Scherzi Del Futuro

Scherzi Del Futuro
Marco Fogliani
Verso uno strano futuro. E con un briciolo di preoccupazione. Si tratta di una serie di racconti ambientati nel futuro (ma, essendo stati scritti negli ultimi vent'anni, una parte della fantascienza originaria potrebbe essere andata perduta o, peggio ancora, divenuta obsoleta e risibile).
In ordine alfabetico, la raccolta nella versione elettronica, comprende i seguenti racconti:
AGENTI MOLTO SPECIALI
AI TEMPI DELLA SALUBRINA
BATTERIE A LUNGA DURATA
I VIAGGI DI LILLIGET
IL CALCIO DI OGGI NON E' PIU' COME PRIMA
IL MECENATE DELLA SCIENZA
IL MORBO DI ...
IL PROGETTO PILOTA
IL RISVEGLIO
IO E ANNA
L'AVARIA
LA FINE DELLA LIBERTA'
LA LIBERTA’
LA MISSIONE DELL’ULISSE VOLANTE
LA PARTITA INTERROTTA
LA PENSIONE A CINQUE STELLE
LA RETATA
LA STRANA PIOGGIA
LA TERZA GENERAZIONE
LO STATO LIBERO DI BAGHIRISTAN
LO STRANO INCONTRO
PAESAGGIO MOZZAFIATO
STORIA DI ALTRI TEMPI
UN MONDO NUOVO
Dato il carattere tematico della raccolta, si avverte che i racconti qui contenuti possono essere presenti anche in altre raccolte tematiche dello stesso autore.


MARCO FOGLIANI
Aggiornamento al: 03/07/2021

INTRODUZIONE
Non mi piacciono le premesse. Però mi sento tenuto a spendere qualche parola su quanto ho scritto immaginandolo ambientato nel futuro.
Per cominciare devo avvertire che, essendo stati scritti nell'arco degli ultimi vent'anni, una parte della fantascienza originaria potrebbe essere andata perduta o, peggio ancora, divenuta obsoleta e ridicola; un po' come vedere oggi i film di fantascienza del secolo scorso ambientati nel 1999 o nel 2001.
Perciò, benché buona parte della mia fantasia sia sempre stata proiettata verso un futuro più o meno prossimo, ho cercato di raccogliere qui solo le storie più convincenti e ancora futuristiche. In questa raccolta ho inoltre cercato di concentrarmi più sulla "fantascienza" che sulla "fantapolitica" (anche se a volte il confine tra i due generi è labile).
Avverto infine che una parte degli "Scherzi del futuro" potrete trovarli a diverso titolo anche in altre mie raccolte: "Scherzi"; "Scherzi per il teatro", "Scherzi del calcio"; "Scherzi di medici, politici e scrittori"; "Sta scherzando commissario?"

LA PARTITA INTERROTTA
Allo stadio Olimpico di Roma la partita Roma-Juventus, 12-ma di ritorno del campionato italiano di calcio di serie A, era cominciata da circa venti minuti.
Una bella partita. Anche se non si erano ancora viste reti, il pubblico aveva già avuto modo di divertirsi in molte occasioni. Ed una bella giornata: un sole tiepido primaverile, quasi niente vento e niente nuvole, dopo una settimana che, meteorologicamente, alcuni avevano previsto come l’ultima invernale della stagione.
A me il sole dava quasi fastidio: troppo sparato sulla mia faccia. Avrei gradito volentieri una bella nuvola sopra lo stadio, anche per potermi togliere quel cappellino che, se permetteva alla mia testa pelata di non surriscaldarsi, comunque mi dava fastidio.
Ad un tratto, guardando il cielo sopra di me, notai qualcosa di strano. Non era un gabbiano, come mi era sembrato a prima vista, anche se di gabbiani in giro ce n’erano parecchi. Non sembrava neanche un palloncino, di quelli che i gruppi di tifosi organizzati lasciano andare all’inizio degli incontri in vivaci coreografie multicolori. Perché invece di salire, scendeva, almeno così mi pareva. Sì, doveva scendere, perché ora cominciavo a distinguere in quel coso una specie di paracadute. Come le caramelle o i salamini che, quando ero bambino, qualche aereo rumoroso ci gettava in dono sulle spiagge delle nostre vacanze.
Però, nonostante quella specie di paracadute, questo coso sembrava scendere dritto, anche se lentamente. Senza ondeggiamenti, dritto e deciso verso il centro di metà campo.
Non avrei saputo dire quanto fosse grande, così lassù in mezzo al cielo. Forse era piccolo; ma più scendeva e più, ovviamente, si ingrandiva, e più le persone intorno si accorgevano della sua presenza. Tanto che, ad un tratto, mi resi conto che intorno a me erano forse più quelli che fissavano questo oggetto in aria di quelli che seguivano l’incontro.
Se ne avvide anche qualcuno a bordo campo, che attirò l’attenzione del terzo uomo e questi dell’arbitro, il quale fermò il gioco, convocò i due capitani e, senza troppe discussioni, ordinò che ci si spostasse tutti vicino alle panchine. Tempo pochi secondi ed il terreno di gioco si era svuotato. La partita sarebbe stata probabilmente sospesa; sicuramente per ora era stata interrotta. L’arbitro, gli allenatori ed altri personaggi continuavano a parlottare fittamente tra loro vicino a quelle specie di trincee delle panchine, osservando quel coso che scendeva. Ma qualche giocatore prese la via dello spogliatoio, per cui i più davano già la partita per sospesa.
“Ma non puoi sentire alla radio che cosa dicono? Tu che hai il telefonino speciale con 500 funzioni, possibile che non abbia anche la radio?”, chiese un mio vicino ad un suo amico.
“Ci sto provando. Credo un elicottero … a quanto pare … “
Non riuscii a capire di più, perché per l’appunto il rumore di un elicottero, proveniente dalla Tribuna Tevere, montò rapidamente facendosi in breve assordante.
Anzi, gli elicotteri erano due, dei carabinieri. Si disposero ciascuno di fronte ad una delle due porte, all’altezza del dischetto del rigore, quasi a fare da scorta all’atterraggio di quel coso; il quale proseguiva la sua discesa sempre senza fretta, come se avesse gravità nulla, ma senza deviare dalla verticale, come un ascensore.
Gli altoparlanti gracchiavano qualcosa, ma il rumore degli elicotteri copriva tutto. Per fortuna dalla radio, e dal gruppetto di tifosi con cui ero, sapevo tutto, e cioè: i cancelli d’uscita erano stati aperti; la partita era stata sospesa per ordine del prefetto, ed i giocatori erano già tutti negli spogliatoi; non c’era nessun pericolo per gli spettatori che quindi potevano anche rimanere fino a nuovo ordine, e comunque dovevano mantenere la calma, non ostacolare le attività del personale addetto alla sicurezza e seguire le indicazioni degli steward e delle hostess. Tutto il personale di ordine pubblico era appostato, e altri agenti erano in arrivo - lo credo, anche perché ormai l’ordine pubblico all’interno dello stadio era gestito quasi solo da hostess e non dalla polizia, che in genere era il bersaglio preferito dei tifosi violenti – ed erano attesi anche mezzi specializzati dell’esercito.
Infine sotto quella specie di paracadute grigio riuscì a distinguersi una struttura a forma di tetraedro, colore celeste metallizzato, quasi fosse ricoperta di pannelli solari.
“Un tetraedro? E che diavolo è?”
“È quello, non lo vedi?”
Sarà stato alto tre metri.
“Due metri abbondanti, dicono”
“Certo che se beccano chi ha combinato questo scherzo, glie la fanno pagare cara!”
“Ah sarebbe quello il tetraedro? Come le vecchie confezioni del latte?”
“Esatto, ogni lato un triangolo equilatero, anche se non mi sembra proprio equilatero.”
“Per me sono spie brasiliane, venute a spiare il gioco dei nostri campioni!”
Il tetraedro atterrò dritto e silenzioso, esattamente al centro del campo. Nessuno di noi parlava. Qualcuno aveva abbandonato gli spalti, ma la maggior parte degli spettatori era curiosa di vedere cosa sarebbe successo.
Non accadde nulla. Però quella specie di paracadute era rimasto là rigido in aria, come un grazioso ombrellino che riparava dal sole la sottostante struttura a tetraedro.
Non accadde nulla forse per quasi un minuto. Poi, all’improvviso, dagli schieramenti di poliziotti in tenuta antisommossa partirono insieme dei potenti getti d’acqua. Quattro potenti idranti spararono in contemporanea contro quell’affare. Gli diedero una bella lavata forse per un minuto, facendo diventare il cerchio di centrocampo un’enorme pozza. Poi si fermarono. Suppongo che avessero finito l’acqua a loro disposizione; o forse semplicemente pensavano di averlo lavato per bene. E poi non accadde niente per un bel po’. Gli elicotteri fermarono i motori. Gli altoparlanti invitarono il pubblico, per motivi di sicurezza, ad abbandonare lo stadio con calma e con ordine, recandosi all’uscita più vicina, rassicurando che i biglietti sarebbero stati validi per la ripetizione della gara o rimborsati. Alcuni mezzi blindati militari arrivarono fino alla pista di atletica, e poi anche due elicotteri da trasporto dell’esercito con dell'attrezzatura sofisticata.
Il deflusso del pubblico fu lento ed ordinato. Circa dieci minuti dopo noi eravamo ancora ai nostri posti quando, preceduto da uno sbuffare che ricordava un po’ una pentola a pressione, le tre facce del tetraedro all’improvviso si aprirono. Dal suo interno rotolarono fuori una gran quantità di sfere azzurrine grandi ciascuna quanto un pallone da calcio; e probabilmente leggere come palloncini dal momento che, di tanto in tanto, cominciavano a rimbalzare, ciascuna per suo conto, ma sempre lentamente e seguendo una direzione rigorosamente verticale.
Il cordone di poliziotti in tenuta antisommossa ebbe un sussulto, forse indeciso se utilizzare di nuovo gli idranti oppure no.
Chi, come noi, ancora non era uscito dallo stadio, a questo punto voleva rimanere, per vedere se succedeva ancora qualcosa: infatti più di un cronista era del parere che si trattasse di uno spettacolo organizzato ad arte, probabilmente da uno degli sponsor delle due squadre. Uno spettacolo artistico e mediatico unico, di grande effetto, organizzato senza badare a spese in diretta televisiva, e con una cortina di mistero che sarebbe stata svelata solo dopo qualche giorno.
Visto che la gente era restia ad allontanarsi, l’altoparlante ripeté nuovamente e più volte il precedente invito ad abbandonare lo stadio.
Era buffo vedere questi palloncini che continuavano a rimbalzare l’uno indipendentemente dall’altro e senza mai scontrarsi, spinti da chissà cosa; buffo vedere quella specie di robotttino militare telecomandato avvicinarsi a quel coso, agitare per aria le sue braccia metalliche e poi ritornare dal suo padroncino; buffo anche vedere un cane addestrato che, legato ad un lunghissimo guinzaglio, si avvicinava a quei palloncini per annusarli, ma senza che gli fosse concesso di toccarli o di giocare con essi. Chissà che cosa si aspettavano che facesse!
Insomma, lo spettacolo era stato anche abbastanza interessante e divertente, ma alla lunga si era fatto piuttosto monotono e noioso.
Perciò, quando la calca all’uscita si fu rarefatta, decidemmo che era giunto anche per noi il momento di uscire e ritornammo a casa tranquillamente, pensando a cosa organizzare per riempire quel pezzo di pomeriggio rimasto inaspettatamente libero.
E allora, cosa accadde quel famoso pomeriggio allo stadio? Beh, ancora non mi è chiaro neanche adesso, a distanza di molti anni.
Sicuramente lo stadio rimase inagibile per almeno tre settimane, perché ricordo che la successiva partita della Roma si giocò in campo neutro.
Dicono che lo stadio, in quel periodo, sia stato presidiato da uomini e mezzi militari, neanche fosse una caserma o una postazione strategica; e che quegli oggetti misteriosi siano stati trasferiti in segreto e che si trovino oggi in una base NATO.
Ma di tutto quanto riguarda l’intera faccenda non è mai trapelato nulla di certo, nonostante le interpellanze parlamentari, le inchieste giornalistiche ed i dibattiti televisivi, perché il governo ha imposto su di essa il segreto di Stato. Voci tante, naturalmente, ma secondo me nessuna degna di credito. Se non quella, che ho letto qualche mese fa su una rivista seria di divulgazione scientifica, secondo cui sarebbe stato appurato che sia i materiali che la tecnologia impiegati in tutti quegli oggetti sarebbe comunemente accessibili nella società occidentale, con l’unica eccezione di quella specie di paracadute rigido che scendeva leggero leggero come un ascensore, e di cui fior di scienziati stanno tuttora tentando di capire il funzionamento.

PAESAGGIO MOZZAFIATO
“E adesso chiudi gli occhi, e mi raccomando: non li riaprire finché non te lo dico io”, le disse lui.
Lei così fece, pregustando non sapeva bene quale gradita sorpresa. Si lasciò prendere per mano e guidare lentamente per qualche passo, in attesa fiduciosa di chissà cosa.
O meglio, lei una precisa speranza su cosa potesse accadere lei ce l'aveva; ma le venne anche in mente il racconto del primo bacio tra sua mamma e suo papà, e nel frattempo cominciava ad udire inatteso il rumore del mare, dapprima appena in sottofondo, poi sempre più fragoroso. Rumore di onde spumose che si infrangono con forza sulla scogliera.
In realtà non aveva la minima idea di quello che l'aspettasse.
“Siediti pure qui se vuoi, e mettiti comoda, ma sempre senza aprire gli occhi”.
Lei fece come le era stato detto, meravigliandosi di trovare ad accoglierla sotto di sé una specie di morbido tappeto anziché sassolini o qualche rocciosa sporgenza appuntita.
Il rumore del mare, ora leggermente attenuatosi, era comunque piacevole e rilassante, non disturbato dai versi, portati dal vento quasi a intermittenza, di alcuni gabbiani che andavano e venivano in volo. Anche quell'arietta fresca sulla faccia, una brezza leggera che sapeva di salsedine e di libertà, dava una sensazione piacevole. E dalle palpebre chiuse filtrava una luce di un bel colore che era una specie di rosa rossastro aranciato.
“Adesso puoi riaprire gli occhi.”
Di fronte a lei, come uno smisurato affresco animato del più grande artista che si sia mai conosciuto, stava il paesaggio mozzafiato di un tramonto sul mare, Qualcosa di più che solo una mirabile visione, perché ad un tratto le giunsero anche dei leggeri spruzzi d'acqua fresca sulla faccia e sul vestito.
“Non preoccuparti, è soltanto acqua”, la tranquillizzò lui. “Ma se vuoi … ”
“No, no … è bellissimo … incredibile … ”
Rimasero un po' seduti una accanto all'altro in silenzio, in contemplazione di quanto si presentava ai loro occhi.
“Ti piace?”
Lei fece cenno di sì col capo.
Poi dopo un po', all'improvviso, lei parve risvegliarsi, e consultò il suo orologio al polso.
“Però, ad essere sincera, quando mi hai invitato a provare il tuo nuovo impianto 3D stereo sensisurround con special-Eff io ho pensato subito istintivamente alla partita del campionato del mondo. Non so perché ti sia venuto in mente che io sia un tipo incline alle romanticherie. Non è che potresti cambiare canale e mettere la partita, che sta per cominciare?”
“Va bene.”
Lui un po' controvoglia raccolse il telecomando, ed in un attimo si trovarono seduti in panchina di fianco all'allenatore, all'interno di uno stadio con un tifo d'inferno.
“Grazie, sei davvero un amico”, gli disse lei gridando per riuscire a farsi sentire.”

IL PROGETTO PILOTA
Sono proprio contento che, circa un mese or sono, sia stata accolta la mia richiesta di partecipare attivamente al cosiddetto “progetto pilota”. Più nel dettaglio, si tratta di un gruppo di studio sul telelavoro avanzato, che è poi uno dei settori trainanti della mia azienda (una multinazionale di prodotti elettronici di vario genere ma sicuramente leader nel campo dei sistemi di comunicazione aziendale e per teleconferenze). Sarà in pratica il collaudo in casa propria, con conseguenti perfezionamenti e migliorie, di quello che nelle intenzioni dovrebbe diventare il prodotto di punta della sua categoria, ricco di soluzioni innovative e spesso rivoluzionarie sotto diversi aspetti.
Ci tenevo molto a questo incarico, di grande prestigio e responsabilità. Se ho avuto la meglio su altri manager più quotati è stato forse per la dimestichezza acquisita nel collaborare con colleghi delle filiali straniere, grazie al mio carattere e soprattutto alla mia ottima conoscenza di 4 lingue (tra cui il greco); ma forse anche per via del mio vivo e sincero interesse per la materia. Sono un manager, ma mi sento anche un po' un tecnico: non come molti dirigenti che a trattare di pesce o di automobili è la stessa cosa. Mi sono ormai quasi specializzato, e a cambiare ramo mi troverei spaesato, ma soprattutto sarei sprecato.
Sono uno che crede fermamente nell'importanza e negli sviluppi del lavoro a distanza. In particolare da quando l'azienda, per motivi logistici, ha deciso di trasferire la sua filiale di Roma in prossimità dell'aeroporto internazionale di Fiumicino, aggiungendo altri quaranta chilometri agli altrettanti che già separavano la mia abitazione dalla vecchia sede. Così io, che per le giustificate resistenze di mia moglie non ho potuto avvicinare la residenza all'ufficio, ho conosciuto in prima persona i disagi di lavorare lontano da casa; ma soprattutto ho capito, e poi sempre tenuto presente, le potenzialità economiche del poter ridurre questi disagi. Insomma, sono sempre stato quello che vedeva nel telelavoro possibili sviluppi e guadagni dove quasi nessun altro li immaginava.
Solo con il passaggio del progetto alla fase operativa, cioè quando sono venuti a casa per montarmi la cabina, ho avuto un attimo di incertezza e preoccupazione per avervi aderito. Ero a conoscenza delle dimensioni del box, ma non mi ero reso conto che avrebbe in pratica più che dimezzato lo spazio del mio studio. Poco male: perché una volta installato capii presto che lo studio avrebbe perso quasi tutta la sua importanza. Con le sue apparecchiature d'avanguardia, quel sofisticato gabbiotto ha mandato completamente a riposo il computer, il fax e il telefono che usavo prima; con un certo beneficio anche sulla bolletta, dato che i costi di esercizio della cabina, che sostituiva in tutto e per tutto la mia vecchia postazione di lavoro, erano completamente a carico dell'azienda.
Altre preoccupazioni erano legate alla nuova attività recentemente intrapresa da mia moglie, attività che insieme al giardino e alle comodità di casa nostra era stata il principale impedimento a trasferirci. Già: con una certa sorpresa ma anche orgoglio da parte mia, Rita si era all'improvviso trasformata da casalinga in imprenditrice. Sfruttando la sua innata capacità di resistere ai bambini, gli incentivi economici previsti dalle nuove normative nonché il giardino e gli ampi spazi a disposizione in casa nostra, l'aveva trasformata in una specie di asilo di quartiere. Così poteva rimanere sempre vicino a nostro figlio, e al tempo stesso sentirsi realizzata ed economicamente autonoma.
Solo se dovrò lavorare da casa, pensavo, avrò l'impatto con la confusione ed il rumore di questo viavai infantile. Ed invece no: la cabina era insonorizzata alla perfezione. Qualunque cosa fosse successa all'esterno, fosse stato anche un temporale o un terremoto, credo proprio che non me ne sarei accorto. Se avessi voluto, neanche il bussare alla porta mi avrebbe disturbato: potevo fare in modo che, se qualcuno voleva entrare, doveva premere un pulsante e io sarei stato avvertito della sua presenza da un apposito segnale luminoso o acustico. Potevo allora, prima di aprire, azionare la telecamera esterna per vedere chi fosse, o inviare un messaggio, acustico o video, personalizzabile (in funzione anche del riconoscimento semi-automatico della persona).
Insomma i pochi timori che avevo si rivelarono infondati, anche perché mia moglie, con cui avevo messo bene in chiaro a priori che quando ero là dentro era a tutti gli effetti come se fossi in ufficio, non mi disturbò mai per nessun motivo, se non per segnalarmi quando passavo troppo oltre l'ora del pranzo. E vi assicuro anche che, specialmente i primi tempi, era davvero bello pranzare a casa con la mia famiglia.
Sui vantaggi che ho ricevuto dalla partecipazione al progetto pilota potrei spendere pagine e pagine, anche se certo altre persone del progetto saprebbero farlo meglio di me che li scopro di giorno in giorno sul campo, mano a mano che mi trovo ad affrontare nuovi problemi e situazioni lavorative.
Entrando in quel box, in un istante è come se mi trovassi altrove: sempre nel mio ufficio, ma alle volte anche ad Atene, a Monaco o in altre sedi della compagnia. Il tutto senza mai dover prendere la macchina, il treno o l'aereo, sempre restando a casa mia. In effetti, il nostro è l'unico progetto intra-nazionale per cui la nostra azienda non prevede spese di trasferte.
Talvolta però sfrutto la potenzialità della cabina - l'insonorizzazione, la comodità della poltrona, la possibilità di regolare le luci e di gestire il sottofondo musicale - per prendermi delle pause di relax o di riflessione (Queste voci includono anche quella, assolutamente vietata nel lessico del manager, di schiacciare un pisolino). L'importante è attivare nel modo opportuno, o disattivarli completamente a seconda del caso, gli “allarmi di chiamata”. Per questi allarmi è disponibile anche un praticissimo ricevitore portatile che mi consente, tra l'altro, di prendermi di tanto in tanto una pausa nel nostro bellissimo giardino, o di essere reperibile anche a tavola durante il pranzo.
Insomma, massima flessibilità e comodità.
La mia nuova vita col telelavoro mi permetteva, ogni giorno, di alzarmi con molta calma, e ciononostante arrivare in ufficio prima di tutti gli altri. Aperta la porta della cabina, la luce all'interno si accendeva gradualmente, dando in pochi istanti forma e contorno alla mia scrivania. La temperatura, l'umidità e l'ossigenazione erano ideali, regolate da sofisticate apparecchiature secondo i valori raccomandati.
Era come se fossi là, nell'open space. Certo, avrei voluto che ci fosse anche una telecamera per poter osservare i miei collaboratori, capire esattamente cosa facevano e soprattutto quanto lavoravano; ma mi rendo conto che sarebbe stata una violazione troppo palese della loro privacy, e avrebbe necessariamente richiesto il loro consenso. Comunque sapevo benissimo chi di loro lavorava e chi no, chi in ufficio adoperava la propria testa e chi invece veniva a scaldar la sedia e a rubarsi lo stipendio.
Probabilmente una telecamera non sarebbe passata inosservata, anche se oggigiorno le fanno così piccole! Però quel bottoncino sul retro del loro nuovo computer… (sono stati molto contenti che gli fosse sostituito con questo modello recentissimo)… Basta un niente per pigiarlo accidentalmente, potrebbero benissimo essere stati loro senza accorgersene, o le addette alle pulizie. E invece sono stato io, di soppiatto, l'ultima volta che sono passato di là. Tanto nessuno ancora sa a cosa serva - se non quei pochi, tra cui io, che conoscono il progetto pilota a un certo livello di dettaglio!
Accendendo il computer così predisposto, le immagini del video vengono inviate sulla rete ai terminali remoti abilitati all'ascolto, come il mio, che vengono aggiornati continuamente. Insomma, non li vedi in faccia ma puoi vedere il loro schermo, quello che fanno e con che lena. Così so che Mario è tra i primi ad arrivare ed a mettersi al lavoro, mentre Carlo, che a detta della mia segretaria è sempre il primo a timbrare, resta ad oziare ogni mattina per quasi tre quarti d'ora. Se vada a prendersi un caffè, o a trovare un'amica o semplicemente legga il giornale non fa poi tanta differenza.
Per non correre il rischio di farmi un'opinione sbagliata ne studio uno solo alla volta, metodicamente (sono del parere che nella vita bisogna sempre concedere almeno una seconda possibilità), e ogni quattro o cinque giorni cambio il soggetto delle mie attenzioni. E a questa attività, sempre che non abbia altre faccende urgentissime da sbrigare, posso arrivare a dedicare anche mezz'ora ogni mattina: la reputo di una certa importanza, come avere con loro una conversazione, perché mi aiuta a capirli meglio. Per esempio, non avrei mai sospettato che il ragionier Rosi fosse così in gamba. Sempre interessato a tutto; sempre in fermento anche nelle pause dall'attività lavorativa. Si aggiorna continuamente su internet su argomenti più o meno di attualità, ma sempre molto interessanti, navigando su siti di altissimo livello culturale, di cui ignoravo completamente l'esistenza; ed io mi documento insieme a lui, in remoto, dispiaciuto solo quando non mi lascia il tempo di finire di leggere una pagina.
Il Renati invece è un vero lavativo. Uno che per non lavorare ce la mette proprio tutta! Non solo passa le ore a giocare col computer (una specie di solitario con le carte), ma poi è sempre il primo a parlare di sfruttamento proletario, angherie dei padroni, scioperi e rivoluzioni. Sono le uniche cose che sa fare, giocare e contestare: perché quando gli si affida un incarico, che naturalmente non può che essere semplice, a sentir lui sembra sempre difficilissimo e gli ci vuole una vita per portarlo a termine. Farò di tutto perché venga licenziato. Non sarà facile, perché ha anche delle conoscenze nel sindacato: ma sto pensando che la prossima volta andrò in sede senza preavvisare nessuno, entrerò di soppiatto e lo coglierò in flagrante mentre gioca. E anche se non lo sorprenderò sul fatto mi comporterò allo stesso modo: andrò all'ufficio sorveglianza e sicurezza a denunciare l'accaduto, chiedendo nei suoi confronti una sanzione disciplinare, o per lo meno che lo mettano sotto osservazione, in modo che la sanzione scatti alla prima occasione successiva.
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Quel giorno ero su di giri. Non volevo collegarmi troppo presto per non dare l'impressione che ci tenessi troppo; allora feci delle cosette di poca importanza ma comunque rilassanti, come riordinarmi la scrivania e, udite udite, spolverarla!! D'altronde se queste cose non le faccio io non le fa nessuno (non lascio né lascerò mai che nessuno entri nella cabina, se non personale qualificato per la manutenzione).
Ero su di giri perché stava per arrivare il clou della giornata e anche della settimana, forse l'aspetto più piacevole di tutto il progetto pilota: la signorina Kanakis. Penso che sia signorina: non gliel'ho mai chiesto per paura della delusione di saperla sposata, anche se quello che provo per lei è puramente platonico e senza possibilità di arrivare a sbocchi concreti. Ma c'è qualcosa in quella donna che trovo irresistibilmente attraente. Non sono solo i suoi vispi occhi neri, con quella espressione di sottintesa malizia che invece non traspare mai dalle sue parole; non sono neanche la sua bellissima capigliatura mora ondulata, né le sue forme sinuose che ricordano in qualche modo un favoloso paesaggio greco, fatto di onde increspate, sole rilucente e spiagge di morbida sabbia finissima. Non è solo la sua sicurezza, nel parlare ma soprattutto nel muoversi; il suo modo naturale di affrontare qualunque situazione, senza paura, senza complessi, con il sorriso di chi sa godersi la vita in tutti i suoi aspetti.
Forse è tutto questo insieme; forse qualcos'altro che non riesco ad afferrare; che mi sfugge ma che non mi lascia sfuggire in nessun modo al suo fascino.
Come mi aspettavo, lei era già pronta per il collegamento.
“Buongiorno dottore”, mi salutò mentre un'ombra intimorita di fianco a lei sgattaiolava via. Quelle due stanze lontane in un attimo si unirono, entrarono una nell'altra condividendo la parete che ci stava di fronte.
“Buongiorno signorina Kanakis: che piacere rivederla! La trovo ancora più elegante del solito, ed in ottima forma.”
“Sì, sì. In ottima forma. Questo fine settimana ho fatto delle splendide nuotate in mare. Sono i primi bagni della stagione, e questa è sempre una cosa bellissima. Voglio dire … in mare è tutt'altra cosa che in piscina.”
“Avrei voluto essere lì a nuotare con lei. Anche per vederla in costume, naturalmente. Lei è sempre molto elegante, ma qualche volta potrebbe mettersi anche qualcosa di meno austero, più giovanile … diciamo una bella scollatura, ecco.”
“È piuttosto freddo qua dentro.”
“… ma può regolare la temperatura!”, le suggerii. “Se vuole posso spiegarle come funziona.”
“Questo coso, qui in azienda, lo usa anche qualcun altro. Non mi permetterei di metterci le mani; e poi sono proprio negata per queste cose. Comunque, quando vorrà raggiungermi per farsi con me una bella nuotata nel nostro bellissimo mare, ne sarò felicissima. Sarà il benvenuto.”
Era una proposta tanto allettante quanto inattesa: davvero non avrei potuto sperare di meglio. “Naturalmente anche sua moglie”, aggiunse poi con un sorriso genuinamente ingenuo.
“Naturalmente anche mia moglie” ripetei io. “Anche mio figlio, magari”, aggiunsi io tornando coi piedi sulla terra, avendo afferrato l'involontaria ironia nelle sue parole.
“Naturalmente”, fu d'accordo anche lei col suo solito, splendido sorriso. “Bene. Se adesso vuole posso cominciare ad illustrale quella relazione di cui avevamo parlato la volta scorsa, dottore.”
Si accomodò su una sedia di fronte a me. Avevo notato già altre volte la disparità della nostra posizione: io su una comoda poltrona, riparato dietro a una protettiva scrivania; lei su una semplice seggiola, esposta verso di me come una studentessa di fronte alla commissione d'esame. L'unico lato positivo della situazione era che così potevo ammirare anche le sue bellissime gambe, stupendamente tornite e abbronzate. Ma capivo che in questo modo la scrivania si frapponeva tra noi come una ulteriore barriera, oltre alla differenza di fuso orario e al nostro diverso ruolo aziendale, mentre il mio intendimento era quello di eliminare le distanze tra noi, e non aumentarle.
“Aspetti, signorina: perché non viene a sedersi anche lei qui dietro alla scrivania, di fianco a me?”
Lei mi guardò con un'espressione come a dire: questo è proprio fuori di testa. Ma io sapevo benissimo quello che stavo per fare. Mi ero ben documentato, e l'avevo provato più di una volta: era una mossa ben studiata, con cui sorprenderla e fare colpo su di lei.
“Non sono impazzito, signorina. Mi dia solo qualche secondo e vedrà”.
Digitai la sequenza prescritta e, come per magia, in un attimo la situazione cambiò. La sua stanza ora entrava nella mia non più attraverso la parete di fronte a me, la più lunga, ma da quella più stretta laterale. Naturalmente avevo tolto in precedenza qualsiasi ostacolo che potesse guastare il risultato, e ora ci trovavamo veramente più vicini, con un approccio davvero molto più confidenziale.
Per lo stupore e l'incredulità lei rimase senza parole. Io ne approfittai per creare un altro effetto speciale, anche questo studiato in precedenza: un'ampia finestra virtuale sulla parete opposta, spalancata su un profumato giardino fiorito.
“Ma lei è proprio un mago, dottore! Così è davvero più bello. Certo, se devo dirle la verità, dalla finestra avrei preferito vedere il mare: sa com'è, noi greci ce l'abbiamo nel sangue.”
“Lei vuole il mare? E avrà il mare. Mi dia solo un minuto e ci trasferiamo tutti e due vicino a qualche bellissima spiaggia.” Cominciai con l'ingrandire la finta finestra e cambiare il paesaggio, scegliendo, tra i tanti disponibili, quello con la spiaggia che mi sembrava più adatta alle nuotate della signorina Kanakis. In sottofondo si udiva il mormorio delle onde. Fu allora che mi ricordai che si poteva adeguare anche la temperatura al paesaggio. Lo feci, e notai subito che la stanza iniziava a riscaldarsi come sotto un sole estivo.
Ragionando sulle potenzialità offerta dalla cabina, mi ricordai anche che era possibile fare in modo che le pareti sparissero, proiettando un panorama su ciascuna di esse e dando l'effetto di trovarsi proprio all'aria aperta. Ma su questo non mi ero documentato: perciò preferii non avventurarmi in un campo sconosciuto, col rischio di fare una figuraccia. “La prossima volta farò di meglio: ci trasferiremo proprio sul bagnasciuga”, le promisi.
“Ne sarò felicissima. Se ci riesce lo prenderò come un regalo per il mio compleanno, e le prometto che mi porterò il costume”, disse lei ridacchiando. “Però adesso lasci stare gli effetti speciali. In fondo è già bellissimo così, e io sono qui per illustrarle quella relazione.”
Aveva parlato di compleanno? Quando era il suo compleanno? Avrei voluto chiederglielo. Ma forse sarebbe stato più bello scoprirlo da solo. Doveva esserci scritto in qualche banca dati aziendale. Avevo già perso dei punti nel non averci pensato, per il fatto che fosse stato lei a suggerirmelo. Adesso potevo forse recuperare con un bel regalino, recapitandoglielo a casa nel giorno esatto. E cosa sarebbe stato più adatto: un costume da bagno? Ridicolo. Un anello? Troppo impegnativo. Un bel braccialetto, decisi.
Lei aveva già iniziato da un po' la sua relazione. “Dottore, non mi segue? Mi sembra un po' assente.” In effetti stavo smanettando alla tastiera del computer.
“No, no, continui pure”. Avevo appena trovato i suoi dati aziendali e stavo trascrivendo il suo indirizzo, per poterle recapitare almeno un mazzo di fiori. Il compleanno era l'indomani. Calcolando la sua età ragionai tra me che la sua bellezza era ancor più straordinaria per essere una trentacinquenne.
“Dottore, qui la temperatura si sta alzando. Sembra proprio di essere sulla spiaggia d'estate. Non è che anche questo è opera sua?” Mentre così diceva si tolse il giacchino, rivelandomi che il suo completo color vinaccia includeva anche un elegante corpetto, che consentiva di ammirare la bellezza nuda delle sue braccia, delle spalle e della scollatura.
“Continuo a pensare che lei sia sprecata in questa azienda: doveva fare la modella.”
Lei ignorò il mio commento e proseguì nella relazione, invitandomi più di una volta a non distrarmi e a seguire maggiormente le sue parole. Immagino che fosse davvero evidente ciò su cui ero concentrato: la sua bellezza monopolizzava il mio sguardo e ogni mia attenzione. Era più forte di me. Non mi accorsi neanche che stavo grondando di sudore. La temperatura era ormai salita ben oltre i trenta gradi, quando lei “esplose” dicendo:
“Dottore, faccia qualcosa per questo caldo, perché qui a momenti mi sento male. Non posso continuare in queste condizioni.”
Era vero: si schiattava dal caldo. Era chiaro che proseguendo per quella strada non si sarebbe arrivato al termine dello strip-tease, ma al pronto soccorso: la signorina Kanakis si stava dimostrando molto seria non solo sul lavoro.
Mi diedi subito da fare per porre rimedio a quella imbarazzante situazione. Dopo alcuni tentativi ottenni qualche effetto, anche se non era esattamente quello che desideravo: la finestra si aprì e cominciò a sbattere (o almeno così sembrava), e in sincronia con questi movimenti arrivavano folate d'aria, calda anch'essa. Buona parte dei fogli di appunti della signorina Kanakis erano già finiti sparsi sul pavimento della sua stanza prima che io riuscissi a far sparire la finestra virtuale e l'effetto spiaggia.
“Che disastro! Sono mortificato.” Istintivamente mi alzai per aiutarla a raccogliere i fogli sparsi, ma dovetti fermarmi di fronte alla parete che ci divideva, consapevole di non poter fare niente.
“Lasci stare, non si preoccupi. Almeno adesso si riesce a respirare.” Non potevo fare altro che limitarmi a guardarla mentre si chinava a raccogliere i suoi fogli, sparsi dappertutto fin quasi ai miei piedi. Ma era un bel guardare, quel corpo snello ed elastico che si alzava ed abbassava in continuazione per nulla infastidito dalla gonna aderente e non troppo lunga. E la vedevo - miracoli della scienza e della tecnica - con la stessa chiarezza e nitidezza che se fosse lì presente in persona, come se bastasse allungare una mano per poter toccare quel corpo caldo (sicuramente) e morbido (pensavo) che calamitava il mio sguardo.
La guardavo così, quasi in trance, mentre raccoglieva gli ultimi fogli proprio vicino alla mia scrivania, e non mi resi neanche conto del movimento della mia mano, comandata non da uno stimolo del cervello ma da una parte incontrollabile del mio subconscio. E non me ne sarei accorto per un bel pezzo se non fosse stato per gli appositi sensori con allarme sonoro che segnalano qualunque contatto con le pareti di proiezione, contatto che in breve tempo può risultare dannoso per le stesse pareti e per tutto il box. Così rimasi sorpreso quasi quanto lei di udire quei beep a intermittenza, e con la stessa sorpresa mi resi conto che erano provocati dalla mia mano che, inconsciamente convinta di essersi adagiata su una delle sue bele chiappe tonde e sode, aveva già impresso una sua impronta grigiastra sulla parete.
“Ma cosa succede? Cos'altro ha combinato stavolta?”, mi chiese lei che forse, per mia fortuna, non aveva afferrato in pieno la situazione.
“Niente, niente. Per un attimo ho dimenticato che non siamo nella stessa stanza. Volevo solo darle una mano a raccogliere i fogli.” Per fortuna non eravamo nella stessa stanza, pensai, altrimenti avrebbe percepito chiaramente la mano che volevo darle, e in che modo!
“Senta, dottore: mi sembra che oggi lei sia decisamente fuori fase. Che ne direbbe di risentirci un'altra volta, magari domani alla stessa ora, sperando di avere più fortuna e di trovarla in una condizione più adatta per ascoltare la mia relazione?”
“Sì, sì, ha ragione”, mi vidi costretto ad ammettere. “Rimandiamo tutto a domani, che oggi proprio non è giornata.” Non mi aveva neanche lasciato il tempo di finire che, nel modo deciso di chi non ne può più, si era avvicinata alla console e aveva pigiato il tasto di interruzione del collegamento. Mi ritrovai solo e sconsolato nella mia stanza.
Nonostante tutto non mi persi d'animo. Tramite internet ordinai subito un bel mazzo di fiori da recapitarle il giorno dopo. Per il bigliettino di accompagnamento rielaborai, ispirato da una improvvisa vena poetica, uno dei testi che il sito suggeriva per le varie occasioni (A dispetto della figuraccia di quella mattina, sentivo che la signorina Kanakis induceva in me un influsso benefico e creativo straordinario. Pensai che fosse amore). A cui aggiunsi anche qualche parola di scuse per la situazione creatasi quel giorno.
Poi cercai, sempre in internet, il braccialetto da regalarle. Ne trovai più di uno che mi sembrava adatto, in diversi negozi; ma con mio disappunto, nessuno di coloro che lo offrivano era in grado di consegnarlo entro il giorno successivo. Telefonai anche al numero di riferimento di quella che sembrava la società più seria e rapida nelle consegne, e mi fu spiegato che, in caso di recapiti all'estero, non era tecnicamente né umanamente possibile ridurre i tempi da loro impiegati. C'era da acquisire l'ordine, reperire il prodotto nei magazzini, imballarlo. Trattandosi di una grande società multinazionale, in genere potevano reperire il prodotto anche nei magazzini della nazione di destinazione (ma per gli ultimi articoli inseriti a catalogo poteva essere necessario farli arrivare dalla sede centrale, in Olanda). Rimanevano i tempi di consegna locali, ma soprattutto quelli legati all'accertamento dell'avvenuto pagamento. “A meno che, per guadagnare tempo, non voglia optare per il pagamento in contanti alla consegna”, mi aveva proposto lui: ipotesi assolutamente inaccettabile nel mio caso.
“Non è possibile, per accelerare i tempi, che sia io a pagare in contanti qui da voi?”, gli chiesi.
“Non saprei, non è una prassi prevista, anche perché le nostre sedi non prevedono sportelli per il pubblico. Però se vuole fare un tentativo le lascio l'indirizzo della filiale di Roma, e qualche nominativo che forse può provare a contattare.”
Uscii in fretta e, preso dai miei pensieri (controllavo mentalmente che non mi stessi dimenticando qualcosa: chiavi della macchina, telefonino, indirizzo dell'agenzia e della signorina Kanakis, numero di catalogo del braccialetto scelto) rischiai di non accorgermi di mia moglie che mi salutava, con espressione interrogativa e alquanto preoccupata. “Tutto a posto, dovrei tornare per pranzo”, le dissi distrattamente e senza convinzione.
E in effetti dopo neanche un'ora ero già sulla strada del ritorno.
Non sapevo se ero riuscito ad ottenere quello che volevo. Forse l'avrei saputo il giorno dopo dalla signorina Kanakis. (Forse, perché, conoscendola, avrebbe potuto anche ricevere il regalo facendo finta di niente, o addirittura rifiutarlo). Quello che sapevo per certo era che, solo per mantenere viva la mia speranza, avevo creduto alla promessa non del direttore della filiale, che in quel momento era irreperibile, ma di uno che, a volergli credere, era il coordinatore del servizio spedizioni. Avevo fatto l'ordine tramite telefonino, pagando a lui in contanti ed elargendogli una somma aggiuntiva assai considerevole (quest'ultima senza ricevuta); fidandomi semplicemente della parola di quell'Arturo, che mi aveva garantito che sarebbe stato fatto tutto il possibile. Doveva essere amore, avevo pensato per la seconda volta nella giornata.
E la cosa buffa era constatare che, con tutta la tecnologia a mia disposizione (ho dimenticato di parlare del navigatore satellitare della mia auto e delle potenzialità del mio telefonino, ma del resto sapete già tutto), nonché contanti e carte di credito, il raggiungimento di quello che per me era diventato un obiettivo primario era legato all'onestà, alla buona volontà e alle lune di quello sconosciuto Arturo, che nella mia immaginazione era partito subito per la Grecia con un vecchio camion quasi vuoto, correndo contro il tempo per portare il mio preziosissimo regalo.
Rientrato alla mia postazione, cercavo di riordinarmi le idee. Nell’attesa del pranzo proverò a creare l’effetto spiaggia, pensai, proseguendo col corso autodidattico sull’uso della postazione.
Ma mentre ancora la cabina stava avviando i suoi dispositivi, sentii come un fruscio, una specie di interferenza, che lentamente prese forma davanti ai miei occhi fino a giganteggiare sulla parete di fronte a me.
“E chi è costui?”, mi chiesi stupefatto. Mentre mi ponevo questa domanda ne avevo già la risposta sulla punta della lingua, reperita chissà dove tra i meandri della mia mente.
“Non mi riconosce?”
“Il cavalier Grandi, l’amministratore delegato”, continuai quasi tra me, ma conscio del fatto che anche lui mi avrebbe sentito.
“Ci è andato vicino. Sono Grandi padre, come molti mi chiamano per distinguermi dai miei figli, i Grandi fratelli. Sono loro ormai che hanno in mano la direzione di tutto il ramo italiano dell’azienda. Ormai io qua dentro conto poco.”
“Ehm, è un onore per me conoscerla di persona. A cosa devo il piacere di questa visita inaspettata?”
“Se lei considera un onore conoscermi di persona, allora accetterà volentieri il mio invito per domattina nel mio studio, qui in sede. Così, dopo avermi firmato la sua lettera di dimissioni, avrà anche il piacere di stringermi la mano di persona.”
“Dimissioni? Ma che cosa dice? Perché mai dovrei dare le dimissioni?”
“Certo, potrebbe anche non darle, se preferisce che sia io a licenziarla. Vede, si dà il caso che stamattina abbia assistito a tutta la “riunione” - se così si può definire - che ha tenuto con la signorina Kanakis. Lei sa come è potente questa diavoleria con cui lavora. Sa bene che, anche se non si dovrebbe, consente di controllare il comportamento dei nostri collaboratori: pratica che a quanto mi risulta lei non disdegna, e che peraltro approvo. Naturalmente si può anche registrare quello che accade, non lo sapeva? Glielo dico perché, se per caso avesse desiderio di rivedere meglio qualche passaggio della sua performance… anzi, glielo raccomando: alcune delle scene sono molto divertenti. Certo, non molto edificanti…”
“Ma cavaliere, sia comprensivo: in fondo non ho fatto niente di particolarmente grave. Nulla su cui non si possa chiudere un occhio.”
“A parte il danno alla sua postazione, quel vergognoso segno a forma di mano sulla parete parla di quello che è accaduto nei suoi termini esatti: molestie sessuali. Il fatto che sia passato inosservato per lei è una grande fortuna, ma per me è del tutto secondario. E comunque si ricordi che, per manager del suo livello, la fiducia è presupposto unico ed essenziale per proseguire il rapporto di collaborazione con la nostra azienda. E io la fiducia in lei l'ho persa completamente.”
“Ma dal punto di vista professionale non credo che abbia a che lamentarsi di me.”
“Posso senz'altro obiettarle che oggi non solo ha buttato una mattinata del suo ben pagato lavoro, ma l'ha fatta perdere anche ad altri nostri validi collaboratori, come l'ottima signorina Kanakis, il che è assai più grave.”
“Cercavo di conoscere meglio il prodotto di cui mi occupo…”, obiettai timidamente.
“Il suo rendimento lavorativo e professionale mi importano relativamente poco. Se vuole stasera posso interessare del suo caso i Grande fratelli: si faranno due risate anche loro con questo filmino.”
Mi rendevo conto che improvvisare un'autodifesa si prospettava difficile e inutile: rischiavo solo di peggiorare la mia situazione. “Spero solo che non sia stata la signorina a lamentarsi di me: me ne dispiacerebbe immensamente. D'altronde trovo così strano che una persona importante come lei, cavaliere, dedichi il suo prezioso tempo a stupidaggini del genere.”
“Dopo aver guidato per anni come un padre questa importante realtà aziendale, che considero come una grande famiglia”, mi rispose, “oggi mi dedico a quello che ritengo sia il suo aspetto più importante: lo spirito e le motivazioni dei suoi dipendenti, soprattutto ai più alti livelli. E ciò non può prescindere dalla loro moralità. Se lei vuole sfasciare la sua famiglia è liberissimo di farlo; ma la mia azienda non è disposta a collaborare con lei.”
Un vecchio moralista bacchettone, ecco cosa sei, pensai, non hai proprio nessun modo migliore di passare il tempo che facendo il guardone nelle stanze degli altri?
“Quanto alla signorina Kanakis”, continuò lui, “le consiglio, la prossima volta che tenterà di abbordare una ragazza, di informarsi meglio prima su chi sia, e non solo sulla data di nascita. È evidente che lei ignora alcuni particolari importanti della vita della Kanakis, soprattutto sulla sua famiglia e le sue conoscenze.”
Questo spiega tutto, pensai. Per meritarsi l'interessamento così particolare del Grande padre deve essere la figlia, o forse la fidanzata o l'amante, di qualche personaggio molto importante. Probabilmente qualche uomo politico, magari un ministro o un leader sindacale: chissà, dei fatti della Grecia proprio non me ne intendo. Anche se a pensarci bene il suo mi sembra un cognome abbastanza diffuso. Mi pare di averlo già sentito prima. Appena posso troverò il modo di scoprirlo.
“Comunque può pensare fin da oggi a cercarsi un nuovo impiego: domattina nel mio ufficio sarà solo una formalità. A domani, dunque.” Il grande volto del Grande padre scomparve, e con esso ogni luce, ogni rumore, qualunque segno di attività elettrica là dentro. La cabina, disabilitata, piombò nell'oscurità come per un black-out. Per fortuna che la porta di uscita, secondo le specifiche di sicurezza, si era aperta.
Nel buio mi rimase impressa negli occhi l'immagine di quel severo moralista, che per me avrebbe fatto meglio a godersi la sua meritata pensione. Occhi vivaci, sguardo stranamente malizioso a dispetto delle sue parole: e se fosse stato lui il padre, l'amante, l'amico della signorina Kanakis?
Uscii. Era ora di pranzo, ma sinceramente l'appetito mi era completamente passato.

LA MISSIONE DELL'ULISSE VOLANTE
Il comandante Ulisse aveva il volo nel sangue, già per tradizione familiare. Ed era un navigatore esperto di vecchio stampo, di quelli che riconoscevano e chiamavano per nome le diverse parti di un motore, e che ancora sapevano compiere tutte le manovre azionando e regolando manualmente i propulsori, il timone e le ali senza l'aiuto di assistenti automatici computerizzati. Sì, proprio come in quei videogiochi di vecchio tipo di cui egli, neanche a dirlo, era appassionato.
Avvicinandosi a Deltoide, il pilota automatico aveva segnalato problemi nell'avviare la fase di atterraggio, ed ora l'Ulisse Volante era parcheggiata, in modalità manuale ed a motori spenti, appena al di fuori dell'orbita stazionaria del piccolo pianeta.
“Base Deltoide, qui è Ulisse Volante. Chiedo l'autorizzazione a entrare nel vostro spazio orbitale.”
Dal grande schermo rispose il volto scuro e brizzolato di un ufficiale non certo alle prime armi.
“Autorizzazione non concessa”.
“Come? Può ripetere per favore?”
“Avete problemi di ricezione? Ho detto autorizzazione non concessa. Ed aggiungo che la sosta in orbita stazionaria è consentita solo per un massimo di un'ora, o in caso di avaria grave al motore. Insomma, siete pregati di andarvene.”
“Ma come … ”, obiettò il capitano, “ci deve essere un errore. Ho volato per mesi per arrivare fino a qui, seguendo un piano di volo regolarmente autorizzato. Protocollo ADS5557294. Se vuole può contattare l'armatore, è una compagnia seria con cui non ho mai avuto problemi di questo genere. Deve esserci stato un malinteso.”
“No no, nessun malinteso. La sua compagnia non c'entra. È che da qualche giorno da noi è in vigore una nuova normativa. Siamo finalmente entrati a pieno titolo nella USPA, l'associazione dei piccoli pianeti. Ora qui è USPA a tutti gli effetti, e valgono tutte le sue disposizioni.”
“Ma … non capisco. Non vedo la logica per cui io … “
Il graduato lo interruppe. “Adesso non ho tempo da perdere. Se vuole dia un'occhiata al notiziario, lì è spiegato tutto.” Ed al suo posto sul video comparve l'inizio di un filmato pronto per essere avviato con un click.
Stizzito, il capitano fece scorrere il filmato, in cui con voce suadente e melliflua venivano spiegati proprio i concetti che immaginava e che a grandi linee già conosceva. La precarietà orbitale e gravitazionale dei piccoli pianeti, che potevano risentire conseguenze dal passaggio nelle vicinanze di velivoli spaziali di grandi dimensioni; i rischi, non solo ambientali, delle politiche di “aumento di massa”, attuate da alcuni pianeti di piccole dimensioni proprio per stabilizzarsi e far fronte a questo problema; i vantaggi ed i requisiti dell'adesione all'USPA, tra cui il blocco orbitale magnetico ed un sistema di difesa antiaereo tali da scongiurare l'impatto non solo con una grande astronave, ma addirittura con corpi celesti di dimensioni pari o anche maggiori a quelle del pianeta stesso.
“Strano”, pensò il capitano. “Deve esserci stato di recente qualche stravolgimento politico o cambio di governo, perché tutte le altre volte che sono venuto su Deltoide non solo non mi hanno mai fatto storie, ma ricordo di aver sempre ricevuto un'accoglienza particolarmente calorosa ed ospitale.” E così, giusto per lo sfizio di verificare la sua ipotesi, cercò e trovo facilmente sempre nel notiziario il resoconto della recente destituzione ed uccisione del tiranno Spasmodus, che aveva retto Deltoide per diversi decenni fino, appunto, ad una settimana prima.
Non fosse stato per la presenza del blocco orbitale e del sistema missilistico, confermati anche dalle sue apparecchiature di bordo, il capitano avrebbe saputo come sfogare la sua rabbia e la sua stizza su quel pianetucolo. Ma così … Non c'era che adeguarsi, e decidere le opportune azioni da intraprendere di conseguenza.
Meglio sentire il parere di una persona esperta, pensò. Ed il pensiero gli andò subito al suo contatto con la società committente, persona non solo cordiale e fidatissima ma disponibile ad essere disturbata a qualsiasi ora.
“Ciao Pedro, come va? Sono appena arrivato a ridosso di Deltoide ed avrei un certo problemino da risolvere.”
Ulisse fece in tempo a vedere solo un istante l'espressione preoccupata di Pedro, che il collegamento sparì. Ritornò pochi istanti dopo, con Pedro che prese sùbito la parola.
“Scusa Ulisse, ho fatto cadere la linea e ti ho richiamato in modalità protetta, perché quelli dell'Autorità ultimamente stanno registrando ed archiviando tutto quanto passa sui collegamenti standard. Da adesso in poi certi tipi di problemi li discuteremo in questo modo, per evitare noie più gravi sia a te che a noi. E credo di aver già capito che problema hai incontrato. Ma tu sei arrivato solo oggi su Deltoide? Da piano di volo avresti dovuto arrivarci quasi tre settimane fa.”
“Lo so, Pedro, ma visto che ci passavo vicino ho fatto una sosta prolungata su Trituzio. Mettiamola così, diciamo che ho avuto un guasto serio ai propulsori.”
“Siamo su linea protetta, Ulisse, e puoi dirmi la verità. Lo so che quando passi per Trituzio ti ci fermi sempre più del dovuto. È il tuo pianeta natale, se non sbaglio.”
“Sì, lì c'è mia madre, qualche cugino e anche un'amichetta. Mi sono preso un anticipo delle vacanze, che male c'é?”
“Niente, se non fosse che non hai rispettato il contratto che hai stipulato con noi, e non ce ne hai dato comunicazione ufficiale. Adesso sono problemi tuoi.”
“Ma … voi siete sempre in grado di sapere dove mi trovo!”
“Sicuro. Ma non possiamo certo stare lì a tirarti le orecchie da anni luce di distanza; e per quanto ci riguarda tu hai già portato a termine l'incarico che ti avevamo affidato. Adesso il problema è tutto tuo, e te la devi vedere per conto tuo.”
L'immagine di Pedro sparì, e Ulisse rimase come una statua di sale, interdetto e sorpreso per la risposta ricevuta tanto da non riuscire neanche a dire nulla. Una reazione del genere da Pedro davvero non se l'aspettava.
Un paio di secondi e il volto di Pedro ritornò a video.
“Scusa lo scherzetto, ma volevo proprio vedere la faccia che avresti fatto. Guàrdati.” E così dicendo gliela ripropose a velocità rallentata. Ecco, pensò Ulisse: invece una cosa del genere da lui te la devi sempre aspettare.
“Ma non è che prima ti abbia detto una balla”, proseguì Pedro. “la situazione sta esattamente in quei termini. Però, se mi prometti che non dici a nessuno chi te le ha date e che appena puoi le fai sparire, ti posso mandare le traiettorie spaziali delle navicelle di perlustrazione confederali nel tuo quadrante. In genere non le cambiano per dei mesi, e dovresti stare tranquillo. Relativamente tranquillo, perché con alcuni modelli hanno aumentato il raggio di sorveglianza. Ma è riportato tutto nelle mappe mobili che ti sto mandando. Beh, adesso vèditela tu, la nave è tua.”
“Già, e devo anche fare il pieno di energia. A navi grandi come la mia non lo fanno dappertutto. Speriamo di non trovare altri pianeti che mi chiudano le porte in faccia. Se continua così dovrò cambiare mestiere, o almeno astronave”, commentò Ulisse.
“Io fossi in te farei un pensierino anche alla Via Ferrea”, proseguì l'altro. “È un po' pericolosa, ma proprio per questo … beh, in bocca al lupo. E mi raccomando: naturalmente noi due non ci siamo mai detti niente. Ciao, e fatti sentire quando torni disponibile.”
Già. La Via Ferrea. Quante volte ci aveva pensato, per evitare trafile burocratiche e ingranaggi da ungere per convincere questo o quello. Se non fosse stato per la grande distanza e per i suoi pericoli intrinseci… Ma certo in questo caso poteva essere una soluzione valida.
Prima però bisognava pensare all'energia. Inserì a sistema i dati necessari e attese che l'elaboratore gli restituisse alcune sue ipotesi di percorso, con tempi e distanze. Ulisse le studiò un pochino e poi scelse quella che ritenne migliore.
“Chissà a che punto sono di sotto”, pensò. “A quest'ora il pranzo dovrebbe essere già pronto.”
Attivò il collegamento interno.
“Lucrezia, Gisella. Ciao. È già tutto pronto per mangiare?”
“Sì, dacci solo il tempo di salire. Anche se qui abbiamo poca energia.”
“Tranquilli, la situazione è sotto controllo. Ma quando sarete su abbasserò il livello energetico della nave. Poi vi spiego tutto”.
“Allora ci vediamo tra cinque minuti in sala da pranzo. Anzi, facciamo dieci.”
“A dopo allora. Chiudo.”
Schiacciò l'altro bottone.
“Ciao Augusto, e anche Vittorio. Ho due domande da farvi. Sono terminate le analisi del carico? E, se sì, pensate che potremo azionare i generatori di energia endogeni, e con che risultati?”
La risposta arrivò un po' disturbata, ma comunque chiara.
“Tutto a posto, anche di più. Come energia ne potremmo anche riuscire a vendere, a lavorarci un pochino.”
Era già da qualche tempo che Augusto gli suggeriva di sfruttare meglio dal punto di vista energetico il carico imbarcato, soprattutto quello organico. Sosteneva che con un certo investimento avrebbero potuto trasformare quella che ora era semplicemente una nave da trasporto in una stazione di vendita e di ricarica ambulante, con discreti ulteriori profitti e con l'ulteriore vantaggio di non doversi spostare senza sosta e a velocità folli da un settore all'altro dell'Universo. L'idea era buona, ma bisognava lavorarci su ed investirci. E, soprattutto, forse il capitano non era ancora pronto, dopo una vita passata a fare il corriere, a trasformarsi dall'oggi al domani in produttore di energia e venditore autonomo.
“Benissimo, grazie. Ci vediamo a pranzo fra un po'.”
Ulisse non poté fare a meno di pensare che il suo era davvero un bell'equipaggio. Un quartetto in gamba, ben assortito, che in tanti anni non gli aveva dato proprio nessun problema. Solo Lucrezia e Augusto l'avevano messo in difficoltà una volta, di recente, quando gli avevano chiesto di unirli in matrimonio. Più che altro la richiesta l'aveva colto di sorpresa e impreparato. Aveva acconsentito volentieri, pur consapevole che quello avrebbe potuto essere l'ultimo viaggio insieme a loro e che probabilmente avrebbe dovuto cominciare a pensare a come poterli sostituire. Mah, un problema alla volta, pensò. Comunque, beati loro.
Appena le spie dell'ascensore e dei cercapersone segnalarono che tutto l'equipaggio era radunato sul suo stesso piano, Ulisse abbassò il livello energetico della nave, ed anche la sua cabina cadde in una specie di penombra. In compenso, i finestroni affacciati sul mondo acquistarono risalto, le luci delle stelle e dei pianeti diventarono brillanti puntini luminosi nel buio dando spettacolo, quello spettacolo meraviglioso che in fondo lo aveva convinto a scegliere di intraprendere quel tipo di vita. Ed egli rimase lì fermo qualche minuto a gustarselo, assorto in silenziosa contemplazione.
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Erano trascorse diverse settimane da quel giorno a ridosso di Deltoide: giusto il tempo di fare un rabbocco di energia - così per precauzione visto che, a detta di Augusto, anche solo i generatori endogeni sarebbero stati sufficienti – e di avvicinarsi alla Via Ferrea senza transitare troppo in prossimità di nessuna delle navicelle di perlustrazione confederali.
Il comandante radunò in cabina il suo piccolo equipaggio.
“Stiamo per affrontare una situazione davvero molto difficile per un'astronave della nostra stazza, e mi serve il massimo aiuto da tutti voi. In qualcosa di molto diverso dal solito, voglio dire. La Via Ferrea è una zona relativamente ricca di microcorpi cosmici di diverse forme e composizione. Anche i meno grandi di loro, se trascurati e non affrontati nel modo giusto, potrebbero mandarci ko. Come già vi ho accennato, noi abbiamo essenzialmente due modi per fronteggiarli: il migliore è evitarli. L'altro modo è di sminuzzarli e disintegrarli con le nostre armi. I normali sistemi automatici di navigazione non sono sufficienti: serve anche l'occhio umano, anzi tanti occhi; molta, molta attenzione, e buoni riflessi. È per questo che da qualche settimana vi ho chiesto di impratichirvi con Asteroids, un videogioco in cui le problematiche sono più o meno le stesse.”
“E la cosa durerà non poco”, proseguì Ulisse. “Da quando quella luce diventerà rossa o arancione fino a quando ritornerà verde, potrebbero trascorrere anche tre o quattro giorni. Dormiremo a turni di sei ore. Mentre uno riposa, due degli altri staranno alle finestre laterali, ed uno mi affiancherà sempre ai comandi centrali. Io probabilmente dormirò qui, forse un po' meno degli altri. Cominciamo già da adesso, ognuno alla sua postazione.”
Passò quasi un'oretta, durante la quale il capitano continuò a dare spiegazioni e a rispondere a domande e dubbi di vario genere, prima che la famosa spia diventasse arancione. E da quel momento furono quasi tre giorni di continua lotta e di guerra estenuante, al limite delle loro possibilità e della loro resistenza fisica, contro corpuscoli e detriti di ogni genere. Molti di essi, pur essendo estremamente piccoli e vicini gli uni agli altri, dovevano essere davvero recenti se la gravitazione universale non era ancora riuscita a farli avvicinare tanto da farli unire e compattare tra loro. Alcuni, tra cui un foglio di lamiera di qualche metro quadrato, sfuggirono completamente al controllo di radar e sensori e non si riuscì a fermarli in tempo, ma fortunatamente non apportarono danni rilevanti alla struttura esterna. Moltissimi furono i piccoli detriti metallici catturati dalle apposite mega-calamite di cui la nave disponeva. Vennero utilizzati questi e, per la prima volta, anche altri dispositivi in dotazione all'astronave e mai usati prima: i potentissimi fari sia a luce normale che a infrarossi; il dispositivo di protezione a rete per il ponte di comando e per altre zone della nave; i sensori di radioattività e di raggi beta e gamma. Alcuni altri, purtroppo, risultarono inutilizzabili, perché dopo anni senza manutenzione si rivelarono non funzionanti.
In quei tre giorni terribili la famosa spia rimase rossa per buona parte del tempo, e ben pochi furono i periodi arancioni di relativa tranquillità, durante l'ultimo dei quali il capitano annunciò a tutti: “Coraggio ce l'abbiamo quasi fatta!”. Ed infatti di lì a neanche un'ora la spia arancione ritornò verde.
“Ragazzi, ci siamo. È il momento. Sto per aprire i portelloni di carico. Augusto, Vittorio: controllate che non ci siano intoppi e tutto sia a posto. Anche il reparto organico: ora non ci serve altra energia, ma solo di essere leggeri e veloci il più possibile. Al mio tre: uno, due … tre!”
Fu allora che l'Ulisse Volante, per la prima volta nella sua lunga, umile ma onesta carriera, scaricò nello spazio il suo carico di milioni di teragrammi di eterogenea spazzatura. Una trasgressione alle leggi fderali; ma a mali estremi, estremi rimedi, pensò il comandante sentendosi alleggerito dentro non meno della sua nave.
“E adesso via, direzione Trituzio. Ci spetta a tutti una lunga e meritata vacanza prima di pensare al prossimo carico, o quello che sarà, magari un'altra attività. E stasera a cena mi raccomando, non fate mancare lo spumante per festeggiare.”

L'AVARIA
Il giovane comandante Colombo non aveva avuto, fino a quel momento, un compito difficile. Il pilota automatico, inserito già pochi minuti dopo la partenza, si era preso in carico le attività di routine, lasciando alla responsabilità umana solo l'onere della supervisione e del controllo. E neanche questo era gran che difficile: la strumentazione di bordo, estremamente sofisticata, era tra le più complete e costose, soprattutto in rapporto all'esiguo numero di passeggeri. Aveva richiesto un lungo periodo di addestramento, questo è vero, ma il risultato era che adesso gli sembrava di essere alla console di un videogioco, e neanche dei più difficili.
Sopra di lui il cielo si stendeva azzurro e limpido a perdita d'occhio, cordiale e senza insidie. Non una nuvola all'orizzonte. Ogni dettaglio, anche in lontananza, si presentava con una nitidezza quasi irreale, senza la minima possibilità di nascondere la sua vera natura.
Sotto di lui una striscia di asfalto attraversava come un serpente la verde pianura, incrociando di tanto in tanto altre strade partite chissà da dove e chissà dove dirette.
Difficile non rimanere affascinato da un simile spettacolo. Difficile, da quella comoda poltrona, pensare che quel giorno qualcosa avrebbe potuto non andare per il verso giusto. Eppure…
Vedendo quella lucetta gialla palpitare, agitandosi nel quadro comandi e cercando di attirare l'attenzione con il suo flebile beep elettronico, il comandante Colombo capì immediatamente che quello non sarebbe stato un giorno come un altro. Era la spia della pressione, e segnalava un allarme di primo livello. Una piccola perdita. Niente di così grave, in fondo. Meglio però non perdere tempo e attivarsi subito. Chiamò con l'apposito pulsante il resto dell'equipaggio, mentre cercava di decifrare qualcosa di più su quanto stava avvenendo. La perdita di pressione sembrava riguardare la parte posteriore destra, ma la strumentazione segnalava un assetto generale ancora perfettamente stabile.
Schiacciò di nuovo, più volte e nervosamente, il pulsante equipaggio.
“Maledizione”, pensò, “ma quanto tempo gli ci vuole per venire!”
“Buongiorno, capo.” Entrò in cabina Santino: fiero di essere stato il primo steward italiano su un volo turistico lunare, vantava venti anni di variegata esperienza che includevano persino gli elicotteri e lo Shuttle. Il capitano faceva molto affidamento sulla lunghissima esperienza del suo collega; ma quanto al carattere ed ai modi di fare di Santino - la sua divisa sempre impeccabile, la sua abituale allegria artefatta, il suo solito sorriso finto - prima o poi una di quelle caratteristiche avrebbe involontariamente potuto liberare di scatto nel capitano Colombo l'istinto di mollargli una sberla o di scaricargli contro una raffica di insulti.
“Ti dice niente quella spia gialla accesa?”
“Io sono solo uno steward, non un pilota: non vorrei intromettermi in affari che non mi competono. Ma ad occhio e croce, per quanto me ne pare, direi che si tratta di una perdita di pressione.”
“Fin lì c'ero arrivato anch'io, ma dal grande Santino mi sarei aspettato qualcosa di più”, pensò il capitano Colombo.
“Qualche suggerimento?”, gli chiese.
“Secondo me niente di preoccupante. Niente che possa costringerci a cambiare i programmi di viaggio. Sicuramente è una situazione prevista nei manuali operativi, ma nel dubbio si può chiamare la base e sentire cosa ne dicono.”
“Grazie Santino. Dai sempre buoni consigli.”
“Con il suo permesso, proseguo col giro del thè. Anche perché la prima regola, con qualunque problema, è quella di non mettere mai in allarme i passeggeri.”
Al capitano Colombo dispiaceva ammetterlo, ma Santino era davvero in gamba. Aveva doppiamente ragione: niente allarmismi, e consultare il manuale operativo, prima di avvisare la base.
Il manuale lo tranquillizzò: gli allarmi di primo livello, pur necessitando di una immediata verifica alla successiva revisione meccanica, non pregiudicavano il buon esito della missione. Ad ogni buon conto si ripassò tutti i comportamenti raccomandati nella malaugurata ipotesi in cui il grado di allarme fosse salito nella scala dei cinque livelli previsti.
Mentre si documentava sul livello quattro, gli venne giusto da pensare che quel flebile beep di sottofondo era proprio fastidioso. In una vera emergenza, con diversi allarmi attivati, ci sarebbe stato da diventare pazzi. Altro che niente panico. Ne avrebbe parlato con qualcuno della compagnia. Magari era possibile disinserire l'audio dopo qualche minuto (“Se no mi infilo le cuffie, metto un po' di buona musica, e via”, pensò). Così mise un segnalibro nella pagina che stava leggendo, e cominciò a cercare nel manuale il nuovo argomento.
Proprio allora il livello di allarme passò rapidamente da uno a due, e poi a tre, quattro e cinque. Il lampeggiare della spia, che nel mentre cambiò colore passando dal giallo all'arancio fino ad un rosso deciso, divenne sempre più frequente. Il beep aumentò di volume, fino a sembrare quasi una specie di sirena. La cabina di guida doveva essere ben isolata acusticamente, sennò altro che panico tra i passeggeri!
Colombo, mentre con la radio cercava di mettersi in contatto con la sala base, si attaccò letteralmente al pulsante di chiamata dell'equipaggio.
“Pronto sala base, rispondete.”
Dall'altra parte rispondeva un fruscio spernacchiante. Doveva esserci qualcosa in disordine anche nell'apparato trasmissivo.
“Sala base, sala base, rispondete.”
Per fortuna stavolta Santino fu molto più celere ad accorrere. Appena aprì la porta, la sirena magicamente ammutolì, dando così al capitano una risposta ormai inutile. Ma la luce continuava a lampeggiare al suo ritmo da panico.
“Santino, nel posteriore destro la pressione è a zero. Serve assolutamente un intervento di emergenza: avremo sì e no cinque minuti di autonomia. Conto su di te: rassicura i passeggeri, dato che, come tu mi insegni, la prima regola è NIENTE PANICO.”
“Certamente, capitano”.
Dalla strumentazione rilevò la loro posizione attuale. Poi rapidamente consultò la mappa di bordo. Con la stessa tranquillità che si apprestava ad infondere ai passeggeri si accomodò nella sua poltrona, aprì il microfono e cominciò con la sua consueta voce, falsa ma molto professionale:
“Avvertiamo i signori passeggeri che tra breve effettueremo una sosta non prevista di qualche minuto nell'area di servizio “I tre Pini”, per consentire la sostituzione di uno pneumatico in avaria. Vi ricordiamo che nel luogo di sosta vi è un negozio di souvenir molto fornito, e per chi volesse rimanere sul pullman verrà proiettato un cartone animato di Topolino. Buon divertimento.”

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Scherzi Del Futuro Marco Fogliani
Scherzi Del Futuro

Marco Fogliani

Тип: электронная книга

Жанр: Современная зарубежная литература

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Verso uno strano futuro. E con un briciolo di preoccupazione. Si tratta di una serie di racconti ambientati nel futuro (ma, essendo stati scritti negli ultimi vent′anni, una parte della fantascienza originaria potrebbe essere andata perduta o, peggio ancora, divenuta obsoleta e risibile).

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