E Non Vissero Felici E Contenti
Federica Cabras
E non vissero felici e contenti è un thriller psicologico. L'autrice, convinta che ogni evento della nostra vita ci condizioni, ha impostato la trama sul passato dei personaggi: ogni evento ci cambia, ci plasma. C'è un matrimonio, e c'è un tradimento. Poi c'è una voglia di redenzione. Ma tutto andrà a rotoli. Il carnefice diventerà vittima... D'altronde quando un carattere è forte sopraffarlo è difficile. Sangue e macabro sono presenti a iosa e ciò che l'autrice vuole fare è stupire.
Edmund Bellavista e Sandra Alti sono sposati da circa quindici anni, ormai. Costretti in un matrimonio ormai esaurito, vivono le loro vite all’insegna della monotonia; è dalla morte della loro bambina, infatti, che un muro li divide facendoli sembrare due estranei. Tuttavia, nonostante la scarsa considerazione che nutrono l’uno verso l’altra, hanno trovato un compromesso: nessuno, mai, tradirà l’altro. Il matrimonio è sacro per entrambi. Ma un giorno la bella e sicura di sé Sandi incontra un collega e il mondo le gira attorno veloce, privo di regole. Si invaghisce, si dimentica dei suoi buoni propositi e intreccia con l’attempato ma fascinoso Vittorio una relazione. Ma la verità non è quella che sembra. Sandi è una donna dal cuore di ghiaccio e, nonostante si accorga che l’uomo si sta innamorando di lei, se ne infischia… D’altronde ha due cose che bramava avere da tempo: la sicurezza di un marito e l’emozione di una relazione peccaminosa. Inoltre la nuova esperienza ha risvegliato in lei la voglia di scrivere – quella voglia che, sempre sopita dentro di lei, non si era mai concretizzata in un’occasione valida. Però nulla è come sembra: Vittorio, l'attempato uomo con cui ha intrecciato una storia di sesso, è un maniaco psicopatico. Lei sarà come le altre? Si arrenderà? Sandi Alto non si arrende. Mai. Lotterà come non mai, senza se e senza ma. La situazione si ribalterà presto e Vittorio si troverà a passare dall'essere un carnefice a una vittima. Morirà e molte altre donne saranno vendicate. In tutto questo Eddie che ruolo avrà? Be', ama la moglie in modo viscerale, la stima e farebbe di tutto per lei. Sarà il suo aiutante. Un assassinio forte, crudo, senza pietà. E poi un duplice suicidio.
Thriller psicologico con punti horror.
Federica Cabras
E (non) VISSERO FELICI E CONTENTI
Pubblicato da Tektime
Prologo
«Be’ sei pronta?», disse lui mentre la aspettava.
Il suo tono non tradiva agitazione né rancore né impazienza. Era calmo, pacato come forse non era mai stato. Ingessato in un completo alla moda e con indosso un profumo costoso dall’aroma dolce non vedeva l’ora, finalmente, di godersi quella serata. Pensava ci fosse un che di magico, in una notte senza luna. Tutti a vantare la bellezza delle notti stellate – quelle nelle quali alzi lo sguardo al cielo e pensi che mai potresti contare tutti quei luminosi puntini gialli – ma lui non capiva affatto: amava il buio, l’oscurità.
Era quello che solitamente abbassava tutte le imposte e traeva beneficio dalla quiete di una casa silenziosa. E adesso, guardando fuori dalla finestra, capiva che quella che si apprestavano a trascorrere era proprio la sera perfetta. I capelli ramati erano fissati con il gel, e i gemelli – regalo di laurea di tanti, troppi anni prima – brillavano nell’artificiale energia dell’abat jour. Gli occhi verdi incastonati da lunghe ciglia quasi femminili brillavano d’eccitazione, ma sapeva che lei non era pronta. Quindici anni di matrimonio erano serviti a capire i suoi difetti – e i pregi, malgrado talvolta non fosse semplice ricordarli – e non c’era dubbio: mai e poi mai le 8 avrebbero significato le 8. Eternamente ritardataria, perpetuamente tanto bella quanto dannata. Ma forse se ne rendeva conto davvero solo adesso. Il suo sguardo vagò per il salotto; dalla sua postazione – una poltrona morbida di pelle verde – poteva vedere la parte della casa che più amava, il salotto. I gufi disseminati ovunque – lui amava quel maestoso quanto regale animale – con i loro occhi enormi, e spiritati, e un po’ inquietanti.
«Eddie, dovresti almeno girarli. Guarda! Mi osservano e io non riesco a mangiare.»
«Ma tesoro, guarda che belli, hanno quei colori cangianti e quell’aria nobile, maestosa.»
«Non mi importa. Non riesco a concentrarmi sulla televisione. Gira quei mostri, subito.»
Le foto, tra le quali quelle del matrimonio rimaste sempre in prima fila, nonostante i problemi, nonostante i dubbi e nonostante le cose scoperte ma sepolte in un recondito angolo della mente.
«Cavolo, Sandy, stai ferma. Porca vacca, non provare…»
«Cioè, non ci posso credere! Stai dicendo quelle cose qui, davanti al fotografo, il giorno del nostro matrimonio?»
«Sandi, non farla tragica. Sei sempre la solita melodrammatica! Le sto dicendo nel tuo orecchio…»
«Ragazziiii, sorridete! Cheeseee!»
Le coppe, quelle che prima di rompersi il ginocchio collezionava giocando a pallavolo.
«Sei sempre fuori! A giocare! E a me? Che dici a tua moglie?»
«A te do tutto il mio amore… dopo le partite!»
La cuccia del cane. Quel piccolo, peloso, bastardello che aveva rubato il loro cuore e il loro divano. Per dieci anni era stato testimone di tutto… litigi e riappacificazioni; amori e odi; urla e gemiti. Ma ora anche lui era andato via. Era nel vento, nella terra, in tutto quello che aveva annusato o marcato con la propria urina. Era nel cielo, nel mare. Era nelle nuvole. Ma non era lì con loro, e questo era un dato di fatto. Non avrebbe più rubato loro la copertina, né il cuore. Non avrebbe provocato le loro risate quando, tondo e cicciottello, cadeva ruzzolando nella neve a gennaio o quando, in piena estate, scappava dietro il gatto dei vicini obbligandolo a fuggire lontano e con una media da record di velocità.
«Ted, piantala di rincorrere Jimbo! Eddie, vai a prendere Ted o al gatto dei vicini verrà un colpo apoplettico!»
«Cara, piantala! È così divertente! Mio Dio, guarda come corre!»
«Ed! prendilo!»
Amava i ricordi. Arrivavano implacabili, forti. Talvolta aveva la recondita convinzione che qualcosa in lui non andasse: era capace di estraniarsi dal mondo per ricordare. Stava con lo sguardo perso nel vuoto, triste, come se qualcosa si fosse fermato nella sua testa. Qualche ingranaggio si arrestava e lui precipitava in passati più o meno lontani. Il flusso del tempo non era normale, in quegli attimi. Era come avere una navicella temporale, solo che non era certo lui a impostarne i parametri. Andava avanti e poi tornava indietro per poi tornare avanti. Le voci erano nitide, le sensazioni vive; persino gli odori tornavano come avessero appena solleticato il suo naso.
Poi gli occhi cambiarono bruscamente direzione e la vide. Quella copertina. Rosa e azzurra. Sempre linda come il giorno che era stata, con cura e minuziosa dedizione, confezionata. I sogni, le illusioni. Riguardo questo fatto non riusciva molto spesso a evocare ricordi, discussioni. Sapeva che il solo pensare a questo avrebbe provocato pianti inconsolabili, melodrammatiche tragedie. E lui non aveva più lacrime. Il tempo un po’ lenisce; leviga le rocce che si piantano nel cuore impedendogli di pompare sangue a dovere e libera i polmoni da quel peso che non permette respiri profondi. O forse quell’organo chiamato cuore lui non lo aveva più.
Voltò lo sguardo, posandolo sul tavolo. Se si punta lo sguardo su qualcosa di scuro e indifferente, come un comunissimo tavolo da cucina, le tristezze vengono rigurgitate dai propri occhi; vengono ricacciate dentro l’anima, o almeno così credeva lui. Un’altra cosa che aveva imparato, sempre con il tempo e la pazienza, era che se si hanno delle convinzioni si devono tenere strette. E non importa se si è nel torto, o se sono cose sciocche, surreali, inverosimili: aiutano.
Il rumore sordo dei tacchi sulla scala di legno attirò la sua attenzione. Sandra era a metà e, con fare sexy, poggiando un braccio alla ringhiera in ferro battuto, si girò e gli sorrise mentre a lui si mozzava il fiato.
Lei era bellissima, raggiante. I capelli fatti da fili d’oro erano sistemati in uno chignon elegante dietro la testa, e il vestito – mio Dio, quel vestito, spettacolare quanto costoso, attillato quanto elegante – le fasciava il corpo lasciando intravedere quelle forme che l’avevano incantato anche quella sera di 16 anni prima quando, giovani e inesperti, avevano deciso che valeva la pena di uscire anche una seconda volta.
«Bene, sono pronta.» disse lei, divertita.
Sapeva che lui non si sarebbe arrabbiato, non oggi. D’altronde avevano deciso che sarebbe dovuta essere fantastica, quella sera insieme. Atteggiandosi a bomba sexy scese gli ultimi tre gradini con una sicurezza impareggiabile, se non fosse che nell’ultimo gradino una spettrale forza sovrumana – che lei chiamava amabilmente scoordinazione – le piegò il piede verso destra. Sarebbe certamente rovinata a terra – lei e quell’amabile vestito – quando lui, svelto e agile come una gazzella nella Savana, le cinse i fianchi sussurrandole, serafico: «Non cambierai mai… vuoi un deambulatore, amore?»
«Oh, mi basta la tua presenza per sentirmi vecchia.» lo rintuzzò lei che in quanto ad acidità pareva essere un’esperta.
«Bene, il ristorante ci aspetta…» concluse lui, accompagnando le parole con una sonora pacca sul sedere della moglie che, presa alla sprovvista, spalancò gli occhi, stupita. D’altro canto non era sempre che loro due solevano scherzare. O meglio, solo negli ultimi giorni accadeva e non sovente. Ma non avrebbe certo avuto tempo di abituarsi.
Le prese la mano e si avventurarono nel gelo della notte, in quella città che albergava anche nel loro cuore. C’è magia nella notte illuminata di una città, e loro, ipnotizzati dai colori, non si sarebbero mai stancati di passeggiarvi. Mille strade, di quelle che avevano percorso centinaia di migliaia di volte. Gli edifici – quelli grandi, infiniti, imponenti – e le piccole case – graziose con portici stipati di fiori e di rampicanti. L’odore di vita – quell’odore di smog misto a cibo – che si sente in quelle strade trafficate, vissute, amate. I negozi, illuminati a giorno e pieni di gente sorridente o musona, chiacchierona o riservata, bella o brutta. Miliardi di vite che ogni giorno si incontrano e si scontrano, si amano e si odiano. Ma loro amavano quel posto da cui tutti i loro amici volevano scappare. «Troppo frenetico.», sostenevano. O: «Vivere qui toglie dieci anni di vita… qualche anno e mi trasferisco nei Caraibi. Prendo una vacanza e torno arzillo come un ragazzino ventenne.»
Per loro sarebbe stato impossibile trasferirsi, e lasciare quei posti tanto amati. Per gli altri erano indiavolati, per loro ameni; per gli altri erano sporchi, per loro lindi; per gli altri erano fastidiosi per loro vitali. Di continuo la gente parlava di quanto fosse bello poter vivere su una barca nell’oceano – l’amica di Sandi, Olivia, sosteneva che era davvero “un sogno migliore di quelli che si tengono nel cassetto” – o nel deserto, meditando e camminando – Eddie stava male solo a pensarci: ripugnava sia il caldo che la sabbia, condizioni necessarie per quel tipo di vita.
Anche ora, in quel giorno così speciale, con meraviglia e stupore, si guardavano attorno. Mano nella mano, ogni tanto un sorriso li rendeva ancor più complici di prima. Quindici anni di matrimonio e doveva accadere questo perché uno dei due si accorgesse del bene che voleva all’altro.
«Sei felice, Sandi?» chiese, quasi timoroso, lui.
«Be’, se con felici intendi appagata, soddisfatta, finalmente equilibrata… sì. Se intendi felice felice non credo. Tutto finisce, niente è per sempre. E chi, più di noi, lo sa?»
«Non intendo dire che va tutto bene, sia chiaro. Ma va meglio. Alle volte l’unica cosa che si può fare per combattere il male di vivere è fare le cose a mille. Meglio un giorno da pecora…»
«Non starai nuovamente iniziando con quella tiritera di...»
«Non ci posso credere! Anche oggi! Fanculo, Sandi. Ti ho dato tutto e sono pronto; pronto per te, pronto per tutto. Ma non trattarmi con quel tono!»
«Quale tono? Sei un fottuto psicopatico!»
«Stronza maledetta, quel tono condiscendente che indica commiserazione.»
«Hai ragione, ti prego, scusami. Godiamocela, oggi. Minimo. Mea culpa. Meriterei una fustigazione pubblica…» aggiunse, mentre le labbra, increspate in un sorriso innocente e malizioso insieme, luccicavano nella luce di un lampione.
«Potrei persino farlo, ma ti amo.» disse mentre, con cura e lentezza, si avvicinava per poggiare le sue labbra su quelle di lei. La baciò come fosse la prima volta. Sentì un sapore fruttato – ciliegia, fragola? – e un tepore tanto familiare quanto soddisfacente.
«Può baciare la sposa.»
La folla esultò, e lui le scoprì il viso dal velo candido come la neve. Nello sguardo di lei c’era un tripudio di emozioni – amore, sì, ma anche emozione, voglia, appagamento, leggerezza e liberazione – e le sue mani tremavano, scosse da quell’attimo. Si asciugò con la manica dello smoking gli occhi bagnati dalla commozione, e la baciò. Un brivido corse freddo lungo la schiena.
«Perché tremi?» disse lei, preoccupata e confusa insieme.
«Ricordi, Sandi. Solo ricordi.»
«Ricordi? Ogni tanto vengono a trovarmi, ma li caccio la maggior parte delle volte. Prova anche tu.»
«Non ne sono capace, lo sai. La mia testa si perde. Avanti e indietro.»
«Sei matto.»
«Forse no o forse sì; comunque dubito fortemente sia dato da sapere a noi, oggi. E poi sto peggio del solito, sai? Mi è sempre accaduto di non poter controllare il flusso della mia mente ma tutto si è acutizzato, oggi. Non fanno altro che prendermi come fossi una bambola di pezza, e trascinarmi in un vortice di eventi, di date, di frasi e di odori.»
Il suo monologo pareva una confessione. Si tenne la testa fra le mani, poi si massaggiò brevemente le tempie, come se questo meccanismo potesse lenire la sofferenza di non sapere come le leggi del mondo possano rendere ogni uomo schiavo del proprio destino.
«Senti, io penso sia un dono. Cioè, tu ancora hai il modo di ricordare tutto… cioè, tutto tutto… mentre i miei ricordi spariscono, inghiottiti da un enorme buco nero. Nonostante voglia che certe cose siano fissate nella mia mente loro fuggono, si perdono.»
Lui sapeva di cosa parlava, ma non rispose. Non parlavano mai di quella sera, anche perché faceva male. Condividere un dolore fa sì che si mostri la fragilità, e tutto diviene meno facile quanto si mostra la propria debolezza, è risaputo.
Quegli occhioni spalancati, chiari, grigi. E quella pelle pallida e morbida. Nemmeno un dentino, ma la smorfia tradiva un sorriso.
«Che sogna, secondo te?» chiese, fremente di impazienza, lui.
«Ma, non so Eddie. Magari le mie tette.» sentenziò, con fare pensieroso.
«Proprio come suo padre, allora.» aggiunse lui.
«Il tuo sarcasmo è proprio di cattivo gusto…», lo rimproverò senza livore. Erano giovani, e da un mese, assaggiato il dolce sapore di essere genitori, toccavano il cielo con un dito. Si abbracciarono, felici. Poi guardarono la culla, verso quella nuova, preziosa vita e con un solo sguardo fu subito chiaro che la perfezione era stata giunta.
Un attacco d’ansia stava facendo capolino, ma non l’avrebbe fatta vincere. Provò, velocemente e in mezzo alla strada, una tecnica che aveva letto qualche giorno prima in un giornale. Tenendosi il ventre con la mano destra – o era la sinistra che avrebbe dovuto adoperare? Non ricordava affatto – con l’altra si tappò prima una narice e poi l’altra attendendo che i battiti del cuore tornassero normali.
«Che diamine stai facendo?» chiese lei, un sopracciglio alzato in segno di disorientamento.
«Cerco di calmarmi, cara.»
«E perché lo devi fare? Sei nervoso? Perché ne abbiamo parlato, e a lungo persino. Sei liberissimo di…»
«Sciocca!» urlò, poi si ricompose. «Dai, non fare così; è stato un momento di smarrimento. Nulla di che. Non devi essere sempre così insistente, e curiosa. Sono sicuro, anzi sicurissimo.»
«Bene, allora.»
Era soddisfatta. D’altronde aveva calmato le acque più lei con il suo modo fastidioso di sbottare che lui con quell’assurda e inutile tecnica. Lui, d’altro canto, si era dovuto calmare: lei era incredibilmente aggressiva, quando si arrabbiava. Lungi dal voler provocare un inferno aveva dovuto desistere dalla sua idea, volente o nolente. E forse era meglio così.
Erano oramai arrivati. Appena dentro un cameriere adolescente con i capelli sistemati alla bell’e meglio li condusse al tavolo che avevano prenotato.
«Un tavolo per due giusto? I signori Bellavista?» disse, in tono veloce e agitato. Era nuovo: aveva quell’atteggiamento di affettazione mista a insicurezza di quando si vorrebbe far colpo ma si è sicuri di non avere la sicurezza o le qualità necessarie. Comunque loro sorrisero, e lui rispose mettendo in bella vista i denti ricoperti di un brutto apparecchio metallico.
Li condusse a un tavolino di legno pregiato, dal design moderno. Linee morbide per un capolavoro color ciliegio; le gambe decorate a mano rendevano il clima antico ma non in modo obsoleto. Una tovaglia di raso bianco decorato con pizzi e fili dorati aggraziava ulteriormente l’atmosfera. Due candele rosse accese creavano l’atmosfera di cui avevano bisogno e per la quale, peraltro, Sandi si era tanto alterata al telefono durante l’ordinazione.
«Le ho detto che è un giorno importante, per me e per mio marito. Vogliamo qualcosa di unico, di speciale. Non so, qualcosa che faccia dire agli altri clienti, vedendoci: “Oh, che belli… chissà quali sogni d’amore si stanno raccontando!”. Capito?»
«Mi faccia capire, signora. Vuole avere un tavolo bellissimo, elegante, rivestito con stile e allestito a regola d’arte, per due, che faccia meravigliare gli altri clienti proprio stasera e che non sia nemmeno troppo dispendioso? Vuole anche qualcos’altro?» aggiunse, poi, esausto. Era abituato ai clienti e alle loro strambe, impossibili richieste. Dieci anni prima avrebbe senz’altro riagganciato il telefono, ora i tempi erano duri e si limitò solo a una lieve, impercettibile ironia. Sandi, dal canto suo, aveva capito il suo tono sarcastico, ma non le interessava: se lui avesse accettato, bene, nel caso contrario aveva altri dieci ristoranti da chiamare con le stesse surreali richieste.
«No, davvero. Nient’altro. Solo questo.»
«Ah menomale. Sarà fatto. Per stasera, giusto?»
«Sì, bene! A nome Bellavista.»
«Arrivederci!»
«Arrivederci a lei.»
Tom – era questo il nome del capo-cameriere che aveva preso l’ordine – si disperò solo un po’. Il suo turno era finito, e dopo aver annotato le parole “elegante” e “creare meraviglia” accanto all’ordine del tavolo di Sandi ed Eddie, entrò in auto certo che anche quella notte avrebbe preso una bella, rovinosa sbronza. Sperava solo di non addormentarsi nella vasca da bagno: l’ultima volta aveva sofferto per un mese di mal di schiena. «Dio benedica le Aulin.» annunciò, a se stesso. E a chi altro poteva dirlo? Solo come un cane randagio e altrettanto avvicinabile, si apprestò ad arrivare a casa sua prima possibile.
«Sei soddisfatta, Sandi?» domandò ironico Eddie. Aveva assistito alla telefonata della mattina, e sapeva che le richieste erano un po’ troppo esagerate. Comunque era tutto perfetto; anche il prezzo non era stato troppo alto. Certo, proprio oggi non si sarebbe lamentato. Gli venne un sorriso, poi gli passò. Non sapeva ancora come prendere quella situazione surreale. Scosse la testa e attese la risposta.
«Be’, sì alla fine va bene. Non vedo la meraviglia negli occhi degli altri clienti, però.»
«Ah, ci credo. Siamo gli unici nella stanza!»
«Appunto.» lo rimbeccò lei, seccamente.
La verità era che, quando ci si metteva, aveva un modo di fare totalmente egoista. Fosse stato per lei il mondo non sarebbe girato attorno al Sole, ma attorno al suo ego.
«In ufficio oggi si parlava di quello che è accaduto, me l’ha detto Sergio al telefono poco fa.» cambiò discorso Eddie.
«Cosa hai fatto?»
«Ho dovuto fare la voce meravigliata; è stato straziante.» si prese il viso tra le mani. Quando meno se lo aspettava qualcosa lo faceva precipitare nello sconforto più totale.
«Va be’. Alla fine è andata. Brindiamo. A noi, al nostro amore, alle disgrazie che ci hanno unito.»
«E a oggi, che ci libererà da tutti i problemi e ci renderà uniti davvero e senza intoppi.»
Alzarono ambedue il calice che tenevano in mano e diedero vita a una di quelle scene da film che tutti, almeno una volta ella vita, sognano di mettere in piedi. Volti raggianti, sorrisi soddisfatti, espressione pacata e finalmente distesa.
Lei lo guardò, forse per la prima volta con attenzione da quando erano usciti da casa. A 47 anni era ancora piacente, con le spalle larghe e i capelli color miele. Gli occhi erano dolci – era un dettaglio non trascurabile, visto quanto le avevano fatto paura quando, arrabbiato, si stringevano a fessura – e dalla forma femminile. Si era sempre domandata come sarebbero sembrati belli con un po’ di mascara. Gli sorrise e lui ricambiò.
“L’amore è questo…” pensò. “Perdersi ma ritrovarsi per amarsi ancor più di prima. Rispettarsi ed essere capaci di fare di tutto pur di difendere quella scintilla che si accende quando due metà si uniscono. Io e Eddie siamo due metà, e ci siamo ritrovati. Dopo una tempesta, rovinosa e potente, e dopo piogge più o meno forti. Io e lui abbiamo scalato i monti, con la sola forza dell’amore. Non ho mai avuto scelta, ho avuto lui che era il mio solo ed unico destino. Il mio scopo. La mia missione. Mi è andata bene così. Di lusso.”
«A che pensi? Un soldo per i tuoi pensieri.» propose lui. Non gli piaceva vedere il suo sguardo perso nel vuoto. Trovava che lei riflettesse sempre troppo.
«A noi, Eddie. A quanto ci ha uniti una cosa che generalmente separa. A quanto siamo coraggiosi e forti. L’audacia non ci manca, non credi?»
«Sì, non ci manca no!»
Sandi era in lacrime, Eddie girava qua e là o passo veloce e nervoso. Un gufo cadde e si ruppe l’ala: si era ritrovato nella sua traiettoria. Sandi si spaventò: i gufi di suo marito erano sacri, preziosi affettivamente. Corse e lo rimise in piedi, ma per l’ala non si poteva più fare nulla. La disperazione nella stanza era palpabile.
«Sai cosa dobbiamo fare!» blaterò lei, mentre le lacrime le rigavano il viso stanco e smorto.
«Ma non so se voglio!»
«Non abbiamo scelta, Eddie. Ne abbiamo già parlato. Cosa ci capiterà? Che dovremmo affrontare, se non facessimo quello che ci siamo prefissati di fare?»
«Lo so, lo so.» concluse lui, rassegnato. Sapeva che l’unica soluzione era quella. Per quanto fosse triste, non avevano scelta. Era così amareggiato che avrebbe potuto rompere tutti i soprammobili della casa. Poi si sarebbe accanito contro i mobili e magari avrebbe danneggiato i muri. Si sarebbe sentito meglio? Forse sì e forse no. Ma non lo fece. Sarà che la decisione era stata presa ancor prima che venisse detto “sì” da ambedue; sarà che l’unica cosa che, nascosta dalla sopraffazione e dalla rabbia, produceva sollievo era quella; e sarà che sapevano che prima o poi si giunge al capolinea e quel giorno erano davanti al traguardo. Avevano vissuto a mille e provato a usare tutta l’astuzia di cui disponevano, ma non era stato utile. Avevano fallito, e non potevano vivere con quel senso di rovina nel cuore.
«Eddie! Eddie! Mi senti? Terra chiama Eddie!»
«Oh, scusa, Sandi. Ero sovrappensiero.»
Un lungo sorso di champagne avrebbe lenito quel senso di frustrazione, o almeno lo sperava.
Mangiarono lentamente: si godevano le portate e l’atmosfera.
«Secondo te sono già arrivati a noi?» chiese lui, con tono sbrigativo. L’ultima cosa che voleva era suscitare un caos. Sapeva che con lei non si era mai fuori pericolo da tuoni e lampi.
«Non lo so, e nemmeno m’interessa.» rispose, lei, addentando una focaccina. «Che, poi, alla fine, abbiamo già capito che il mondo ci ringrazierà.»
Eddie era stranito: non credeva che il mondo avrebbe necessariamente inneggiato a loro due, comunque non era nemmeno del tutto certo che le colpe sarebbero confluite sulle loro azioni. Non sapeva che pensare. A volte le cose vanno a fortuna: lanci una moneta e ti tocca o testa o croce. La loro moneta era ancora in aria.
«Testa, fai testa…» sussurrò, senza farsi sentire.
Bevvero e risero poi bevvero di nuovo. Nessuno avrebbe potuto biasimarli… non quel giorno e non con tutto l’arsenale di ricordi che stavano cercando di seppellire in un angolo recondito della propria testa.
«Ma alla fine tu me le hai mai fatte le corna?» domandò lei, un po’ brilla.
«Nossignora. Mai. Una tipa mi ha quasi strappato di dosso le mutande, sembrava una mangiatrice di uomini…»
«Carino.» commentò lei, un sopracciglio sollevato.
«Ma io non glielo ho lasciato fare.» aggiunse, con orgoglio. Ricordava ancora quel bel sedere – con, annessa e connessa la sensazione di averlo tra le mani – e quel completino in pizzo, ma questo non l’avrebbe mai ammesso con sua moglie. «L’ho respinta.»
«Che uomo…» mormorò lei. «Era una bella donna?»
«Che c’entra?» sospirò lui, capendo al volo la trappola. «No, era una donna normale, un po’ grassoccia. Forse anche lievemente strabica. Capelli crespi e sedere grosso. Non il mio tipo, comunque.»
Il corpo di Giorgia era tutt’altro che normale – era una gran figa, di quelle che si vedono nelle riviste mezze svestite – e i suoi capelli sembravano fatti di seta, ma ora era il caso di aggiungere benzina sul fuoco.
«Piuttosto, tu? Mia dolce donna del mistero.»
«Io, no. Assolutamente.»
Sandi era calma e sicura di sé. Mai e poi mai si sarebbe rovinata.
«E il tuo libro? L’hai lasciato a Olivia? Il titolo?»
«Sì, è nelle sue mani, o, meglio, è quasi nella sue mani. Lo troverà domattina. Il titolo non lo so… lo deciderà chi per me.»
Poco prima di dolce e caffè lei disse al cameriere, all’orecchio, di aspettare un quarto d’ora prima di portare un tiramisù per entrambi.
«Sai cosa dobbiamo fare?» disse lei, gli occhi spalancati e accesi. «Vieni con me!»
Si alzò e lo prese per mano. Lui non capiva. Lei si guardò attorno, guardinga, e lo spinse dentro il bagno delle signore. Una volta dentro lo baciò con foga e gli ricordò – per l’ultima volta – chi fosse Sandra Alti e perché facesse perdere così tanto la testa a tutti, malgrado lui questa capacità non l’avesse mai veramente dimenticata.
Uscirono poi dal locale, tirandosi per le mani, eccitati e felici come due adolescenti.
Mangiarono un gelato, poi corsero tra la folla cercandosi, trovandosi, rincorrendosi. Tutti ridevano, alla vista di quella coppia adulta che si faceva gli agguati, che urlava e si nascondeva. Nessuno capiva. Ma loro sapevano. A mano a mano che giungeva l’ora divenivano sempre più nervosi, inquieti. Era come se non vedessero l’ora che tutto avvenisse ma nel contempo che volessero prolungare quell’ora di libertà, di pace, di leggerezza.
Poi si guardarono. Un ultimo bacio fu scandito dalle campane che annunciavano la mezzanotte, e fu allora che camminarono mestamente verso la strada che avevano scelto con cura.
Stapparono un’altra bottiglia di champagne – che Sandi aveva comprato in un’enoteca proprio per quell’occasione – e bevvero alla grande. Poi si presero per mano, presero un respiro e saltarono dall’alto cavalcavia.
Qualcuno ha detto che tra il decidere di uccidersi e il farlo ci sia un momento – un solo, impercettibile e svelto momento – nel quale tutto si mette nuovamente in dubbio. Ecco perché spesso all’ultimo momento si chiede aiuto, o si fugge. È un ultimo barlume di speranza, di voglia di vivere e spesso è di vitale importanza. È la linea che divide l’essere vivi dall’essere morti. Sandi e Eddie avrebbero potuto pensare che a tutto c’è una soluzione, che ogni cosa si può risolvere. Invece le loro menti non ebbero quel momento di riflessione. Poco prima di saltare Sandi pensava a quanto avrebbe desiderato sapere la sorte del libro e all’eventuale titolo che avrebbe voluto dargli, mentre Eddie al fatto che quel cielo di mezzanotte venato di un rosso fuoco fosse fantastico.
E con i pensieri: “Diario di una passione mortale” e “L’avrei voluto nella nostra stanza da letto” finirono due vite, complesse e malate, in un certo senso, ma senza ombra di dubbio interessanti.
*
Ester e Miguel erano fatti, come al solito. Lei urlava per cambiare stazione alla radio e lui urlava perché non voleva che lei urlasse. Avevano un concetto di vita che oscillava dall’illegale al dannoso. Tutte le cose pericolose o schifose o moralmente inaccettabili li affascinavano. Non ricordavano l’ultima volta che avevano fatto l’amore da sobri e senza aver assunto droghe. Non l’avevano comunque mai fatto in un letto. Quando finivano la grana per bucarsi di eroina si inventavano qualcosa; era più difficile se finivi a rota – tutti potevano fare di te ciò che volevano, ed eri alla mercé di ogni idiota che passava – ma erano sempre riusciti a tirare su qualche soldo. Lei aveva già venduto da tempo tutto il suo oro; lo aveva unito a quello rubato a sua madre ed era uscito un gran gruzzolo. Lui non aveva né oro né madre che avesse oro, quindi non aveva avuto nemmeno l’opportunità di farlo. Insieme avevano messo su ebay gli elettrodomestici e i mobili. Ora vivevano in una catapecchia con un tavolo, un materasso maleodorante e scosciato e una televisione datata e polverosa. Da qualche mese lei doveva adescare gli uomini ricchi nelle stazioni di servizio; le faceva schifo e talvolta le veniva voglia di smettere di farsi solo per non vedere quelle facce eccitate, e sudate, e grasse. Ma poi si tornava al principio. Lui diceva di amarla, ma accettava di buon grado che vecchi pervertiti posassero le mani su di lei. «È per una buona causa.» si ripeteva. E non ci pensava. Se l’avesse fatto sarebbe precipitato nella tristezza della sua miserabile esistenza e non ne sarebbe uscito vivo.
Non erano altro che due poveri miserabili che, per un fortuito caso del destino, si erano incontrati. Non avevano idee, né prospettive. Nemmeno i loro nomi erano quelli reali.
Lei veniva da una famiglia perbene; padre avvocato, madre professoressa di italiano e sorella biologa, ricercatrice alla Sapienza di Roma. Un futuro angelico era stato scritto anche per lei, o almeno finché, a quindici anni, fu chiaro a tutti che una pecora nera ci vuole in ogni nucleo familiare. Iniziò con roba leggera, poi entrò in brutti giri: solita storia. I suoi, troppo perfetti per tutta quell’anormalità, con gli estranei non la nominavano neppure ma fra loro ne parlavano di continuo. Non sapevano quale fosse l’errore, cosa avessero fatto di male. Per fortuna l’altra figlia, con i suoi scintillanti risultati, oscurava l’insuccesso di avere una disgraziata in famiglia. Ogni tanto, tra un buffet di Natale e un Capodanno sempre con gli stessi facoltosi amici con la puzza sotto il naso, quando il senso di colpa si impadroniva del loro cuore di pietra la cercavano e le davano un paio di biglietti da cento euro; magra consolazione, dato che venivano usati solo per un ulteriore passetto verso la morte.
Lui era, invece, un bambino nato disagiato. Aveva assaggiato, fin da piccolo, il sapore del sangue nella bocca: non sempre i compagni della sua mamma erano capaci di amarlo. Era stata lei – la sua mamma, la figura che dovrebbe, in genere, adempiere al faticoso compito di rendere l’esistenza dei propri figli un incanto – a iniziarlo alla droga. D’altronde lei stessa era stata indirizzata da suo padre, trafficante di droga noto in tutto il circondario. Nemmeno se si fosse impegnata avrebbe potuto fare di meglio. Aveva messo al mondo cinque figli tutti di padri differenti, e aveva fatto in modo che ognuno di loro fosse abbastanza capace di mettersi nei guai prima di schiaffarli alla porta. L’unica sorellastra con la quale avesse stretto legami e alla quale voleva un gran bene era sparita anni prima; questo di certo non l’aveva aiutato.
Lui se ne era fatto una ragione. «È la vita…», diceva, con tono triste ma fermo.
Stavano insieme da anni; entrambi avevano altri amanti e spesso litigavano tanto da mettersi le mani addosso… tuttavia erano l’uno il porto sicuro dell’altro. C’erano, e in quel tipo di vita era già tanto così.
«Fanculo, abbassa questa merda!»
«Muori, maiale!» disse lei. Era mezzanotte ma aveva gli occhiali da sole. Muoveva la testa a ritmo di canzone e aveva chiuso gli occhi. Quella canzone parlava di amore e speranza; ascoltarla portava un po’ di luce nel buio di una vita vuota, senza senso.
«Eccheccazzo, sei sempre la solita stronza!»
«Senti,» disse lei, poco convinta «ti ho procurato la dose, sai? Quindi che vuoi da me? Minimo mi fai sentire la canzone di che cazzo mi pare…» concluse, perentoria.
Lui mise il muso, ma lei non se ne curò.
«Merda, c’è un cazzo di animale nella strada!»
«Frena!» urlò lei, in preda al panico.
Ma non ci riuscirono. Investirono quella carcassa scura. Poi, con un botto, si fermarono e scesero dalla macchina per vedere.
Nessuno li avrebbe potuti preparare per quello che avevano davanti.
Ester vomitò l’anima e litri di alcol su quei due corpi martoriati.
Gli occhi di Sandi erano aperti, vuoti, freddi e la testa, girata sul lato destro, era piena di sangue. Eddie era riuscito a chiudere gli occhi, prima di frantumarsi nell’asfalto di quella strada poco trafficata. Gli arti di ambedue formavano angoli irregolari.
«Chia, chia… Chiama… Chiama qualcuno!»
«Ester, qui ci vuole un carro funebre.»
«Non mi importa chi diavolo vuoi chiamare, Miguel! Chiama qualcuno… Oddio, oddio…»
Pianse a dirotto, chinata su se stessa.
Ancora non sapeva che quell’immagine l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita; non sapeva nemmeno che quella strada coincidenza degli eventi l’avrebbe salvata.
*
Arrivò un mare di agenti, paramedici e medici. A Ester venne data una coperta mentre Miguel giaceva svenuto in un’altra ambulanza. Ma nessuno si stupì di quel macabro ritrovamento. I corpi vennero chiusi in un telo di plastica scura e spediti all’obitorio.
Qualche giorno dopo Ester e Miguel si fecero una promessa: che quello fosse un nuovo inizio. Soprattutto dopo aver scoperto la verità.
PARTE PRIMA
Si dica ciò che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia.
Arthur Schopenhauer
1
Sandra Alti era una bella donna – di quelle belle donne che rimangono impresse nella mente di chi le trova nel suo cammino. Non aveva quella bellezza perfetta – stile Barbie, con capelli platino, occhi cielo e fisico asciutto – ma sapeva produrre invidia nelle donne ed eccitamento negli uomini. Procace e seducente, maliziosa in sguardi e frasi, mai ingenua – anche se sapeva fingere bene, il più delle volte, di esserlo… se non altro per attirare su di sé ancora più ammirazione – sapeva nascondere il suo egoismo dietro frasi di circostanza e finto interesse. Era sempre stata una prima donna, e mai e poi mai avrebbe ceduto trono, scettro e corona a qualcun’altra. Se non ti ascoltava non era mai perché era un po’ sorda – come talvolta sosteneva, seppur con poca convinzione, al fine di rendere le cose meno evidenti – ma perché semplicemente o non le interessavi tu o non si curava di ciò che avevi da dire. Le sue armi – infallibili e precise – erano un’estrema autostima – nessuno mai avrebbe potuto farle pensare che non valeva; chiunque ci avesse, in passato, provato, era finito in un bar malconcio a bere sulla sua stupidaggine – e un Gucci sui polsi. Non aveva un lavoro molto soddisfacente – faceva l’imballatrice presso una grossa azienda di giochi per bambini – ma aspettava, di continuo e senza mai perdere di vista l’obiettivo, la sua occasione come scrittrice. Erano anni che provava a scrivere; aveva iniziato una favola, un romanzo e un bel paio di racconti per bambini, tuttavia, puntualmente, si ritrovava a chiudere il PC e a tornare alle faccende domestiche. Le mancava quel non so che necessario per trovare l’idea vincente. Non si sarebbe arresa – «Mai!» aveva giurato a se stessa, qualche inverno prima – ma per ora si limitava a svolgere una vita annoiata e disinteressata. Suo marito Edmund Bellavista, per tutti Eddie, del resto aveva smesso di prenderla sul serio: lei non avrebbe nemmeno saputo dire perché, ancora, dopo tutti quegli anni, fossero ancora sposati, visto che l’interesse era finito da un pezzo.
Era proprio a questo che pensava, in quell’umida mattina di fine aprile, mentre, in mano un bicchiere di vino bianco, faceva un bagno caldo nella vasca a idromassaggio.
Pensava a quanto fosse infelice la sua esistenza. Una grande casa e due estranei che vi abitavano. Nulla di nuovo, nulla di speciale… nulla e basta. Il bagno, nei suoi colori tenui, era il luogo adatto per riflettere sul senso della vita. Un senso che, tuttavia, ora a lei sfuggiva: «Perché continuare a fingere?» concluse, stancamente. Poi pensò allo stipendio di lui – di netto superiore al suo – e tutte le soluzioni le giunsero al cervello annacquato di acqua e profumi per bagno.
«Sono a casa!» urlò Eddie, dal piano inferiore. Lanciò la borsa nella poltrona e si diresse in cucina. Nessuna risposta, ma ci era abituato. Solo cercava di avvisarla quando entrava in quella casa che era di entrambi; se non altro per non far succedere quello che era capitato qualche tempo prima.
Era stata una giornata faticosa in ufficio, ma era riuscito a terminarla in modo più indolore possibile. Non aveva avvisato Sandi che stava rientrando: solitamente quando faceva tardi dormiva da Sergio, suo amico e compare, ma quest’oggi, liquidata la sua solita proposta si era diretto verso casa. Aveva bisogno di un bel bagno e del suo letto.
Entrò in casa cercando di non fare rumore e si diresse verso il frigo bar. Prese una bottiglia di Montenegro e ne versò una quantità generosa in un bicchiere pesante di vetro, con quattro cubetti di ghiaccio. Poi si stravaccò nella poltrona verde del salotto, non prima di aver sbattuto sonoramente un ginocchio nel tavolino in vetro dinanzi a sé. Pochi minuti dopo fecero irruzione in casa sua due poliziotti. Fu allora che Sandi, pallida e nervosa, fece capolino dalla scala. Era furioso.
«Ora non posso nemmeno entrare quando mi pare in casa mia, Sandi? Vuoi sbattermi fuori?» domandò, stizzito.
«No, è che io…», lei non riuscì a terminare la frase. Si sentiva sciocca, in quel momento. Ora capiva. Certo: un ladro non avrebbe fatto tutto quel trambusto.
«Agenti, è mio marito, potete andare…» aggiunse, imbarazzata.
Uno degli agenti ci mise un secondo a digerire l’informazione, e Eddie capì subito perché. Sandi aveva una vestaglia in pizzo e la biancheria, rosso fuoco, brillava al di sotto. Non si era struccata dalla sera precedente, e la sua bellezza rifulgeva di luce propria, in quella scala buia.
«Fuori, per favore… vorrei discutere con mia moglie.» sbottò nervosamente enfatizzando, forse in modo eccessivo, la parola “moglie”.
«Ci scusi… arrivederci.»
«Che diavolo hai indosso? C’è un altro uomo, su con te?»
«Che diavolo dici? La metto per sentirmi sexy, dato che tu non sei capace di darmi questa semplice soddisfazione.»
«Ok, come ti pare.» terminò scortesemente lui, girandole le spalle.
Si riprese da questa visione passata, e aprì lo stesso frigo bar di quella notte. Stesso bicchiere, stesso liquore e stessa quantità di ghiaccio. Persino stessa poltrona. Chiuse gli occhi, distese i piedi e li poggiò sul tavolino. Era una brava persona, pratica e sempre gentile. Passionale e coraggioso, era anche tenace, non mollava mai. L’unica cosa che non avrebbe mai potuto – nemmeno con la forza dell’intero universo – migliorare era lo stato del suo matrimonio. L’aveva amata, e tanto anche e ancora, seppur di rado perché la distanza metteva delle barriere invalicabili tra loro, si ritrovava a desiderarla. Aveva una moglie bellissima ma era più a portata di mano la Luna che il suo corpo.
Sarà che quando una cosa si rompe non si riaggiusta mai per bene; sarà che le sofferenze non avvicinano, checché se ne dica; e sarà anche che il matrimonio di due persone così differenti non era destinato, dal primo giorno, a finire bene.
O sarà che per tenere unito un filo che passa per due persone è necessario che entrambi lo tengano; nessuno dei due era più disposto a farlo, e quel filo giaceva, esanime, nel mezzo.
Si sganciò la cravatta, e il primo bottone dei pantaloni. Dopo aver guardato un po’ di televisione si diresse, esausto, verso la camera da letto al piano di sopra.
Dormivano ancora insieme, non sapeva perché. Quel gesto sciocco, considerata la situazione, gli dava tuttavia un senso di normalità in tutto quel caos.
Si tolse, lentamente e senza far rumore, i vestiti. Poi alzò un lembo di coperta e si infilò accanto alla donna che aveva sposato circa 15 anni prima. La guardò di sfuggita. Un raggio di luna che penetrava dalla finestra le illuminava il volto pacato, tranquillo. Lui sperò stesse sognando. Avvicinò la mano per sfiorarla e subito un ricordo lo travolse, come un camion.
«Metti la mano sulla pancia, Eddie!»
«Quando? Adesso?» rispose, nervoso, lui.
«Sì, ora. Sai! Accidenti, hai perso il momento.» si espresse, infine, lei. La bambina si era momentaneamente calmata.
«Porca miseria…»
«Dai, tranquillo, fra un pochino si risveglia!»
«Come la chiameremo, Sa’?»
«Ah, non so… ho comperato un libro di nomi.»
Si alzò, goffamente. La pancia era bella grossa, mancava un mese e mezzo e già lei si sentiva una balena. Stare seduta le doleva: la bimba premeva sulle costole provocandole delle fitte atroci.
Gli porse un libretto arancione comprato da pochi giorni. Aveva annotato sui margini i nomi che l’avevano colpita.
«Samantha?» disse lui, inarcando un sopracciglio. Non gli piaceva.
«Bello, Sara. Anche Denise mi piace. Ma è più bello Ginevra.»
«Sì, Ginevra è un gran nome.»
«Allora permettimi di fare due coccole alla mia piccola Ginevra…» propose lui, con il sorriso sulle labbra.
Si distese accanto a lei e le posò la mano sulla pancia, massaggiando il punto dove sua figlia, beata e indisturbata, cresceva.
«Ma non sappiamo ancora se si chiamerà Ginevra…» si lamentò la donna, che però era estasiata dall’entusiasmo di suo marito.
«Ma dai, lasciami fare. Zitta, tesoro…»
E si addormentarono così, con la luce gialla dell’abat jour, un libro arancione accanto e un gran calore che li invadeva.
Tornò al presente, e l’assenza di quel calore percepito pochi istanti prima nella sua mente scostante lo ferì tanto da fargli montare la rabbia.
«Fanculo.» disse, fra sé. Con le lacrime agli occhi le diede la schiena e cercò di dormire.
Sandi, che quando lui era salito ancora non era totalmente addormentata, percepì la mano di lui vicina al suo viso e sentì l’imprecazione. Immaginò il disagio, la frustrazione dell’uomo. Avrebbe potuto girarsi, posare una mano sulla sua fronte e dirgli che andava tutto bene. Sarebbe stata una bugia, è vero, ma una di quelle menzogne bianche. Invece non fece nulla. Sospirò, piano per non farsi sentire, e si addormentò. Era finita fra loro, bisognava solo prenderne atto.
2
Il sole era già alto nel cielo, in quella tiepida mattina di primavera. Sandi si svegliò di soprassalto e guardò accanto a sé. Suo marito era uscito, probabilmente era già a fare jogging. Al suo posto Ted, il loro cagnetto beige, russava sonoramente.
«Ted? Teddy?» si rivolse a lui la sua padroncina, tentando, invano, di attirare la sua attenzione. Ma dormiva, e sodo anche. Girò il musetto peloso dall’altra parte, e sospirò.
«Va bene, quando hai voglia scendi…» finì brevemente lei, mentre si stiracchiava e usciva dalle calde coperte.
Una volta nella sala da pranzo bollì l’acqua e preparò una tisana di the al caramello. Poi si sedette con lo sguardo rivolto verso la finestra che dava sul prato, a pochi metri da lì. Era assorta nei propri pensieri quando il telefono trillò. Si spaventò, posò la tisana rovente e si diresse verso il telefono di casa.
«Pronto?»
«Oh, Sandi! Meno male che ti ho trovata…»
Sua madre. Bene, fantastico anzi. Trovava sempre il momento migliore, il più rilassante, e lo rovinava con le sua ciance inutili.
«Dimmi, mamma. Però sbrigati, sono pronta a uscire.»
«Mi dici sempre così! Sciagurata… Una madre ha bisogno di parlare con la propria unica figlia, di tanto in tanto. E mai che tu sia disposta ad ascoltarmi. E se avessi un problema grave? Se stessi morendo?»
«Mamma, non vivrai per sempre.» concluse, perentoria e secca.
«E quindi?»
«E quindi ti seppelliremo, quando morirai. Certo non ti lasceremo a marcire in casa tua, e nemmeno ti imbalsameremo.»
Sandi era scocciata: possibile che dovesse fare, ogni santa volta, la melodrammatica?
«Ah, be’ se mi dici così. Io ti ho cresciuta…»
La figliola prodiga, esasperata, piantò il telefono nel tavolino del soggiorno per poter andare a recuperare la tisana in cucina. “Tanto” si disse “si sta solo lamentando della vita e di me. I suoi due argomenti preferiti. Ne avrà per molto.”
Ciabattò flebilmente fino alla cucina, prese la tazza della Tour Eiffel – ricordo di Parigi e di quella notte magica, dolce e ardente insieme – e vi soffiò dentro.
«…come al solito nessuno si cura di me! Ti ho cresciuta, quando quel disgraziato di tuo padre se ne è andato! Pensi sia stato facile pensare a cambiare i tuoi pannolini e a lavorare? Io ero un’attrice! Una bellissima, talentuosa attrice di talento, sai, ne avevo da vendere!»
«Ah,» riprese Sandi, che nel frattempo aveva colto solo il senso generale di quel monologo infinito «quindi se non sei diventata famosa sarebbe colpa mia e dei pannolini che solevo sporcare? In questo caso, mi devi davvero scusare. Sono stata una figlia orribile; sporcarmi, mangiare, desiderare attenzioni: che ingrata!»
«Oh, Sandra, non fare la drammatica. Non ho detto questo!»
«Invece mi pare che tu l’abbia appena fatto. Che poi, perdonami se sbaglio, a quel che so io ti avevano già scartata quando ti venne su la pancia della gravidanza…» asserì poi, non senza una punta di cattiveria.
«Bene, devo andare. Ciao.» tagliò corto lei.
Carlotta era stata una donna meravigliosa – come la figlia, d’altronde – ma non aveva avuto molta fortuna né con la carriera né con la famiglia: il suo talento era stato presto smentito da numerosi agenti e l’uomo che all’epoca si portava a letto – e del quale si stava peraltro anche innamorando – aveva tagliato la corda non appena lei aveva pronunciato le parole bebè, culla e biberon. Aveva cresciuto quella figlia non voluta all’insegna dell’egoismo e della noncuranza, non mancando mai di sottolineare la sua frustrazione per quel ruolo, di ragazza madre lavoratrice, che così poco, secondo lei, le si confaceva.
La ragazzina, dopo le iniziali delusioni, si arrangiò; si creò una vita e sopravvisse, ma in cuor suo ammirava quella donna così elegante, fine, altera al punto che aveva finito per assomigliarle più di quanto avrebbe mai potuto ammettere. Ma adesso per mesi non si vedevano né si sentivano, e a Sandi stava bene così.
Si mise al PC. Anche quel giorno avrebbe provato a scrivere. Era, in fin dei conti, libera per il resto della giornata. Optò per una protagonista donna: si vantava di conoscere il mondo femminile in ogni sua sfumatura. Sbagliava, ovviamente: conosceva solo il versante cattivo delle donne – quello maligno, malizioso, fatto di inganni e menzogne.
“E Carola soffiò via il fumo della sigaretta, mentre il cielo si schiariva. Sarebbe, finalmente, tornata...”
«Dove? Dove deve tornare Carola?», si domandò ad alta voce, spazientita. Non trovò una risposta.
Che lavoro avrebbe fatto Carola? E perché la sua vita sarebbe stata così particolare? Riuscì a buttare giù, con fatica, 7 pagine e mezzo poi, esausta e svuotata, chiuse il computer. Accadeva sempre questo: trovava un nome, un luogo, una data e una potenziale storia nella sua mente ma poi si stancava; l’entusiasmo cedeva il passo dapprima alla monotonia e poi alla totale indifferenza. A quel punto il file veniva gettato nel cestino e mai più recuperato. Decise di non lanciare, metaforicamente e letteralmente, quel primo contenuto abbozzato in un cestino; magari si sarebbe rivelato utile. Sì, magari.
3
Eddie era completamente bagnato. Aveva corso almeno un’ora e mezza. Qualche mese prima aveva sentito una sua collega dire ad un’altra che aveva il sedere moscio e si era arrabbiato e offeso non poco. Lui aveva sempre vantato un fisico asciutto e una forma invidiabile, ma ora aveva i suoi anni. Invece di arrendersi al fatto che il suo sedere non avrebbe certo potuto sfidare le leggi della gravità aveva deciso di iniziare a fare jogging. Le prime volte era stato uno strazio, un trauma. Si fermava, dopo pochi metri di corsa, con il viso stravolto dal colore pallido-cadavere e con un fiatone che si sarebbe sentito dalla regione vicina. Ora aveva una buona media, si fermava di rado e non ansimava più come un moribondo. Fiero del fatto di avere riottenuto un sedere tonico e sodo, passava davanti a quelle megere delle sue colleghe ostentando una camminata sicura e diritta. Quasi sculettava e i loro sguardi erano scioccati.
Un “don” uscì dalla sua tasca della tuta. Prese il telefono cellulare e lesse il messaggio di Giorgia, la sua collega. Lui era uno dei 16 impiegati di un grosso studio commerciale, e sovente lavorava con lei. Più che altro, lui la guidava. Fresca di studi era stata spedita nel mondo del lavoro; non sapeva nemmeno allacciarsi le scarpe, ma lui la stava istruendo a dovere.
“Senti, Eddie. Dobbiamo riguardare quella faccenda del signor Consi. È necessario, lo sai, che sia pronta entro le dieci di domattina. Considerando che in ufficio arriviamo alle 9, credo che ci dovremmo vedere questa sera. Io sono libera, tu?”
Eddie sbuffò. Era una cosa che poteva fare anche una persona da sola. Le aveva già spiegato che l’avrebbe potuto fare da solo, ma lei aveva insistito. E ora si ritrovavano a doversi vedere di domenica sera. Non ci sarebbe stato niente di male se questa domanda gliela avesse fatta Stefano, o Sergio. Ma lei. Lei era bella, giovane, profumata. Lo vedeva come un mentore, un uomo affascinante dall’aria sicura, decisa, forte. Ne era affascinata. Si vedeva lontano un miglio. Quando poteva si avvicinava eccessivamente a lui, le posava una mano sulla spalla con sensualità, malizia. E per lui sarebbe stato fin troppo facile abbandonarsi a lei, totalmente e irrazionalmente. Era un uomo, non un santo, ed era fatto di carne, ossa e cuore – un cuore che non batteva più da tempo ma che non era ancora morto.
«Eddie, ascolta. Io so che stai attraversando un momento difficile, con tua moglie. Ne parlano tutti, qui in ufficio. Voglio farti sapere che» disse con sensualità «io per te ci sono. Ci sono sempre.» Era il giorno dell’Immacolata, e lei si era recata in studio per finire una pratica con lui. Erano solo loro, in un edificio enorme. E lui l’aveva desiderata così ardentemente che fu un tormento alzarsi e scappare da lei con una scusa. Prima però aveva appoggiato le labbra sulla pelle candida del suo collo, ringraziandola.
Eccoli, i dannati vuoti spazio-temporali dove lui perdeva capacità di giudizio e percezione della realtà. Tornò in sé e digitò un messaggio.
“Sì, dai. A stasera. In ufficio. Porto la cena io.”
“A stasera, bye mon amour. Pensami.”
E nemmeno sapeva quanto lui l’avrebbe ascoltata. Mise le cuffie nelle orecchie e riprese una marcia veloce.
4
Sandi uscì all’ora di pranzo. Sarebbe andata a mangiare da una sua amica; avrebbe potuto persino trattenersi fino a cena: suo marito era fuori per lavoro, e sarebbe stato carino passare una serata tra amiche.
Passò dal negozio e comprò un paio di regali. Olivia aveva quattro figli, due femmine e due maschi, e i soldi non erano troppi, in quella casa. Sapeva, quindi, che i bambini sarebbero stati entusiasti di ricevere un pensierino. Per lei e l’amica invece prese una bottiglia di liquore alla mandorla; sperava aiutasse a lenire le sofferenze di due vite infelici. Quando bussò al portone malconcio, vecchio e con le vernice verde parzialmente scrostata era quasi l’una. Olivia aprì alla porta con un paio di occhiali grossi e scuri. Era una bella giornata di sole, sì, ma dentro casa le tapparelle lievemente spostate verso il basso creavano un’atmosfera cupa.
«Che diavolo accade, Olivia?» chiese con il cuore a mille Sandi.
«Oh, cara mia. Nulla di grave. L’ho sbattuto fuori di casa, tranquilla.»
«Ma… io… Io non capisco.» asserì confusamente Sandi, con un tono che andava dal rammarico alla desolazione.
«Oh, piccola, entra, ti spiegherò.»
Sandi varcò l’entrata, si tolse il cappotto e la guardò. Aspettava, cauta, che l’amica si sbilanciasse. I bambini giocavano in un’altra stanza.
«Oh, Sandi. So che con Eddie vanno male le cose. Ma non metterti con un uomo come Dario.»
«Ti ha picchiata?»
«Tra le altre cose…» mormorò, sconfortata Olivia. Era una combattente, una a cui non la si fa sotto il naso. Ma quella volta era triste, abbattuta.
«Ieri, dopo aver chiamato te, abbiamo fatto una cenetta romantica. Volevo dirgli una cosa. Una cosa importante, sì.»
«Sei incinta, vero?»
«Assolutamente sì. Credimi che non so come sia potuto accadere. Sono stata attenta come non mai. Ma è accaduto. Per tutto il mese ho avuto nausee, dolori allo stomaco, fiacchezza. Ho attribuito il tutto al ferro, non sto mangiando abbastanza carne. Poi ho fatto il test. E ho scoperto che, no, non era proprio la carne il problema. O meglio, era un pezzo di carne sì…» aggiunse, maliziosa. Riusciva a scherzare anche ora, in un momento drammatico, e triste, e disperato.
«E quindi?»
«Si è incazzato! Come una iena, oserei dire. Si è alzato dal tavolo e mi ha detto: “Non hai intenzione di smetterla di sfornare marmocchi come fanno le coniglie?”. Allora gli ho detto che non mi ero certo montata sopra da sola, per rimanere incinta. Ho visto un lampo d’odio nei suoi occhi ed è corso verso Matthias. L’ha preso e ha gridato: “Credi che io non sappia che questo non è figlio mio? Pensi che non abbia scoperto che te la fai con un altro?” Ovviamente era una scusa. Proprio Matthias, che è la sua copia sputata. Il bimbo ha urlato, lui l’ha schiaffeggiato… poi ha preso Linda. Anche per lei ha detto la stessa cosa; detto fra noi, Linda davvero non sembra figlia sua. Che Dio mi benedica, io nemmeno ci penso ad altri uomini. È già tanto se penso a lui mentre, con le gambe aperte, attendo che abbia finito per potermi dedicare alle mie faccende. Lei ha urlato, ha pianto e si è divincolata. Lui l’ha lanciata – lanciata nel vero senso della parola, che l’Inferno lo inghiotta – per terra. Io mi sono fiondata, l’ho colpito. Ma lui me le ha ridate. Poi ha detto: “Cresci i tuoi stronzetti da sola, me ne vado!” e io l’ho lasciato andare. Guarda…»
Indicò con un indice mangiucchiato la finestra che dava sul retro. Un falò bruciava, scintillante.
«Cosa bruci, Olivia?»
«I suoi fottutissimi impestati vestiti.» disse, soddisfatta. «Gli ho detto al telefono, a quel bastardo figlio di puttana, che lo sto aspettando a braccia aperte. E gli ho detto anche che se torna gli sfondo la testa con una mazza di baseball e lo seppellisco in giardino, per concimare i miei fiori. Che il suo corpo putrefatto alimenterà le mie rose. Ecco cosa gli ho detto. E che se tocca i bambini se ne pentirà amaramente.»
«Lui che ti ha detto?» si informò Sandi.
«Nulla, che credi? Mi ha presa alla lettera. Sa che non mento e che non ho paura. Io quel cervello bacato glielo tiro fuori dal cranio davvero, se torna. Ah, mi ha detto che anche lui ha un occhio nero. Gli ho fatto un occhio nero, capito? E cosa vuole? Un rimborso? Un mazzo di rose? Un paio di frasi di scuse? Bastardo stronzo.»
«Ah, be’. Sono felice che tu sia così.»
«Così come?»
«Così forte, Olivia. Così decisa.»
«Oh, io non sono né forte né decisa in questo momento. Io sono triste e amareggiata: non sono stata capace di difendere i miei figli, Sandi. Linda ha un livido nella gamba sinistra, e Matthias è nervoso, agitato. Gli altri due hanno solo guardato. Samuele se l’è vista brutta: è un guerriero, stava partendo per difendere la sorella; Dana non si è mossa, e dalla paura si è fatta la pipì nei pantaloni. Sono riuscita tardi a calmarla. Mi hanno chiesto se devono chiamarlo papà, ma ero troppo arrabbiata. Non sgridarmi. Gli ho detto che non devono chiamarlo proprio.»
«Oddio, e ora il bambino che aspetti… Come farai?»
«Oh, farò dolcezza. Ne ho sfornati altri quattro. Un quinto non sarà certo un problema. Che poi, detto fra noi, io ho chiuso con gli uomini.»
«Ah, ben fatto. Stasera non puoi berne, allora.» domandò Sandi, indicando la bottiglia di liquore.
«Oh no scordatelo. Io berrò succo d’ananas, ma tu puoi bere. Quando arrivi qui con una bottiglia vuoi ubriacarti per forza, non ti toglierò questo diritto. Mi piaci da morire, quando sei ubriaca. Non sei fredda e distaccata come al solito. Sei sveglia, attiva, espansiva. Sarà divertente.» sentenziò, infine.
Poi chiamò a raccolta i suoi bambini e insieme mangiarono pasta al forno, fettine di tacchino e tiramisù.
Sandi notò una tristezza nei loro occhi giovani che non aveva mai visto. La piccola Dana aveva gli occhi gonfi e rossi. E tremava, mentre con la manina chiara prendeva il cucchiaino con una piccola porzione di dolce. Lei la guardò e le sorrise, poco convinta. La bambina non rispose.
«Vi sono piaciuti i giochini, bimbi?» domandò per svegliarli da quel torpore e dalla delusione che sanno mostrare solo i bambini quando le certezze crollano come una casa malconcia sotto un uragano.
«Sì, ci sono piaciuti, zia.» affermò Samuele.
Con il camion – quel bellissimo camion verde e rosso – avrebbe certamente giocato di lì a poco anche se quella storia era ancora così vivida, e dolorosa, e pungente nella sua mente.
«Oh, forza bambini! Dite qualcosa alla zia. Raccontatele di quel cartone, come diavolo si chiama…» si perse Olivia.
Niente, proprio non lo ricordava. Un pomeriggio intero a sbattersi per quei protagonisti, e lei non rammentava come si chiamasse.
«Sto proprio uscendo di testa, ragazzi.» concluse, non senza una punta di amarezza. «Proprio ora!»
«Perché proprio ora, mammina?» domandò Linda.
«Niente tesorina, niente.»
Nessuno di loro sapeva del fratellino/sorellina che cresceva nel grembo della mamma; si sarebbero senza ombra di dubbio straniti: quella mamma forte e buona non faceva altro che dire che quattro figli erano molti. Sì, lo diceva mentre sorrideva, ma loro la vedevano la stanchezza nei suoi occhi, la voglia di dormire – anche solo cinque minuti – e il desiderio di fare un bagno caldo e lento.
«Frozen, mamma?» azzardò Dana. D’altronde ne avevano visti un paio, quella settimana.
«Ecco, quello. Raccontatele come è stato!»
«Bello.» chiuse, velocemente, Matthias.
«Come sei originale, figlio mio.» lo rintuzzò la madre, con sguardo severo. «Proprio un bel racconto.»
«Vogliamo andare di là, mamma, a giocare.»
«Anche io!» si unirono gli altri tre.
«Andate, andate a giocare, figli miei.»
«Ciao bimbi…»
«Ciao zia Sandi…»
Quando la porta della camera dei bimbi si chiuse Olivia si girò a guardare Sandi e le domandò, con voce roca: «Ma secondo te come stanno? Sono scioccati?»
«No, scioccati non direi, Olivia. Secondo me semplicemente si riprenderanno, ma hanno bisogno di tempo.»
«Tempo, e chi ne ha? Dammi un sorso di liquore…»
«Non puoi, Olivia.»
«Solo un sorso, che Dio mi perdoni. Mi serve. Mi aiuterà a dormire stanotte.»
E sorseggiò, calma, cercando di distogliere la propria mente dai pensieri. Forse era vero: serviva tempo… sia ai suoi figli che a lei. Ma serviva soprattutto che Dario non si avvicinasse a quella casa mai più. Lei non lo avrebbe permesso. Poi sorrise, pensando all’enorme mucchio di vestiti carbonizzati nel giardino. Il sorriso divenne riso.
«Che hai da ridere?» le domandò Sandi, divertita.
«Quello stronzo non ha nemmeno un vestito con sé! È uscito con una tuta e un giubbotto… probabilmente tornerà a prendersi la roba!» urlò, ridendo sguaiatamente. «E sai cosa troverà?»
«Un mucchietto di cenere?» azzardò lei.
«Esatto. Un cazzo di fottutissimo mucchietto di cenere!»
5
Eddie aveva pranzato da solo. Una scatoletta di tonno, una mozzarella e un paio di pomodori. Leggero e sano, non per scelta ma per incapacità dinanzi ai fornelli. Poi collassò qualche ora nel divano, accoccolato a Ted. Quel cane era tanto, troppo pigro. Ogni momento era buono per schiacciare un pisolino.
La sveglia del telefono, puntata per le 5 e trenta, suonò una canzone conosciuta. Lui aprì gli occhi, riposato. Poi si alzò e corse in doccia. Per le 7 meno un quarto doveva essere in ufficio, con la cena cinese ritirata già tra le mani. Si insaponò, velocemente, poi si risciacquò e uscì alla ricerca di un asciugamano. Si preparò come si trattasse di un’uscita, e poi si sentì in colpa per questo. Aveva messo un paio di pantaloni beige, una polo scura e una giacca sportiva marrone scuro. Si era fatto il gel, alzando i capelli chiari, e aveva messo il suo profumo migliore. In perfetto orario sedette nell’auto, diretto al take away cinese. Poi, procurato il cibo, si diresse all’ufficio. L’atrio era buio, probabilmente Giorgia non era ancora arrivata. Entrò con sicurezza in quei luoghi tanto conosciuti, poi avanzò verso la porta nella quale erano affissi tre nomi. Uno di questi era il suo. Si sbagliava. Giorgia era già lì: davanti a lei, mille pratiche e due bottiglie di birra.
«Ehi, scusa ti ho preceduto.» esordì, timidamente, lei.
«Oh, no. Ma figurati. Hai fatto bene.» rispose lui poco convinto. Quella storia che fossero entrambi lì, soli e ben vestiti gli sembrava sempre più sbagliata. La guardò. I capelli scuri e lunghi fino al limitare della schiena le davano una parvenza infantile, che veniva smorzata subito dalle linee sinuose del suo corpo. Notò, non con stupore, che anche lei si era acconciata in modo più preciso e sensuale del solito. Un vestito verde scuro con lo scollo pronunciato le fasciava il seno e le cingeva i fianchi; le scarpe scintillavano, e al collo portava un gioiello brillante capace di attirare l’attenzione. Quando i loro occhi si incontrarono – scuro e chiaro, uniti da un momento infinito, magico, inafferrabile – un brivido corse nella schiena di entrambi. Ma lui sapeva già che sarebbe successo, e si era preparato.
Si sedette dall’altra parte della scrivania e pose davanti a sé i fogli di cui disponeva, invitandola con un gesto della mano a fare lo stesso.
Lei, delusa e un po’ afflitta, obbedì a quel suo ordine.
«Allora, qual è il problema lo sappiamo. Dobbiamo solo stilare una lista di cose da sistemare. Grafici, statistiche. All’arrivo del cliente tutto dovrà essere in ordine.» esordì Eddie con voce ferma e pacata – dentro di sé il fuoco ardeva, ma riuscì a mantenersi composto.
«Io penso che dovremmo iniziare con questa scheda. La compiliamo?» lo interrogò, insicura, lei.
«Sì, facciamo questo.»
Lavorarono di gran lena per tre quarti d’ora. Poi un brontolio interruppe i loro conti minuziosi. Allora si sedettero a terra e aprirono le varie scatolette di carta contenenti cibo.
«Cosa sarà, questo?»
«Ah non chiedermelo! Mangia e basta. Se non sai non puoi preoccuparti.»
«Questa è la tua filosofia?» rise lei, divertita.
«Certo, lo è.» stette al gioco.
«Perché sei così triste, sempre?»
«Cosa intendi, Giorgia?»
Non credeva di essere sempre triste. Sì, talvolta era capace di perdersi nei suoi pensieri, soprattutto quando la sua mente decideva di vagare qua e là tra presente e passato. Dopo pochi minuti di vuoto, di nebbia, di ricordi, tuttavia, lui si riprendeva. Era simpatico, un burlone.
«Non fraintendermi. Tu giochi sempre, e con tutti. Sorridi sempre. Ma io lo vedo. Anche quando ridi di gusto il tuo sguardo è comunque cupo, come se ogni volta che fossi felice qualcosa ti ricordasse che non puoi esserlo, non a lungo almeno.»
Aveva ragione: nessuno se ne era mai accorto, ma le sue erano risate vuote, ingombre di macigni troppo pesanti da spostare. Il suo era solo divertimento apparente.
«Sì, hai visto giusto, Giorgia.»
Era inutile mentire, lei aveva guardato dentro i suoi occhi e aveva messo a nudo tutta la sofferenza.
«Se fossi mio non permetterei che tu soffra così tanto…» bisbigliò lei. Nel calmo ambiente vuoto le sue parole rimbombarono come fossero urlate.
«Ma non sono tuo.»
«E allora di chi sei? Di quella moglie che non ti ama e che non ami? Credi che non mi sia accorta che non porti la fede? Un giorno ti ho sentito parlare con Stefano. Eravate nell’ala relax, e io ero fuori. Sono stata ad ascoltare. Da quanto non ti tocca, Eddie? Da quanto non ti dice che ti ama, che vive di te, che sei l’unico uomo che amerà mai? Da quando non ti prepara il pranzo? Non ti ama. Tu sei perfetto e lei non capisce la fortuna che ha. Non capisce che sei un uomo d’oro. Quell’ingrata non sa che si perde. E io… io ti vorrei. Così tanto e in modo così totale. Tu non capisci! Sai cosa? Tu sei uno stronzo e lei è una stupida!» disse con rabbia.
Lui era livido di rabbia.
Le si avvicinò.
«Che cosa hai detto?» sussurrò, a mezzo centimetro dal suo viso.
«Tu sei uno stronzo e lei una stupida! Hai bisogno che ti vengano sturate le orecchie, o cosa?» lo sbeffeggiò lei.
Lui le tirò uno schiaffo. Sonoro e secco, sferzò l’aria come una frustata. Poi la guardò, pentito. Lei era offesa, umiliata. Era pronta ad andarsene. Fu allora che la baciò, con foga e rabbia. La baciò in modo rude. Non fu dolce, né mieloso. Fu un bacio aggressivo, che diede vita a una lotta silenziosa che li portò sul tappeto della stanza. Le mani di lui trafficarono nel vestito di lei fino a trovare il laccetto che lo teneva su. Lo sganciò. Lei gli sbottonò la camicia e gli baciò il petto. Mentre le mani si rincorrevano, si cercavano e si trovavano lui si bloccò, mentre il suo cuore si gelava.
Sandi urlava, disperata. Eddie non aveva nemmeno più lacrime da piangere. La piccola bara bianca era dinanzi a loro. Nella camera mortuaria dell’ospedale c’era assai freddo, ma nessuno tra loro cercò una giacca. La loro bambina – il loro piccolo angelo che ora diventava custode – non c’era più. Aveva solo sei mesi. L’avevano seppellita con un vestitino bianco con fiori ricamati. L’avevano coccolata e baciata, prima che il funzionario delle pompe funebri li avvisasse del triste momento: avrebbero dovuto chiudere il feretro entro cinque minuti. E ora erano lì; amici e parenti, con parole più o meno di conforto e tante frasi fatte, provavano a lenire quell’atroce sofferenza. Ma nulla avrebbe potuto liberarli da quel groppo nel cuore. Sandi, per la prima volta nella sua vita, era apparsa fragile, debole, pronta a rompersi. Per la prima volta nel suo viso non c’era ostentazione, né malizia, né sicurezza; c’era solo strazio. Lui le strinse la mano, ma lei non rispose alla stretta. Stava canticchiando la ninna nanna di Ginevra. Era un supplizio sentire quella cantilena. La strinse a sé mentre una consapevolezza faceva capolino nella sua testa: niente e nessuno avrebbe potuto riunirli, dopo quell’amara rottura.
«Io… Io… Io non posso farlo.» biascicò lui, rimettendosi in piedi. Il viso di lei era paonazzo, confuso. Si alzò, legò il vestito e si sistemò alla bell’e meglio. Poi lo guardò negli occhi e iniziò a piangere. L’espressione dissoluta di poco prima aveva ceduto il passo a un’angosciante senso di perdita.
«Perché piangi?»
«Piango perché sono io il problema. Sono sempre io.»
«In che senso?» la sollecitò lui, timoroso.
«Ogni volta che trovo un uomo, un uomo come te succede che io rovino sempre tutto! Che tu sia dannato, insieme a tutti gli altri miei demoni!» urlò con veemenza la giovane i cui occhi erano diventati due pozzi neri infernali.
«No, non hai capito affatto…» disse lui, con dolcezza, prendendo il suo volto tra le mani. «Io la amo, e questo mi basta. La amo follemente, senza razionalità né giudizio. La amo perché è la madre della mia bambina.»
«Hai una figlia?»
Era sconcertata, disorientata. Nessuno le aveva mai detto che lui aveva una figlia.
«La avevo.» mormorò con un filo di voce lui. «Ma è sepolta sotto un metro e mezzo di terra.» aggiunse, mentre nei suoi occhi si ravvisava un guizzo di pazzia.
«Mi dispiace.» bisbigliò lei, cauta. Ecco perché quell’aria perennemente angustiata.
«Me ne vado.»
«A domani.»
«A domani, sì.»
La lasciò lì, seduta in una scomoda poltrona, a pensare a quanto era stata stolta, ottusa. Si sentì sporca, immorale. Aveva sedotto per mesi un uomo che non voleva essere infastidito. E ora capiva perché. In quel momento le apparve chiaro come quella donna che lei guardava di nascosto andare a lavoro – quella stessa donna che non si curava del suo sguardo, altezzosa e presuntuosa – lo avesse in pugno. Per sempre.
6
Olivia mise a letto i bambini molto tardi, quella sera. Avevano passato l’intera serata a giocare con i giochi portati dalla zia Sandi. Olivia aveva sempre insistito che la chiamassero zia, anche se non ne capivano a fondo il motivo.
Sandi non era certo il tipo di persona che i bambini amano – di quelle che «Dai, facciamo un trenino!» o «Aiutatemi a fare le collane con le perline che indosseremo tutti stasera!». Era disinteressata a ogni aspetto dell’universo che non la riguardasse personalmente; era fredda, impersonale. Dava loro pacche nella schiena con il calore di un serpente della giungla. Ma la loro mamma la amava, quella donna stramba, o almeno la amava a suo modo – di quegli amori un po’ sofferti, ancor più preziosi perché strani, esclusivi.
Una volta mamma Olivia aveva detto ai bambini che lei li aiutava tanto e in vari modi. Poi aveva aperto il portafogli e loro avevano intravisto – non senza l’acquolina in bocca: avere soldi voleva dire leccornie, giochi – delle banconote da cento. La mamma guadagnava poco – «Il necessario!» soleva ripetere il suo spilorcio datore di lavoro – e tirare avanti non era semplice. Quel giorno era nata in loro una nuova stima per quella zia che non si interessava di chiedere loro come andassero le cose a scuola o come volessero il latte alle cinque del pomeriggio. Se ne infischiavano, semplicemente, di quelle strane regole. Tutta la loro vita era governata da leggi che di ortodosso avevano ben poco. Quel giorno, soprattutto, erano stati felici di vederla. Il papà era andato via – «Per sempre, mi auguro.» aveva affermato la mamma – e loro non erano né tristi né felici – l’amarezza per averlo visto andare via sbattendo la porta cozzava con la paura provata alla sola vista di quegli occhi assetati di sangue. Tuttavia una ulteriore compagnia non dava loro noia, anzi provocava sollievo.
Nella sala da pranzo Sandi e Olivia, all’una di notte, chiacchieravano ancora animatamente.
«Ti ricordi quando ti sei sposata?» chiese Olivia.
«Oh, sì. La sbornia presa il giorno dopo non la scorderò mai.»
Era il giorno che aveva scoperto che peggio dei liquori mischiati c’è solo la morte.
«E io lì, che ti mantenevo la testa. Eddie disperato, mentre tu gli spiegavi, pazientemente come solo una persona ubriaca sa fare, che non era lui il problema, ma tu. E in quel frangente ti accorgesti di avere le scarpe sporche di vomito e tutta quella tua sicurezza iniziale svanì.»
«Non mi ci fare pensare.»
Aveva già bevuto qualche bicchiere di troppo, e la testa iniziava a girarle vorticosamente.
I colori della casa variopinta di Olivia giravano, e giravano. E lei guardava il soffitto, stupita come un bambino davanti a un marchingegno mai visto. Olivia rise, di cuore e in modo fragoroso. Come Dio avesse fatto diventare amiche due persone così agli antipodi non si sarebbe scoperto mai. Una fredda, l’altra solare. Una seria, l’altra spiritosa. Una infelice – sempre e comunque, perché il mondo non girava intorno a sé –, l’altra perennemente grata a tutto. Olivia sapeva ringraziare Dio – o il destino, l’universo, la natura… insomma, qualunque cosa decida per noi – anche per il sole la mattina, o per i cornetti alla crema accompagnati dal cappuccino. Fermamente convinta che la filosofia esatta fosse quella del bicchiere mezzo pieno, fedelissima seguace dei saldi e innamorata dei dolciumi, Olivia era capace di amare incondizionatamente, senza se e senza ma. Sandi era tutt’altro. Non capiva le persone come Olivia – quelle che ridono senza un motivo, o che si danno agli altri in modo assoluto. Lei dava di sé piccoli pezzi, si concedeva a porzioni ridotte – quasi come se davvero il suo animo venisse dilaniato dall’eccessivo contatto con gli altri. Olivia era una delle poche persone che avrebbero potuto godere della sua vera essenza, delle sue preziose risa.
«Senti, Sandi… ma Eddie?»
«Non so dove sia.»
«E lo dici così? Senza interesse? È pur sempre tuo marito…»
«È mio marito, sì. Ma solo sulle carte.»
«Come siete finiti a questo? A farvi del male in questo modo, intendo. Abitate nella stessa casa, dormite nello stesso letto e vi guardate ogni santo giorno da quindici anni. Ma non vedete nulla; siete due spettri.»
«Olivia, le vicissitudini della vita spesso ti portano ad allontanarti e nulla – nulla! – si può fare per rendere le cose indolori o…»
«Piantala di fare discorsone con me, Sandi. Il tuo carisma ti aiuta ovunque ma non qui, in questa casa. Non con me. Ti conosco, sai?»
«E allora che diavolo vuoi sapere?»
Sandi si alzò, e camminava nervosamente per la stanza. Era quasi ubriaca.
«Si è rotto, tra di noi, Olivia! Si è rotto quando Ginevra si è alzata in volo, tra le nuvole. Si è rotto perché sono rimasta incinta una sola volta, e dopo sono stata più sterile di una sala operatoria. Non sono stata capace di dargli un altro figlio! Come pensi che mi senta? A cosa serve una donna il cui ventre si è esaurito? Lui voleva un altro figlio, un’altra ragione per vivere, per tirare avanti…»
«Oh, tesoro. Io pensavo non ci aveste nemmeno provato, dopo la morte di Ginny.»
«Oh, sì! Per mesi! Anche se non ci guardavamo nemmeno più. Lo facevamo lo stesso, e puntualmente ogni mese le nostre speranze venivano smentite. E lui ha voluto smettere di provarci. “Mi fai schifo!” mi disse, un giorno. “Smettiamola di farci del male, basta.” aggiunse. E io rimasi così. Ero così dannatamente triste, afflitta. Non capivo quale fosse il problema. Poi mi sono arresa. E lui è cambiato; era dispiaciuto, dolce. Mi chiedeva, amabilmente, ogni mattina che colazione volessi o se avessi bisogno di qualcosa. Il suo sguardo tradiva compassione, pietà. Come se qualcuno potesse, sul serio, avere compassione per me! Porco!»
«Lo respingesti?»
«Ovvio, lo feci.» affermò con gli occhi stretti in due fessure e un’espressione soddisfatta sul viso. «Lo feci iniziando a odiarlo. Provai io compassione per lui. Perché la sua vista non mi provocava niente: né amore né dolore; né tristezza né gioia. Era un fantasma, per me.»
«Mi dispiace. Non sapevo.»
«No, lo so.»
Si sedette nuovamente. Lo scatto d’ira era passato. Ora rimaneva solo il vuoto di un’esplosiva esacerbazione fine a se stessa.
«Porca vacca, mi sento così male…» mormorò, più a sé che agli altri.
«Lo so, cavolo se lo so.»
«Ora dormirò.»
«Va bene, perfetto. Io starò nella stanza accanto. Proverò a riposare. Domattina ti sveglio alle 5 e trenta, così potrai correre a casa tua, cambiarti ed essere a lavoro alle 9.»
«Ok.» biascicò, poco convinta, l’amica.
*
Nella sua stanza poco distante dal salotto Olivia pensò a tutta quella faccenda. Forse Sandi era nata buona – del resto si intravedeva nei suoi occhi, di tanto in tanto e soprattutto nei giorni di profonda stanchezza, un lampo di gentilezza, una parvenza di empatia – per diventare poi quella donna senza cuore nel tempo, a causa delle delusioni e di complicate e caotiche odissee. Si girò nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Pensò alla vita che aveva in grembo, a quel bambino che cresceva dentro di sé. Pensò al miracolo di avere dei bambini – con i loro giochi, i loro gridolini, la loro voglia di fare e i loro visini buffi sporchi di gelato. Poi pensò all’amarezza di Sandi – quella stessa amarezza che le aveva letto nel volto quando, pazza dalla furia, raccontava il calvario che l’aveva portata ad odiare il marito.
«Sì, nemmeno io l’avrei perdonato. D’altro canto l’ha ferita in un modo profondo e irrimediabile.»
Si ricordò la Sandi che conobbe tanti anni prima. Aveva 22 anni ed era fresca di studi. Era arguta, intelligente. Una laurea in Storia Antica e tanta voglia di sfondare. Aveva motivazione da vendere. Era una prima donna, Sandi; l’aveva persino invidiata e odiata per i suoi successi, per un lasso di tempo abbastanza lungo da garantirle l’inferno. Bella da morire e sagace all’inverosimile, riusciva, con le sue chiacchiere dense di sottili allusioni, ad ammaliare tutti. Poi era arrivato Edmund. L’aveva catturata con l’ironia e il brio. Lei, con lui, era riuscita a raggiungere un po’ di leggerezza e aveva perso, solo parzialmente, quell’espressione di superbia che le si dipingeva sovente in volto; lui aveva capito che nella vita si deve essere svegli e svelti. Era stato uno scambio equo, insomma. Avevano imparato l’uno dall’altra. Il mondo era ai loro piedi; poi era arrivata la bambina, e la sua prematura dipartita li aveva divisi e buttati nel baratro di una vita scarsamente appassionata e scandita solo dal rancore che, di tanto in tanto, tornava a farsi vivo. Lei allora si era fatta assumere in una grossa azienda, e fine dei giochi. Che sapesse, non aveva nemmeno più provato a scrivere – ma su questo non avrebbe di certo messo la mano nel fuoco.
«Certo,» mormorò malignamente nel buio «che se avesse saputo che lavoro avrebbe fatto da grande non avrebbe certo avuto quel nasino insù per tutto quel tempo!»
Poi, accortasi di quella sua infelice uscita, disse un’Ave Maria.
«Perdonami, oh Signore. Perché non solo ho peccato, ma peccherò ancora, lo so!»
Fu in quel momento che, presa dalla stanchezza, chiuse gli occhi e cadde in un sonno ristoratore privo di sogni.
7
Eddie si alzò. Non si era spaventato dall’assenza di Sandi. Aveva trovato un biglietto sul banco della cucina, la notte prima.
“Edmund, io vado da Olivia. Non so quando rientrerò. Magari mi fermo stanotte. Ciao.”
Il suo sguardo si era posato su quel freddo “Edmund”. Nessuno lo chiamava Edmund. Allora, scosso da un fremito, si abbandonò ai ricordi.
«Che diavolo vuoi da me, Eddie?»
«Cosa stai dicendo, Sandi? Voglio solo parlarti! Sei mia moglie, diamine!»
Era stato poco dopo che lui aveva iniziato a provare pena per lei: le aveva reso la vita un inferno, con questa storia di non riuscire ad avere altri figli. Voleva farsi perdonare. Ma, come al solito, si era innervosito, e l’avevano terminata a litigare.
«Non voglio che tu mi tocchi, nemmeno con un dito! Non ti facevo schifo?»
«Non essere sciocca. Ero arrabbiato, e amareggiato. Ma lo sai, ti amo. Ti desidero. Sono folle per te!»
«Muori! Sai una cosa? Eddie per me non esiste più. Per me, d’ora in avanti, sarai solo Edmund. Solo tuo padre ti chiamava Edmund, giusto? Quel tuo padre che ti ha rinnegato come fossi figlio del Diavolo in persona!»
«Che intendi dire?» rispose lui, mentre il sangue gli si gelava nelle vene. Provò ad avvicinarsi per abbracciarla, ma lei si scostò. Allora, in presa a un raptus, la tenne forte e la baciò. Voleva stringerla, sbatterla nel divano e scoparsela. Era questo che meritava per avergli detto quelle orribili parole. Ma la lasciò andare, consapevole che quella situazione l’aveva favorita lui stesso.
Le si girò, lo guardò con astio e si sistemò la spallina che lui aveva fatto scendere. Poi gli sputò in pieno viso.
«Edmund, puoi anche crepare per quel che mi riguarda.»
«Non sarà questa la tua fortuna.» chiosò lui. «Bisogna che tu mi uccida, sporca stronzetta.»
«Oh, non mi tentare. Non mi tentare.»
Era quasi pronto. Indossò le scarpe, la cravatta e si mise a tracolla la borsa del PC e dei documenti.
Quando arrivò in ufficio avvampò al ricordo della sera precedente. Scosse la testa, come per voler allontanare da sé quella verità tanto scomoda quanto pericolosa. Non avrebbe più dato peso alle parole di Giorgia. Non avrebbe riso alle sue battute e non avrebbe vantato una sua qualunque illuminante asserzione. Non le si sarebbe seduto accanto, durante il pranzo. L’avrebbe evitata, insomma, come si fa con peste e malaria. Del resto non voleva alimentare in lei quella stessa illusione che si era creata da sola – l’illusione che lui avrebbe potuto essere salvato: nessuno ne sarebbe stato capace, tantomeno lei.
Ma quando arrivò nei pressi del suo ufficio la vide chinata sulla sua scrivania. Per terra una scatola di cartone aperta conteneva pochi averi e altri ne doveva ancora accogliere.
«Giorgia?»
Lei si voltò. Era bella quanto la sera precedente, o forse anche di più – il fatto che lui non potesse liberarsi dei fantasmi del passato per averla la rendeva, ai suoi occhi, ancor più appetibile. Lo sguardo triste da cane abbandonato e la postura non eretta e forte ma china, debole furono come una pugnalata nel cuore, per Eddie.
«Perché metti le tue cose in una scatola?»
«Me ne vado, Eddie. E no, non pensare di farmi cambiare idea. Una settimana fa ho avuto una proposta di impiego. Ho chiesto qualche giorno per pensarci. Per questo ieri notte ho provato ad andare al sodo. Volevo capire se tu fossi nella mia stessa lunghezza d’onda. Ovviamente sai come è andata.»
«E dove andrai? In cosa consiste questo impiego?»
Per quanto gli dispiacesse, una parte di lui era sollevata: forse alla fine avrebbe finito per cederle, per donarsi a lei. Non lo voleva. Lei era giovane, bella, intelligente; lui avrebbe ucciso tutte le sue belle qualità, relegandola a una vita basata sull’arte di accontentarsi. Accontentarsi di un uomo privo di cuore, non capace di amare.
«Alla Spoline&Co.»
«Wow! Congratulazioni, Giorgia! È un gran studio… un traguardo notevole!»
«Già. Ora vai, hai del lavoro da fare.» aggiunse lei, girando il volto.
Piangeva singhiozzando; solo non vedere la sua faccia avrebbe, piano piano, lenito quel suo senso di delusione.
Lui accolse quella sua richiesta implicita e si allontanò a gran passi. Poco dopo la vide abbracciare qualche collega e andar via. Non si avvicinò nemmeno; quella storia, troncata sul nascere, doveva smettere di esistere anche nei loro pensieri.
«Eddie! Giorgia va via! Non l’hai nemmeno salutata! Non hai sentito? Ha un impiego alla Spoline&co. Cazzo che culo, santo cielo. È una vita che voglio passare lì,» disse Sergio sedendosi accanto a lui e lanciando una pallina da tennis contro il muro ripetutamente «ma zero che mi considerano. Secondo me usano il mio curriculum, che diligentemente faccio avere loro almeno una volta l’anno, come carta igienica. Poi arriva Giorgia che, per carità, è sveglia e quello che vuoi, ma è giovane e viene presa. Per me è perché ha un bel culo.» constatò con una punta di sessismo non indifferente.
«Sergio, lei è brava, molto brava. Avranno visto il potenziale.»
«Sei dalla sua parte e non dalla mia?» chiese non senza indignazione.
«Non c’è da essere da una parte o da un’altra, cavolo. È solo questione di capire che il potenziale c’era.»
«Perché non scherzi? Non ti esponi?»
«Che intendi dire?» lo rintuzzò lui, scocciato.
«Quando è arrivata abbiamo passato ore – ma che dico, ore? Giorni! – a ridere del fatto che finalmente, dopo Bessy, avessimo trovato un bel culo da veder passeggiare qua e là in ufficio. Sembra così ma questo lavoro è noioso, ti stressa. Grazie a lei bastava un’occhiata e tornava tutto a posto!»
«E che vuoi che ti dica? Siamo adulti, Sergio.»
«Avete fatto sesso!» capì il ragazzo.
Ora si spiegava tutto; i progetti dopo il lavoro, i messaggi, gli sguardi. Non era amicizia.
«Sei fuori strada, Se’»
«E allora dimmi! Spiegati!»
Si mise in attesa, posando la pallina e i piedi nella scrivania.
«Ci ha provato. Spesso. Ieri sera il culmine. Era bellissima, sexy e tutto il resto. Ci siamo strappati quasi i vestiti di dosso, eravamo furie e poi…»
«Poi?» impaziente, l’amico, lo incitò a continuare.
«Niente. Sai come sono. Le ho detto che…»
«Fammi indovinare. Le hai detto che alla fine ami tua moglie – malgrado sia una brutta stronza senza cuore capace di tagliare la gola a chiunque – e forse hai raccontato anche di tua figlia. Hai messo su quello sguardo e l’occasione è sparita. Ma sì, sai quale sguardo. Quell’espressione che ti esce quando sai che potresti essere felice ma decidi di non farlo, perché la vita è stata ingiusta e tu devi pagare per qualcosa che non è avvenuto per colpa tua.»
«Stai minimizzando la situazione.»
«Stronzate!» irruppe Sergio. «Le occasioni per essere felice non ti sono certo mancare, ingrato che non sei altro. Perché devi pagare? Perché tua figlia è morta?»
«No! Devo pagare perché la cattiveria di Sandi l’ho voluta io!»
«Ma per favore! Quella donna era una vipera anche quando l’hai conosciuta. Era l’arpia più maligna e bella di tutto l’universo. Ma tu eri felice e lei sembrava giovare della tua vicinanza. Per questo non l’ho ammazzata con le mie stesse mani, malgrado avessi già capito che ti avrebbe portato alla rovina.»
«Sergio, non esagerare!»
«Non esagerare? Tu non hai mai saputo come è morta tua figlia. Lei era lì e tu no. La bambina stava benone e poi…»
«Smettila!» si tappò le orecchie l’uomo.
«Non sto dicendo che è stata lei, non fraintendermi. Non so cosa sia successo, e nemmeno tu… ma nella tua testa ha sempre albergato il dubbio. Ecco perché l’avresti perdonata solo se ti avesse reso nuovamente padre!»
«E ho sbagliato! Molto! Ne pagherò le conseguenze!»
«Sei uno stolto, se pensi che Sandra Alti un giorno ti riprenderà tra le sue braccia… e tra le sue gambe.»
«Sergio…»
«No, non voglio sentirti. Svegliati, porca puttana.»
«Mi dispiace così tanto. Sarò pronto, lo giuro. La dimenticherò. Ma non oggi e non con Giorgia.»
«Ok, va bene. Scusa. Scusa davvero, non sono fatti miei e…»
«No, hai torto. Sono anche fatti tuoi. D’altronde sei tu che mi hai sollevato quando volevo solo morire. Solo mi serve un po’ di tempo.»
«Prendi il tempo che vuoi, amico. Io sarò qui.»
Prese la sua pallina da tennis e si diresse verso la sua scrivania.
«Se’?»
«Dimmi.»
«Non è morta per colpa di Sandi. Non è stata negligenza. Lo so che sembra cattiva, ma amava Ginevra. La amava quanto la amavo io.»
«D’accordo, d’accordo.» disse, senza convinzione.
«A dopo.»
«Già.»
8
Sandi era a lavoro. Dalla sua postazione doveva assicurare almeno 90 imballaggi all’ora. Prendeva un palmare nel cui display compariva una serie di numeri e cercava gli articoli corrispondenti. Poi li metteva nella scatola e la chiudeva. Era un lavoro di concentrazione. Non ci si poteva incantare o il nastro trasportatore che portava via le scatole avrebbe segnato il ritardo e si sarebbe perso il bonus-velocità.
Sandi amava dire che quel posto fosse un tempio del menefreghismo. Dei supervisori per chi stava sotto, è chiaro.
«A quante scatole sei, Sa’?» domandò Lavinia.
Lavinia aveva ventiquattro anni, era minuta e aveva un’aria divertente. Prendeva il lavoro seriamente, tuttavia ogni tanto, mentre i fatti suoi le attraversavano la testa, si scopriva a guardare il vuoto. Ecco perché non riusciva mai a prendere il bonus.
«Lavinia, muoviti o anche oggi ti sgrideranno. Siamo solo in due, malgrado ci sia lavoro per quattro o cinque. Ma dobbiamo arrangiarci così.»
«Speriamo che arrivi Gaetano!» mormorò, sognante.
«Sei folle?»
Gaetano era il supervisore di quell’ala. Comprensivo come un sociopatico, compassionevole come un pappone e bello come un attore. Ecco cos’era Gaetano. Ma se a Sandi non poteva fregare un piffero di lui e delle sue battute sarcastiche Lavinia usciva di testa ogni volta che lo vedeva.
«A quest’ora, di solito, è già passato a insultarci.» annunciò, enfatica.
«Ecco, infatti che poi… Ma per la miseria, parli del diavolo…»
«E arrivo io.» concluse con tono indifferente Gaetano. «Perché stavate parlando di me?»
«Oh, niente. Dicevamo che è un gran bel lavoro. Il lavoro dei sogni.»
«Fanculo, Sandi. Tu e la tua vena ironica mi fate schifo.»
«Gaetano, dai, scherziamo.» cercò di rimediare la buona, ingenua Lavinia.
«Zitta tu, scherzo della natura. E sbrigati o anche questo mese ti tolgo il bonus. Sei più lenta di un bradipo.»
«Gaetano!» urlò Sandi mentre Lavinia, in preda a un violento attacco di pianto isterico, lasciava la stanza.
«Sandi, è lentissima. È colpa sua se da sopra mi stanno sulle costole! Li vedo i tuoi risultati. Sei veloce, sveglia. Lei no. Ma non posso licenziarla. Un giorno mi ha detto: “Se mi licenzi faccio partire un’indagine.” Secondo lei mi stava facendo piacere. In realtà era un ricatto bello e buono.»
«Ah, be’. Certo. Mi spiace. È una brava ragazza. È solo un po’… sognatrice. Ed è cotta di te.»
«Quello lo so, ma non sono fatto per lei. Sono troppo grande e anche troppo tutto il resto.»
«Cosa intendi fare? Intendo per coprire lei visto che per un periodo non puoi licenziarla.»
«Manderò un altro. Per un periodo. Un paio di mesi, almeno.»
«Ah, bene. Ti prego, non sotto i 25 anni. Magari con un figlio, o con quattro cani da tirare avanti.»
«Perché?» domandò incuriosito e divertito lui.
«Perché deve avere bisogno del bonus!»
Risero insieme. Erano così, Sandi e Gaetano. Un momento si mandavano a quel paese, un altro si amavano visceralmente. Lui sapeva che il cuore di lei era fermo senza battere e lui non si offendeva alle sue lamentele strazianti.
«Vai in bagno e parla a Lavinia.» lo pregò lei.
«Non ci penso nemmeno,» si spaventò teatralmente lui «mi sbatte su un water e mi stupra.»
«Non fare l’imbecille.»
«Solo se mi dai un bacino.»
«Fottiti.» lo rimbeccò lei, alzando enfaticamente il dito medio verso di lui che ridacchiò.
«Ok, va bene. Ora vado. Accidenti.»
Si avviò a passi lenti verso il bagno delle signore, con un pacchetto di Kleenex tra le mani e qualche parola di conforto.
*
Qualche minuto dopo, con gli occhi rossi e il viso paonazzo, Lavinia fece il suo ingresso nella stanza degli imballaggi.
«Ah, bene. Ti è passata?»
«Oh, sì. Gaetano è stato così dolce che non hai idea. Mi ha detto che non voleva ma che era troppo stressato dalla vita. Sai si è appena lasciato con la sua fidanzata.» aggiunse, sognante.
«Lavinia, non ti illudere. Lui ha un altro tipo di donna in mente.»
«Oh, sì. Tranquilla. Me l’ha detto. Mi ha detto che io mi merito di meglio, e che non devo essere così fragile e sempre dolce. Mi ha detto: “Devi essere un po’ come Sandi!”»
«Come me? Oh, no, non esserlo.»
«Bella e forte. Tu sei il suo tipo.»
«Lui non è il mio tipo.»
«E che tipo hai in mente, tu? Donna del mistero…»
«Io non ho tipo, Lavinia. Non sono tipa da tipo. Sto bene da sola.» affermò categoricamente Sandi, con gli occhi abbassati sul lavoro.
«Ah, be’. Così bella e senza un tipo.»
«Lavinia, la prossima volta che fai tardi i capi usciranno di testa, lo sai.»
«Sì, ok. Mea culpa. Oh merda, mi si è bloccato il nastro.»
«Sei senza vergogna, Lavi’.» disse e liberò il nastro.
9
Era arrivato, senza che si accorgessero del tempo che scorre, metà maggio, tra il profumo dei fiori e il tepore di un sole che presagisce l’estate. Fece più caldo del solito, quell’anno, e i fuochi, uno dopo l’altro, vennero spenti nelle case di tutta la città. Sandi e Eddie avevano un camino in stile antico, con il legno – il quale incastonava le fiamme come pietre preziose – abbastanza lontano da non prendere fuoco ma tanto vicino da dare una visione d’insieme magica. Ora, da spento, non aveva certo perso la magia insita nei materiali pregiati e nell’ottima fattura.
Le giornate, lunghe e belle, facevano sì che tutti potessero passeggiare per i parchi o per la strada.
Sandi amava il caldo, il sole. Eddie un po’ meno, lui era per il gelo di dicembre – amava il freddo dell’inverno quando fuori c’è la neve e la si guarda da dentro casa con tra le mani una bella cioccolata fumante.
Ma chi amava di più il bel tempo era Ted, il loro meticcio. Saltava e correva per il giardino come un forsennato. Avevano fatto una buca e l’avevano riempita d’acqua: il suo mondo era questo. Poi, puntuale come un orologio svizzero, tornava dentro e si strusciava nei divani di stoffa che Sandi aveva trovato, anni prima, in un mercatino dell’usato a pochi spicci. Ma a loro due non importava: amavano quella bestiola che li faceva ridere. La amavano sempre – come sempre vanno amati gli animali, fedeli testimoni di giornate rese migliori da una leccata in pieno viso – anche quando non si svegliava in tempo e faceva la pipì nel grosso piumone del letto matrimoniale, o quando mangiava le ciabatte. La amavano persino quando abbaiava fino a far venire loro l’emicrania. Era l’unico raggio di sole, in quella buia casa sterile d’amore.
Spesso l’unico modo che avevano di rivolgersi l’uno all’altro era parlare con quella palla di pelo simpatica e sempre riconoscente.
Quando Eddie aveva trovato Ted nel vialetto di casa era esausto, magro, moribondo. Si trascinava per inerzia, sperando che un miracolo accadesse proprio a lui. Erano stati necessari molti giorni sotto flebo per poterlo rimettere in piedi, seppur debolmente. Ma reagiva; aveva una forza e un coraggio da leoni. Passo dopo passo, boccone dopo boccone, si era rimesso in piedi. Lui era parte di loro. Punto. Ora era trattato da signore.
Sandi e Eddie erano ambedue dentro casa, uno in una stanza l’altro nell’altra. L’antica promessa fattasi di passare meno tempo possibile l’uno con l’altra era stata mantenuta. Mai un attimo di vacillamento, mai un dubbio, o una parola che mettesse fine a quella guerra combattuta senza un fine.
«Esco.» disse all’improvviso Eddie senza aspettare la risposta di lei. Ma si stava giusto infilando la giacca che lei lo raggiunse.
«Senti, io non so in questi giorni può essere che vada da Olivia più spesso. Matthias e Samuele hanno la varicella.»
«No problem, Sandi.»
Rimase qualche minuto sbigottito davanti alla porta. All’improvviso quella stanza gli apparve in giorni più felici.
«Sandi? Che fai?» domandò Eddie alla bella moglie che aveva sposato appena qualche mese prima.
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