ancora allineata e in attesa di ordini. L'interprete tornò alla nave per riferire al loro capitano. “Qualcuno qui parla greco?” chiese Gramatika ai suoi uomini. Nessuno si fece avanti.
“Come troveremo degli alloggi se non siamo in grado di parlare alle persone?” chiese al suo amico.
Proprio allora, un vecchio greco si fece avanti. “Mi scusi signore” disse in inglese.
Giuseppe si girò, “sì?”
“Lei parla inglese,” l'uomo sembrò sollevato. “Sono un insegnante. I miei amici vogliono sapere cosa sta succedendo qui.”
“Come ho spiegato, stiamo liberando queste isole dai Turchi.”
“Ma non abbiamo bisogno di essere liberati,” disse l'uomo. Sembrava confuso e indicò i turchi che se ne stavano andando. “Ci hanno lasciati per conto nostro e non si sono mai immischiati con noi. Non erano abbastanza.”
Giuseppe era confuso. “Ma governavano l'isola, no? Li stiamo sostituendo e vi stiamo liberando.”
“Ma liberarci da cosa? Non siamo prigionieri!”
“Mi dispiace, non sono veramente in grado di spiegare, sono solo un marinaio. Cercherò di far venire una dei nostri ufficiali a parlare con voi. Nel frattempo, mi è stato chiesto di trovare delle sistemazioni per i miei uomini. Può aiutarmi?”
“Sistemazioni?”
“Alloggi – stanze per loro dove soggiornare.”
“Intende hotel? In realtà non abbiamo nulla del genere qui.” Guardò in basso e pensò per un attimo, poi alzò lo sguardo, “I turchi avevano delle case. Se se ne sono andati, potreste mettere lì i vostri uomini. Ma non credo ci siano abbastanza stanze per tutti voi.”
“Allora dovremo ospitare alcuni uomini nelle case private.”
“Pagherete un affitto?”
“Non so. Non credo.”
L'uomo sembrò infastidito. “Affermate di venire a liberarci, ma mi sembra che siate peggio dei Turchi.” Si girò verso il gruppo di greci che erano in attesa dietro di lui e disse velocemente qualcosa in greco. Girandosi di nuovo disse, “vi porteremo dal sindaco. Dovrete spiegargli tutto.”
Gramatika ordinò a Giuseppe di andare col vecchio, che condusse l'italiano in un altro ufficio dove un funzionario rubicondo, lo presentò al sindaco dell'isola, che, seduto dietro una grande scrivania, stava sudando copiosamente. “Ναι [Sì]?” disse.
Seguì una discussione, con il sindaco che cominciò chiaramente ad agitarsi quando il vecchio spiegò quello che gli aveva detto Giuseppe. L'uomo si girò verso l'italiano, “Come le ho detto. Non avevamo bisogno di essere liberati e non abbiamo stanze a meno che non siate pronti a pagare.”
Giuseppe era stupefatto. “Capisco. Dovrò parlarne con il mio comandante. Grazie.” Si girò, lasciò l'edificio, e ritornò a riferire quello che gli era stato detto.
“Non vogliono essere liberati?” Gramatika era sconcertato. “Beh, non sta a loro decidere quello che vogliono,” proseguì in modo poco razionale, “li libereremo comunque. Spiegaglielo e di' loro di procurarci degli alloggi. Se non vogliono collaborare, dovremo obbligarli a farlo.”
Giuseppe tornò nell'ufficio del sindaco. Il vecchio era ancora seduto su una sedia davanti alla scrivania, sulla quale c'era un vassoio rotondo di ottone sormontato da un treppiede con un grande anello in cima. Sul vassoio c'erano due piccole tazze vuote. Il sindaco salutò Giuseppe, indicandogli una sedia libera su cui si sedette l'italiano. “Kaffee?” chiese e, ricevendo un cenno d'assenso, urlò qualcosa a qualcuno presente nell'ufficio adiacente. Una segretaria entrò, sollevò il vassoio per l'anello e lo portò fuori dalla stanza. Non venne detto nulla fino a quando la donna ritornò portando il vassoio su cui ora stavano tre tazze del forte caffè dolce amato dai Greci e dai Turchi. Tutti presero una tazza. Giuseppe, abituato al forte espresso italiano, ne bevette una lunga sorsata, e rimase sorpreso dalla dolcezza del caffè e dal ritrovarsi la bocca piena dei residui presenti sul fondo della tazza. Li inghiottì, non volendo mostrare il suo disagio.
Il sindaco disse qualcosa e il vecchio tradusse, “Quindi?”
Giuseppe ripeté quello che gli era stato detto. I Greci dovevano trovare degli alloggi per gli italiani e non sarebbero stati pagati. L'isola era sotto il controllo italiano e il comandante italiano prometteva che le cose sarebbero andate per il meglio per i greci, ma si aspettava la loro cooperazione.
Quando questo fu spiegato al sindaco, l'uomo emise un sospiro esasperato. “Molto bene, non possiamo combattervi e neppure vogliamo farlo,” tradusse il vecchio. “Troveremo delle stanze per i vostri uomini e speriamo che ci rispetterete e che ci permetterete di proseguire come facevamo prima che ci ‘liberaste’.” L'ultima parola fu detta con un tono sarcastico.
Fu accordato non senza difficoltà che gli italiani che sarebbero rimasti sull'isola sarebbero stati messi inizialmente in case private vuote. Giuseppe, sollevato che fosse passata la freddezza iniziale, accettò l'offerta di un'altra tazza di caffè – assicurandosi questa volta di bere solo la piccola parte liquida in cima – e poi, dopo gli amichevoli saluti, lasciò l'ufficio e ritornò dai suoi uomini.
Gramatika aveva ordinato agli uomini di sciogliere le righe e di rilassarsi. Erano seduti all'esterno di un piccolo bar, riparato dal sole da canne di bambù sorrette da una struttura di legno. Sembravano molto a loro agio e Gramatika invitò Giuseppe a sedersi a un tavolino vicino a lui. “Come è andata?”
“Bene,” disse Giuseppe. “Sono d'accordo nel trovarci delle sistemazioni ora che si sono calmati. Anche se non sono particolarmente felici che abbiamo cacciato i turchi.”
“No, l'avevo capito. Il nostro interprete è tornato pochi minuti fa e ci ha spiegato che gli è stato detto che la nostra forza di ‘liberazione’ è più come una forza di occupazione. Birra?”
Prese il silenzio di Giuseppe come un assenso e chiamò la cameriera, “due birre”. Lei sollevò due dita e guardò in modo interrogativo, rientrando nel bar e ritornando con due birre quando lui annuì. Lui le porse una moneta che lei guardò sospettosamente e poi disse qualcosa in greco.
“Sono soldi italiani,” disse, “Lira, capisce?”
Lei scosse la testa, disse qualcos'altro e mise il denaro sul tavolo. In quel momento, arrivò il vecchio e Giuseppe lo chiamò. “Può spiegare alla ragazza che questi sono soldi italiani e che qui sono validi?”
L'uomo si rivolse alla ragazza in greco. Lei guardò le monete, le prese e girandole lesse le iscrizioni. Il vecchio tradusse la sua risposta, “Non so cosa siano questi. Ora li prendo ma, se mi avete imbrogliata, mi lamenterò con il sindaco.”
“E noi non vogliamo che accada, giusto?” disse Gramatika. Le porse altre monete. “Dovrebbero essere sufficienti.”
Lei le guardò di nuovo con sospetto, poi, scuotendo la testa, ritornò nel retro del bar e le depositò con attenzione in cassa.
“Questo è un'altra cosa che dovremmo sistemare – il denaro,” disse Gramatika con un sospiro.
Dopo aver aiutato gli uomini a sistemarsi nei loro alloggi, Giuseppe fu sollevato quando gli fu ordinato di ritornare sulla nave per fare rapporto al Capitano.
“Allora, Malpaiso, cosa faremo con lei ora? Ci servono degli ufficiali a terra per rendere questo posto una base per la nostra flotta. Questo significa che ci servono dei buoni ingegneri. Sarebbe una ottima opportunità per lei” disse il Capitano. “Vuole restare qui o continuare con noi?”
“Sono onorato per avermi considerato, signore, ma preferirei restare con la nave – ho ancora molto da imparare.”
Dopo aver lasciato Gramatika e un gruppo di soldati sull'isola, la San Marco si allontanò per unirsi al resto della flotta italiana. Tutte le isole del Dodecaneso erano state prese senza molti problemi, e la bandiera italiana sventolava su tutte le città principali delle isole.
Navigarono a nord verso i Dardanelli, lo stretto che portava dalla parte nordorientale del Mar Egeo verso la capitale turca, Istanbul. Lì supportarono un attacco piuttosto blando dei caccia torpedinieri italiani contro le posizioni turche prima di staccarsi e di ritornare al porto italiano di Brindisi.
Per Giuseppe, le ultime settimane della guerra non furono per nulla eccitanti e si ritrovò a domandarsi se sarebbe stato meglio se fosse rimasto a Lero con il suo amico Gramatika.
****
Dopo il termine della guerra italo-turca, Giuseppe si iscrisse all'Università per studiare ingegneria e passò la maggior parte degli anni della prima guerra mondiale a studiare a Pisa, vicino alla base navale di La Spezia. Non era più in Marina ma mantenne i contatti con alcuni dei suoi colleghi della San Marco.
L'università di Pisa era nota per i suoi corsi di lingua. A causa della sua esperienza nel mar Egeo, Giuseppe aveva cominciato a interessarsi alla cultura greca e decise di frequentare anche un corso di greco, oltre ai suoi corsi principali Questo significava studiare il greco antico ma il suo tutor parlava greco e insistette affinché i suoi studenti imparassero a conversare nella versione moderna della lingua.
Il suo alloggio nella parte più povera di Pisa, dava su una strada trafficata, e, mentre studiava, osservava le persone che andavano e venivano dalla fermata dell'autobus. Una ragazza in particolare lo colpì- I suoi capelli biondi e la sua figura slanciata la faceva spiccare rispetto alle comuni ragazze italiane dai capelli scuri. Ogni giorno la vedeva andare alla fermata, aspettare l'autobus e, di sera, cominciò ad aspettare che tornasse. Era alta e magra e camminava con una certa grazia.
Una sera, quando la ragazza scese dall'autobus, Giuseppe vide un gruppo di giovani andare verso di lei. La finestra era aperta e sentì loro dirle “ciao, cara, come sta?” Lei li ignorò e continuò a camminare, ma loro le si misero davanti. Quando cercò di superarli, le bloccarono la strada e uno di loro le prese il braccio, “su ragazza, cosa c'è che non va?”
Lei non rispose, cercando di liberarsi dalla stretta, ma il giovane non la lasciò andare. “Lasciatemi in pace.”
“No, non faccia così. Vogliamo solo parlare, tutto qui” disse il suo tormentatore. Un altro giovane sogghignò.
“Lasciatemi andare” disse lei cercando di sfuggire alla presa.
“Ma se ci siamo appena conosciuti” disse lui spingendola contro un edificio. Gli altri la circondarono mentre lui cercava di baciarla. Lei ora stava lottando, cercando con tutte le sue forze di liberarsi del muro di giovani.
Giuseppe non poteva permettere che questo succedesse. Uscì di corsa dal suo appartamento, scese le scale e arrivò in strada. “Ehi, lasciatela stare!” urlò.
“Non rompere il cazzo” disse uno di loro. “Questa è la nostra ragazza, non è vero, cara?”
La ragazza stava ancora lottando per liberarsi quando Giuseppe camminò verso di loro “lasciatela andare” disse.
“Altrimenti, sgorbietto? Non rompere il cazzo.”
Erano tutti girati dalla sua parte e la ragazza riuscì a liberarsi e a fuggire. Corse via, senza guardarsi indietro.
“Guarda cosa hai fatto, piccola merda” disse uno di quelli che la stavano tenendo. “Non potevi pensare agli affari tuoi, eh? Perché vuoi difendere una puttana tedesca?” Spinse Giuseppe e lo colpì con forza sul petto. “Stavo solo scaldandola” disse. Giuseppe cercò di indietreggiare quando gli altri cominciarono a spingerlo. Uno dopo l'altro cominciarono a colpirlo, sempre più forte, obbligandolo contro il muro.
“Smettetela” disse disperatamente.
“O altrimenti? Cosa farai?”
Colpì con forza Giuseppe sul mento e la sua testa andò a sbattere contro la parete alle sue spalle, lasciandolo sotto shock. Cercò di parare i colpi che seguirono, tendo alti i gomiti sui lati e i pugni davanti al suo volto per difendersi. Poteva vedere le persone venire verso di loro e, vedendo quello che stava succedendo, andare dall'altra parte della strada per evitare di essere coinvolti. Fu colpito con forza allo stomaco e si piegò, cadendo sulle ginocchia. Continuarono senza sosta a picchiarlo e calciarlo mentre era a terra. Finalmente uno di loro disse “andiamo, lasciamo perdere il piccolo bastardo” e, con un ultimo calcio, se ne andarono, ridendo, a cercare un'altra vittima.
Giuseppe rimase lì. Il sangue gli scendeva dal naso ed era piegato per il dolore. Quando cercò di muoversi, tutto il suo corpo protestò. Riuscì a mettersi sulle ginocchia. Le persone girarono al largo, pensando fosse ubriaco o peggio.
Tuttavia, una persona non andò dall'altra parte. “Sta bene?” disse una voce femminile. Si accucciò vicino a lui. “Riesce ad alzarsi? Ecco, lasci che la aiuti. Vive qui vicino?”
Lui indicò la porta aperta del suo condominio. “OK, andiamoci. Su, la aiuterò.”
Riuscì a farcela mentre lei lo aiutava a superare incespicando i gradini verso il suo appartamento, dove lei lo condusse attraverso la porta ancora aperta e lo aiutò a sedersi sul divano. Lui si distese e si lasciò andare. Il tocco di un panno freddo sulla sua fronte lo svegliò e si lamentò quando ritornò tutto il dolore. “Ssh” disse una voce. “Cerchi di stare fermo.”
Non era in grado di aprire completamente gli occhi, la pelle attorno era gonfia dove i mascalzoni lo avevano colpito. Anche quando si sforzò di aprirli, trovò difficile vedere e le lacrime cominciarono a scorrere lungo le sue guance. Alla fine, vide un volto davanti a lui e dei capelli chiari sopra di esso. La sua bocca era ammaccata e le sue labbra tagliate perciò riuscì a malapena a biascicare “Cosa? Come?”
“Mi dispiace, spero non la disturbi, l'ho aiutata a salire – ha lasciato la porta aperta. Ricorda?”
Stava ritornando in sé e si rese conto che il volto apparteneva alla ragazza bionda. “É tornata?” riuscì a dire.
“Mi sono nascosta dietro l'angolo fino a quando quei farabutti non se ne sono andati. Lo sa, è stato molto stupido affrontare quei tizi ma grazie comunque. Non so veramente come sarei stata in grado di fuggire da loro senza il suo aiuto. Spero non le dispiaccia che io sia entrata in questo modo.”
Riconobbe il suo accento come straniero – poi si ricordò che il giovinastro aveva parlato di una “puttana tedesca”. “É tedesca?”
Lei sembrò quasi vergognarsi. “Sì, è un problema?”
“No, certo che no.”
“Ma noi siamo ancora il nemico, no – gli Unni?” disse alzandosi e preparandosi ad andarsene.
“No, per favore – no. Lei non è mia nemica. La guerra è comunque finita, per favore non se ne vada.”
Lei si girò, raccogliendo il telo macchiato di sangue con cui gli aveva pulito il volto. Andò verso il piccolo lavello in cucina e lo risciacquò con l'acqua fredda. Lui cercò di alzarsi e si lamentò per l''improvviso ritorno del dolore allo stomaco e alla testa. Provò a toccarsi con attenzione il volto e le sue dita tornarono appiccicose per il sangue. “Stia fermo, ha un brutto taglio sopra l'occhio,” disse lei.
Sussultò quando lei gli risciacquò con attenzione il volto e levò il sangue. “Credo che dovrà riposare per uno o due giorni. Dovrebbe andare da un medico e fare un controllo.”
“Non posso, non posso permettermelo.”
“Beh, allora credo che dovrò prendermi cura io di lei” disse. “Dopo tutto mi ha salvato la vita.”
Lui rise, pieno di dolore. “Non credo sia necessario. Starò bene.”
“Fra qualche giorno forse, ma nel frattempo, temo che dovrà avermi come infermiera.”
“Grazie.” Riaffondò sul divano. “Bene, io sono Giuseppe Malpaiso, sono uno studente – povero, chiaramente. É tutto – non molto interessante. Lei chi è? Mi parli di lei.”
“Sono tedesca – come ha già scoperto. Anche io sono qui per studiare. Sono una infermiera tirocinante.”
“Che fortuna – essere picchiato per essere salvato da una infermiera. Parla un italiano molto buono – come mai?”
“Vivo in Baviera. Abbiamo molti contatti con gli italiani – siamo piuttosto vicini al confine austriaco e spesso scio sulle Alpi in Italia. Mio padre era un insegnante di lettere classiche e ci ha portati a Roma e in altri luoghi quando eravamo piccoli. Amava anche l'opera e il suo compositore preferito era Verdi.”
“Non Wagner?”
“No, lo riteneva prolisso e ampolloso, ma Verdi, Rossini, Donizetti – sono così pieni di vita e divertimento. In ogni caso, per questo motivo sono riuscita ad apprendere un po' di italiano e lui mi ha incoraggiata a venire qui a studiare. Era solito dire che lui era più un Romano che un Unno! Aspetti un attimo, cantò: ‘Studente son – e povero’. Gualtier Maldé – giusto?”
Giuseppe rise – e questo gli fece di nuovo dolere il volto. “Non si preoccupi, non sono un Conte, se è questo che sta pensando – suo padre, invece, è un gobbo?”
“No, lui non è Rigoletto e io non sono Gilda. Conosce le opere?”
Maria – quello era il suo nome – lo aiutò a levarsi la giacca e la camicia – entrambe lacere e insanguinate – e poi cercò di aiutarlo a togliersi la canottiera ma lui si ritrasse. “Oh, per favore, sono un'infermiera, ho già visto di tutto. Devo vedere quando gravemente è ferito.”
Con riluttanza e sentendosi sorprendentemente timido, lasciò che lei gli sollevasse la canottiera sopra la testa. Lei emise un rumore di disgusto quando vide le ammaccature che gli avevano procurato i suoi aggressori. Con gentilezza gli controllò le costole e lui trasalì quando lo toccò. “Mi dispiace. Credo che lei possa avere una costola incrinata. Non c'è molto che io possa fare al riguardo – deve solo essere paziente fino a quando guarirà.”
Lo convinse a togliersi i pantaloni e guardò i tagli e le ammaccature sulle gambe provocategli dai calci che aveva ricevuto. Gli toccò un livido e lui si ritrasse. “Mi dispiace. Le fa male?”
“No, è solo che non sono mai stato toccato lì prima – è strano.”
Dopo che lo ebbe esaminato completamente disse “Non credo che ci sia nulla di rotto, a parte le costole. Ora la metto a letto e andrò a prendere del linimento per quei tagli.”
Lo accompagnò con attenzione verso il letto, prese il suo pigiama da sotto il cuscino e, dopo avergli levato il resto dei suoi vestiti, lo aiutò a indossarlo e poi lo fece distendere. “Ha una chiave per poter entrare da sola?”
“Si sta già trasferendo qui?”
Lei arrossì. “No, certo che no, non intendevo… solo che non voglio che lei si alzi per farmi entrare, tutto qui.” Arrossì di nuovo e si affrettò a rimettersi il cappotto e a prendere la borsa che aveva lasciato sul tavolo. Prese la chiave dalla tasca rovinata dei pantaloni di Giuseppe e se ne andò.
Lui si riaddormentò di nuovo ma si svegliò quando sentì aprirsi la porta. Era piuttosto buio ma lei entrò nell'appartamento in punta di piedi senza accendere la luce. Aveva portato una borsa della spesa che mise sul tavolo e cominciò a rovistarci dentro. Lui fece rumore. “Mi dispiace di averla svegliata, ho portato alcune cose per lei.”
“Va tutto bene, non ero veramente addormentato.” Cercò di alzarsi e la staffilata di dolore proveniente dalla sua costola incrinata gli ricordò prontamente le sue ferite. Si lamentò e lasciò che lei mettesse il suo braccio attorno alle sue spalle e lo rimettesse in una posizione comoda.
Lei divenne molto professionale, aprendogli il pigiama, pulendo e applicando un linimento giallo sulle sue ferite e le sue ammaccature. Poi si assicurò che stesse bene dandogli un'aspirina per calmare il dolore. “Ho della pasta, ce la fa ad alzarsi?”
Sembrò essersi presa automaticamente la responsabilità di lui. Cucinò la pasta e gliela servì a letto, poi, dopo essersi assicurata che Giuseppe stesse bene si alzò per andarsene.
“Se ne sta già andando?” chiese.
“Sì, certo” disse lei.
“Non può restare? Potrei aver bisogno di lei di notte. Posso dormire sul divano se vuole.”
“Non so. Non è proprio corretto. Ci conosciamo a malapena.”
“Io so che lei sale in autobus ogni mattina e scende ogni sera. L'ho osservata per settimane.”
Lei sembrò leggermente scioccata. “Cosa? Mi ha osservata? Perché?”
“Oh, non lo so. Lei è diversa, ecco tutto. Si nota.”
“Straniera, intende” si stava trattenendo e cominciò ad alzarsi per andarsene.
“No, per favore, non se ne vada. Sinceramente l'ho notata perché pensavo fosse bella. Differente. E lei lo è, no? Non intendo straniera – intendo solo, lo sa, attraente.” Ora era lui che stava arrossendo.
Lei però lo stava guardando con affetto. “Lei è un po' strano, vero? Quello che ha detto è stato molto dolce. Ne sono commossa. E fare quello che ha fatto per me è stato veramente eroico.” Si abbassò e gli diede un bacio gentile sulle labbra. Lui cercò di evitare di saltare quando il suo labbro ferito gli fece male al contatto. “Mi dispiace, mi dispiace. Non avrei dovuto farlo. Non stavo pensando. Ora vado ma passerò domani mattina a controllare che lei stia bene.”
Nel corso dei giorni successivi lei venne ogni giorno nel suo piccolo appartamento prima di andare a lezione e ritornò ogni sera per preparare la cena. Si occupò delle sue ferite mentre guarivano e, mentre preparava la cena, tenne l'appartamento pulito.
Quando la sua salute migliorò, Giuseppe fu in grado di fare più cose da solo. Durante il giorno zoppicava, andava nei negozi lì vicino a comprare il cibo e ritornava a casa a prepararlo in modo che quando lei arrivava di sera poteva sedersi e mangiare il pasto che aveva preparato per lei.
“Sembra che tu non abbia più bisogno di me,” gli disse una sera.
“Cosa? Certo che ho bisogno di te” disse lui. “Come posso farcela senza di te?”
“Ce la facevi prima, no? Stai molto meglio e credo sia tempo che tu torni ai tuoi corsi.”
“Sì, sto meglio ed è così. credo. Ma possiamo incontrarci più tardi?”
“Perché no? So dove abiti e tu sai dove prendo l'autobus.”
Quella sera andarono in un bar insieme e poi tornarono nel suo appartamento per mangiare insieme la cena che lei insistette di cucinare. “Domani tocca a me” disse lui.
Nel corso delle settimane che seguirono si incontrarono quasi ogni giorno. Lui andava alla fermata dell'autobus per salutarla quando arrivava o, se le sue lezioni finivano tardi, lei lo aspettava in un bar vicino al suo appartamento. Lui le presentò alcuni dei suoi amici del suo corso ma continuarono a mantenere le loro vite separate.
Quando il suo corso stava per arrivare al termine, con l'avvicinarsi degli esami finali, gli ultimi ripassi e la preparazione impedì loro di incontrarsi così spesso. Tuttavia, colsero tutte le opportunità possibili per incontrarsi. Condividevano una passione per l’opera e comprarono i biglietti in piedi più economici a teatro per vedere una delle vecchie opere da loro preferite di Verdi, Bellini o Rossini, o una delle opere più moderne del maestro Puccini.
Il giorno del suo esame finale la portò fuori, mangiarono insieme per festeggiare bevendo champagne.
“C'è qualcosa che volevo chiederti” disse. Lei lo guardò in attesa. “Siamo buoni amici?”
“Certo che lo siamo! Che cosa te lo fa chiedere?”
“Beh, è che, sai, vorrei molto essere più di un semplice amico” arrossì violentemente. “Vedi, sono molto legato a te – sai? E spero che tu possa essere, sai, anche tu molto legata a me?”
“Sì, Giuseppe, ti sono molto affezionata. Mi hai salvato la vita, ricordi?”
“No, non in quel senso” fece una pausa, “voglio dire, credo che…”
“Cosa?” Lei lo guardò intensamente. “Cosa stai dicendo?”
Uscì tutto di getto: “Ora ho finito il mio corso di studi e può essere che debba andare lontano per trovare un lavoro – o chissà per quali altri motivi. Non riesco a sopportare il pensiero di non vederti più.” La guardò tristemente, in attesa di una risposta, ma lei restituì lo sguardo pensierosa.
“Cioè?” chiese. “Cosa vuoi che ti dica?”
“Solo, beh, ecco, credi che se io dovessi andare da qualche altra parte, saresti in grado, magari, sai – di venire con me?”
Lei sorrise gentilmente. “Perché lo vorresti? Non hai più bisogno di un'infermiera, giusto?”
“No, certo che no. Lo stai rendendo molto difficile. Quello che sto dicendo è” fece una pausa, “quello che sto chiedendo è; credi, sai, credi che potresti. Oh, maledizione, sto facendo un sacco di confusione. Quello che intendo è, io credo – no, io so – di amarti e voglio che tu stia con me, in futuro. Se capisci cosa voglio dire.”
“Beh, credo di sì. Non so come possa essere accaduto, ma neppure io riesco realmente a immaginare di stare senza di te. Perciò sì, voglio stare con te. Ma la mia famiglia…”
“La tua famiglia, cosa vuoi dire?”
“Sono piuttosto severi. I miei genitori sono morti. Sono stata allevata da mio zio. É molto rigido. Suo figlio, mio cugino Kurt, è appena tornato dalla guerra. Lo zio dice che devo tornare per prendermene cura.”
“Oh, è ferito, vero?”
“No, non credo. É molto depresso. Crede che lui e i suoi compagni siano stati traditi – che avrebbero potuto vincere.”
“Vuoi andare?”
“No, certo che no. Dovrebbe accettare quello che è successo e dimenticare la guerra. Abbiamo perso ed è tutto. Francamente è stato fortunato a tornare indietro vivo e senza ferite. Dovrebbe accettarlo e proseguire con la sua vita – è uno dei fortunati. Ma mio zio…”
“Bene, dipende da te. Tutto quello che posso dire è che sarò infelice se tu te ne andrai – e credo che anche tu lo sarai. Ti sto chiedendo” fece una pausa, “sì. in realtà ti sto chiedendo,” fece un'altra pausa “se tu saresti d'accordo nello sposarmi?”
Per Maria fu abbastanza. Si sporse sopra il tavolo e lo baciò. “Certo che lo sarei. Dovrò solo dire allo zio che dopo tutto non potrò venire.”
Poche settimane dopo, nel settembre del 1919, si sposarono con una cerimonia civile a cui parteciparono pochi vecchi amici della marina di Giuseppe oltre a sua madre e suo padre. Il suo testimone fu il tenente Gramatika. Non venne nessuno della famiglia di Maria, suo zio disse che erano troppo occupati. Le scrisse una lettera piuttosto dura augurandole il meglio ma criticandola per aver deluso la famiglia. Kurt, invece, fu più gentile. Nella sua lettera si congratulò con lei e le augurò il meglio. “Non preoccuparti di mio padre. Io starò bene. Devo solo abituarmi. Spero che riusciremo a restare in contatto e ti auguro ogni bene.”
Gramatika era stato di recente nominato governatore di Lero dopo l'acquisizione italiana. Alla festa dopo il matrimonio, parlò del suo nuovo lavoro, dicendo a Giuseppe degli interessanti sviluppi previsti per l'isola. “Lì stiamo costruendo una nuova base aeronautica e navale – non riusciresti a credere quanto sono cambiate le cose da quando siamo arrivati nel 1912. Vieni a trovarci – c'è un mucchio di lavoro da fare.”
“Ma non abbiamo raggiunto l'accordo di riconsegnare le isole ai Turchi – o ai Greci o a qualcuno?”
“Sono ai ferri corti. Sembra che i Greci vogliano cercare di ‘riprendere’ la Turchia ai turchi. I Turchi ci dicono che hanno vinto la loro parte di guerra – cacciando gli Alleati fuori dai Dardanelli. Sono addolorati perché la Germania ha perso,” qui fece una pausa e guardò Maria come per scusarsi, “e hanno un nuovo tizio, Mustafa Kemal – stanno cominciando a chiamarlo ‘Ataturk’ – che sta veramente cominciando a sembrare pericoloso. Se i Greci invaderanno rischieranno una sconfitta o anche di peggio. Insomma, questo significa che per ora resteremo nelle isole – forse anche per sempre. Dobbiamo ricavare qualcosa dal nostro investimento.”
Guardò Giuseppe. “Perché non vieni a lavorare per me? Ci servono bravi ingegneri. Ricordo come facevi andare quelle turbine sulla San Marco – potevano anche essere moderne, ma di sicuro si rompevano spesso!”
Maria intervenne, “e ora parla greco, lo sapeva?”
“No. Veramente? Sarebbe realmente utile. Stiamo usando i locali per i lavori di costruzione. Sono diligenti ma non abbiamo molti interpreti greci.”
“Beh, è un'esagerazione dire che parlo greco – sono molto arrugginito e la maggior parte delle cose che ho imparato erano di greco classico e non moderno. Alcune parole sono le stesse, ma la pronuncia e la grammatica sono cambiate e mi servirebbero molto esercizi e altre lezioni…”
A Gramatika era piaciuta subito Maria. Aveva sentito come si erano incontrati ed era rimasto impressionato da come si fosse presa cura del suo amico. Aveva già parlato con lei del fatto che fosse originaria della Germania sconfitta – i tedeschi non erano popolari nelle nazioni Alleate. “Una cosa posso garantire è che nel mio piccolo regno non c'è spazio o tempo per nessuno di questi pregiudizi. Stiamo costruendo una nazione nuova e non ho pazienza per guardarmi indietro. Sarete i benvenuti a Lero, ve lo assicuro.”
Giuseppe e Maria arrivarono a Lero nel 1920. Furono salutati con affetto dal vecchio amico di Giuseppe quando scesero dall'idrovolante atterrato a Porto Lago. Furono poi portati verso un nuovo complesso sviluppato dalla parte opposta alla nuova città costruita sulla baia. Tre enormi gru dipinte di bianco e rosso erano state erette per sollevare gli idrovolanti e portarli sulla riva e il molo era stato allargato per farli accomodare negli enormi hangar nuovi costruiti poco più in là.
Maria era già incinta e il loro figlio, Marco, nacque più tardi quell'anno nel piccolo ospedale che gli italiani avevano costruito sull'isola.
Capitolo 2
Jutland, Inghilterra e Francia 1916-1920
"Che modo veramente stupido di gestire una linea ferroviaria", disse Arnold.
La maggior parte delle corazzate e degli incrociatori da battaglia della flotta britannica erano state all'ancora a Scapa Flow per gran parte della guerra. Le navi della flotta si erano raramente avventurate in mare tranne quando la flotta tedesca aveva attaccato Scarborough, Hartlepool e Whitby nel 1914. Quella volta avevano acceso i motori e si erano dirette a sud troppo tardi per intercettare gli attaccanti tedeschi.
La sua nave, l'incrociatore da battaglia HMS Indefatigable, a quel tempo era ritornata dal Mediterraneo, dopo le operazioni nei Dardanelli e una riparazione a Malta. Ora stavano viaggiando velocemente per affrontare la minaccia della flotta tedesca che proveniva da sud. Avevano visto alcune delle navi nemiche, ma il loro comandante, l'ammiraglio Beatty, all'inizio non le aveva attaccate e neppure aveva fatto ridisporre la sua flotta in uno schieramento più aggressivo quando i tedeschi avevano aperto il fuoco
"In realtà non siamo su una linea ferroviaria", replicò piuttosto pedantemente Ernest, il suo luogotenente, "come sto continuando a dirti!"
"Già, ma perché non attacchiamo quei bastardi invece di girare intorno come anatre al tiro a segno? Mostriamo loro che non devono sfidare la marina britannica e schiacciamoli una volta per tutte!"
Questa era la lamentela costante di Arnold e anche se in gran parte erano d'accordo con lui, i suoi compagni non potevano spingersi ad ammetterlo. Giù nella loro zona degli ufficiali non si erano neppure resi conto che la battaglia era già iniziata.
Ernest si era unito alla nave solo recentemente, su distaccamento da un lavoro di ufficio nell'Ammiragliato, e non compariva ancora nell'organigramma dell'equipaggio. Era un esperto di tedesco, parlava fluentemente la lingua ed aveva avuto dei contatti con i marinai della loro flotta durante la visita dell'imperatore Guglielmo a Cowes nel 1913. Quando era scoppiata la guerra, era stato assegnato a un lavoro di intelligence, aiutare a decifrare i messaggi navali tedeschi, e gli era stato chiesto di unirsi a una delle navi da guerra della flotta per vedere come le informazioni di decodifica fossero usate nella pratica.
Suonò l'allarme. "Un'altra maledetta esercitazione" disse, mentre aspettavano che un segnalatore venisse a dare loro gli ordini. Si mise la giacca e si alzò quando un giovane marinaio entrò di corsa. "Ordini del capitano: sul ponte e alla svelta – questa non è un'esercitazione!"
"Cosa? Torna qui Higgins! Cosa vuoi dire? Che sta succedendo lassù?"
"Siamo sotto attacco. Navi da guerra tedesche, un sacco, che stanno venendo contro di noi" urlò, mentre si affrettava verso l'alloggio ufficiali successivo.
Arnold e i suoi compagni si affrettarono verso il ponte, indossando le giacche, sistemandosi le cravatte e mettendosi il cappello mentre correvano. Il ponte, sei piani sopra di loro, era pieno di ufficiali eccitati quando il comandante, all'apparenza calmo come sempre, diede un'occhiata dalla finestra.
Davanti a loro riuscivano solo a vedere il mare. Si vedevano degli occasionali sbuffi di fumo, ma il mare era calmo e immobile fino a quando udirono un ruggito sopra le loro teste. "Il tuo treno?" sussurrò Ernest. "Non è in orario, vero?" La granata atterrò con un grosso schizzo dall'altro lato seguita dal rumore dell'arma che l'aveva lanciata.
"Calmi, ragazzi, per cortesia" disse il capitano. "Signor Talbot, alla sua postazione, Signor Jenkins, per cortesia riferisca al Sottoufficiale capo per quanto riguarda le incombenze per lo spegnimento degli incendi. Signori, fatelo il più velocemente possibile."
Fu l'ultima volta che Ernest vide il suo amico. Quando lasciarono il ponte andarono in direzioni diverse, Arnold verso poppa, Ernest a prua.
Ernest scese i gradini di corsa e andò lungo coperta verso la prua. Dietro e davanti a lui poteva sentire le enormi torrette mitragliatrici della Indefatigable girarsi pesantemente verso le navi nemiche, a malapena visibili all'orizzonte, al sopra delle quali sbuffi di fumo bianco indicavano che le armi stavano sparando. Vide il sottoufficiale capo sul ponte davanti a lui. “Signor Jenkins, indossi il giubbotto di salvataggio per cortesia. Non serve a nulla tenerlo sul braccio, no?”
Infilò le braccia nello scomodo aggeggio, tirando le cinghie attorno a lui mentre raggiungeva il ponte dove c'era il sottufficiale capo. “Bene, signore. Ora, se non le dispiace.” Il sottufficiale smise improvvisamente di parlare, guardando con orrore alle spalle di Ernest.
Ci fu un improvviso rumore fastidioso, come un treno che uscisse da un tunnel a tutta velocità, un forte colpo e un bagliore di fuoco quando i proiettili colpirono la poppa della nave. L' ‘Indefatigable’ sbandò e perse il controllo. Ernest sentì un'ondata di aria calda che lo spinse indietro e lo fece girare. Rimase sconvolto nel vedere l'intera poppa coperta di fumo nero oleoso e di scure fiamme che non presagivano nulla di buono. “Mio Dio – Arnold.”
“Non si preoccupi di questo, ragazzo mio, estragga quella manica antincendio, subito.” Ordinò il sottufficiale al suo gruppo di vigili del fuoco mentre Ernest, scioccato dall'intensità delle fiamme provenienti dal retro cercava di decidere cosa fare. “Bene ragazzi, calmiamoci e usiamo quel manicotto antincendio, va bene?” suggerì il sottufficiale.
“Giusto,” disse Ernest. “Più veloci che potete, srotolate il manicotto.” Un marinaio tirò fuori il manicotto, srotolandolo dalla ruota attorno alla quale era arrotolato, mentre un altro armeggiava con il tappo pesante. “Aspetta – non accenderla fino a quando è pronto il manicotto” disse Ernest. Un altro rumore di proiettili e altri tonfi risuonarono mentre i marinai tiravano il manicotto lungo il ponte verso il fuoco nella parte posteriore. Presto l'intensità del fuoco divenne così forte che non poterono avvicinarsi di più ed Ernest diede l'ordine di aprire il pesante tappo. L'acqua proruppe nel manicotto che divenne rigido per la pressione interna. Ernest aiutò il marinaio che reggeva la parte finale a tenerla ferma e a indirizzare il getto verso le fiamme. Sembrò che non facesse alcuna differenza. L'intensità delle fiamme, alimentata dal carburante e dal legno dei ponti stava crescendo. I proiettili nelle torrette al centro delle fiamme iniziarono a esplodere con colpi sordi e inquietanti, costringendo gli uomini con gli abiti in fiamme e la carne che friggeva per l'intenso calore a correre urlanti verso i vigili del fuoco.
Il fuoco, consumato tutto il combustibile, cominciò ad essere sotto controllo e sembrò che la nave potesse reggere, anche se malridotta. Ma poi un altro proiettile a lungo raggio sparato dall'aggressore tedesco, colpì casualmente la nave nel posto peggiore possibile – la torretta leggermente corazzata nella parte anteriore – e ci fu una forte esplosione che travolse il ponte. Una palla rotolante di fiamme incandescenti andò verso i vigili del fuoco travolgendo il sottufficiale e gli uomini con lui al manicotto. Ernest sentì il manicotto afflosciarsi quando lo scoppio lo colpì e si sentì trasportato in aria, poi colpì il parapetto e finì in mare. Terrorizzato ebbe il pensiero folle "che schifo di modo per morire".
Colpì l'acqua come un sasso, rimbalzò, facendo uscire tutta l'aria dai polmoni, e ricadde di nuovo sotto la superficie. Lottando con i suoi vestiti e l'ingombrante giubbotto di salvataggio, nuotò verso la superficie, scacciando il panico. Uscì dall'acqua e disperatamente prese una boccata d'aria a pieni polmoni. Il giubbotto di salvataggio era attorno al suo mento, ma lo aveva portato a galla e le istruzioni del sottufficiale lo avevano salvato. In qualche modo era riuscito a liberarsi delle scarpe e stava fluttuando libero.
Ernest si rese conto di essere finito parecchio distante dalla nave che ora era completamente avvolta da una infernale palla di fumo e fiamme. Disperatamente cominciò a nuotare per allontanarsi, rendendosi conto che la nave poteva esplodere di nuovo in qualsiasi istante. Ma la nave colpita non esplose. Lentamente, quasi con cautela si mosse in avanti e, come una enorme anatra, mostrò la parte posteriore al cielo e quindi scivolò, con i motori ancora accesi, verso il basso con un orribile suono lacerante di risucchio, lasciando dietro di sé un turbine di acqua fumante che provò a portarlo con sé nel gorgo lasciato dalla nave che affondava. Per due, tre volte fu tirato al di sotto della superficie e, in preda al panico, fu costretto a spingersi fuori e a respirare prima di essere di nuovo tirato sotto. Alla fine – sembravano fossero passate delle ore –la pressione verso il basso si calmò e fu in grado di galleggiare, sentendo ora il dolore intenso dell'acqua salata contro la sua schiena che, senza che se ne fosse reso conto, protetta solo dalla giacca e dalla camicia che stava indossando quando era uscito di corsa dall'alloggio degli ufficiali, era stata bruciata dalla forte palla di fuoco che l'aveva gettato in mare.
Si guardò attorno alla ricerca di segni di vita – qualcuno – qualcosa. Tutto quello che fu in grado vedere, però, furono dei detriti galleggianti e qualche cappello da marinaio. Un'enorme bolla esplose con un orribile suono nel punto in cui la nave era affondata, spruzzandolo d'acqua piena di petrolio, seguita da un'ondata che quasi lo fece andare a fondo di nuovo. Se non avesse notato una grossa tavola di legno galleggiante nelle vicinanze, non avrebbe mai avuto la forza di restare a galla nell'acqua che, come si rese conto solo in quel momento, era completamente gelida.
Notò un piccolo cacciatorpediniere che si dirigeva velocemente verso il luogo dove era affondata la grande nave. L’imbarcazione rallentò quando si avvicinò e i marinai si affollarono sul ponte alla ricerca di sopravvissuti. Riuscì a sollevare un braccio e ad agitarlo debolmente verso di loro. L'imbarcazione passò oltre, facendo quasi rovesciare la sua fragile zattera. I marinai stavano guardando verso di lui, ma si rese conto che sui loro volti non c'era alcuna traccia che lo avessero notato quando cercò di urlare per sovrastare il rumore del passaggio della nave. Riuscì a sollevarsi un po' e ad agitare di nuovo il braccio, le sue grida sempre più flebili per lo sforzo, ma, questa volta fu ricompensato da uno dei marinai che all'improvviso indicò verso di lui e urlò verso i suoi compagni. Il marinaio tenne la sua mano puntata nella direzione di Ernest secondo quanto insegnatogli dagli istruttori della Marina nel classico caso di “uomo in mare”, fino a quando la nave rallentò e si girò. L'ufficiale preposto si allontanò velocemente per dare le indicazioni a un altro gruppo affinché preparassero una delle scialuppe di salvataggio del cacciatorpediniere. La barca fu calata in mare e i marinai ai remi diedero il massimo, dirigendo la piccola barca verso Ernest. Quando cominciò a perdere la presa del pezzo di legno si sentì tirato a bordo dai marinai. Mani gentili e generose lo coprirono con delle coperte e lui perse conoscenza quando lo portarono sulla nave.
****
"Vorrebbe lasciare la coperta ora, tenente? Gliene daremo una pulita e asciutta."
Ernest, ancora semi incosciente si ritrovò aggrappato alla coperta che gli avevano dato quando lo avevano salvato, come se la sua vita dipendesse da essa.
"Cosa? Oh, sì, grazie, grazie mille" disse, ma non la lasciò ancora.
Il paziente infermiere gentilmente gli aprì le dita e tolse la coperta, "ora dobbiamo svestirla e pulirla, OK."
Ernest sentì l'infermiere tagliargli gentilmente i vestiti ed emettere un suono quando vide cosa c'era sotto. "Tanto brutto?" disse gemendo Ernest, all'aumentare del dolore quando l'infermiere tirò i pezzi di vestiti a brandelli attaccati alla sua carne massacrata.
"Un bel disastro, amico. Non si preoccupi, ho visto di peggio" – non gli era mai capitato – "lo sistemeremo, non si agiti."
Continuò gentilmente a tagliare via i vestiti di Ernest, emettendo dei versi di disapprovazione mentre lo faceva. Usando dell'ovatta imbevuta d'acqua fredda, bagnò e pulì con attenzione quanto poteva, cercando di ignorare i gemiti di dolore di Ernest. “Tenga duro, non manca molto. Ecco, fatto per ora” disse, distendendo finalmente un lenzuolo sopra Ernest.
Il medico di bordo entrò. "Come è messo?" chiese all'infermiere.
“Piuttosto male: ha gran parte del corpo bruciata, ha delle ferite aperte piene di petrolio. Ho fatto del mio meglio per pulirlo ma avrà bisogno di molto più aiuto di quello che possiamo fornirgli qui."
Il dottore andò verso Ernest e sollevò il lenzuolo. "Ho veramente freddo. Può accendere il fuoco?" disse Ernest.
"Sì, lo farò fare all'infermiere". Guardò le ferite e il volto di Ernest, ora diventato grigio e privo di colore a causa di tutte le ferite aperte sul suo corpo. Sussurrò all'infermiere "Temo che questo povero tizio probabilmente sia arrivato alla fine. Lo faccia stare solo il meglio che può – morfina ogni volta che ne ha bisogno e continui a lavare e pulire quelle ferite. É tutto quello che possiamo fare – farlo stare a suo agio. Dubito che supererà la notte."
Invece ce la fece. Quella notte e molte altre. Il mattino successivo il medico rimase sorpreso nello scoprire che Ernest respirava ancora e che anche un po' di colore gli era tornato sulle guance. L'infermiere, al contrario, sembrava pallido ed esausto. "Ha fatto un gran lavoro" disse il dottore. "Come è riuscito a pulirlo così bene?"
"Dottore, non posso lasciarlo morire, sembra essere l'unico sopravvissuto- poveraccio! Ho lavorato sulle ferite e pulito quanto più petrolio e fuliggine potevo. É ancora un disastro, ma credo che le ferite principali siano pulite e che nessuna di loro sia così profonda. Le bruciature sono brutte, ma le ho pulite e l'ho fatto stare il più a suo agio possibile. Fortunatamente è rimasto privo di sensi per la maggior parte del tempo a causa di tutta la morfina che gli ho iniettato."
"Bene, si prenda un po' di riposo, ora lo controllerò."
Ernest perse e riprese conoscenza più volte mentre il dottore lo esaminava ed esplorava attentamente, fischiettando un motivetto e borbottando tra sé "sì, brutta ustione, taglio netto, non rotto. Fortunato." Aiutato da un nuovo infermiere, mise della tintura di iodio sulle ferite peggiori, mettendo dei punti qui e là, e spalmando dell'unguento sulle ustioni.
Alla fine, ebbe terminato. “Riesce a sentirmi?" chiese. Ernest annuì. "Credo – spero – che lei sia un tipo molto fortunato. Ha dei tagli e delle ammaccature molto brutti, e qualche forte bruciatura, ma non sono così brutte come sembravano prima che la pulissimo. Dovrebbe ringraziare il nostro infermiere, ha fatto un gran lavoro di pulizia su di lei. Ora le copriremo. Stiamo tornando a Scapa Flow. Dovrebbe essere in ospedale prima di domani."
La nave attraccò più tardi quella notte. L'infermiere che si era preso cura di lui all'inizio era di nuovo di turno e lo svegliò. “Come si sente, amico? Abbiamo attraccato ora, fra poco la porteremo giù.”
“Sto bene,” disse Ernest – non sentendosi bene per nulla.
“Bravo. Tenga duro.”
Gli assistenti che arrivarono per trasportarlo portarono una barella. Fecero scivolare una coperta sotto di lui, sollevando con attenzione prima le sue gambe e poi il busto. Si trattenne dall’urlare quando toccarono le sue bruciature. Quando la coperta fu a posto, quattro uomini lo alzarono con attenzione e lo portarono sulla barella che sollevarono e portarono fuori dal reparto verso il ponte all'esterno. Dovettero piegare la barella per scendere lungo la passerella per arrivare al molo e salire sull'ambulanza in attesa e lui non poté fare a meno di strillare quando le bende sfregarono contro la sua pelle rovinata.
Dopo una corsa fortunatamente breve, Ernest fu tirato fuori, trasportato in ospedale e portato in un reparto con i sopravvissuti delle altre navi britanniche – troppo pochi se paragonati al numero di marinai che erano morti in azione. Le loro sofferenze trasparivano dai loro volti grigi e dalle loro smorfie di dolore. Fu trasportato su un letto. Di nuovo il movimento della coperta fu molto doloroso ma Ernest, guardando il pover’uomo nel letto vicino al suo, si rese conto che il suo dolore non era peggiore di quello di chiunque altro. Il marinaio aveva un telo che impediva di vederne le gambe ed entrambe le mani vistosamente bendate, come pure la testa. Era disteso lì, in silenzio, privo di conoscenza, bianco come le lenzuola sopra di lui, respirando a malapena. Più tardi quella notte, quando Ernest lo guardò, i suoi respiri si fecero ancora più superficiali e meno frequenti fino a quando Ernest si rese conto che aveva semplicemente smesso di respirare. Al mattino un'infermiera arrivò. Diede un'occhiata al poveretto, uscì e chiamò gli assistenti che arrivarono e senza tante cerimonie sollevarono il corpo su una barella e lo portarono via. Solo quando il telo fu rimosso Ernest si rese conto che non c’erano entrambe le gambe.
Per molto giorni Ernest rimase nel letto d'ospedale, le sue ferite periodicamente pulite e disinfettate. In alcuni giorni il dolore era così forte che ebbe il desiderio di mollare – ma i ricordi dell'equipaggio che era morto lo fecero andare avanti. “Non morirò, non morirò – non avranno anche me” fu il suo mantra.
Più tardi fu trasferito in un ospedale a Londra specializzato nel trattare le ustioni come le sue. Il suo corpo era sfregiato ma stava guarendo. Il dolore stava diventando un ricordo sbiadito, anche se la rigidità delle cicatrici sulla sua pelle bruciata, che tiravano le ferite che stavano guarendo, continuava a fargli compagnia.
All'inizio del 1918 fu in grado di tornare dalla sua famiglia a Deal nel Kent, per completare la convalescenza. Anche se provava ancora dolore per le ustioni, che dovevano essere medicate ogni giorno, i tagli erano guariti e le sue ammaccature era tutte scomparse.
Come gli avevano detto i medici prima di dimetterlo, ogni giorno, per stare in forma e recuperare, camminava per un paio di chilometri da casa sua lungo il Church Path – un bel sentiero tranquillo che attraversava solo un paio di strade prima di arrivare al mare. All'inizio questa camminata gli richiese più di due ore faticose e dolorose. In ospedale gli erano stati dati dei bastoni da passeggio e vi si appoggiò con forza. Era completamente preso dallo sforzarsi nel fare un passo doloroso dopo l'altro. A poco a poco, però, la forza ritornò e fu in grado di godersi il tepore quando arrivò l’estate.
Aveva un controllo settimanale presso un medico, il dottor Field, di stazza presso la caserma della Marina a Walmer. All'inizio Field aveva dovuto controllare le bende e assicurarsi che le ferite stessero guarendo bene. In seguito, tolse i punti e disse a Ernest che non c'era più bisogno di vederlo ogni settimana. “Sta facendo buoni progressi, Tenente. Lei come si sente?”
“Piuttosto bene nel complesso, dottore. Ma continuo ad avere gli incubi.”
“Sì, me ne ha già parlato. Non è sorprendente visto quello che ha passato.”
“Sento che mi cedono completamente i nervi. Mi sveglio la maggior parte delle notti madido di sudore freddo e non riesco a tornare a dormire. Vedo i marinai che scompaiono in una palla di fuoco davanti a me e io sono come bloccato al suolo. Voglio aiutarli ma sono terrorizzato.”
“Come le ho detto, non è per nulla sorprendente. Sia paziente, sta andando veramente bene. Ha ancora bisogno dei bastoni?”
Ernest indicò l'unico bastone vicino alla sua sedia. “Come vede, ora sono passato a uno. Suppongo di non averne realmente bisogno ma è rassicurante averlo con me.”
“Credo che una volta che smetterà di usarlo, si sentirà molto meglio.”
All'inizio dell'estate, smise di usare i bastoni. Ogni giorno, arrivato al mare, camminava lungo il molo in mattoni dove le barche dei pescatori ondeggiavano sul mare attaccate a grosse funi collegate a grossi argani ancorati sulla spiaggia. Il rumore delle onde sulla spiaggia di ciottoli divenne il suo compagno e apprezzò molto la vista al di là dell'acqua grigia verso Goodwin Sands dove, in una giornata limpida, si potevano chiaramente vedere gli alberi delle navi affondate.
“Grazie a Dio anche io non sono lì” pensò.
I suoi appuntamenti con il dottor Field erano ora a cadenza mensile e nell'agosto del 1918, ebbe il suo controllo finale.
“Come si sente ora?” chiese il medico.
“Fisicamente bene. Ho camminato molto e anche fatto qualche breve corsetta sul bagnasciuga. Non sono riuscito a convincermi ad entrare in acqua – troppi brutti ricordi.”
“Bene, credo che lei sia pronto per tornare in servizio. Tuttavia, suggerirei che lei faccia un lavoro d'ufficio per alcuni mesi fino a quando saremo realmente sicuri che è fisicamente in forma. Non mi ha detto che una volta lavorava in Ammiragliato?”
“Sì, esatto. Parlo tedesco e traducevo documenti – codici, quel genere di cose.”
“Bene. Suggerirò che lei torni per ora a far quello. Se più avanti si sentirà forte a sufficienza forse potrà riprendere il servizio in mare. Ora però ci sono gli americani e dubito che durerà molto a lungo.”
Così, a settembre, fu richiamato a svolgere servizi leggeri presso l'Ammiragliato, giusto in tempo per vedere la sconfitta delle forze tedesche nel novembre di quell'anno. Venne a sapere poi di essere stato solo uno dei tre che erano stati così fortunati a sopravvivere al catastrofico affondamento della ‘Indefatigable’ nella battaglia dello Jutland. In realtà, visto che era stato assegnato a quell'incarico in una data così ravvicinata a quel terribile giorno, lui non compariva neppure nella lista degli uomini imbarcati sulla nave. Nonostante la sua terribile esperienza, almeno era sopravvissuto alla guerra, contrariamente a molti dei suoi compagni.
Non tornò mai più di nuovo in mare, fino all’ultima volta.
****
Il superiore di Ernest entrò nel suo ufficio poco dopo l'Armistizio. "Lei parla tedesco piuttosto bene, vero?" Non aspettandosi una risposta – la domanda era completamente retorica – proseguì "ci serve che vada in Francia. La commissione dell'Armistizio si sta riunendo per discutere i termini della resa. Dobbiamo decidere cosa fare per quanto riguarda la marina tedesca e dobbiamo trarne il massimo vantaggio. Si sente in grado di farlo? So che era nello Jutland, è in grado di reggere questa situazione?"
"Sì, credo di sì. Ormai l'ho superata."
Non era vero, stava ancora dormendo male e si svegliava spesso da un sogno in cui sentiva i terribili rumori della nave che scompariva sotto il mare. Le ustioni e le ferite erano guarite, ma le cicatrici tiravano dolorosamente la sua pelle per ricordargli la sua disavventura. Doveva andare avanti – e cosa c’era di meglio se non aiutare a costruire la pace?
Il suo viaggio a Parigi da Cricklewood, in un giorno tetro, nuvoloso e umido, fu la prima volta che salì in aereo. Il bombardiere Handley Page riconvertito non era molto confortevole – freddo e rumoroso. Il suo sedile era un pezzo di tela sopra a una montatura di metallo, che scavava nelle sue cosce e di cui poteva sentire il freddo del metallo anche attraverso il suo caldo pastrano della marina. I motori andarono su di giri, e sentì l'aereo rilasciare i freni. Poi sbandò lungo la pista in erba e sentì la coda alzarsi mentre accelerava. Si aggrappò al sedile quando l'aereo si mosse pesantemente lungo il terreno, temendo che potesse proseguire fino a colpire gli edifici che aveva visto alla fine della pista. Con i motori che rombavano, l'aereo si sollevò, inizialmente in modo piuttosto riluttante, e vide gli edifici dell'aeroporto passare sotto di loro mentre a poco a poco salivano. Passarono sopra la parte occidentale di Londra e si diressero verso sud. Dopo poco meno di un'ora, superarono le scogliere e una spiaggia e attraversarono le torbide acque. Sotto di loro navi da carico passavano la Manica in entrambe le direzioni, portando merci a e dai porti indaffarati di Olanda e Gran Bretagna. Il mare era marrone e punteggiato dalla spuma delle onde. Rabbrividì ricordando l'ultima volta che aveva visto il mare dall'alto mentre era sul ponte della ‘Indefatigable’ destinata ad affondare. Si sentì sollevato quando raggiunsero la costa francese e cominciarono ad abbassarsi verso terra all'aeroporto di Le Bourget. L'aereo discese verso una pista in erba che sembrò scorrere sempre più velocemente sotto di loro mentre si avvicinavano. Con un brusco sbandamento, colpì il terreno e sentì azionare i freni e rallentare i motori.
L'aereo si diresse verso una tenda sull'erba e gli si fermò vicino. Un uomo era in piedi proprio vicino all'entrata della tenda, elegante e ben vestito in un cappotto scuro alla moda con una sciarpa di seta attorno al collo, guanti in pelle e un cappello di feltro in testa. Ernest notò che, nonostante il tempo umido, le sue scarpe luccicavano. L'uomo aspettò che i motori dell'aereo smettessero di girare e si fermassero e poi andò verso lo sportello per salutare Ernest. Non porse la mano ma fece un leggero inchino e disse, "Comandante Jenkins? Lieto di conoscerla. Il mio nome è John Smith – non è uno pseudonimo, glielo assicuro."
John Smith aveva un aspetto aperto e amichevole e a Ernest piacque subito quel giovane. In auto verso Parigi, Smith lo ragguagliò sul piano di ridurre la marina tedesca a una forza puramente difensiva. "Il problema sono i francesi. Vogliono la loro parte e molto di più. La Germania andrà completamente in bancarotta se faranno come vogliono loro."
"Non posso dire che mi importi particolarmente" disse Ernest, "hanno cominciato questo disastro e si meritano la punizione adeguata se vuole sapere il mio parere."
"Forse. Mi han detto che lei era nello Jutland?"
"Sì e anche nel bagno di sangue che c'è stato."
"Spero non le dispiaccia quello che sto per dire, ma vorrei che cercasse di metterlo da parte, se può. Siamo stati tutti colpiti in modo piuttosto sanguinoso – da entrambe le parti. Quello che vogliamo fare ora è di andare avanti in modo che questa guerra che abbiamo combattuto sia l'ultima, OK?"
"Sì, sì, certo". Ernest si sentì a disagio per quello che aveva detto Smith. “Lei dove era?”
“La Marna, Ypres, la Somme; maledettamente fortunato, lo posso dire. Devo avere qualcuno che mi protegge, sono stato ferito un paio di volte, non troppo seriamente, grazie a Dio, e alla fine mi hanno lasciato tornare a casa quando si sono resi conto che non sarei stato di molto aiuto – difficile premere un grilletto, capisce.”
Alzò la sua mano destra e Ernest si rese conto che dentro al suo guanto elegante c'era solo un pugno di legno.
"Ho capito che lei parla tedesco. Fluentemente?" disse Smith.
"Piuttosto bene, sì."
"Come mai?"
"Beh, ho avuto molti contatti con i tedeschi prima della guerra. Vivevamo a Deal, e andavo in barca, quindi li incontravo alle regate. Ho studiato un po' di tedesco a scuola così ho potuto rinfrescarlo quando ci siamo trovati tutti assieme."
"Veramente? É stato a Cowes?"
"E in altri posto, ma, sì, ero lì quando il ‘Meteor’ ci ha battuti di nuovo."
"Lo yacht del Kaiser Bill? Ho sentito che era decisamente buono."
Iniziarono a parlare di yacht – un argomento che si rivelò di reciproco interesse – e proseguirono fino a Parigi. L'auto li portò a uno dei grandi riccamente ornati di Quai D’Orsay, dove c'erano alcuni degli uffici della Commissione per la Pace. Smith lo guidò in una grande stanza piena di dattilografe e impiegati e poi in un piccolo ufficio.
“Questo è il suo ufficio. Mi dispiace, è piuttosto piccolo – siamo in molti a lavorare qui.”
La scrivania era piena di fogli e cartelline e Smith le indicò con aria di scusa. “Il suo lavoro, temo – letture arretrate” disse. “Le abbiamo destinato una segretaria – la farò venire e si presenterà da sola. Le mostrerà dove sono le cose. Forse potremo cenare assieme una di queste sere, una volta che si sarà sistemato.”
Pochi minuti dopo che Smith se ne fu andato, una ragazza dall'aspetto piuttosto stressato entrò e si presentò come la sua segretaria, Jane, e gli mostrò dove erano tutte le cose. “Le hanno procurato alcune stanze in un appartamento in ‘Boule Miche’. Le darò una mappa – è proprio qui vicino.”
Ernest iniziò a lavorare alla pila di documenti. Il loro contenuto piuttosto arido e noioso riguardava le discussioni tra gli Alleati e i rappresentanti tedeschi e alcune note sulle posizioni di negoziazione delle parti. Era chiaro che i francesi non avevano alcuna volontà di essere flessibili, che gli inglesi e gli americani erano più preparati a un compromesso e che i tedeschi, alcuni di loro almeno, non volevano ammettere che la responsabilità della guerra spettava interamente a loro o che in realtà l'avevano persa.
Esausto alla fine della prima giornata, Ernest lasciò l'edificio dopo essersi assicurato di avere un pass per tornare il mattino successivo. Jane gli aveva data una mappa per mostrargli la strada per arrivare al suo appartamento e lui la seguì, camminando lungo la strada vicino alla Senna verso la Isle de la Cité e girando poi a destra quando arrivò al Pont Saint Michel, lungo Boulevard Saint Michel.
L'appartamento era in un edificio alto, proprio vicino alla Sorbona. Era in un quartiere carino anche nel periodo successivo alla tremenda guerra che aveva quasi distrutto la città. La via, costeggiata da tigli, era immacolata e la sua strada acciottolata ospitava studenti che andavano e venivano dalle lezioni e c’erano bar aperti giorno e notte. La musica – soprattutto jazz, una nuova moda importata dagli Stati Uniti – usciva nelle strade mentre passava. La porta di ingresso dava su un cortile dove la tipica portinaia francese sedeva alla sua finestra guardando con sospetto chiunque passasse. Ernest andò verso la sua porta. “Il mio nome è Smith” disse, in francese, “Credo che qui ci sia un appartamento riservato per me”.
La portinaia bofonchiò un sì e gli porse un portachiavi con una chiave grande e una piccola. “Quella grande è per la porta esterna, che di notte è chiusa. La più piccola è per il suo appartamento, terzo piano, numero due. Non dia le sue chiavi a nessuno – i visitatori non sono i benvenuti a meno che non siano accompagnati dai miei inquilini.” Lo guardò severamente, “non voglio nessuno di notte. Se vuole fare una festa, la faccia da qualche altra parte.” Detto questo, tornò nella sua stanza e chiuse la porta prima che Ernest potesse rispondere.
Ernest fu molto occupato al Quai d’Orsay. Prese l’abitudine di fermarsi in uno dei bar studenteschi tornando verso casa dopo il lavoro per vivere l'eccitante atmosfera del dopo guerra. Nel frattempo, Smith stava diventando un buon amico e gli fece vedere la città nei loro giorni liberi. Quando la primavera lasciò posto all'estate, camminarono lungo le rive del fiume, scrutando le bancarelle dei libri in svendita. Si sedevano nei caffè lungo il marciapiede e confrontavano le loro esperienze di guerra. Smith era rimasto mutilato durante la seconda battaglia della Somme quando un proiettile di mitragliatrice gli aveva fatto a pezzi il polso. La ferita si era infettata e alla fine i chirurghi avevano dovuto amputargli la mano. “Brutto inconveniente – ho dovuto imparare a scrivere con la sinistra, se capisci cosa intendo. Comunque, poteva andare peggio – almeno ho avuto una scusa quando i miei di sono lamentati che non davo notizie.”
Il lavoro di Ernest consisteva soprattutto nel tradurre testi tedeschi per la Commissione. Mentre lavorava divenne sempre più convinto che, come aveva detto Smith, stessero facendo un grosso errore nel punire i tedeschi così duramente. Fino a quando fosse stato raggiunto effettivamente un accordo, i paesi erano ancora tecnicamente in guerra, ma sotto un Armistizio. Questo significava che, se i tedeschi non avessero accettato i termini della resa, la guerra poteva riprendere, ma con i tedeschi in una situazione indifendibile. Questo rendeva molto nervosi Ernest e i suoi colleghi. “Non possiamo veramente andare di nuovo in guerra, vero?” chiese a Smith.
“No, è solo un bluff. I francesi stanno giocando al gatto col topo con i tedeschi, per avere quanto vogliono.”
“Giocando? Stai scherzando!”
“No, purtroppo no. I francesi – e noi e, in misura minore, gli americani – vogliono la loro vendetta. Ma non preoccuparti, non ci sarà un'altra guerra. Ora hanno concordato con le nostre condizioni.”
“Sì, ma sembra che questo li manderà in una completa bancarotta. Conosco i tedeschi molto bene e temo che se andremo avanti con tutti questi risarcimenti di guerra, creeremo solamente un altro mostro.”
“Spero che tu abbia torto, Ernest. Questa non era la ‘guerra per terminare tutte le guerre’?”
Ernest gli lanciò un'occhiata torva. “Spero sia veramente così. Vedremo.”
La sua prima assistente, Jane, riuscì a farsi rimandare in Inghilterra e fu sostituita da una ex Wren piuttosto carina di nome Margaret. Era stata nelle Wren durante la guerra ed era rimasta a libro paga del governo dopo che il loro corpo era stato dismesso. Era stata assegnata alla Commissione per l'Armistizio perché parlava francese.
Smith gliela presentò e lui ne fu immediatamente impressionato. Aveva un'aria intelligente e comprensiva al contrario di Jane, che aveva passato la maggior parte del tempo a lamentarsi di essere intrappolata in città. Interrogò il suo amico su di lei. “É un bel tipo – in realtà non il mio genere, ma piuttosto carina. Ma dico, non ti starai mica innamorando?”
“Certo che no!” disse Ernest imbarazzato. “Ma in realtà non so nulla di lei.”
“Oh, è tutto molto semplice. Suo padre è un parroco da qualche parte sulla costa meridionale. Aveva un fratello, credo, ma è stato ucciso sulla Marna all'inizio della guerra. Si è unita alle Wren per dare una mano durante lo sforzo bellico – credo lavorasse come autista. Sembra abbia studiato da segretaria e a causa del suo lavoro con le Wren, aveva un buon grado di nulla osta nella sicurezza ed è stata assegnata alla Commissione per l'Armistizio quando è finita la guerra. Credo che sua madre sia mezza francese e per questo è stata un contatto utile qui.”
“Sai che ti dico: la mia ragazza è una sua buona amica. Perché non organizziamo una serata insieme?”
“Sì, perché no? Sarebbe divertente.”
Un paio di giorni dopo Smith lo invitò ad andare a un varietà alle Folies-Bergère: “un po' spinto, mi sa” disse Smith “donne nude, così sembra.”
Lo spettacolo fu, in effetti, audace rappresentando le “piccole donne nude” di Paul Derval che divenne il segno distintivo del varietà. Sebbene mostrassero tutto, fu piuttosto tranquillo – fondamentalmente quadri statici dove il sesso era del tutto soppresso. Fu audace ma poco solleticante. Ernest all'inizio fu imbarazzato per la sua accompagnatrice, ma Margaret sembrò essere di larghe vedute e lei e l'amica di Smith, Pauline, risero per alcuni degli effetti e parlarono in modo entusiastico degli elaborati costumi succinti.
Dopo lo show, Ernest accompagnò Margaret agli alloggi che lei e Pauline condividevano, lasciando Smith e la sua ragazza per conto loro. “Un po' scandaloso, no?” disse Ernest.
“Suppongo di sì. Ma era anche piuttosto coraggioso, no?”
“Non l'ha sconvolta, quindi?”
“No, certo che no. Ho pensato che le donne nude fossero piuttosto divertenti, no?”
“Sì, ora che me lo dice, lo erano” disse Ernest, poi scoppiò a ridere, “Che strana conversazione! ‘Divertenti’ – ‘Pruriginose’ sarebbe una parola migliore.”
“Ne è rimasto solleticato quindi?”
Ernest arrossì e balbettò ma Margaret gli mise una mano sul braccio “non si senta imbarazzato, sto solo scherzando. Ho trascorso una piacevole serata, grazie.”
Nel corso delle settimane successive, cenarono assieme alcune volte, talvolta con Smith e Pauline, altre solo loro due. Andarono a qualche spettacolo o in qualche bar ad ascoltare del jazz dal vivo, una musica che entrambi amavano. Una di quelle sere, dopo un concerto jazz a particolarmente buono, Ernest propose che andassero nel suo appartamento a bere un caffè.
“E la tua portinaia?” chiese Margaret.
“Dovremo solo intrufolarci silenziosamente.”
Camminarono lungo la strada verso l'appartamento. Ernest lentamente prese la mano di Margaret e sentì lei stringergli le dita e appoggiare la sua testa sulla sua spalla. Arrivati al condominio, Ernest silenziosamente estrasse la chiave, la mise nella serratura e la girò per aprire la porta. Lentamente la spinse e, con un cigolio, si aprì. Entrarono e salirono le scale fino al suo appartamento. Aprì la porta e fece entrare Margaret.
Lei si sedette su una piccola sedia vicino a un tavolino mentre Ernest si mise a preparare il caffè. Le offrì un brandy, ma lei rifiutò. Lui portò il caffè sul tavolo e si sedette sull'unica altra sedia presente nella piccola stanza.
“Piuttosto piccolo, no?” disse Margaret.
“Sì, fortunatamente non passo molto tempo qui e perciò non ha molta importanza. É grande abbastanza per me.”
Margaret guardò il piccolo scaffale pieno di libri vicino al letto. “Oh, ti piace Flaubert?” disse.
“In realtà no – sto solo provando a interessarmi. Il mio francese non è in realtà così buono, temo.”
“Mi piace Madame Bovary – molto romantico.”
“È tragico – questo in realtà mi scoraggia, troppo cupo.”
“Perché?”
“C'è stata anche troppa sofferenza recentemente, senza dover leggere della povera Madame B che si avvelena.”
“Hai avuto una guerra così terribile?”
Raccontò a Margaret dello Jutland, e di come a poco a poco si era rimesso dalle ferite, “ma ancora mi sveglio di notte sudando freddo e vedendo quei poveri marinai avvolti dalle fiamme.” Sussultò.
Margaret si alzò e andò dietro alla sedia di Ernest. Dopo avergli messo gentilmente le braccia attorno al collo, gli sussurrò “povero caro. Che orrore. Vorrei poterti aiutare.” Poi sussurrando dolcemente come se fosse un bimbo piccolo lo fece dondolare lentamente.
Ernest sentì la sua tensione sciogliersi e le lacrime inondare i suoi occhi. Improvvisamente non fu più in grado di trattenerle e cominciò a piangere. Piegandosi sulle braccia di Margaret si lasciò andare. Il suo dolore e la sua sofferenza emersero e si arrese alle sue carezze gentili e comprensive mentre lei gli sussurrava, “qui, qui, amore mio, sono qui, mi prenderò cura di te.”
Dopo pochi minuti, ritornò in sé. Mise le sue mani sulle braccia di Margaret e gentilmente le spostò. Girandosi, prese il suo viso tra le mani e si baciarono dolcemente.
Lei si allontanò e guardò l'orologio vicino al letto. “Oh, è già quest'ora? Devo andare – chiudono la porta dopo mezzanotte.”
“Ti accompagno.”
“No, tesoro, va bene. Ti vedrò domani. Ma faremo meglio a vederci fuori di qui, non vogliamo che la tua portinaia si faccia un'idea sbagliata!”
La aiutò a mettersi la giacca e scesero le scale in punta di piedi. Ernest aprì la porta e lei uscì dietro di lui. Quando fu per strada si girò e gli diede un bacio molto dolce sulla fronte. Lui fece per tirarla verso di sé ma lei gli mise un dito sulle labbra e dolcemente lo allontanò. “Buona notte, amore mio” disse prima di girarsi e andare verso casa.
Il mattino successivo si incontrarono, sentendosi un po' come degli scolari disubbidienti. Esternamente lavoravano come prima, ma il loro segreto era chiaro per gli amici e per i colleghi nonostante tentassero di nasconderlo.
A Ernest e Smith venne detto di andare a Londra per parlare del lavoro fatto a Scapa Flow per smantellare la flotta tedesca. Smith organizzò affinché prendessero un ferry da Dieppe, poi un treno per Londra, ma Ernest lo convinse che avrebbero dovuto volare di nuovo. Il pensiero di andare per mare lo terrorizzava ancora. Fecero lo stesso itinerario che Ernest aveva già fatto e si registrarono in un hotel a Westminster.
A cena quella sera, Smith era ansioso di scoprire di più su Ernest e Margaret. “Tu e Maggie sembrate essere diventati piuttosto amici” osservò.
Ernest si ritrovò ad arrossire. “Sì, è una gran brava ragazza.”
“Gran brava ragazza? Tutto qui? Sembra che tu sia piuttosto preso da lei.”
“Oh, non so. Siamo usciti alcune volte, è una buona compagnia.”
“Dai Ernest, è al tuo amico che stai parlando.”
“Va bene. É stata un vero toccasana. Avevo questi incubi orribili e sembra che mi abbia aiutato a scacciarli.”
“Ragazza notevole. Perciò avete dei progetti, no?”
“Progetti? Non direi – non abbiamo parlato di quello.”
“Quello?”
Ernest rimase in silenzio.
“Ernest, tu hai bisogno di un consiglio da un amico e io te lo darò. Spero che dopo saremo ancora amici” Smith fece una pausa. “Maggie è una ragazza meravigliosa, lo so io e lo sai anche tu. É anche follemente innamorata di te” Ernest fece per interromperlo ma Smith lo bloccò. “Non interrompermi: innamorata” sottolineò, “e credo che tu provi lo stesso per lei. Ora potresti andare a caccia per anni e non trovare nessuno di più adatto per te. Perciò il mio consiglio è, solleva la questione. Non te ne pentirai, te lo prometto.”
“Innamorata, veramente?” Ernest non fu grado di trattenere un sorriso di piacere a sentirlo. “Come lo sai?”
“Ernest Jenkins, Tenente comandante Jenkins, devi pensare che siano tutti ciechi. Il modo in cui vi guardate, è chiaro come il sole.”
“Ma se hai torto e glielo chiedo, sarebbe troppo imbarazzante.”
“Segnati le mie parole, giovane Ernest, non andrà male.”
Dopo il loro incontro presso l'ammiragliato ritornarono a Parigi. Ernest andò nel suo ufficio il giorno successivo e, quando vide Margaret arrivare, il suo cuore sobbalzò. Arrossì e guardò da un'altra parte. “Ciao straniero” disse, “bel tempo a Londra?”
Lui parlò di un incontro produttivo, di molte informazioni da apprendere, di relazioni da scrivere e di lavoro da fare.
Lei sembrò un po' mortificata. La stava trattando come una segretaria più che come quell'amica che pensava fosse diventata. Scoraggiata dai suoi improvvisi modi freddi, divenne brusca e professionale, porgendogli la posta che era arrivata mentre era stato via e chiedendogli se c'era qualcosa di particolare che voleva che lei facesse.
“No, nulla per il momento. Ho lasciato alcune lettere in uscita, forse potresti batterle a macchina?”
Lei lasciò la stanza confusa e un po' arrabbiata. Si sedette alla sua scrivania e provò a lavorare, ma il suo tono sbrigativo l'aveva realmente turbata e decise di mettere le cose in chiaro con lui. Arrivò un messaggero con un appunto per lui e lei lo portò nel suo ufficio chiudendo la porta dietro di sé.
“Ernest, cosa è successo? Cosa c'è che non va? Sembri così freddo. Ho fatto qualcosa che ti ha turbato?”
“Turbato? No, certo che no.” Sembrava completamente a disagio. “É solo che,” fece una pausa, goffamente, “É solo che devo dirti qualcosa.”
“Dirmi qualcosa? Cosa? Cosa diavolo stai dicendo? Non mi dirai che sei sposato o qualcosa del genere, vero?”
“Sposato? No!”
“Bene, allora, vuoi dirmelo? Cosa è successo?”
“Solo che, sai, solo che… Beh, sai.”
“Non lo so, Ernest” stava cominciando a diventare rossa, irritata.
“Beh, va bene. Ho pensato. Ci piacciamo, no?” Lei annuì con cautela. “Beh, bene. Sì. La cosa è, mi sono domandato se, forse, potresti considerare…”
Fece di nuovo una pausa, arrossendo. Lei iniziò a picchiettare con il piede piuttosto irritata. “Considerare cosa? Un trasferimento, il prezzo delle prugne, la situazione mondiale – cosa?”
“In un certo senso, sai” vide la sua espressione e si affrettò “beh, in realtà, di sposarmi.” Le parole uscirono di getto, “So che non sono un granché, mezzo storpio, un po' svitato, piuttosto timido e realmente goffo ma credo veramente che potremmo stare bene insieme, se capisci cosa voglio dire.” Mentre lo diceva aveva rivolto lo sguardo verso il pavimento completamente a disagio. Sentì lei venire verso di lui e sollevargli il mento per guardarlo negli occhi. Fu sorpreso di vedere le lacrime nei suoi occhi e, allo stesso tempo, una grande sorriso sul suo volto.
“Stupido, certo che lo voglio. Lo aspetto da una vita. Se tu non me l'avessi chiesto ho pensato che avrei dovuto chiedertelo io il 29 febbraio del prossimo anno!”
"Veramente? Sul serio? Accidenti, grazie… voglio dire, caspita, non posso crederci!" i suoi modi cambiarono completamente e la prese tra le braccia proprio quando entrò il suo superiore.
“Oh, mi dispiace interromperla, ma potrebbe mettere giù la sua segretaria per un attimo, vorrei parlare del suo viaggio. Se riesce a trovare il tempo, va bene?”
Si separarono e Margaret uscì dalla porta. Ernest sembrava imbarazzato quando il comandante la guardò uscire. “Forse le congratulazioni sono all'ordine del giorno?”
Il sorriso di Ernest diceva tutto, “beh, sì, in realtà, si. É che…”
“Amico non serve dire altro. Quando sarà sceso dalla sua nuvola venga nel mio ufficio, va bene?”
Pochi mesi dopo che fu firmato il trattato di Versailles, all'inizio del 1920, in una fredda giornata di febbraio dopo essere tornati a Londra, Ernest e Margaret si sposarono nella chiesa del padre di lei con una tranquilla cerimonia. John Smith fu il suo testimone e Pauline la sua damigella d'onore. Si trasferirono nella casa dei genitori di Ernest a Deal dopo una breve luna di miele in Galles ed Ernest fu in grado di organizzare un trasferimento presso la base navale di Dover dove proseguì il suo lavoro.
Alla fine dell'anno nacque il loro primo figlio, Godfrey, seguito, diciotto mesi dopo, da una bambina, Elizabeth.
Capitolo 3
Germania 1918-1920
Kurt Müller era imbarazzato. Seduto in un'ambulanza piena di soldati feriti che si lamentavano, provò vergogna per il fatto che la sua ferita fosse così insignificante. Anche la sensazione di sollievo per il fatto di abbandonare le linee tedesche che stavano rapidamente per crollare non era sufficiente per lenire la sua vergogna.
Era stato in prima linea sulla Somma per circa dodici mesi dopo essersi offerto volontario per servire la sua patria anche se era un po' più vecchio della media dei soldati. A quel tempo, lui e i suoi compagni avevano subito una vera batosta dagli Alleati che, insieme alle truppe americane, attaccavano le loro linee da sottoterra con mine terribili e dall'alto con i carri armati resistenti al fuoco delle mitragliatrici che il suo plotone aveva usato con così grande successo in passato per falciare gli attaccanti che attaccavano a piedi.
Il suo lavoro specifico era stato quello di riparare le mitragliatrici quando si inceppavano. Quando si era unito alle truppe, l'ufficiale di reclutamento gli aveva chiesto se aveva qualche abilità particolare, e lui aveva risposto che era bravo a riparare gli orologi.
“Riparare orologi? A che ci serve? Gli ufficiali qui hanno orologi per dir loro quando coordinarsi e sferrare gli attacchi ma, a parte questi, non ci sono altri orologi.” Ci pensò un attimo. “Ci sono, forse potrebbe riparare fucili? Le nostre mitragliatrici si inceppano sempre e ci serve un esperto in grado di aggiustarle se i fucilieri non sono in grado di capire cosa c'è che non va.”
Quindi a Kurt era stato fatto un breve addestramento sulla mitragliatrice standard MG 08, l'arma mortale usata dall'esercito tedesco. L'arma era fondamentalmente affidabile, ma qualche volta i proiettili si inceppavano e, anche se i casi semplici potevano essere risolti dai fucilieri, qualche volta i problemi erano più gravi e c'era la necessità dell'intervento di uno specialista.
La settimana precedente al suo viaggio in ambulanza, mentre riparava del filo spinato appena al di là delle loro postazioni, si era procurato un taglio profondo. Anche se l'aveva pulito e bendato, l'acqua non era chiaramente pulita abbastanza e la ferita si era infettata a tal punto che uno dei medici militari aveva deciso di mandarlo indietro per farla pulire adeguatamente altrimenti avrebbe rischiato la sepsi. Nulla fu in grado di dissuaderlo e così Kurt ora si ritrovava nella invidiabile posizione di allontanarsi dalla battaglia con uomini "veramente" feriti.
La linea tedesca si stava sfaldando. Gli eserciti alleati erano in condizioni mentali migliori e di gran lunga meglio equipaggiati da quando gli americani erano entrati in guerra, mentre lui e i suoi commilitoni erano decisamente prostrati. La Germania stava perdendo e i suoi eserciti erano sistematicamente costretti verso la linea di Hindenburg – che segnava il confine del territorio tedesco prima della guerra. Kurt, sebbene si rendesse conto che il suo contributo sarebbe stato insignificante, voleva disperatamente dare una mano per salvare la sua amata patria dalla sconfitta. Come molti dei suoi commilitoni, sentiva che i leader tedeschi, si erano imbarcati in una guerra folle, avevano rovinato il loro grande esercito, e ora si stavano preparando a tradirli con una resa vergognosa.
Il dottore che si occupò della sua ferita fu comprensivo con il suo desiderio di tornare al fronte. "Capisco perfettamente come si sente, Unteroffizer, ma non credo che rimandarla indietro sia di aiuto per qualcuno. Non sappiamo neppure dove sia la linea ora e, inoltre, se torna indietro, è molto probabile che contrarrà una setticemia che la ucciderebbe in modo molto più efficace di un proiettile inglese!"
"Cosa posso fare? Si aspetta che me torni semplicemente a casa e mi dimentichi la guerra?"
"Date le circostanze, sì, sarebbe probabilmente la scelta migliore. Torni a casa."
Kurt fu caricato su un treno che portava i feriti in Germania. Si mosse a singhiozzo per alcune miglia, poi si fermò a un binario di incrocio per far strada a un treno che andava nella direzione opposta e che trasportava giovani dall'aria spaventata verso il massacro. Alla fine, fu ordinato di scendere sui binari. “Ora dovrete camminare; questo treno è stato requisito.”
“Da chi?”
“Dal quartier generale; devono preparare una nuova sede e devono portarci la loro roba.”
Kurt e gli altri uomini feriti in grado di camminare furono fatti scendere e lasciati a trovare la strada del ritorno per conto loro, mentre gli odiati generali e il loro staff viaggiavano comodamente allontanandosi dalla battaglia. Si unì al gruppo di uomini abbattuti, che si trascinavano verso casa, infreddoliti e affamati. Uomini accecati dai gas – spesso i loro stessi gas rimandati indietro quando il vento cambiava – con gli occhi coperti da bende sporche, erano guidati da uomini che vacillavano sulle stampelle o con le braccia che erano state strappate dai loro corpi. Uomini feriti meno gravemente che potevano camminare, come Kurt, furono costretti a trasportare barelle con uomini feriti in modo orribile che erano distesi a lamentarsi nella loro agonia. Molti morirono semplicemente senza emettere un suono e i loro portantini se ne resero conto solo più tardi, dopo aver trasportato un peso morto per chilometri. I loro corpi furono lasciati per strada, per essere raccolti in seguito, forse. Tutti erano sudici. Gli scarponi stavano andando a pezzi e molti degli uomini furono obbligati a zoppicare a piedi scalzi sul terreno dissestato. Il suono dei loro movimenti strascicati era accompagnato da una corrente sotterranea di sofferenza umana mentre le urla dei feriti si mischiavano in un'armonia infernale di dolore e sconforto.
La campagna era rovinata e distrutta dalla devastazione delle battaglie precedenti. Allora il vittorioso esercito tedesco aveva marciato in Francia, credendo che avrebbe raggiunto Parigi prima del Natale del 1914, solo per essere fermato e rimandato nelle posizioni difensive che costituirono l'inferno del massacro moderno delle trincee.
La linea degli uomini che arrancava faticosamente verso la propria patria non aveva luci se non i piccoli bagliori rossi delle poche sigarette che alcuni fortunati erano riusciti a mantenere asciutte. Quando la luce era troppo poca per essere in grado di vedere dove li stavano portando i loro passi incerti, si fermavano per la notte e si distendevano, cercando disperatamente di scaldarsi davanti ai fuochi inadeguati composti dai pochi rami secchi che erano in grado di trovare nei boschi e nelle case distrutte che incontravano nel tragitto. Molti di loro morirono, silenziosamente, senza clamore – quasi sollevati dall'essere riusciti a sfuggire all'insostenibile orrore della loro ritirata.
Alla fine, attraversarono il confine tedesco e raggiunsero i punti di ritrovo dove i cittadini tedeschi, i loro compatrioti che sembravano ben nutriti e in salute, reagirono con orrore per il loro stato. I più fortunati furono finalmente in grado di lavarsi e di pulirsi un po' nei punti di raduno costituiti nelle città, dove i dottori lavorarono tra il terribile odore delle ferite in suppurazione. Le ferite furono curate, gli arti in cancrena furono amputati e fu deciso per alcuni se valesse la pena proseguire oltre. Per i fortunati ci furono i treni pronti a portarli verso le loro case. Kurt prese uno di questi. Osservò la campagna che attraversavano che a poco a poco cambiava, mostrando sempre meno la traccia della ferocia della guerra e dei notevoli movimenti di uomini che avevano calpestato la sua bellezza tra il fango. Alla fine, fuori dalla zona di guerra, passò attraverso le meravigliose foreste della Germania centrale verso la sua casa in Baviera. Arrivò a un centro di accoglienza poco prima della fine della guerra, nel novembre del 1918. Lì fu ufficialmente congedato e, dopo una sessione di “spidocchiamento”, gli fu suggerito di tornare a casa.
Prima della guerra, aveva vissuto nella casa dei suoi genitori nella città di Neubeuren, in Baviera, e insegnato inglese presso la scuola locale. Sfortunatamente i suoi genitori erano morti durante la guerra e il contratto d'affitto della casa era scaduto. Quando ci tornò, non solo non aveva i soldi per l'affitto ma quando chiamò l'ufficio del proprietario, quest'ultimo piuttosto bruscamente lo informò che la casa era stata data in affitto a un'altra famiglia.
“Ma noi abbiamo sempre vissuto in quella casa!” protestò.
“Non posso farci nulla, non avete pagato l'affitto per più di un anno e io i soldi non li fabbrico.”
“Ero via, a combattere. Sicuramente poteva aspettare. Perché non mi ha scritto per dirmi quello che era accaduto?”
“Ho scritto. Non è colpa mia se la lettera non le è arrivata. Ho supposto che lei fosse stato ucciso.”
Kurt imprecò ma non riuscì a persuadere il proprietario. “Lei ne ha a bizzeffe!” disse, “Tutto quello che voleva era prendere i nostri soldi. Bastardo giudeo! Mi vendicherò.”
Il proprietario rise. “Ah sì? Tu e chi altro? Vattene torni da dove è venuto.” Fece per sbattere la porta in faccia a Kurt, ma lui mise in mezzo il piede. “E le nostre cose? Tutti i nostri mobili e il resto – cose ne è stato?”
“Andati – venduti per pagare l'affitto.” Scalciò il piede di Kurt e chiuse con forza la porta.
Kurt se ne andò, imprecando tra sé. Quando passò davanti all'hotel del paese vide un annuncio in vetrina per un posto da vicedirettore. Entrò e andò alla reception dove una giovane donna dall'aria annoiata lo squadrò, notando la sua uniforme consunta e il suo aspetto sciatto. Non si era fatto la barba per molti giorni e non si era fatto un bagno da quando era arrivato nel centro di accoglienza in Baviera.
“Sì?” disse.
“State cercando un vice direttore.”
Lo guardò di nuovo. “Credo che il posto possa già essere stato preso,” disse, allontanandosi da lui per evitare l'odore del suo corpo.
“Guardi, ho veramente bisogno di un lavoro. Mi dispiace molto per il mio aspetto. Sono appena tornato dal fronte. É sicura che sia già stato preso?”
Sembrò un po' più comprensiva e prese il telefono per chiamare il direttore. “C'è un soldato qui, alla ricerca di un lavoro.”
Ascoltò la risposta. “Sì, glielo ho detto – ma è piuttosto insistente.” Una pausa, “Sì, capisco. Glielo dirò.”
Coprì il microfono. “Il signor Klein dice che l'unico lavoro che ha è quello di facchino.”
“Lo prendo” esclamò Kurt.
“Dice che lo prenderà,” un'altra pausa, “no, certo che non glielo ho offerto.” Pausa. “Chiederò.”
“Quale è il suo nome, signor…?”
“Müller, Kurt Müller.”
Il suo tono cambiò e lo guardò più attentamente. “Müller? Kurt Müller?” Lui annuì. “Non si ricorda di me? Ero nella sua classe – Paula Dietrich?”
“Paula?” cercò di ricordare. “Paula Dietrich. Certo. Ora mi ricordo” mentì.
Lei si allontanò e parlò a bassa voce al telefono. Poi si girò di nuovo verso di lui con un sorriso. “Il signor Klein la vedrà ora.” Indicò una porta dall'altra parte della lobby dell'hotel.
Klein si dimostrò un uomo comprensivo, un ex soldato che era stato troppo vecchio per combattere in guerra ma che capiva la disperazione di Kurt. Fu molto dispiaciuto. “Temo, signor Müller, che non abbiamo realmente nulla di adatto per un uomo delle sua istruzione,” Kurt sembrò abbattuto. “Tuttavia, se lei è pronto a prendere il lavoro, Paula ha dato una buona referenza su di lei e il lavoro è suo. La paga non è alta – anche se può avere delle buone mance. I pasti sono inclusi e c'è una piccola stanza da letto per lei se ne ha bisogno. Abbiamo parecchi inglese e americani che vengono qui in questo periodo e aiuterebbe avere qualcuno che parla inglese.”
Mostrò a Kurt la piccola stanza che sarebbe diventata la sua nuova casa. “Si sistemi. C'è un bagno alla fine del corridoio e farò in modo che Paula le trovi una uniforme e le spieghi i suoi compiti.”
Kurt si tolse la sua giacchetta lurida, si sedette sul piccolo letto che occupava la maggior parte della stanza, e iniziò a togliersi i suoi scarponi consumati e i suoi pantaloni logorati. Sentì bussare alla porta e Paula, senza aspettare una risposta, entrò portando una uniforme da facchino, un asciugamano e del sapone.
Kurt si era alzato e i suoi pantaloni erano caduti a terra. Li rimise velocemente su mentre Paula guardò da un’altra parte. “Mi dispiace,” disse lei, “Non pensavo…”
“Va tutto bene. Grazie,” disse Kurt formalmente. Prese gli oggetti che gli erano stati offerti e Paula, con un’ultima occhiata, lasciò la stanza.
Lavato e sbarbato, Kurt indossò la sua nuova uniforme e si diresse verso la lobby dell’hotel per iniziare il suo nuovo lavoro. Oltre a Paula c’erano cameriere, cuochi e un altro facchino che lavorava su un turno differente. Doveva stare fuori dalla porta, salutare i nuovi ospiti quando arrivavano, prendere i loro bagagli, condurli alla reception per il check-in, poi doveva portare i bagagli nelle loro camere e mostrar loro tutto quello che c’era.
Era l’unico impiegato che parlava un buon inglese e presto divenne indispensabile per il suo direttore. “Paula mi ha detto che è stata in una delle sue classi” gli disse un giorno. “Il suo inglese non è molto buono. Crede che potrebbe darle delle lezioni? Sarebbe di grande aiuto se Paula fosse in grado di parlare ai nostri ospiti nella loro lingua.”
“In realtà non me la ricordo molto bene,” ammise Kurt, “ma posso provare. L’ho sentita parlare con gli ospiti inglesi e sta massacrando la lingua!”
Le lezioni cominciarono quella notte. Klein rese disponibile un ufficio dove non sarebbero stati disturbati e Kurt preparò un piano di studi per lei. Anche se si dimostrò un’alunna molto volenterosa, non la trovò particolarmente intelligente. Tuttavia, dopo un certo tempo imparò abbastanza per essere in grado di parlare con gli ospiti americani e inglesi.
“Non credo abbia più bisogno di me” le disse Kurt, “ha fatto bene.”
“Ma ho ancora molto da imparare” disse. “Per favore non smetta ora – non sono ancora pronta!”
Kurt, che stava cominciando a essere piuttosto stanco di passare tutto il suo tempo in hotel, fu molto riluttante. “Ho bisogno di uscire e avere del tempo per me stesso,” si lamentò.
“Beh, che ne dice di andare al cinema? Potremmo vedere uno di quei film americani. Ho bisogno anche di esercitarmi nella lettura.” Film muti erano proiettati nel cinema locale, ma i sottotitoli e le didascalie non erano ancora tradotti in tedesco.
Kurt fu d’accordo, e cominciarono a uscire assieme. Lo vide ancora come parte del progetto di insegnamento, facendo sussurrare a Paula le traduzioni dei testi e correggendo i suoi errori. Dopo il film, tornavano in hotel per mangiare gli avanzi nella sala da pranzo deserta.
“È proprio come avere un appuntamento” disse Paula una sera.
“Non proprio,” disse Kurt, poco galantemente. “Lei è ancora una mia alunna, ricorda?”
Sembrò delusa. “Lo pensa veramente? Non siamo amici ora?”
“Credo di sì, una specie” ammise.
“Bene allora” disse ritrovando il morale. Sollevando il suo bicchiere d’acqua lo toccò contro il suo, “Prost, amico.”
Kurt sogghignò, “prost” replicò, “all’amicizia!”
Una settimana più tardi, quando Kurt condusse un ospite americano alla reception, Paula gli sussurrò “torni una volta che ha mostrato al signor Armitage la sua camera.”
Quando ritornò, Paula si guardò intorno per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando. “Ho delle buone notizie per lei, Kurt” disse. “Il direttore sta cercando un vice. Stiamo lavorando sempre di più e ha bisogno di qualcuno che lo aiuti.”
“Quindi?”
“Quindi dovrebbe fare domanda!” Vide la sua espressione scettica. “Lo so che sarebbe un grande passo, ma a lui piace e mi ha detto prima che lei è più che qualificato. Cosa ne pensa?”
“Forse. Sì, potrei provarci, credo.”
“C’è solo un problema,” gli disse. “Il vice deve essere un uomo con una posizione stabile, un uomo sposato.”
“Oh,” disse Kurt, deluso. “Beh allora questo mi esclude, no?”
“Non necessariamente” disse Paula con esitazione. Vedendo il suo guardo interrogativo, raccolse tutto il suo coraggio. “Potrebbe sposarsi.”
“Con chi?”
“Beh, perché non con me?” disse tutto d’un fiato. “Siamo amici, dopo tutto, e a me non dispiacerebbe in effetti. Sarebbe bello. Cosa ne pensa?”
Kurt la guardò con sorpresa. “Beh, dovrò pensarci ma suppongo potrebbe funzionare.”
Lei rimase turbata dalla sua risposta fredda e lo lasciò tornare ai suoi compiti. Più tardi, tuttavia, ritornò di nuovo alla sua scrivania. “Va bene. Sarebbe conveniente. Perché no?” fu tutto quello che disse.
Quella sera andarono insieme da Klein. Paula gli spiegò i loro piani e Kurt, ancora piuttosto freddamente, concordò con lei. Il direttore, che era affezionato a Paula, le chiese “sei assolutamente sicura di questo?”
“Certo!” disse lei sembrando entusiasta.
“E lei?” chiese a Kurt.
“Certo. Ne abbiamo parlato e siamo d’accordo.”
Una settimana più tardi, in una cerimonia fredda e piuttosto asettica, i due si sposarono e Kurt prese il suo nuovo posto. Sebbene non amasse Paula, lei sembrava essergli devota e questo era molto conveniente. Dovette ammettere a se stesso che il momento di andare a letto era diventato più piacevole.
Trovò che il nuovo lavoro richiedeva molto meno tempo rispetto a quello di facchino. I suoi orari lavorativi erano fissi e le sue serate erano sempre libere. Paula fu felice di gestire la loro nuova casa e di lasciarlo per conto proprio seppellendosi nelle faccende domestiche o leggendo riviste femminili lasciate dagli ospiti. Lui usciva per conto proprio la maggior parte delle sere, passando il tempo in uno dei bar della città dove si incontrava con gli altri soldati tornati dal fronte per lamentarsi del modo in cui erano stati trattati dagli alleati vittoriosi.
Come molti dei suoi ex commilitoni, Kurt si sentiva completamente tradito. L'opinione generale era che la guerra era stata combattuta in realtà tra amici che condividevano ben più delle cose che li dividevano. Non erano neppure in grado di vedere come la guerra fosse potuta accadere. “La regina Vittoria era la nonna del nostro Kaiser. Suo cugino era il re inglese. Perché li abbiamo combattuti? É stata tutta colpa dei maledetti francesi che hanno cercato di vendicarsi a causa dell'ultima guerra. Ora vogliono distruggerci e gli inglesi e gli americani hanno fatto squadra con loro. É una tragedia,” disse a uno dei suoi amici.
“E questi governanti che abbiamo ora sono completamente senza spina dorsale,” replicò l'uomo. “Si mettono a tappetino e lasciano che ci calpestino. Quello che ci serve ora è qualche persona forte che combatta per noi – ma dove sono queste persone?”
Così erano molte delle loro discussioni che lasciavano Kurt depresso e infelice. Alla fine, decise di trovare un modo migliore per passare il suo tempo libero invece di avvilirsi per qualcosa che non poteva cambiare.
In città c'era un negozio che riparava orologi gestito da un amichevole ebreo che Kurt aveva conosciuto prima di andare in guerra. In uno dei suoi giorni liberi andò in negozio.
“Buon giorno, signor Finkelmann.”
“Kurt Müller! Che bello vederti. Ho sentito che eri tornato e che ti sei sposato, se ho capito bene. Congratulazioni! Stai bene?”
“Sì, sto bene, grazie,” rispose Kurt freddamente.
“Allora, cosa posso fare per te?”
“Si ricorda che una volta la aiutavo a riparare orologi?” Finkelmann annuì. “Beh, mi domandavo se ora aveva bisogno di un aiutante – part time chiaramente.”
Finkelmann sembrò dubbioso. “Beh il lavoro sta aumentando,” cominciò, “perciò un aiuto potrebbe essere utile, se hai del tempo libero.”
“Certo che ne ho,” disse Kurt. “Ho bisogno di tenere le mie mani occupate, capisce. Lavoro in hotel, ma posso venire qualche sera se a lei va bene. Posso anche procurarle del lavoro dai nostri ospiti.”
“Potrebbe andare bene – e certamente ti pagherei per il lavoro che mi porteresti.”
Gli uomini si accordarono e Kurt iniziò la settimana successiva. Questo gli procurò un piccolo reddito extra con il quale, col passare del tempo, lui e Paula furono in grado di affittare un piccolo cottage vicino all’hotel. Nel 1920 nacque un figlio che chiamarono Rolf in onore di uno degli zii di Kurt.
Capitolo 4
Lero 1920 – 1935
L'isola di Lero, come molte di quelle che ora sono le isole greche che avevano fatto parte per secoli dell'impero ottomano, aveva mantenuto per tutto il tempo il suo carattere greco. Le persone del luogo erano greche fino in fondo e i turchi li avevano ampiamente lasciati per conto loro. É nota dai locali come l'isola di Artemide, la dea della caccia, conosciuta dai romani come Diana.
Da quando gli italiani ne avevano preso possesso e avevano iniziato a costruire le strutture aeronautiche a Lepida, nella grande baia che chiamarono Porto Lago, avevano impiegato la popolazione locale per farsi aiutare. Questo era un lavoro benvenuto dalle persone che in precedenza avevano tirato avanti con fatica lavorando come pescatori o contadini sotto l'impero ottomano.
C'erano alcuni abili artigiani che avevano sviluppato le case neoclassiche nella città principale, Platanos, e sul lungomare di Agia Marina alla fine del diciannovesimo secolo. Spiros Raftopoulos era uno di questi. Era un esperto costruttore e quando gli italiani misero degli annunci per la ricerca di lavoratori che costruissero la nuova base, fece domanda e fu accettato. Questo significava un considerevole incremento delle sue entrate e così fu in grado di sistemare la casa che suo padre aveva lasciato che andasse in rovina a causa della mancanza di denaro. Fu anche in grado di sposare il suo amore, Despina, e di invitare la sua famiglia e gli amici nella piccola cappella di Agios Isidoros su un'isoletta nel braccio nord della baia di Gourna, a nord di Porto Lago. La cappella era collegata all'isola principale con una stretta passerella che era spesso impraticabile quando i temporali invernali arrivavano da sud. Nell'estate del 1920 Despina diede alla luce il loro figlio, Yiannis, chiamato così secondo la consuetudine greca in onore di suo nonno.
Spiros era diventato ben più di un semplice costruttore. Aveva un talento naturale per la progettazione, aveva imparato il disegno tecnico ed era diventato un progettista molto competente. Il suo lavoro era di aiutare a progettare le fondamenta dei grossi ganci costruiti per sollevare gli idrovolanti ospitati nella baia di Lepida, davanti alla nuova città italiana che gli italiani avevano chiamato Porto Lago. Anche se era un membro apprezzato e rispettato del gruppo, non era molto portato per le lingue e riusciva a comunicare con i manager italiani solo attraverso un interprete. Questo limitava molto la sua utilità al progetto – in particolare perché i loro interpreti non avevano esperienza nelle costruzioni e spesso avevano difficoltà con i termini tecnici.
Leggendo attentamente i progetti, Spiros aveva notato un errore nella progettazione. Controllò e ricontrollò i suoi calcoli per esserne assolutamente sicuro, ma fu in grado di vedere che c'era un potenziale errore nelle specifiche tecniche. Quella sera andò a casa preoccupato sul fatto se avrebbe dovuto sollevare il problema. Non era strettamente il suo reparto, ma si sarebbe sentito un irresponsabile se non avesse evidenziato l'errore. Decise di togliersi il pensiero il mattino successivo.
Giuseppe stava lavorando in ufficio in cantiere quando Spiros venne per esporre la sua preoccupazione sulla progettazione dell'hangar. Si guardò intorno alla ricerca dell'interprete e, rendendosi conto che non c'era, perse la pazienza e fece per andarsene.
“Buon giorno” disse Giuseppe, in greco, “Posso aiutarla?”
“No, non è nulla.” Fece per andarsene, poi si girò sorpreso,” lei parla greco?”
“Un po', sto cercando di imparare. Cosa desiderava?”
“Sto lavorando alle fondamenta dell’hangar. Non sono affari miei, lo so, ma temo che possa esserci un problema con la dimensione dei supporti per il tetto. Forse però ho torto. Non ha importanza.”
Si girò di nuovo verso la porta, ma Giuseppe lo richiamò. “E lei è?”
“Spiros Raftopoulos. Sto lavorando alle basi che tengono questi supporti. Probabilmente un errore mio,” cominciò a perdere la pazienza, “non importa.”
“Le ho progettate io. Quale è il problema?” chiese Giuseppe, con scetticismo, “mi faccia vedere.”
Spiros venne avanti e srotolò sulla scrivania il progetto che aveva con sé. Indicò le massicce travi che sorreggevano il soffitto. “Vede, queste non sembrano forti a sufficienza per reggere quell'ammontare di peso. Lei ha specificato 75 millimetri, ma con questa larghezza, credo che dovrebbero essere di almeno 150 millimetri.”
Giuseppe guardò a lungo il disegno, prese il suo regolo calcolatore per effettuare dei calcoli. Si appoggiò all’indietro e si schiaffeggiò la fronte. “Oh, vedo. Ha ragione, ho scritto la dimensione sbagliata!” disse, imbarazzato.
“Non è un problema, possiamo ancora cambiarle,” disse Spiros. “Non sono ancora state consegnate – potremmo semplicemente correggere l’ordine.”
“Grazie.” Giuseppe, ora molto sollevato, diede un colpetto sul braccio di Spiros in segno di gratitudine. “Per favore mi faccia sapere se scopre qualche altro problema.”
“Spero che non la disturbi il fatto che io venga da lei”
“Certo che no,” disse Giuseppe, “non è affatto un problema!”
Il greco fece un cenno col capo verso di lui. “Bene – grazie” disse solennemente, arrotolando il foglio e andandosene. Giuseppe srotolò la sua copia del progetto e la corresse. Non sarebbe stato per nulla popolare con i suoi capi se l’errore non fosse stato scoperto e il soffitto fosse crollato.
Quella sera, mentre andava verso casa, Giuseppe vide Spiros che usciva. “Spiros” lo chiamò, “vuoi bere qualcosa con me?”
Spiros annuì e sorrise, andando verso di lui. “Grazie, ci vorrebbe proprio.”
Andarono a uno dei nuovi bar a Porto Lago. Dopo che Giuseppe ebbe fatto un brindisi alla salute di Spiros, cominciarono a parlare del lavoro in cui erano entrambi coinvolti. L'italiano fu impressionato dalle conoscenze tecniche di Spiros e, godendosi il loro Ouzo, si accordarono che sarebbe stato un bene se avessero potuto lavorare assieme al progetto.
“Può impedirmi di fare altri errori” disse Giuseppe.
“Sono sicuro che se ne sarebbe reso conto in tempo da solo,” replicò generosamente il greco.
“Grazie. Forse sì ma se non fosse accaduto sarei finito in guai grossi.” Colpì col bicchiere il tavolo e poi toccò di nuovo il bicchiere di Spiros, con il brindisi greco “Γεια μας” (Yamas – alla nostra salute).
Il mattino seguente, Giuseppe disse al suo capo della conversazione avuta con Spiros – senza fare cenno al suo errore. “É un brav’uomo, molto esperto – e anche un bravo disegnatore. Il suo unico problema è che non parla italiano, ma visto che io parlo greco non è un problema. Ci sarebbe veramente utile. Può fare in modo che lavori con me?”
Il capo fu d'accordo, “ho sentito buone cose su di lui. L'unico rapporto negativo che ho avuto è stato riguardo al suo temperamento, perciò stia in guardia.”
Fu detto a Spiros di fare capo a Giuseppe e nel corso delle settimane successive i due lavorarono a stretto contatto. Dopo il lavoro presero l'abitudine di fermarsi al bar per un bicchiere prima di tornare a casa dalle loro famiglie.
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Quando aveva solo cinque anni, Yiannis trovò un piccolo stampo di metallo su una delle spiagge. Lasciava una forma di conchiglia quando veniva riempito di sabbia e girato. Stava giocando vicino al luogo di uno degli edifici su cui Spiros stava lavorando e trovò un sacco di cemento. Infilò il suo piccolo stampo nel cemento e lo riempì, poi corse tutto eccitato per mostrarlo a suo padre.
Spiros gli urlò contro con rabbia. “Con cosa stai giocando? Potresti gettartelo negli occhi correndo in quel modo. Dammelo!” Gli prese lo stampo e lo gettò in un vicino cumulo di detriti. Poi fece alzare la mano al bimbo, si levò la cintura e gli colpì la mano per tre volte. Il bimbo scappò via singhiozzando.
Quella sera sua moglie, Despina, gli chiese cosa fosse accaduto. “Yiannis è tornato qui in lacrime dicendo che avevi gettato via il suo gioco e lo avevi colpito. Cosa è successo?”
“È stato cattivo. Ha raccolto del cemento e stava correndo in giro. Ho pensato che gli sarebbe finito negli occhi.”
“Sì, capisco, ma perché colpirlo?”
“Deve imparare. É un ragazzo – deve capire la disciplina.”
“Disciplina! Ha solo cinque anni! Sei troppo duro con lui.”
Spiros imprecò e uscì di casa sbattendo la porta. Andò a sedersi al solito bar tenendo il muso. Alcuni dei suoi amici erano lì, ma vedendolo sedersi e guardare in cagnesco dall’angolo, all’inizio furono riluttanti ad avvicinarglisi. Alla fine, uno di loro gli chiese quale fosse il problema.
“Donne” disse. Il suo amico annuì comprensivo. “Vogliono tenere i figli nella bambagia. Despina prende sempre le parti del ragazzo. Ma lui deve imparare.” Raccontò quello che era successo.
Sebbene il suo amico fosse comprensivo, suggerì che forse non avrebbe dovuto essere così duro. “Non è un cattivo bambino e non è realmente disubbidiente. Forse dovresti farti perdonare – e cercare di far calmare la situazione. Se non ti dispiace che te lo dica, dovresti cercare di non arrabbiarti così.”
“Quindi cosa credi che dovrei fare?”
“Non mi hai detto che volevi insegnargli a nuotare? Perché non lo fai? Adesso il tempo è buono,” era ottobre e l'estate si stava prolungando, “passa un po' di tempo con lui. Questo mostrerà a lui – e a sua madre – che ti interessi. Sei un buon nuotatore, potresti insegnargli in poco tempo.”
Il fine settimana successivo, Spiros portò Yiannis sul suo asino sul sentiero che portava dal porto nella parte settentrionale fino a una spiaggia sabbiosa. Poi diede a Yiannis un pezzo di sughero che aveva raccolto sulla spiaggia per usarlo come salvagente. Portò suo figlio nel mare tiepido e lo tenne mentre mostrava al ragazzo come muovere le gambe e muoversi attraverso l'acqua. Poi legò il sughero con un nastro attorno al petto di Yiannis e gli mostrò come usare le braccia e le gambe insieme.
Il ragazzo si dimostrò un nuotatore naturale e, dopo sole poche lezioni, stava nuotando senza aiuti. Suo padre fu orgoglioso di suo figlio e l'incidente con lo stampo e il cemento fu dimenticato.
Anche se ancora molto giovane, Yiannis cominciò a aiutare Spiros in cantiere. Suo padre aveva sviluppato un sistema per creare con uno stampo i blocchi di cemento usati nelle costruzioni, e a Yiannis, all'età di otto anni, fu dato l'incarico di aiutare a distribuire i blocchi a suo padre e agli altri costruttori. Era un lavoro duro, in particolare per un ragazzo. Andava a una delle pile ordinate che erano state portate sul posto da un camion, e lì ne caricava una carriola. La spingeva con fatica verso il luogo dove stava lavorando uno dei muratori, prendeva i mattoni e li impilava pronti per essere usati.
Anche grazie a questo duro lavoro, Yiannis divenne un giovanotto forte e robusto. Era basso, come la maggior parte dei greci, ma muscoloso, con capelli e pelle scura, un bel volto e un atteggiamento serio di uno che è stato costretto a crescere troppo in fretta.
I ragazzi del villaggio che erano capaci di nuotare erano incoraggiati a sfidare le fredde acque del porto il giorno dell'Epifania. In quel giorno di gennaio, i giovani greci gareggiavano per recuperare la Croce gettata dal sacerdote per imitare il battesimo di Cristo. Ogni chiesa – e ce n'erano molte – festeggiava allo stesso modo e i giovani stavano lì in piedi sul molo avvolti in un asciugamano prima di lanciarsi in acqua per vedere chi sarebbe riuscito a recuperare la Croce. Poi sarebbero tornati indietro nuotando, il vincitore che teneva la Croce alta sopra la sua testa, per essere benedetto, tutto tremante, dal prete.
L'anno dopo aver imparato a nuotare, Yiannis chiese se poteva partecipare alla competizione. Sua madre non era molto d'accordo. “É molto piccolo per farlo e non sa nuotare da molto tempo.”
“Stupidaggini” disse Spiros. “É forte per la sua età e ora nuota veramente bene. Starà bene. Puoi portarlo in città e tenerlo al caldo fino a quando dovrà tuffarsi e poi io posso aspettarlo sul caicco e raccoglierlo subito.”
Arrivò il giorno. La chiesa aveva preparato una specie di pergola su una piattaforma in legno che avevano posto sul molo vicino al mare. Era decorata con piante rampicanti e rami di alberi di arance e limoni, con ancora i loro frutti. Il sacerdote, o “Papa”, seguito dalla sua congregazione, arrivò con i suoi paramenti più sacri, indossando una cotta bianco sporco sopra il suo normale abito talare nero, e il tradizionale cappello a cilindro nero ortodosso con un ulteriore pezzo circolare piatto posto al di sopra come un cappello a cilindro rovesciato. Sopra alla cotta c'era una stola ricamata in oro e indossava un grosso crocifisso attorno al collo e un altro lo portava con deferenza tra le sue mani. Era preceduto da un presbitero, che camminava all'indietro portando un grosso libro di preghiere aperto alla pagina di quel giorno particolare. Recitò la liturgia quando salì sulla pergola e la congregazione sul molo rispose quando opportuno, facendosi il segno della croce con devozione mentre parlava.
Il sacerdote alzò la croce e la portò da un lato all'altro, benedicendo le acque a imitazione del battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista. A questo punto, tutti i ragazzi che stavano tremando vicino all'acqua, gettarono gli asciugamani che li avevano tenuti al caldo e si prepararono a tuffarsi nell'acqua gelida. Yiannis porse il suo asciugamano a sua madre e rimase in attesa, battendo i denti, fino a quando il sacerdote fece un ultimo gesto plateale con la Croce e la gettò nel mare. Tutti i ragazzi si lanciarono verso l'acqua e si precipitarono verso il punto dove era affondata la Croce.
Yiannis si era allenato per la gara e riuscì ad arrivare sul posto nello stesso momento della maggior parte degli altri ragazzi. Lì era poco profondo e lui e gli altri guardarono attraverso l'acqua limpida alla ricerca dell'oggetto di argento scintillante. Stavano tutti schizzando e increspando la superficie perciò era veramente difficile riuscire a vedere. Alcuni ragazzi si tuffarono dove pensavano potesse essere finita. Yiannis, che era stato spinto al limite del gruppo, cercò di guardare dove si stavano concentrando tutti gli altri ma fu spostato a gomitate dai ragazzi più grandi. Quando si girò per cercare di riconquistare il centro del gruppo notò un bagliore sotto di lui e si tuffò. Cercando tra le pietre sul fondo, con le orecchie che schioccavano per la pressione, le sue dita trovarono la forma della Croce. La afferrò e tornò in superficie il più velocemente possibile. La tenne trionfalmente sopra la sua testa mentre la folla sulla battigia festeggiava.
Spiros remò verso di lui e lo aiutò a uscire dall'acqua, avvolgendolo, pieno di orgoglio, con un asciugamano. Yiannis, ora entusiasta e inconsapevole del freddo, tenne la Croce sopra la testa mentre veniva traghettato al molo e aiutato dagli spettatori. Andò dal Papa e gliela consegnò. Il sacerdote disse “sei benedetto in modo speciale oggi” e fece un segno sopra la sua testa.
Quando sua madre lo ebbe asciugato, andarono con il resto della congregazione alla taverna locale e mangiarono capra, cotta su uno spiedo all'esterno, polipo locale e parecchie insalate. Gli uomini bevvero ouzo o il forte Tsipouro mentre le donne bevvero il retsina prodotto localmente. Spiros insistette che Yiannis ora era abbastanza uomo per assaggiare un po' del suo Tsipouro e Yiannis, già un po' stordito per l'eccitazione dopo la sua impresa, si ritrovò del tutto ubriaco.
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Il molo davanti alla base aeronautica era affollato. Aerei erano appena arrivati ed avevano già fatto il pieno di carburante pronti per tornare in Italia. Altri venivano trasportati dalle grandi gru e portati sui ganci per essere ispezionati e riparati. Materiali per la costruzione della nuova base navale più avanti nella baia venivano spostati da una parte all'altra.
Il figlio di Giuseppe, Marco, stava guardando suo padre che sorvegliava lo scarico di una nave da carico che consegnava materiali per la costruzione. Aveva dieci anni, un ragazzo serio e studioso, piuttosto alto per la sua età – specie rispetto ai ragazzi grechi meno ben nutriti – con l’aspetto piuttosto scuro di suo padre e la figura magra sormontata dai capelli chiari ereditati dalla madre.
Uno dei camion di passaggio stava trasportando pile di mattoni di cemento. Quando venne verso Giuseppe e Marco, dovette frenare all'improvviso e sterzare per evitare un gruppo di persone che stavano andando verso uno degli idrovolanti in attesa. Uno dei blocchi in cima alla pila scivolò e si schiantò sul molo sfiorando Giuseppe e Marco. “Ma che…” urlò Giuseppe, mentre Marco, saltando per spostarsi, cadde dal molo direttamente in mare. “Marco”, urlò suo padre. “Non sa nuotare – aiuto!” C'era un salvagente appeso nelle vicinanze e corse per gettarlo in acqua.
Yiannis, che era seduto in cabina, vide quello che stava accadendo. Senza pensarci, aprì lo sportello, saltò sul molo e si gettò in acqua. Nuotò verso il punto dove Marco aveva cominciato ad affondare e si immerse per afferrare la camicia di Marco, proprio come aveva recuperato la Croce. Lottò con il ragazzo che si agitava in preda al panico. Ansimando, tornò in superficie, prese un bel respiro prima che Marco lo tirasse giù di nuovo. Di nuovo si sforzò di tornare in superficie e sentì il pesante salvagente di sughero tirato da Giuseppe colpirlo dolorosamente sulla testa mentre riemergeva. Riuscì ad afferrarlo con la sua mano libera e a tirare Marco in superficie dove emerse facendo un sacco di schizzi alla ricerca di aria. “Calmati – Ti ho” disse, mentre Marco scalciava e muoveva le sue braccia freneticamente.
Gli spettatori sul molo applaudirono quando Yiannis tirò il ragazzo a riva dove Giuseppe e il guidatore del camion stavano aspettando per aiutarli a uscire.
“Che diavolo stava facendo?” urlò Giuseppe al guidatore mentre abbracciava suo figlio. “Avrebbe potuto ucciderci. E chi ha caricato quei blocchi? Avrebbero dovuti essere legati!”
Yiannis alzò lo sguardo “Li ho caricati io. Mi dispiace veramente, quelle persone ci si sono parate davanti all'improvviso.”
“Tu? Chi sei tu?” Si rivolse al ragazzo greco piuttosto trasandato, che vide essere robusto ma più piccolo di suo figlio di una testa.
“Sono Yiannis Raftopoulos. Mio papà sta costruendo i nuovi alloggi militari laggiù” indicò lungo il molo. “Mi ha detto di consegnare questi blocchi.”
“Spiros. Sei il figlio di Spiros?”
“Sì.”
“Lo conosco, è un brav'uomo. Ma non dovrebbe permettere a un ragazzo di fare questo tipo di lavoro. Quei blocchi non erano messi in sicurezza adeguatamente.”
“Lo so, mi dispiace, non me ne ero reso conto.” Yiannis trattenne una sensazione infantile che poteva farlo scoppiare in lacrime. “Non sarebbe caduto se non avessimo dovuto sterzare così improvvisamente.”
Giuseppe ora si stava calmando. “Beh, stai più attento la prossima volta. Comunque, devo ringraziarti. Almeno hai salvato Marco.”
Marco, a cui era stata data una coperta da uno degli steward dell’idrovolante, disse “grazie. Credo che sia giunto il momento di imparare a nuotare!” Porse la mano a Yiannis, “Sono Marco e lui è mio papà.”
“Potrei insegnarti se ti va. Prometto che non ti getterò in mare.”
Giuseppe, ora completamente calmo disse “Sembra una buona idea. Stai bene ora figliolo?”
“Sì, sto bene.”
“Bene, andiamo a casa. Possiamo parlarne domani quando Spiros sarà qui.”
Spiros voleva incoraggiare Yiannis a fare amicizia con i figli degli italiani con cui aveva a che fare. Stava incoraggiando Yiannis a imparare la lingua in modo che non avesse lo svantaggio che lui aveva provato quando gli italiani erano arrivati per la prima volta a Lero, quindi fu felice che Yiannis avesse incontrato il figlio di Giuseppe, nonostante le circostanze. Il giorno successivo i padri e i loro figli si incontrarono. Spiros si scusò molto ma Giuseppe lo riassicurò. “Va tutto bene, siamo stati fortunati, nessuno si è fatto male e il suo ragazzo avrà imparato una lezione.”
“Sì. Lo so. Gli ho dato una bella ripassata di botte. In futuro starà più attento.”
Giuseppe si allarmò un po’ nel sentirlo. “É stato solo un incidente.”
“Certo, ma il piccolo bastardo deve imparare. Non succederò ancora.”
“Bene, vorrei accettare la sua offerta. Può dare a Marco qualche lezione di nuoto?”
“Non so. Abbiamo molto lavoro e per farlo mi serve Yiannis.”
“Guarda, quanti anni ha il ragazzo?”
“10 – perché me lo chiedi?”
“La stessa età di Marco – ma non è un po' troppo giovane per lavorare così duramente? Sono affari tuoi, credo, ma suppongo che imparerebbe meglio la lezione se dovesse fare qualcosa per rimediare. Ecco perché vorrei che desse qualche lezione a Marco. Cosa ne pensi?”
A denti stretti, Spiros acconsentì e si accordarono affinché i ragazzi si incontrassero più tardi alla spiaggia della baia.
Yiannis si dimostrò un insegnante bravo quasi quanto suo padre e aiutò velocemente Marco a superare le sue paure e a imparare a nuotare. Dopo le lezioni, se Yiannis non era desiderato da suo padre per produrre o consegnare i blocchi, andavano a pescare, portando il pesce dal mare sul molo usando dei fili cu cui avevano legato sottili spilli piegati come ami. Come esca mettevano dei pezzi di pane o, se li trovavano, i corpi magri dei mitili che crescevano sugli scogli. Yiannis insegnò a Marco come uccidere velocemente un pesce mettendo le dita nelle branchie e spezzandogli il collo e come rimuovere la lisca e sviscerarlo.
Quando crebbero, cominciarono a “fare le vasche” lungo l’ampia strada sul lungomare della città nuova, flirtando con le ragazze che incrociavano e unendosi agli altri giovani per pavoneggiarsi. La città si stava sviluppando rapidamente ed era piuttosto diversa rispetto a qualsiasi altra città greca. Grandi strade curve ci correvano attorno, racchiudendo futuristici edifici di cemento, curvi a loro volta per adattarsi alle strade. Grandi isolati erano stati costruiti, sia a Porto Lago sia dall’altra parte della baia, per ospitare il personale della base navale e aeronautica. Marco, visto che suo padre lavorava per i militari italiani aveva maggiore accesso alle nuove strutture rispetto agli altri ragazzi e introduceva di nascosto Yiannis per vedere le aree proibite – la postazione antiaerea, il cannone, le torri di avvistamento sulle colline e i tunnel che erano stati costruiti per proteggere il personale militare in caso di guerra.
Marco cominciò ad appassionarsi al volo. Guardava gli idrovolanti andare e venire dal porto ed era in grado di identificarli tutti. Desiderava diventare un pilota – sembrava una vita così esotica. Gli aerei portavano passeggeri dall’Italia verso l’isola e spesso da e per le nuove colonie italiane che si stavano aprendo in Africa.
Venne in possesso di un libro americano che descriveva come costruire un modellino di aliante fatto di balsa e le ali coperte di carta “truccata”. Era piuttosto difficile procurarsi della balsa, ma suo padre ne aveva alcuni fogli rimasti dai suoi modelli di architettura e permise a Marco di usarli. Marco con fatica tagliò il legno nelle forme necessarie per fare le ali, i supporti e la fusoliera. All’inizio lo trovò un lavoro piuttosto frustrante perché, se non stava attento quando tagliava il morbido legno, lo rompeva lungo la venatura e rovinava il pezzo modellato costringendolo a gettarlo via e a ricominciare di nuovo.
Una volta che ebbe tagliato tutte le forme di cui aveva bisogno, chiese a Yiannis di aiutarlo a incollarle. “Vedrai come state tagliati i pezzi delle ali. Devono essere uniti a questo lungo pezzo. Si adatta ai buchi che ci sono in cima.”
Yiannis cercò di mettere i pezzi insieme, ma era troppo maldestro. “Che senso ha tutto questo comunque?” chiese.
“Stiamo costruendo un modellino di aliante” spiegò Marco pazientemente.
“Ma perché? A che scopo? Perché non andiamo a pescare?”
“OK, levati dalle palle Yiannis, lo farò da solo. Va’ a pescare.”
Yiannis, del tutto annoiato, non volle litigare con il suo amico, perciò si fece da parte e guardò mentre Marco fissava insieme con attenzione i vari pezzi prima di incollarli al loro posto. Poi mise una carta rinforzata sulle ali e la fissò usando una colla odorosa chiamata “dope”. Lasciarono il modellino ad asciugare e il giorno successivo Marco invitò Yiannis a venire a farlo volare con lui.
Diede a Yiannis un lungo pezzo di elastico attaccato a un gancio sul fondo del modellino e gli disse di tenere l’altro capo sopra la testa mentre lui camminava all’indietro con l’aliante. Poi si girò, disse “pronto?” e lasciò il modellino. Volò dritto verso Yiannis che dovette accucciarsi per evitare di essere colpito. Ma, una volta passato si alzò in aria, passò sopra di loro facendo un ampio cerchio sopra le loro teste prima di fermarsi e cadere su una roccia per poi andare in pezzi.
Marco corse verso il modellino imprecando mentre Yiannis rideva. “Tecnologia italiana, eh? Si torna al tavolo da disegno, allora?” disse, mentre Marco raccoglieva tutti i pezzi del suo prezioso modellino.
“Merda, merda, merda” disse, cercando di rimettere insieme i pezzi. Rendendosi conto che non sarebbe stato in grado di farlo fino a quando non fosse tornato a casa, disse, “Va bene, andiamo a pescare.” Era depresso e allo stesso tempo eccitato – dopo tutto, prima che si schiantasse, era riuscito a farlo volare.
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Quando Giuseppe ebbe terminato di lavorare sui grandi hangar per gli idrovolanti, fu chiamato da Gramatika per avere i dettagli del suo incarico successivo.
“Stiamo progettando di posizionare una grossa postazione di artiglieria all’entrata di Porto Lago.” Indicò il punto sulla mappa che era distesa sul tavolo davanti a loro. “Come puoi vedere l’entrata meridionale è molto ripida. Lì abbiamo un faro, ma non c’è un modo agevole per arrivarci se non con la barca. Sull’altro versante c’è una mulattiera che conduce attorno all’isola e c’è una zona pianeggiante vicino all’entrata e questa collina molto alta qui” indicò sulla mappa. “È chiamata Patella e ha una cima ragionevolmente piatta dove possiamo costruire le nostre postazioni di artiglieria. Cosa ne pensi?”
Giuseppe guardò la mappa, osservando le isoipse delle colline. “È piuttosto ripida – potremmo avere dei problemi a costruire una strada fino alla cima.”
“Questo è il motivo per cui voglio che tu vada lì e faccia delle indagini – sappimi dire cosa ne pensi.”
Giuseppe si incontrò quella sera con il suo amico Spiros. “Conosci la collina a Patella – vicino all’entrata della baia?”
“Sì, credo di sì. Abbiamo pescato nella baia al di sotto.”
“Devo andare a vedere – stiamo pensando di costruire una strada lì. Vuoi venire a dare un'occhiata con me?”
Spiros fu d’accordo e il mattino successivo partirono in groppa a un cavallo lungo la strada sterrata che si dirigeva a nord della baia. La strada saliva fino a un punto e poi svaniva in un sentiero sterrato che conduceva lontano dalla baia. Proprio in quel punto c’era un sentiero che risaliva ripidamente sulla collina. Presero quel sentiero. La traccia del sentiero procedeva a zig-zag, restringendosi man mano che si procedeva. Alla fine, raggiunsero un altopiano. Da lì c'era una vista meravigliosa – a sud verso Calimno, a nord verso Patmo, a ovest verso le Cicladi e a est verso le isole che andavano verso la costa turca.
“Wow, una postazione di artiglieria quassù avrebbe un campo di fuoco libero su tutta l’area – nulla potrebbe entrare in porto” disse Giuseppe.
In quel momento un idrovolante arrivò da ovest, planando verso la baia per atterrare e dirigersi verso la stazione aeronautica. “Tranne un aeroplano” disse Spiros. “arriverebbe qui prima che tu possa accorgertene.”
“Ma se potessimo vedere abbastanza lontano, sapremmo che sta arrivando e potremmo abbatterlo con la contraerea.”
“Sì, ma la visuale non è sempre così buona – è spesso nebbioso qui, come oggi e, se l’aereo uscisse dal sole, saresti accecato.”
“Ma potremmo sempre sentirlo, no?”
“Forse, ma quanto distante sarebbe prima di sentirlo?”
Giuseppe si rese conto che Spiros aveva ragione. Ispezionarono comunque la zona e presero nota di dove le armi avrebbero dovuto essere posizionate per avere il miglior raggio di tiro. Poi tornarono in ufficio e Giuseppe riferì quello che avevano trovato. “Avevi ragione, è ideale. Possiamo allargare il sentiero che sale e c’è una grande area in cima dove potremmo installare le armi e costruire degli alloggi per i fucilieri. Si riesce a vedere per miglia – navi e aerei. L’unico problema è che potremmo non vedere quest’ultimi fino a quando non saranno quasi sopra di noi – ma questo è sempre un problema con gli aerei. Vanno semplicemente troppo veloci.”
Gramatika gli ordinò di produrre un piano di costi per fortificare la collina. Successivamente, quando fu approvato dalle autorità militari, fu fatto responsabile dei lavori. Per tutto il tempo, però, continuava a domandarsi come intercettare gli aerei che attaccavano. Ogni giorno andava sulla collina, portando qualche volta con sé il suo giovane figlio. Un giorno stava lavorando sul luogo di un cannone di grande calibro quando notò che suo figlio lo stava salutando con la mano mentre stava salendo l’ultima parte del nuovo sentiero che ora era stato allargato per far passare i camion. Salutò anche lui e poté vedere che Marco stava urlando qualcosa che non era in grado di sentire. Urlò a Marco di parlare più forte, poi si mise le mani dietro alle orecchie per cogliere quello che stava dicendo. Ora era in grado di sentirlo chiaramente – ma all’improvviso non fu più interessato a quello che veniva detto. Si girò, le mani ancora dietro le orecchie. Si rese conto che poteva sentire quasi tutto quello che veniva detto in quel posto.
Guardò verso il mare e notò un idrovolante in lontananza che si stava avvicinando all’isola. Con le mani dietro alle orecchie era in grado di sentire il suo motore, ma quando le tolse il suono scomparve.
Marco arrivò. “Non mi sentivi, papà?”
“Sì, forte e chiaro. Incredibile” disse Giuseppe, distrattamente.
“Incredibile? Bene, allora posso?”
“Puoi cosa?”
“Papà, ti stavo chiedendo se potevo portare Yiannis quassù per vedere quello che stiamo facendo?”
“Cosa? Sì, certo – no. No, è una zona militare, lo sai” disse, quando capì cosa stava dicendo Marco. “Ma torna lì, voglio fare un esperimento. Voglio che tu mi parli. A bassa voce prima – poi che mi parli più ad alta voce che puoi quando te lo dico.”
Marco andò dove gli indicava suo padre, piuttosto confuso. “Cosa vuoi che dica?” disse, mentre suo padre si metteva di nuovo le mani dietro alle orecchie.
“Continua solo a parlare – di' quello che vuoi” disse Giuseppe, e cominciò a girarsi, le mani ancora a coppa. “Ora va’ laggiù” disse, indicando una piccola salita poco distante. Marco fece come gli era stato detto, ancora parlando, recitando una poesia che aveva imparato a scuola. Suo padre gli indicò che doveva muoversi sotto alla salita poi gli urlò di parlare a voce più alta. Alla fine, terminò e senza spiegargli quello che aveva fatto mandò via Marco prima di prendere un taccuino e di cominciare a disegnare pieno di eccitazione.
Un paio di giorni più tardi fece rapporto a Gramatika. “Credo che abbiamo la risposta per rilevare gli aerei” disse, aprendo il taccuino su cui aveva disegnato immagini di sezioni di cerchi che davano verso l’esterno con linee che puntavano indietro verso il punto centrale di ogni sezione. “Questi sono specchi acustici. Metteranno a fuoco il suono di un aereo che vola verso l’isola. Se ti poni di fronte a essi qui” indicò il centro focale di una delle sezioni,” il suono sarà riflesso verso di te. Sarà amplificato in modo che tu possa sentirlo piuttosto chiaramente. Ora, se ti muovi attorno in un semicerchio davanti allo specchio, avrai il suono più rumoroso quando sarai in linea con la direzione dell’aereo. Possiamo usarlo per rilevare gli aerei ed essere pronti a sparar loro prima che siamo sopra di noi.”
“Funzionerà?”
“Credo di sì, ma ho bisogno di un po’ più di tempo per ottenere la giusta configurazione. Credo che dovremmo fare le sezioni paraboliche in verticale in modo che il suono venga amplificato.”
“In realtà non capisco molto, ma se credi che funzionerà, procedi e decidi quello di cui hai bisogno. Mi serve una stima dei costi. Se veniamo attaccati, è piuttosto probabile che ci saranno aerei e non solo navi, perciò sembra un’idea interessante.”
Anche se si dimostrò complicato, alla fine Giuseppe era fiducioso che il suo progetto avrebbe funzionato. Propose tre sezioni orizzontali a forma circolare disposte a triangolo con le parti di mezzo curve verso l’interno e ogni punta che toccava la successiva, per permettere il rilevamento degli aerei da ogni direzione. Le sezioni erano curve verso l’interno anche sul piano verticale per concentrare il suono verso un ascoltatore davanti. Fece poi un modello in cartapesta per presentarlo agli altri ingegneri, architetti e costruttori che lo avrebbero creato fisicamente.
Decisero di costruire un modello più grande in cemento per testare l’idea – facendo solo una delle sezioni. Non fu facile – in particolare per ottenere la curvatura giusta – ma non si persero d’animo ed eressero il modello vicino alla stazione aeronautica per testarlo. I primi tentativi non andarono molto bene. Scoprirono che il suono di un aereo in avvicinamento poteva essere udito altrettanto bene anche senza il dispositivo. Giuseppe si rese conto che l’ascoltatore doveva essere posto fuori dalla linea diretta del suono. Fu scavata una trincea davanti al muro e ora l’ascoltatore poteva sentire il suono riflesso senza venire distratto e muoversi lungo la trincea per valutare la direzione giudicando dove il rumore fosse più forte.
“Non va ancora bene,” disse Giuseppe. “Il suono deve essere più concentrato.” Si scervellò su questo problema per alcuni giorni.
“Di che forma ha fatto il muro?” chiese al muratore.
“È una sezione circolare – come ha disegnato lei.”
“Ma la sezione verticale dovrebbe essere parabolica.”
“Parabolica? No, è circolare, proprio come il muro stesso.”
“Ma così non concentrerà il suono nel modo giusto! Deve modificarla.”
Il muratore brontolò, e mandò via Giuseppe mentre rifletteva come sistemare la curvatura. La settimana successiva chiamò Giuseppe perché osservasse il muro revisionato. “È stato maledettamente difficile, glielo assicuro e non sono sicuro che farà alcuna differenza. Comunque, ora ha la sua parabola e c’è un aereo in arrivo. Salti dentro alla trincea e veda se riesce a sentire meglio.”
Giuseppe saltò nella trincea e si sforzò di sentire l’aereo arrivare. Un ronzio distante divenne udibile e alzò la mano per mostrare che lo aveva sentito, muovendosi lungo la trincea fino a quando era arrivato a essere il più rumoroso possibile. Alzò lo sguardo verso il muratore. Indicò nella direzione opposta al muro. “Posso sentirlo ora – sta venendo da laggiù.”
Il muratore guardò verso il mare. Ora poteva sentire l’aeroplano, ma non era esattamente sicuro dove fosse fino a quando non seguì il braccio di Giuseppe che indicava la direzione. “Bene, che Dio mi fulmini, ha ragione!” esclamò, sorpreso e compiaciuto.
Giuseppe uscì dalla trincea e il muratore si congratulò con lui. “Impressionante!” disse.
Una versione a grandezza naturale fu costruita sulla cima di Patella, nella posizione scelta da Giuseppe. Nel corso delle settimane seguenti, testò il “muro acustico” che aveva costruito, usandolo per mappare la direzione di arrivo degli aerei e delle navi – quando i loro motori erano forti abbastanza. Funzionava abbastanza bene, anche se Giuseppe fu deluso nello scoprire che il raggio non era grande quanto aveva sperato. “Se arriva un caccia veloce o un bombardiere, potrebbe essere su di noi prima che abbiamo il tempo di reagire” disse Gramatika.
“Non importa, addestriamo qualche uomo a usarlo – abbiamo altri modi per rilevare gli aerei e abbiamo parecchia forza di fuoco – inoltre, non siamo neppure in guerra!”
Marco fu eccitato per il nuovo dispositivo di suo padre. Voleva mostrarlo a Yiannis, ma la zona era vietata al personale non militare – anche Marco non avrebbe dovuto essere lì.
Nel 1935, l'Italia invase l'Abissinia, a cui seguì l’occupazione militare dell’Etiopia. Questa isolò l’Italia di Mussolini e spinse la nazione ad allearsi con la Germania. Il flusso continuo di navi militari italiane che entravano nell’ampio porto naturale di Lero testimoniava le ambizioni militari della nazione che erano chiare sia a Marco sia a Yiannis. Yiannis era eccitato per la dimostrazione di forza, senza capirne completamente le implicazioni, ma il padre di Marco era molto più ansioso. “È tutto molto bello che la nostra gente se ne vada in giro sentendosi forte e importante, ma non siamo fatti per la guerra – e perché avremmo bisogno di esserlo?”
“Ma papà,” disse Marco, “Mussolini sta promettendo di ricostruire l’impero romano! Non ti eccita tutto questo?”
“Sei eccitato allora?”
“Certo” disse Marco. Sollevando le mani per imitare un fucile immaginario, andò in giro emettendo dei rumori come se “uccidesse” dei nemici immaginari.
Giuseppe rise e schiaffeggiò scherzosamente suo figlio. “Ricorda solamente che quando uccidi le persone nella vita reale, queste non si rialzano di nuovo,” disse, “e che loro ti spareranno.”
“Lo so – ma sarebbe magnifico, no?”
Yiannis fu affascinato quando scoprì che la mamma di Marco, Maria, era tedesca. Lei parlava un buon italiano e anche un greco passabile, ma i suoi capelli biondi, che Marco aveva ereditato, erano insoliti. La Germania negli anni ’30 faceva spesso notizia. Dopo che Hitler aveva preso il potere, la nazione stava chiaramente uscendo dalla Depressione e, anche se le persone fuori dal paese erano sospettose del nuovo regime, ai Nazisti fu dato inizialmente il beneficio del dubbio. Per Yiannis, Maria era una creatura esotica, meravigliosa e sofisticata, e, anche se da adolescente, aveva decisamente una “cotta” per lei. Spesso portava la conversazione su di lei senza in realtà rendersene conto.
“Tua mamma, è tedesca, vero?”
“Lo sai che lo è. Mi hai chiesto la stessa cosa ieri” disse Marco.
“Sì, lo so” arrossì. “È solo…”
“È solo che ti piace! Ah ah – a Yiannis piace mia mamma!”
Yiannis diede un colpetto a Marco sul braccio. “Taci, non è così, sono solo interessato. Se è tedesca, perché non parli tedesco?”
“Lo parlo – beh, un poco. Abbiamo dei parenti lì – un cugino di mamma e la sua famiglia. Vivono da qualche parte nel sud, vicino al confine, credo.”
“Wow – sei mai stato lì?”
“No. Papà non approverebbe.”
“Perché no?”
“Ha paura dei tedeschi –crede che creeranno dei problemi.”
“Cosa ne pensi?”
“Beh, può essere vero, ma è eccitante. Comunque mi piacerebbe scoprirlo da solo.”
“Forse dovresti scrivere a tuo cugino – secondo cugino o quello che è – e chiedergli se puoi andare lì. Non hanno scambi scolastici?”
“Sembra una buona idea.” disse Marco. Pochi giorni più tardi avvicinò sua madre mentre era da sola. “Vorrei viaggiare un po'. Magari visitare qualche altra nazione. Hai un cugino in Germania, vero? Credi che magari potrei andare a fargli visita?”
“Non ho molti contatti con Kurt. È un uomo pieno di rabbia. Tuttavia, ho ricevuto una sua lettera qualche settimana fa dove si vantava che ora gli sta andando piuttosto bene. Mi ha scritto che ha un nuovo lavoro. Ora si è messo in proprio. In realtà suo figlio deve avere la tua stessa età. Si chiama Rolf. Kurt dice che sta studiando per diventare pilota.”
“Wow – grande! Mi piacerebbe veramente incontrarlo. Magari potrei andare a trovarlo. Cosa ne pensi?”
“Non lo so, faremmo meglio a chiedere a papI.”
Marco odiava quando lei si riferiva a Giuseppe in quel modo. Sentiva ormai di essere cresciuto, ora aveva quasi sedici anni. Chiamava suo padre ‘papà’ o ‘padre’ e questo lo sentiva molto più dignitoso, ma Maria si riferiva sempre a lui come ‘papi’ ed era scontenta quando le si rivolgeva non come ‘mami’ ma come ‘madre’.
“Non mi lascerà andare, lo so che non lo farà. È sempre a criticare i tedeschi – credo che per qualche motivo ne sia impaurito,” disse scontrosamente.
“Non credo che sia vero. Il tuo papi è uno degli uomini più coraggiosi che conosca.”
“Sì, lo so, ho già sentito quella storia. Ti ha salvato la vita.”
“Beh, lo ha fatto, non essere così critico. Se non fosse stato per lui…”
“Ma mami” si permise di dire nel modo più adulatorio possibile “dai, a te non dispiacerebbe se andassi in Germania, vero? Potremmo chiedere a zio Kurt. Può semplicemente dire ‘no’ se non ha voglia di incontrarmi – cosa hai da perdere?”
Maria fu d’accordo nel parlarne con suo marito e, quella sera, mentre Marco era fuori con Yiannis, sollevò l’argomento.
“Marco ha chiesto di andare a visitare mio cugino in Germania.”
“Non esiste, è decisamente troppo pericoloso lì.”
“Perché dici così?”
“Ci sono stati dei tumulti, ci sono molte voci sul fatto che radunino gli Ebrei e li mandino via. Hitler è un vero agitatore, così ho sentito. Presto ci saranno grossi problemi lì.”
“Oh, dai, Giuseppe, stai parlando della mia gente. Abbiamo imparato la lezione durante la guerra. Hitler è solo un politico. Mi sembra piuttosto intelligente, sta ispirando la nazione e ci sta facendo di nuovo sentire orgogliosi di essere tedeschi.”
“E sta costruendo strade e sta facendo arrivare i treni in orario e, e e… Ma dove credi che porterà tutto questo?”
“Cosa c’è di sbagliato nel riportare di nuovo in piedi la nazione?”
“Sta andando in lungo e in largo per il paese con collegamenti per poter spostare un esercito. Credimi, è un uomo pericoloso.”
“Beh, e tu? Cosa stai facendo? Sta aiutando a costruire postazioni di artiglieria, alloggi per militari e rifugi antiaerei. Non puoi parlare. Almeno Hitler non ha invaso nessuno.”
“Non ancora, ma lo farà, ricordati le mie parole.”
“Beh, prima che lo faccia, credo che dovremmo lasciare Marco andare lì e incontrare suo cugino – non ha nessun altro parente della sua età. Ed è molto eccitato per il fatto che Rolf stia studiando per diventare un pilota, lo sai quanto gli piacciono gli aerei.”
Giuseppe trovava molto difficile discutere con la sua amata Maria. Con riluttanza fu d’accordo che lei scrivesse a Kurt. “Possiamo offrirgli di ospitare il suo ragazzo qui un altr’anno, magari,” concesse, “mostragli il sole del Mediterraneo. Probabilmente gli piacerà.” Si scaldò all’idea. “Forse posso anche ottenere il permesso per mostrargli le cose che stiamo facendo qui.”
Così Maria scrisse a Kurt, e ricevette come risposta una lettera molto amichevole in cui si suggeriva che Marco venisse a trovarli nel settembre del 1936. “In quel periodo ci sarà con lui un ragazzo inglese, che in precedenza ha invitato Rolf in Inghilterra. Credo che sarà molto istruttivo per tutti i ragazzi incontrarsi.”
Maria lesse la lettera a Marco e a suo padre la sera in cui arrivò. Marco era euforico. “Wow! Meraviglioso. Non vedo l’ora! Mi domandavo se Yiannis potesse venire con me”.
“Oh, non credo proprio che sia una buona idea,” disse Giuseppe, “è greco e non sono sicuro di come lo tratteranno i tedeschi.”
“Ma in realtà non è greco, no?” disse Marco. “Parla italiano bene quanto me e in realtà ora è considerato un cittadino italiano.”
Era vero. Spiros, a causa del suo profondo coinvolgimento con i militari italiani, si era sentito obbligato a prendere la cittadinanza per lui e la sua famiglia. A tutti gli effetti, quindi, Yiannis era un cittadino della nazione più strettamente legata alla Germania nazista e aveva diritto agli stessi privilegi di tutti i cittadini italiani.
“Dovremo chiedere a suo padre” disse Giuseppe. Conosceva già la risposta probabile. Spiros era un grande italofilo, “più italiano degli italiani” come dicevano alcuni dei suoi colleghi più scettici. Aveva sfruttato al meglio l’occupazione italiana ed era rispettato dalle autorità militari per la qualità del suo lavoro.
Tuttavia, Spiros non fu del tutto felice. “Non capisco perché gli italiani si stiano legando con la Germania,” disse. “I tedeschi sono solo dei combina guai e questo Hitler e i suoi uomini sembrano un mucchio di criminali. Mi sembra che il vostro Mussolini stia cercando problemi.”
“Detto tra noi, sono piuttosto d'accordo” disse Giuseppe. “Ma questo cugino di Maria sembra a posto e dice che si prenderà cura dei ragazzi. Gli italiani in questo momento sono popolari in Germania. Dopo tutto, Hitler ha fatto tutto lui per primo. Ha corteggiato Mussolini e ha detto un sacco di cose buone su di noi. In ogni caso credo che i ragazzi saranno abbastanza al sicuro, i tedeschi sono delle persone civili, ne sono sicuro.”
Spiros sentì che non essere d’accordo poteva dispiacere i suoi datori di lavoro italiani, perciò fu d’accordo che la visita andasse avanti nonostante una dolorosa discussione con Despina. Quando le disse del progetto si rifiutò immediatamente di approvarlo. “I tedeschi sono dei barbari! Guarda questo.” Gli mostrò un giornale greco. “Dice che stanno deportando tutti gli ebrei. Nessuno sa dove li stanno portando. Si sono rimangiati tutte le promesse che avevano fatto dopo la guerra e dice che stanno ricostruendo di nuovo un esercito.”
“Non so” disse Spiros. “Chi se ne importa di pochi Ebrei? Sono tutti degli arraffatori. Non riesco a vedere il problema.”
“Questa è una cosa terribile da dire! Il tuo amico Giuseppe è d'accordo con te?”
“In realtà no, non lo è. Ma mi ha detto che le chiacchiere sono esagerate. I tedeschi probabilmente stanno solo buttando fuori gli ebrei orientali – polacchi, lituani, gente da quelle parti. I loro ebrei stanno bene. Molti di loro hanno combattuto in guerra – sono tedeschi come tutti gli altri.”
“Ne sei sicuro, Spiros? Non è quello che stanno dicendo i nostri giornali. Veramente non voglio mandare Yiannis in quel posto. Inoltre, non parla tedesco e presumo che questo ragazzo tedesco non parli italiano. Come andranno d’accordo?”
“Marco sta studiando inglese a scuola e anche Yiannis. Sembra che lì ci sarà un ragazzo inglese che parla anche tedesco. Può operare come interprete. In ogni caso, non farà loro nessun male imparare anche un po’ di tedesco, no?”
“E che se ne farà? Non avremo anche dei tedeschi qui, no?”
“Certo che no ma il mondo sta cambiando. Yiannis imparerà molto andando all'estero.”
“Se vuoi solo mandarlo all'estero perché non lo lasci andare a Roma? O anche in Inghilterra – non mi importerebbe. Ma la Germania” alzò le spalle, “no, non posso essere d’accordo.”
“Non è tuo compito essere o non essere d’accordo, Despina. Io sono il capo famiglia e ho deciso. Se Giuseppe dice che è un posto sicuro, allora lo è. Yiannis andrà. A parte tutto sarebbe un problema per gli affari se rifiutiamo.”
Despina scoppiò in lacrime. Sapeva che non aveva senso discutere con Spiros quando aveva preso la sua decisione. “Affari, affari. Tutto quello a cui pensi sono gli affari. Non ti importa di me. Non ti importa di Yiannis – ti importa solo di quanto denaro fai.”
Spiros sollevò una mano per colpirla, ma si fermò in tempo e sibilò, “ah è così? Allora me ne vado.” Uscì, sbattendo la porta dietro di sé. Despina, furiosa, gettò il suo bicchiere di vino mezzo pieno contro la porta e scoppiò a piangere.
Yiannis che era rimasto di sopra durante la lite, scese e abbracciò sua madre. “Non preoccuparti, mamma,” disse. “Sarò al sicuro. Sono in grado di badare a me stesso. Voglio veramente andare – forse posso capire di più di quello che sta succedendo lì.”
“Sei un bravo ragazzo e ti voglio bene. Non sono in grado di cambiare tuo padre, lo sai. Promettimi solo che non ti caccerai nei guai in Germania. E che tornerai sano e salvo.”
Così fu deciso, e Maria scrisse a Kurt per confermare che due ragazzi – due ragazzi italiani (non fece cenno alla nazionalità di Yiannis) – avrebbero preso i loro passaporti e viaggiato fino al Pireo, il porto di Atene, poi preso il treno – l’Arlberg Orient Express – fino a Budapest via Belgrado. Da Budapest poi avrebbero preso l’Orient Express fino a Monaco dove si sarebbero incontrati dopo quel lungo viaggio.
Rolf scrisse a sua “zia” per ringraziarla per aver organizzato la visita e per confermare che avrebbe incontrato i ragazzi a Monaco. Le chiese di dire ai ragazzi di come non vedesse l’ora di mostrare loro la sua casa. Fece cenno anche del suo amico inglese che sarebbe andato a trovare in primavera prima della loro visita e che sarebbe stato anch’esso presente. “Sarà un incontro veramente internazionale e sarà una possibilità di mostrare tutti gli sviluppi del nuovo terzo.”
Capitolo 5
Inghilterra 1920-1935
La casa di Godfrey a Deal era in un piccolo cul-de-sac lungo il Church Path che andava in città partendo dalla chiesa di San Leonardo. Era tranquilla, arredata con sobrietà ma confortevole, con un piccolo giardino dove suo nonno coltivava uva spina, zucche e patate.
I suoi genitori si erano spostati nella grande stanza libera e a Godfrey era stata data la piccola camera da letto di fianco. Crebbe in quella stanza, che era nata come una stanza per un neonato con una culla e dei peluche, e la condivise per un certo periodo di tempo con la sua sorellina. Più tardi quando a Elizabeth – Lizzie – fu data la sua camera, divenne la tipica camera da letto di un ragazzo con modellini di navi e aeroplani che coprivano il vecchio cassettone dove teneva i suoi vestiti.
Aveva adorato suo nonno – mentre aveva trovato sua nonna un po’ tirannica. Sgridava suo marito perché viziava Godfrey se gli comprava un giocattolo o un gelato, e questo Godfrey lo trovava un po’ ingiusto. Gli volevano però bene e aiutavano Ernest e Margaret facendogli da babysitter quando volevano uscire. La nonna morì nel 1927 e poco dopo il suo adorato nonno la seguì.
Sin dalla più tenera età, Godfrey veniva portato sul lungomare e poi sul vecchio pontile. Da lì suo padre gli indicava gli alberi delle navi affondate alle Goodwin Sands e, in una giornata limpida, la costa della Francia a sole venti miglia, o poco più, di distanza. Dopo di questo c’era un gelato al bar di fronte e una camminata a casa per andare a prendere il tè. Chiedeva sempre a suo padre di raccontargli di quei relitti. "Le navi sono affondate durante la guerra?"
"Alcune, forse, ma le Goodwin hanno fatto affondare parecchie navi anche molto tempo prima."
"Eri su una nave durante la guerra, papà?"
“Sì”, rispondeva suo padre, ma non diceva nulla di più. Godfrey cercò di portare la conversazione su quell’argomento per parecchie volte ma ogni volta suo padre cambiava argomento.
"La tua nave è stata affondata?"
"Sì, ma andiamo a prendere un gelato – con 'i vermicelli al cioccolato'!"
Quell’invito di solito distraeva Godfrey, ma poi non si arrendeva e di nuovo suo padre non parlava della guerra. Tutto quello che seppe Godfrey, quando divenne più grande, fu che Ernest aveva delle cicatrici che provenivano dalle ferite che aveva subito nello Jutland. Era ancora in Marina, ma lavorava in un ufficio a Dover e non andava in mare.
“Perché non sei su una nave?” chiedeva.
“Non tutti gli ufficiali navali lavorano sulle navi. In effetti, ci sono un sacco di navi a terra.”
“Navi a terra – che non galleggiano?”
“Sì. Ad alcuni edifici navali vengono dati i nomi delle navi.”
“È proprio sciocco,” diceva Godfrey.
Prima che imparassero a nuotare, Ernest and Margaret portavano i bambini alla vicina St Margaret’s Bay, dove i nuotatori della Manica, rivestiti di grasso d’oca, partivano per fare il loro gelido viaggio fino alla Francia. C’era una spiaggia sabbiosa poco profonda ideale per imparare a nuotare, ma era sempre la loro madre, Margaret, che veniva in acqua a insegnare.
“Perché papà non nuota?” chiese un giorno Lizzie.
“Oh, sai, non gli piace l’acqua.”
“Ma perché se è così bello? Ti piace, vero mamma?”
“Sì certo, tesoro, ma papà si è molto spaventato durante la guerra, tutto qui.”
“Cosa è successo?”
“Oh, è caduto in acqua dalla nave e hanno dovuto salvarlo.”
“Ed è lì che si è procurato tutte quelle cicatrici?”
“Sì, tesoro – ma sai che non gli piace parlarne, perciò, per favore, non tormentarlo. Comunque tutti e due state nuotando veramente bene ora, no?”
Quando fu cresciuto a Godfrey e a sua sorella fu permesso di andare a piedi in città da soli. D’estate facevano il bagno presso la scoscesa spiaggia di ciottoli – anche se Lizzie non accompagnava suo fratello quando nuotava lontano dalla spiaggia preferendo restare dove toccava. I barcaioli locali cominciarono a conoscerli e avvertirono Godfrey delle forti correnti che potevano prenderti e portarti nelle acque profonde visto che il letto del mare scendeva molto rapidamente. Godfrey, però, era diventato un nuotatore sicuro e stava attento a non spingersi troppo al largo. Se veniva preso dalla corrente sapeva che doveva nuotare attraverso e non contro.
I bambini erano delusi per il fatto che loro padre non volesse mai nuotare con loro. In realtà, Ernest sembrava oltremodo preoccupato per il fatto che Godfrey nuotasse, si agitava e si raccomandava che stesse attento ogni volta che entrava in acqua.
“Puoi andare in spiaggia, certo. Ma, per favore, fa’ molta attenzione quando nuoti lì. Potresti non toccare e molto velocemente essere portato al largo.”
“Lo so, papà, ma sono un buon nuotatore, lo sai”.
“Sì, ma mi preoccupo lo stesso. E prenditi cura di Lizzie – non è una nuotatrice brava quanto te.”
“Perché sei così preoccupato?”
“Penso di avere un po’ paura dell’acqua, tutto qui.”
****
Poco dopo la nascita di Godfrey, i suoi genitori parlarono della sua istruzione. “Credo che dovremmo mandarlo a una scuola privata,” disse Ernest.
“Possiamo permettercelo?”
“Credo di sì. Mio padre si è offerto di aiutarci con le rette e io guadagno un salario discreto. So che hai dovuto lasciare il lavoro, ma possiamo farcela.”
“Hai in mente una scuola in particolare?”
“C’è una buona scuola qui nelle vicinanze, King’s Canterbury. Mi è stato detto che è la più vecchia scuola al mondo ancora attiva – è stata fondata nel 597, pare, da Sant’Agostino.”
“597? Spero che abbiano aggiornato i programmi da allora! Ma, seriamente, non credi che le scuole private siano un po’ da snob?”
Margaret, che non aveva frequentato le scuole private, non era impressionata dalla reputazione di “caccia, pesca e polvere da sparo” della scuola privata.
“Beh, io ci sono andato. Sono uno snob?”
“Certo che lo sei!” disse lei, guadagnandosi un buffetto amichevole dal suo affezionato marito. “In ogni caso è veramente troppo giovane perché si debba decidere ora.”
“In realtà no, dobbiamo prenotare un posto per tempo. Iscriviamolo alla scuola elementare – è a Sturry, vicino a Canterbury; vediamo come va lì e, se gli piace, può andare alle scuole successive. Altrimenti possiamo trovargli una scuola qui.”
Margaret fu d’accordo e ne fu felice di averlo fatto, perché Godfrey andò bene. Nella scuola primaria si interessò allo scoutismo e divenne un valido giocatore di rugby, diventando un componente dei “lupetti” e giocando nella squadra della scuola.
Si iscrisse alla King’s School nel 1934, indossando il tipico vestito con pantaloni a righe, giacca nera e collo a coda di rondine. Era un ragazzo socievole, bravo negli sport, diligente anche se non eccessivamente studioso, e popolare tra i suoi compagni. Aveva ereditato le abilità linguistiche di suo padre e sua madre. La sua materia migliore era il francese e il suo insegnante di lingue lo introdusse al tedesco che imparò velocemente con l’aiuto a casa di suo padre.
Essendo già robusto quando arrivò al King’s, si trovò a far parte della squadra junior di rugby già al primo trimestre, giocando come mediano di mischia. Fu in genere in grado di evitare il bullismo a cui erano sottoposte la maggior parte delle matricole. La scuola aveva ancora l’usanza per cui le matricole ricevevano una piccola paga per fare i servitori dei ragazzi più grandi, ma Godfrey non era interessato. Tuttavia, i ragazzi più vecchi spesso trascinavano i ragazzi più giovani nei loro studi mentre passavano e ordinavano loro di andare al chiosco dei dolciumi al posto loro. La prima volta che capitò a Godfrey lui semplicemente si rifiutò di andare. Un ragazzo più anziano di nome Smythey disse “ci andrai o ti picchierò.”
“Non puoi farlo” disse tranquillamente Godfrey.
“Oh, veramente?” disse Smythey. “E perché no, se posso chiedere?”
“Primo, perché non ti è permesso picchiarmi, solo il capo della casa può farlo, secondo perché, per quanto forte mi picchierai non lo farò e terzo perché te le restituirò.”
“Restituire. Restituire? Tu piccolo bastardo. Razza di screanzato!”
Smythe condivideva il suo studio con un gruppo di bulli. Ascoltarono con interesse questo scambio di battute. Uno di loro disse “piccolo stronzetto, va bene. Va’ avanti, Smythey, picchialo.”
Smythe andò verso Godfrey, le mani sui fianchi, “ultima possibilità, rospetto, andrai o no al chiosco dei dolciumi?”
“Non ci andrò” disse Godfrey.
Smythe sollevò il pugno e mirò al suo volto, ma Godfrey fece un passo indietro ed evitò il colpo. Finì, però, contro uno degli amici di Smythey, che lo spinse in avanti mentre Smythey colpiva di nuovo. Questa volta il colpo lo centrò con violenza sul mento. Sentì i denti sbattere tra loro e barcollò. Le lacrime riempirono i suoi occhi ma riuscì a schivare un secondo colpo e colpì con un pugno i genitali di Smythey. Smythey crollò a terra in preda ai dolori mentre i suoi compagni attaccarono Godfrey ma, prima che riuscissero a raggiungerlo, la porta dello studio si aprì e il capitano della casa, un ragazzo di nome Carter, entrò.
“Che diavolo è tutto questo chiasso?”
“Questo zotico si è rifiutato di andare al chiosco di dolciumi per Smythey e poi lo ha colpito sulle palle.”
“Beh, mostra uno spirito combattivo, devo dire. Però non posso permettere che le matricole disobbediscano alle persone più grandi – altrimenti dove andremmo a finire?” Si girò verso Godfrey. “Perciò fa’ come dice.”
“No”, disse Godfrey. “Non sono uno schiavo, non lo farò!”
“Cosa? Mi stai disobbedendo? Sono il capitano della casa, lo sai!”
“Sì, lo so, ma non fa alcuna differenza, puoi picchiarmi se vuoi, ma non andrò.”
“Veramente? Bene, molto bene. Vieni nel mio studio. Vuoi essere picchiato, sei venuto dall’uomo giusto.”
Fece entrare Godfrey nel suo studio lì vicino dove gli altri responsabili della casa erano in attesa alle loro scrivanie. Avevano sentito il litigio ed erano impazienti di sapere cosa stesse succedendo.
“Questo bambino” sogghignò Carter, “questo bambino si rifiuta di fare quello che gli è stato detto. Credo che si meriti una lezione, no?”
Gli altri sorveglianti furono d’accordo con entusiasmo, anche se uno di loro, uno studente di nome Mitchinson fu meno entusiasta. “Ha mostrato del fegato ad affrontare quella merda di Smythe. Non credo dovresti punirlo per aver fatto quello che tutti vorremmo fare.”
“Dobbiamo imporre della disciplina, temo, Mitch. Piegati su quella sedia, ragazzo.” Prese un bastone da una mensola vicina alla porta dello studio, si allontanò da Godfrey, poi corse verso di lui e colpì con violenza la sua schiena con il bastone. Godfrey sussultò ma non disse nulla. “Bene, ragazzo. Abbassa i pantaloni, poi vedremo quanto sei veramente coraggioso.” Godfrey lo fece con riluttanza e di nuovo il responsabile della casa prese la rincorsa e lo colpì con forza. Anche se voleva urlare per il dolore, Godfrey si sforzò di stare calmo.
Il responsabile colpì altre quattro volte prima che intervenisse Mitchinson. “Dai. È sufficiente. Si presume che se ne diano al massimo sei.” Carter sollevò di nuovo il bastone, ma Mitchinson si mise davanti a lui e afferrò il bastone. “Ho detto che è abbastanza.”
Con riluttanza Carter disse a Godfrey di tirarsi su i pantaloni. “questo ti sarà di lezione” disse.
“In realtà” disse Mitchinson gentilmente, “credo che gli insegnerà qualcosa di completamente diverso da quello che intendevi, giusto? Tra l’altro, quale è il tuo nome?”
“Jenkins” disse Godfrey, stringendo i denti mentre tirava su i pantaloni sul suo posteriore dolorante.
“Bene, Jenkins, faresti meglio a uscire da qui. Brucerà per un giorno o due, temo. A proposito, se ti andasse di unirti all’OTC, vieni a trovarmi. Gestisco la sezione dell’esercito e sono alla ricerca di ragazzi duri per il mio plotone. Credo che potresti essere proprio quello che sto cercando.”
Pochi giorni più tardi, Godfrey incrociò Mitchinson in corridoio. “Hai ripensato a quello che ti ho detto?” chiese.
“Sì. Credo che mi piacerebbe ma mio padre è un ufficiale della marina e so che vuole che faccia parte della sezione navale.”
“Peccato. E tu cosa ne pensi?”
“In realtà ci ho pensato. Non mi piacciono particolarmente i pantaloni a zampa d’elefante. Forse dovrei pensare alla sezione dell’esercito.”
“Bravo, vieni a vederci alla sfilata di mercoledì.”
Ci si aspettava che tutti i ragazzi al Kings, tranne gli obiettori di coscienza, entrassero a far parte di una delle sezioni dell’OTC, Esercito, Marina o l’appena formata RAF. Venivano fornite le uniformi e la maggior parte dei cinque trimestri successivi erano dedicati a imparare a marciare e a sfilare prima di sostenere un esame di profitto. Se si passava, si poteva decidere se lasciare gli OTC o andare avanti con un addestramento più specialistico. Mitchinson era noto per scegliere gli allievi che voleva per il suo plotone – il che dava una meritata reputazione di esclusività. Essere invitato a farne parte era una sorta di riconoscimento per un ragazzo nuovo.
All'inizio c'erano un sacco di marce e di parate, ordini urlati da un ragazzo più anziano. Ogni errore o infrazione guadagnava un solenne rimprovero. “Tu orribile ometto” era l'insulto più comune, sia che fosse rivolto a un ragazzo che per errore avesse girato a sinistra invece che a destra, o che fosse arrivato con il distintivo non perfettamente lucidato. Il povero furfante veniva mandato a correre attorno al campo di parata portando sopra la testa un pesante fucile Lee Enfield fino a quando il suo tormentatore decideva che aveva sofferto a sufficienza.
L'addestramento sembrò a Godfrey completamente senza senso. Il massimo del divertimento lo ebbe quando fecero una esercitazione notturna. Non accadde molto, rimasero solo seduti in un campo con un piccolo falò e un piccolo contenitore che conteneva latte di razioni. Le latte sembravano identiche ma alcune contenevano una sorta di stufato, altre una zuppa insapore e una aveva una barretta di cioccolato molto più apprezzata. Uno dei ragazzi del plotone di Godfrey era riuscito a recuperare una piccola bottiglia di rum che si divisero prima di cercare di dormire sul terreno umido. Erano stati dati a ognuno di loro cinque proiettili a salve per i loro vecchi fucili – con l'avvertimento di non usarli a meno che non fosse strettamente necessario.
Intorno alle due del mattino, Mitchinson arrivò per dir loro che un attacco simulato avrebbe presto avuto luogo. “Il plotone di Smythe cercherà di prendervi di sorpresa. Restate all’erta e restate qui,” disse, guardando dritto verso Godfrey.
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