Il Dono Del Reietto
Mario Micolucci
Romanzo fantasy con note di umorismo.
Il fatto è che avrei voluto scrivere un romanzo fantasy epico, ma quegli scellerati dei personaggi e soprattutto quel deficiente del protagonista mi hanno rovinato tutto. E dire che l'ambientazione mi era pure uscita bene. Ad ogni modo, se siete comunque interessati a leggere di quei buoni a nulla, dateci un'occhiata; ma poi, non venite a dirmi che non vi avevo avvertito.
I Registri dell'Arena
Il Dono del Reietto
Romanzo Fantasy
di Mario Micolucci
Progetto e immagine di copertina di Mario Micolucci
Copyright © 2016 Mario Micolucci
Tutti i diritti riservati.
ISBN: 978-1532837241
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Alla famiglia in cui sono nato e
alla famiglia che ho creato.
Trattasi di un'opera di fantasia. Pertanto, nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autore. Ogni somiglianza con fatti, luoghi o persone è del tutto casuale.
Qualsiasi riproduzione, totale o parziale e qualsiasi diffusione in formato digitale dell'opera, non espressamente autorizzata, è da considerarsi violazione del diritto d'autore.
Indice generale
Prologo. (#ulink_09a2649f-3957-5c94-8a28-3a5907c72dd4)
Il vivaio. (#ulink_b265af55-13a9-5878-97be-6657c69dc1e4)
Il bastone magico. (#ulink_2a124611-6c62-5b7f-8ba4-748d506b8722)
Nuovi arrivi. (#ulink_755c8c3f-94e6-5a99-913e-0af9deeb8557)
Il Santuario di Corrupto. (#ulink_66a6119b-d269-5a50-8295-3cfa46df1d89)
Senilità. (#ulink_af9139b5-296d-5aa1-a013-7567cd780abd)
La capanna della strega. (#ulink_2ced5d0f-ffe8-5dec-9753-a0f94d381249)
Forte di Legno. (#ulink_1e725e53-0ba6-5819-8bab-adb2519c3853)
Fiducia. (#ulink_4b3ab987-3dce-532e-bf25-771a445a3a3b)
Il pellegrino di Givedon. (#ulink_d1483595-6076-57eb-be8d-68218a669dce)
La Leggenda Vivente.
La Dama del Buon Passo.
La volta celeste.
A chi ti odia porgi un fiore... con petali di pietra.
Jimbalahue il Verde.
Il Poema dei Magnifici.
La resa dei conti.
Con i piedi di piombo.
La Legione.
Artefice del proprio destino.
Il posto giusto.
La Via della Prudenza.
Lo Stagno delle Melodie.
I doni del Pellegrino.
La simbiosi.
La Squadra dell'Arcobaleno.
La pozione concentra vita.
Pazienza, perseveranza e costanza.
Serva di Ovathan.
Epilogo.
Note dell'autore.
Ringraziamenti.
Appendice.
Da: “Misathon”, Dharta di ottava generazione. Osservatore del settore “Bocca del Verme -Grande Palude-”. Competenze “accadimenti convenzionali di priorità minima”.
A: “Arthadon”, Dharta di quinta generazione. Osservatore del settore “Grande Palude”. Specifiche “soggetti non convenzionali itineranti di priorità media”.
Oggetto: richiesta ricollocazione procedure di registrazione.
Il sottoscritto Dartha Misathon, relativamente al processo id.191.FF0.F1E.8, chiede la ricollocazione delle procedure di registrazione inerenti al soggetto 191.123C23BD3501E in quanto non più pertinente alle specifiche FF di competenza. Si suggerisce per lo stesso, l'assegnazione a un processo con maggiore densità di osservazione e la modifica dell'indicatore di priorità da minima a media.
In ottemperanza con il protocollo, ivi, si provvede a motivare la richiesta allegando la trasposizione in forma analogica dei flussi dati inerenti il soggetto di cui sopra. Nel dossier risultano allegati, inoltre, numero dieci estratti di registrazioni tratte da altra fonte opportunamente identificata, utili a completare il quadro descrittivo.
Si attendono comunicazioni riguardanti la riconfigurazione del processo in esame.
Dharta Misathon
Estratto dai registri dell'Osservatore Amarthon, Dharta di quarta generazione. (Santuario di Petra -Monte Behemoth-. Soggetti in missione con priorità medio-alta. Settimo giorno del mese quarto nell'anno 11522 dall'inizio delle registrazioni)
Prologo.
Riatu Mihaki era allo stremo. L'umidità sembrava penetrargli fin dentro l'anima e il fetore della Grande Palude era insopportabile. Da ore, arrancava tra melma, fango e piante acquatiche deformi; tuttavia questo era il prezzo da pagare per sperare di far perdere le tracce agli inseguitori. Le esalazioni di quel luogo putrido si facevano sempre più tossiche e i suoi occhi a mandorla erano iniettati di sangue. Le vesti che, in origine avrebbero potuto essere eleganti, erano pregne e piene di strappi procurati tra i rovi. La melma mista ad alghe lo imbrattava dalle gambe fino ai lunghi e lisci capelli corvini. Con la mano destra si appoggiava al suo bastone d'onice, mentre, attraverso ripetuti movimenti istintivi, con la sinistra, si assicurava che un piccolo borsello per preziosi fosse ancora legato alla cintura.
Attraverso la nebbia, scorse la sagoma di un isolotto: si affrettò a raggiungerlo e trovò molto sollievo nel sentire del suolo un po' più consistente sotto i piedi. La striscia di terra era lunga una quindicina di passi, ma non era più larga di quattro. Su di essa resisteva un tetro albero senza foglie dalla corteccia scura e marcescente: le sue radici impedivano al terreno che lo circondava di sbriciolarsi e di sciogliersi nel fango. Gli innumerevoli lombrichi che vi brulicavano attiravano alcuni uccellacci neri simili a cornacchie, ma più grandi.
Riatu stabilì che, ormai, poteva ragionevolmente considerarsi al sicuro dagli inseguitori e che fosse giunto il momento di riposare un po'. Ancora qualche ora e sarebbe uscito dalla Grande Palude, quindi, volgendo lo sguardo verso Sud, avrebbe già potuto intravedere il Massiccio del Tuluk sede dell'antico Regno nanico di Roccadrim. Alle sue pendici, in una caverna naturale posta nelle viscere del Monte Behemoth, avrebbe raggiunto quella che era stata la sua casa negli ultimi ventisette anni, l'Accademia del Santuario di Petra.
Stava per riportare al Santuario la Reliquia che si riteneva perduta sin dai tempi della Guerra dei Quattro avvenuta diverse migliaia di cicli prima. Lo avrebbero sicuramente acclamato Professore nonostante la sua età di “soli” quarantuno anni e, ben presto, avrebbe potuto ambire alla carica di Rettore.
Gli elfi grigi erano stati abilissimi a nascondere la Lacrima di Petra per tutte quelle ere. Essa era usata come cristallo focalizzatore del Grande Astroscopio posto sulla cima della Torre di Cenere. Ivi, protetti dai maghi runici, alcuni tra i più influenti sacerdoti di Energon osservavano la volta celeste e formulavano previsioni affidabili sul succedersi delle epoche.
Riatu si sedette poggiando la schiena all'albero e, come faceva sempre per rilassarsi, prese uno dei suoi baffi lunghi e sottili tra le mani. Erano il suo tratto distintivo: tutti i gentiluomini della sua terra d'origine li sfoggiavano. Osservarli lo aiutava a ricordare i primi anni di vita. Suo padre era un'ombra silente, uno dei più abili ninja dell'Impero Sajamura: egli avrebbe voluto che ne seguisse le orme e gli aveva insegnato i primi fondamenti della sua Arte. Riatu, però, era stato assegnato a un altro destino: egli sentiva un forte legame con gli elementi, così l'occhio di Petra, Dea della Concretezza, si era posato su di lui. Seguendo la sua vocazione, aveva appreso a manipolare le energie della terra affidandosi agli insegnamenti di Miano Norita, un anziano e mediocre elementalista del suo Paese. Il maestro, vedendosi ben presto superato dall'allievo adolescente, aveva deciso di scrivere una referenza con la quale il ragazzo avrebbe potuto presentarsi all'Accademia. Il giovane sapeva per certo che il padre non glielo avrebbe concesso. Così, era fuggito di casa per intraprendere un lungo e avventuroso viaggio verso il lontano occidente.
Chi lo avrebbe mai detto che proprio le sue origini sarebbero state determinanti nell'indirizzare la scelta del Collegio Accademico? L'epico compito di recuperare la Lacrima era spettato a lui e riuscire in una tale impresa gli avrebbe fruttato più di una menzione nei libri di storia.
Il piano era stato sviluppato nei minimi dettagli: l'Accademia gli aveva fornito falsi documenti con i quali si sarebbe presentato alla Torre di Cenere in qualità di ambasciatore del lontano Impero Sajamura e, recando con sé preziosi doni, avrebbe richiesto i servigi a corte di un arcimago runico. Una volta alloggiato, usando le sue abilità di ombra silente, avrebbe dovuto raggiungere il cuore dell'Astroscopio e prelevare il Cristallo. Tale missione sarebbe stata più facile per uno specialista di sotterfugi quale un adepto di Ovathan, Dea della Discrezione, ma la Reliquia era di valore inestimabile e non era saggio affidare qualcosa di così prezioso a un operatore del crimine.
Riatu non avrebbe dovuto, in alcun modo, rivelare la sua natura di geomastro. Quindi, nella sua missione, non poteva fare affidamento sulla magia elementale.
Non era stato facile, tuttavia ora intravedeva la meta: la Lacrima era con lui, nel suo borsello, e gli inseguitori erano stati seminati. Per la prima volta dopo diversi giorni, si sentiva più rilassato… si addormentò.
Sognò la madre, i suoi lunghi e lisci capelli corvini che ricadevano sul kimono. Ella lo ammoniva: “Riatu, stai attento alle pozze d'acqua! Lì, potrebbero nascondersi i malvagi spiriti della palude”.
Ricordava bene le leggende sui kappa: per metà uomini e per metà bestie, catturavano e uccidevano affogandoli gli ignari pellegrini che, malauguratamente, si addormentavano nei pressi delle acque della Palude Gialla. Ebbe la cognizione di non essere più nell'Impero Sajamura: “Madre sta tranquilla, qui a occidente i kappa non esistono.” Nonostante quella fumosa consapevolezza, si ritrovò agli argini di un acquitrino che, per via delle alghe e dello zolfo disciolto, aveva un colore giallastro e sognò una di quelle creature pronta ad avvinghiarlo...
Si svegliò di soprassalto proprio mentre le cornacchie spiccavano freneticamente il volo e appena in tempo, per vedersi ghermire la gamba da un enorme tentacolo. Emise un urlo soffocato e tentò di alzarsi, ma la strana cosa lo trascinò con uno strattone nella melma verso una zona della palude più profonda. Non vide più nulla: l'acqua putrida lo sommergeva completamente. Raccolse le energie, stabilì il contatto elementale con il fondale, focalizzò il potere attraverso il bastone e mise in atto l'unico gesto che poteva fare per salvarsi la vita: usò la magia.
Dal fondo della pozza emerse, con un'accelerazione brutale, un enorme spuntone di roccia che trafisse il kraken: lo sollevò oltre il livello dell'acqua lasciandolo infilzato e agonizzante a diversi piedi d'altezza. Il mostro appariva simile a un enorme polipo dello stesso colore della melma ed era ricoperto di alghe gocciolanti e incrostazioni. Riatu penzolava a testa in giù avvinghiato al tentacolo ancora in movimento; fu facile reciderlo facendo schizzare dall'isolotto una pietra che in volo assunse la forma di una stella simile agli shuriken usati da suo padre, ma più grande.
Cadde con un tonfo sordo nell'acqua sottostante, si rialzò subito e prese a correre.
«Per Tron! Non dovevo usare la magia! Ora, non solo mi troveranno, ma capiranno anche chi mi ha mandato!» imprecò.
Dopo pochi passi, si fermò, poiché aveva realizzato che, anche se avesse fatto perdere di nuovo le tracce, gli inseguitori avrebbero immediatamente arguito la probabile implicazione dell'Accademia di Petra: ne sarebbe, quindi, scaturita una difficile crisi diplomatica o addirittura una guerra. Non aveva scelta. “Li dovrò affrontare entrambi, solo uccidendoli, la mia identità rimarrà segreta. Se solo non mi trovassi in questa maledetta palude: tutta quest'acqua che ricopre il suolo rende ogni incantesimo più difficile!” pensò nel prepararsi allo scontro.
Decise di non perdere tempo e cominciò ad accumulare potere elementale da ogni frammento di roccia e di terra che lo circondava: il vicino isolotto si sgretolò lasciando crollare l'albero. Aveva acquisito moltissima energia, tuttavia ne necessitava altra, se voleva sperare di sopraffare i due elfi che lo braccavano: un mago runico e un sacerdote di Energon. Il bastone diventava sempre più pesante e anche lui: se ne accorse perché i suoi piedi sprofondarono un po' nel fondale dell'acquitrino. Quando avvertì lo strato più esterno della sua pelle seccarsi e sbriciolarsi come polvere di pietra, capì di aver raggiunto il suo limite massimo. Se avesse continuato ad accumulare, avrebbe collassato tramutandosi in una statua di gesso che presto l'umidità avrebbe disciolto nella palude.
Rimanendo immobile, usò tutta la sua concentrazione per mantenere stabile quanto accumulato. Il piano era semplice: non appena gli inseguitori sarebbero emersi dalla nebbia, avrebbe scaricato il suo incantesimo offensivo più potente. Si sentiva come un calderone pieno di vapore pronto a esplodere. L'attacco sarebbe stato immediato e letale. Sapeva che la magia runica del suo avversario era molto veloce, comunque questi aveva bisogno di alcuni attimi per pronunciare l'incantesimo, degli attimi che sperava si sarebbero rivelati fatali.
Non attese a lungo: prima udì da lontano una nenia nell'antica lingua dei Dharta, che doveva essere una preghiera al dio Energon, elevata dal sacerdote e, subito dopo, sentì più vicino a sé la voce del mago. L'elfo si era reso invisibile, ma doveva pronunciare i comandi runici per lanciare l'incantesimo. Riatu espulse istantaneamente tutta l'energia accumulata e una moltitudine di piccoli shuriken di pietra schizzarono fuori dall'acquitrino per dirigersi a velocità ipersonica verso la fonte della voce che ancora stava proferendo la prima runa.
Proprio in quel momento, però, vide tutto ciò che lo circondava rallentare: i suoni circostanti divennero lunghissimi e gravi e i suoi proiettili… i suoi proiettili volavano lenti come farfalle! Ebbe persino il tempo di riflettere sulle cause della sua rovina, pensò alla nenia e ricordò di come Energon operasse, attraverso i suoi adepti più ferventi, il miracolo di manipolare lo scorrere del tempo. Vide il mago runico tornare visibile e scartare a destra per allontanarsi dalla traiettoria dei proiettili, con un balzo a velocità naturale. Senza poter fare nulla, lo sentì finire di pronunciare l'incantesimo. UXXA GRETTA MACKA furono le ultime parole che Riatu sentì: una potente scarica di magicka, simile a un fulmine, lo colpì con una distruttività amplificata dal fatto che fosse immerso nell'acqua fin sotto le ginocchia. Fu sbalzato di diversi piedi e il bastone volò via da qualche parte nella palude. Folgorato, esalò l'ultimo respiro prima ancora di ripiombare in acqua sulla schiena.
«Ero sicuro che Energon avrebbe ascoltato le mie preghiere: negli ultimi tempi ho compiuto diverse gesta per compiacerlo e ora mi ha ricambiato.» Un elfo dai capelli argentati emerse dalla coltre nebbiosa avvicinandosi a passi lunghi e rapidi verso il luogo del combattimento. Era vestito con saio grigio aderente e privo di decorazioni.
«Vi ringrazio Paradharta Kimethon, se non aveste rallentato lo scorrere del tempo non avrei mai terminato di pronunciare l'incantesimo del fulmine maggiore: la magia elementale per certi aspetti è molto più lenta di quella runica a causa della fase di accumulo, tuttavia se un elementalista si è preparato in anticipo ed è già in contatto con la natura, la situazione si ribalta.» Il mago si chinò sul corpo di Riatu per rovistarlo: nel farlo, la melma gli imbrattava le vesti risplendenti di fili argentati che si intrecciavano in ricami di simboli arcani.
«Ah! Ecco la Pietra Focalizzatrice» disse.
« ...o anche Lacrima di Petra. A quanto pare all'Accademia della Terra hanno appurato che il nostro astroscopio funziona grazie a essa. Sarà necessario potenziare la sicurezza, sono sicuro che torneranno a "farsi vivi" molto presto» continuò il gran sacerdote.
«Bene, ora direi di uscire celermente da questo posto putrido, non vorrei che i goblin si accorgessero di noi. Preferirei che non fossimo invitati a un loro barbaro rituale!» osservò il mago con una vena sarcasmo.
«Dovremmo ritrovare il bastone per risalire all'identità dell'elementalista» puntualizzò l'altro.
«Paradharta, in qualità di Vostra guardia del corpo, permettetemi di dissuadervi da tale proposito. Rovistare tra la melma richiederà del tempo. Considerando la segretezza dell'operazione in cui l'uomo era coinvolto, non penso che abbia portato con sé il suo bastone personale per, poi, lasciarlo incustodito da qualche parte fuori dalla Torre di Cenere. Molto più plausibilmente, gliene sarà stato fornito uno anonimo e di scarso valore, sicuramente non direttamente riconducibile a un qualsiasi Adepto dell'Accademia. Ritengo che sia sufficiente sapere che l'umano dell'Est fosse un elementalista della terra dalle competenze verosimilmente cattedratiche. Inoltre, siamo prossimi al crepuscolo. I goblin ci odiano e qui siamo nel loro territorio. Se ci attaccheranno numerosi, potrebbero persino sopraffarci: l'intruglio che usano per infettare le loro armi è direttamente attinto dalla Fonte del Santuario di Corrupto e, a differenza di molti altri veleni, esso risulta letale anche per la nostra razza!» arringò il mago.
Il gran sacerdote annuì flemmaticamente e sentenziò: «Tetairadon, la tua è una speculazione inattaccabile, perché permeata di pura razionalità: le tue parole sono benedette da Energon. Effettivamente i presunti benefici non controbilanciano i rischi. E sia: abbandoniamo questo luogo immondo!»
Nascosta dalla nebbia, in un canneto vicino, una piccola sagoma scura con occhi gialli luminescenti osservava le due slanciate figure grigie allontanarsi con passo svelto e niente affatto impacciato dall'acquitrino. Quando esse furono sufficientemente lontane, si mosse.
Dai registri dell'Osservatore Misathon, Dharta di ottava generazione. (Bocca del Verme -Grande Palude-. Accadimenti standard di priorità minima. Ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522 dall'inizio delle registrazioni)
Il vivaio.
«Questo qui è morto stanotte» disse una figura ricurva e dalla carnagione verdognola mentre caricava un corpicino smunto su una carriola di legno marcio e ossa.
«Ah, questo!» rispose Hork sputando. «Era proprio un mollaccione! Gli altri cuccioli gli sottraevano sempre il pasto e non ha neanche provato a ucciderli nel sonno... Imbecille!»
«Almeno, adesso sarà più utile: ne ricaveremo cibo per i lupi, ossa per gli utensili e pellame per gli indumenti.»
«Il teschietto, però, lascialo a me. Sai che li colleziono.»
«Fai come vuoi addestratore, ma se continui a prendere tutti i teschi dei piccoli che muoiono, al prossimo ciclo ne avrai la capanna piena.»
Djeek aveva visto scene simili decine di volte, ma quella volta ascoltava la conversazione con un senso di disagio, come se in ciò che vedeva, per la prima volta, vi scorgesse qualcosa di sbagliato. Sarà, forse, perché stavolta a morire era stato Yuk che era il più cordiale nei suoi riguardi tra tutti gli altri del vivaio, lì, nel villaggio di Bocca del Verme. Poi, però, quasi sentendosi in colpa per il suo sentimento, ricacciò indietro ogni altro dubbio catechizzandosi: “Smettila di delirare! Lo sanno tutti che coloro che cedono a debolezze quali gentilezza, onestà e mansuetudine meritano di morire. Solo i più validi elementi, solo coloro che si distinguono per malvagità, furbizia o ferocia meritano di diventare adulti e di essere accolti tra i figli di Corrupto. Solo i più subdoli merit... ouch!” Il dolore lancinante di una palata sulla schiena gli ricordò quanto dura fosse la realtà. Fu scaraventato a terra di faccia e, mentre tramortito rialzava la testa dal fango, ricevette un calcione sotto il mento che lo sollevò in aria fino a farlo ricadere di schiena sul terreno melmoso.
«Muoviti, babbeo! Che fai lì impalato! Vai a fare l'unica cosa che ti riesce bene! Ecco il sacco, riportalo pieno prima di mezzanotte!» urlò Hork, mentre se ne andava camminandogli intenzionalmente sullo stomaco.
Il vivaio era un recinto dove Djeek e altre decine di piccoli goblin venivano allevati, in esso vi era una baracca fradicia che faceva ben poco per riparare dalle piogge e dal freddo, ma era meglio di niente. La capanna era grande, tuttavia non abbastanza ampia per contenerli tutti. Così, quelli che non erano sufficientemente forti o astuti per accaparrarsi i posti erano costretti a riposare all'addiaccio patendo il gelo umido invernale o l'odiatissimo sole estivo. Djeek, purtroppo, era tra quelli che dormivano quasi sempre fuori e, normalmente, questi ultimi erano sempre i primi a morire. Sapeva di avere un fisico normale, anche abbastanza resistente, ma era relegato agli ultimi posti tra i suoi simili. Tutto questo perché mancava di furbizia, non importava che fosse piuttosto intelligente, erano l'astuzia, la prontezza e l'opportunismo che facevano la differenza e in ciò, era assai carente. Una parte di sé era consapevole che quelli come lui non erano destinati a diventare adulti, a meno che, in compenso, non fossero estremamente forti o feroci. Egli, purtroppo, non era nessuna delle due cose. Il giorno prima, però, la fortuna lo aveva baciato: si era imbattuto in qualcosa che, forse, avrebbe determinato il suo riscatto. L'aveva nascosto sotto la radice di un vecchio albero nella Grande Palude e non vedeva l'ora di riaverlo tra le mani. Prima, però, doveva riempire il sacco.
Si addentrò in un canneto, fiutò l'aria e percepì l'odore di ciò che cercava. Caricò la cerbottana e si sdraiò a terra. Procedette con il corpo immerso nell’acquitrino in modo da lasciare fuori solo la testa, si avvicinò alla preda e, quando questa fu a tiro, soffiò: il piccolo ago andò segno. La grossa nutria si dimenò per qualche istante per poi galleggiare morta nell'acqua salmastra.
Il Dono di Corrupto era un veleno potentissimo: ne bastava una goccia per uccidere qualsiasi essere vivente. Le prede marcivano rapidamente, ma in maniera diversa, senza decomporsi. La loro carne risultava tossica e quindi, non commestibile per chiunque non fosse un goblin. Il Dono, infatti, era innocuo per loro ed essi lo usavano anche per curare le infezioni e le malattie: il veleno uccideva all'istante anche i vermi o qualsiasi altro essere microscopico procurasse il malanno.
I goblin erano stati rigettati da tutti i territori di Xantis, ma lì, nella Grande Palude, erano forti e numerosi proprio in virtù del Dono. Lo attingevano dalla Fonte di Corrupto e, grazie a esso, erano più pericolosi, oltre che immuni alle malattie.
Djeek raccolse la nutria e la infilò nel sacco resistendo alla tentazione di darle un morso: sapeva bene che Hork, l'addestratore, non tollerava che lo facesse. Si toccò la guancia, passandosi la mano su una cicatrice rugosa e ricordò con dolore l'episodio che per miracolo non gli costò la vita: fare ciò gli serviva per evitare che l'istinto prevalesse. Il suo compito era di catturare topi, rettili o altri animali commestibili... senza mangiarli: poi, se il risultato della caccia soddisfaceva Hork, allora gli erano concessi un paio di morsi, altrimenti digiuno. Come spesso gli capitava, si assentò dal presente, e si ritrovò, con il pensiero, a rivivere ciò che gli era accaduto tre cicli prima: erano due giorni che, come ricompensa per i suoi mediocri risultati, otteneva un pugno nello stomaco. Così, quando allo stremo catturò un appetitosissimo ratto, lo divorò immediatamente sperando di farla franca. Questo gli diede nuove energie e riportò il sacco pieno. A Hork, bastò annusargli l'alito per capire ciò che aveva compiuto. Così, prima lo malmenò rompendogli un paio di costole, poi lo colpì allo stomaco con lo scopo di fargli risputare il ratto, ma visto che quello era bello e digerito, pensò bene di riavere indietro quella piccola razione di carne strappandogliela con un morso direttamente dalla guancia.
Fu buttato nella latrina della vergogna dove sopravvisse per diversi giorni mangiando i vermi che brulicavano tra gli escrementi. Poi, forse apprezzando il suo attaccamento alla vita e il suo istinto di sopravvivenza, Hork lo tirò fuori dal pozzo fetido e gli concesse un'altra possibilità. Un piccolo scroscio lo trasse via dal flusso dei ricordi e lo riportò alla realtà: le prede lo attendevano, non era il caso di starsene imbambolato a rivangare il passato. Scaricò il disagio indotto da quei pensieri gravosi con un peto sonoro e tornò alle sue mansioni.
Nelle ore successive si diede parecchio da fare e la caccia andò piuttosto bene. Ormai, era diventato bravo, anche se questo non gli rendeva onore, poiché cacciare, pescare, conciare, costruire capanne o fare qualsiasi altro lavoro era umiliante per un maschio, lavorare era roba da cuccioli o da femmine. Un goblin rispettabile doveva dedicarsi solo a gesta onorevoli quali tendere imboscate, rubare, depredare, violentare e saccheggiare. Djeek sapeva di avere un'indole poco aggressiva: alcuni altri piccoli già si prodigavano in atti che prefiguravano azioni simili a quelle degli eroici razziatori adulti, ma lui mancava di quel talento. Ogni volta che provava a pianificare qualcosa di meschino, era goffo e prevedibile: l'istinto non lo assisteva. Mentre si rammaricava del suo handicap, fiutò l'odore che meno avrebbe voluto sentire: quell'odore significava guai ed era senza dubbio dell'odiosissimo Kitzo. Questi non era forte, lo era anche meno di lui, ma era talmente astuto e contorto da meritarsi il rispetto di tutti gli altri giovani del vivaio. Aveva persino ottenuto l'attenzione di alcuni adulti: metteva i compagni l'uno contro l'altro e, a ogni scontro, chissà come, il vincitore era sempre dalla parte sua... o viceversa. Djeek sperò che Kitzo non fosse da quelle parti per lui, ma la speranza durò poco, perché, prima che potesse localizzare l'odore, fu colpito in testa da una pietra che lo tramortì giusto il tempo per vedersi sfilare il sacco. Non appena si riebbe, si lanciò all'inseguimento: finalmente, quel bastardo non era circondato da suoi seguaci. Se lo avesse raggiunto, adirato com'era, avrebbe anche potuto infliggergli una lezione.
«Ridammi il sacco!» intimò con tono alterato.
«Se mi acchiappi, giuro di restituirtelo!»
Kitzo era rallentato dal bottino e Djeek lo raggiunse su un isolotto circondato da un canneto. «Ti ho preso rendimi il sac...» Si ritrovò con la faccia nel fango.
Dopodiché, fu una valanga di calci e bastonate. “Mi ha fregato di nuovo!” realizzò con amarezza. “Come ho potuto pensare che fosse solo! Ha tirato l'amo e il pesce ha abboccato.”
«Ragazzi, vi avevo detto che vi avrei portato a un banchetto! Diamoci dentro con questi bocconcini!» gongolò Kitzo.
«Grazie, Kit» risposero all'unisono due voci baritonali e ottuse.
Djeek alzò la faccia dal fango e, dall'occhio meno tumefatto, vide Gork e Girk: erano grossi e praticamente identici. I due erano estremamente possenti e per quanto riguarda l'astuzia... be', a quella ci pensava Kitzo.
Senza troppe speranze, raccolse le forze e con il fiato che gli rimaneva, intimò: «Io ti ho acciuffato, mi hai giurato di restituirmi il sacco!»
«Certo! Subito» rispose l'altro beffardo, lanciandoglielo.
«Ma che me ne faccio del sacco vuoto? Io lo rivoglio pieno!»
Poi, pensando che il maligno Kitzo avrebbe potuto riempirlo anche di melma, precisò: «Lo rivoglio pieno di prede!»
«Avete sentito ragazzi? Vuole il sacco pieno. Come vuoi, voglio essere gentile con te» disse. Quindi, rivolgendosi ai gemelli e indicando il malcapitato goblin, suggerì: «Che aspettate a colmare il sacco! Guardate quella pantegana lì, dovrebbe riempirlo bene. Mi raccomando, chiudetelo con cura non vorrete farla scappare.»
Nonostante i suoi sforzi, Girk e Gork non faticarono molto a rinchiuderlo. I tre malfattori mangiarono il più possibile selezionando solo le parti migliori delle piccole prede e gettando gli avanzi nell'acquitrino. Ogni protesta di Djeek era messa a tacere da violenti calcioni. In realtà, questi ultimi venivano generosamente elargiti, a intervalli regolari, anche se taceva. Quando ebbero finito, Kitzo spronò gli altri ad andarsene dicendo: «Forza ragazzi, dobbiamo correre ad avvertire Hork che questo sorcio da latrina, ha passato tutto il tempo a divertirsi anziché cacciare.»
Djeek sapeva che Hork, riconoscendone il talento, avesse un debole per Kitzo e che, anche quando questi compiva qualcosa di proibito, faceva sempre finta di non accorgersene.
Quando gli altri si allontanarono, dolorante, sfilò dal taschino una delle pietre taglienti a forma di stella raccolte il giorno precedente e si liberò.
La situazione era seria, per non dire disperata: mancava poco a mezzanotte e il sacco era vuoto. Pensò alla collezione di teschi di Hork e rabbrividì all'idea che la sua testa dovesse entrare a farne parte.
«Prima di morire voglio vederlo per l'ultima volta» pensò ad alta voce, mentre si avviava verso il nascondiglio del suo piccolo tesoro. «Forse, se lo riporterò al vivaio come un trofeo, mi risparmieranno... o forse, no.»
Raggiunto il luogo, spostò alcuni rovi dal ceppo di un vecchio albero e da una fessura sotto una grossa radice, sfilò lo strano bastone.
Registri di Dharta Misathon (ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522).
Il bastone magico.
Djeek prese il bastone fra le mani, non sembrava né di legno né di ossa né di metallo, probabilmente era di pietra, di una strana pietra nera, levigata e lucida: infatti, era più pesante di quanto la sua forma esile facesse intuire. Aveva un disegno lineare e privo decorazioni tranne che per una grossa gemma incastonata sulla testa attraverso quattro piccoli fermi dalla forma che il goblin associava ai denti del Verme Primordiale.
La gemma era nera, ma Djeek ricordava di averla vista brillare di una luce verde. Questo era avvenuto quando l'umano che aveva ucciso il mostro della palude si era immobilizzato assomigliando a una statua. Si era imbattuto altre volte negli uomini: spesso tra il bottino delle razzie, venivano riportati alcuni di essi. Arrivavano nudi e legati con robuste corde alle cavalcature ferine degli incursori. Erano tutti più alti e poderosi di qualsiasi goblin, però non erano molto resistenti. Venivano messi a lavorare, ma morivano subito o di fame o di malattia o, addirittura, di fatica: non a caso era un insulto diffuso dire "sei fragile come un umano". La loro carne non era un granché, Djeek la trovava pessima: essa veniva data ai groppalupi cavalcati dai razziatori oppure ai piccoli goblin; gli adulti si guardavano dal mangiarla, perché temevano di assimilarne la vulnerabilità. L'uomo a cui apparteneva il bastone, però, era strano. Un goblin qualsiasi non avrebbe notato alcuna differenza con gli altri, ma Djeek, acuto osservatore, aveva scorto delle anomalie: gli strani occhi, come fessure, il colorito più giallognolo e la statura piuttosto minuta.
Ricordava quanto fosse potente il bastone, ma aveva constatato che non lo fosse abbastanza per sopraffare i mostri per antonomasia, i mostri che bastava nominare per raggelare il cuore anche dei più temerari: gli elfi. Ne aveva sentito parlare nei racconti del terrore che si scambiavano al vivaio: erano i più grandi tra loro a raccontarli ai più piccoli per vederli tremare di paura. Ora, lui li aveva visti e, miracolosamente, era ancora vivo: avrebbe voluto raccontarlo agli altri, ma chi gli avrebbe creduto?
Erano terrificanti: alti almeno quanto un umano, dai lineamenti delicati, esili eppure così agili ed energici; avevano la carnagione pallida e grigiastra e i capelli del ripugnante colore dell'argento. Longilinei, affilati e lucenti, gli elfi sembravano delle spade micidiali. La cosa peggiore fu la tempesta che, nel vederli, si era scatenata dentro di lui: aveva sentito un odio ancestrale pervaderlo, un odio che bruciava dentro e che faceva più male dei pugni di Hork. Gli si erano drizzati tutti peli sulla testa e sulla schiena; non riusciva a fare a meno di mostrare le zanne e, a ogni pesante respiro, la bava gli colava copiosamente dalla bocca, mentre il cuore tamburava furiosamente. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo per domare l'orrore e rimanere fermo; il suo corpo avrebbe voluto muoversi d'istinto, non sapeva se per scagliarsi contro di loro o per fuggire.
Stentava a credere che loro, i goblin, potessero in qualche modo discendere dagli elfi. Guardò la sua immagine riflessa sull'acquitrino. Era piuttosto esile, proprio come loro, sì, ma per il resto non c'era nulla di più differente: a partire dalla pelle verdognola e butterata, i lineamenti marcati, i peli radi e ispidi, le zanne, le gambe arcuate, i palmi delle mani e le piante dei piedi forniti di cuscinetti e le unghie come artigli smussati. Gli elfi grigi erano completamente inodori, i goblin, invece, avevano il fiero odore dei lupi.
Come tutti i cuccioli, Djeek, non aveva mai assistito ufficialmente al Rito della Nascita, tuttavia la curiosità e l'interesse lo avevano portato, nell'occasione, a nascondersi in un angolo del vivaio lontano dallo schiamazzo dei suoi compagni. Da lì, aveva potuto udire in maniera fievole, ma piuttosto comprensibile il rullare tamburi, le urla tribali e soprattutto le parole. Durante il Rito, gli sciamani rievocavano l'origine della loro razza, esso prevedeva il sacrificio di un elfo. Purtroppo, negli ultimi anni il confinamento nella Grande Palude li poneva in territori distanti da quelli in cui questi vivevano. Pertanto, veniva usato un fantoccio con addosso qualche accessorio elfico rimediato nei saccheggi. Djeek aveva persino memorizzato le parole del Rituale: esse formulavano una cantilena antitetica a qualsiasi forma di poesia. Cominciò a recitarlo, mentre ripuliva il bastone dalla melma e dalle alghe:
La Guerra dei Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
E il Mondo moriva
Idron il Placido, Idron dell'Acqua
Idron l'Inarrestabile piangeva per la sorte degli elfi degli abissi
e grandi tsunami affogavano i viventi in gorghi profondi
Petra l'Affidabile, Petra della Terra
Petra l'Inamovibile tremava per la sorte degli elfi delle profondità
e terribili terremoti inghiottivano i viventi in crepacci bui
Tempèra l'Algida, Tempèra del Gelo e del Fuoco
Tempèra il Furente ruggiva per la sorte degli elfi di brina e di fiamma
e spaventose eruzioni incenerivano i viventi e conseguenti glaciazioni assideravano i superstiti
Spiral il Libero, Spiral dell'Aria
Spiral l'Inafferrabile si straziava per la sorte degli elfi delle nuvole
e inarrestabili uragani risucchiavano i viventi in cieli tempestosi
La Guerra dei Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
E Xantis moriva
Energon l'Arbitro, Energon del Magicka, dall'alto della Luna Clessidra taceva e osservava
I Quattro si servivano dell'energia del suo Mondo per plasmare gli elementi
tuttavia Egli la centellinava e scandiva lo scorrere del tempo di cui era padrone
si dichiarava neutrale ma la sua Arena li aveva incanalati verso la condanna
I Quattro erano prossimi ad abbandonare la Tenzone
Energon del Tempo avrebbe regnato anche sulle loro opere
I Dharta suoi figli erano al sicuro nella Clessidra Celeste
non combattevano ma scrivevano e ogni cosa annotavano
La Guerra dei Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
E l'Arena degli Dei moriva
Tron il Supremo non era appagato
Egli voleva dichiarare un vincitore
Nessuno dei Quattro aveva prevalso
Tutti avevano perso
Un cambiamento e una perturbazione dell'equilibrio necessitavano
E Tron inviò Corrupto dell'Evoluzione
"Va e fa che la Guerra continui e che ci sia un vincitore
tuttavia dei Quattro nessuno devi avvantaggiare"
La Guerra dei Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
E il tutto stava per appartenere a Energon
La Nebulosa Marcia brillò fiera sulla Volta Celeste
Corrupto aprì un varco e da esso emerse il suo Emissario
Il Verme Primordiale era potente quanto un Primo Nato ma presto si sarebbe assopito
Corrupto voleva disporre di servitori indigeni e l'Emissario lo ascoltò
Cercò il magicka nell'impenetrabile Torre di Cenere ne trovò la fonte
Segui le tracce e alcuni Elfi Grigi fuori da essa stanò
in una caverna di lupi si rifugiarono ma con tutta la grotta li divorò
La Guerra degli Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
E Corrupto preparava il suo intervento
Nel ventre del Verme per decenni gli elfi furono deturpati
Soffrivano, si dimenavano, cercavano la morte ma non la trovavano
Sprizzavano lampi bluastri di magicka ma il Verme lo assorbiva e lo plasmava
Decomponevano tra spasmi, urla disperate e loro energia in odio mutava
Per decenni furono digeriti e con essi i lupi della grotta, la terra, il fango
Alla fine l'Emissario terminò il suo compito e dal suo ventre noi goblin fummo generati
Destinati a degenerare nella vecchiaia come i lupi mortali vivevamo
Feroci, astuti, letali e prolifici come i lupi ci diffondevamo
La Guerra dei Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
E Corrupto si apprestava a regnare su Xantis
Noi goblin ci moltiplicammo a milioni
Tutti i popoli stremati sottomettemmo
Sacrifici a Corrupto in tutta Xantis elevammo
Ciò non piacque a Energon della Razionalità
Egli arrestò lo scorrere del tempo e a Tron rivolse la sua protesta
“Ho accolto i Quattro in Magicka, il mio Mondo, per farne l'Arena
Per ere Ti sei appagato del loro scontro, tutto i miei servi hanno registrato
Nessuno dei Quattro ha ancora vinto e Corrupto non è della Contesa”
La Guerra degli Quattro volgeva al termine
Tutti avevano perso
I Primi Nati dormivano da tempo
Ma Limpa giunse a perseguitarci
Tron divertito dai nuovi risvolti decise di allargare la Contesa
In antitesi a Corrupto inviò Limpa della Conservazione
E il Diamante risplendette nella Volta Celeste
Ella aprì un varco da cui scaturì il suo Emissario
Il Cigno di Cristallo solcò i cieli con una scia di polvere splendente
Tutti gli elfi da essa investiti provarono sollievo e gioia: il loro aspetto mutò
Crebbero in statura e in purezza, i capelli divennero rilucenti come i diamanti
Gli Elfi di Cristallo ci mossero guerra e cruenti furono gli scontri
La Guerra i Quattro era finita
Nessuno aveva prevalso
Ma una nuova Contesa si era aperta
Tanti Nuovi Dei giunsero e vi presero parte
Nuove razze furono generate e tante altre guerre furono combattute
Fiumi di sangue furono versati e molto magicka fu dissipato
Il rito originale continuava, ma da tempo immemore, la parte finale era stata omessa dalla tribù, forse perché contemplava il graduale declino della loro razza e soprattutto perché, ormai, tutti ritenevano falsa e fastidiosa l'ultima strofa. Non era possibile che i deboli umani, giunti in epoche più recenti, fossero stati generati direttamente da Tron in persona.
Djeek amava recitare il Rito, perché lo portava a fantasticare, ma fantasticare poteva essere letale per un goblin... Infatti, se prima era tardi, dopo le sue elucubrazioni, lo era molto di più. Dove avrebbe trovato il coraggio di presentarsi a Hork con il sacco vuoto? Il tempo che gli restava non sarebbe bastato neanche se i ratti della Grantana fossero usciti, come per magia, tutti allo scoperto. Fu esattamente allora che proprio la fantasia gli fece balenare un'idea bizzarra.
Registri di Dharta Misathon (ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522).
Nuovi arrivi.
Djeek impugnò il bastone che lo superava in altezza di almeno mezzo piede e, sollevando schizzi, si mise a correre rumorosamente verso la grande tana delle nutrie. Era buio e c'era la nebbia, ma nessuna delle due cose infastidiva più di tanto la sua vista da goblin. Arrivò a una montagnola di argilla con alcuni fori a cui facevano capo profondi cunicoli nei quali centinaia di roditori trovavano rifugio. Djeek l'aveva ribattezzata Grantana ed era una specie di scatola dei desideri. Purtroppo, ogni tentativo di penetrarvi era risultato vano. Diverse volte, aveva provato a scavare, ma l'operazione era lenta e le creature facevano in tempo a spostarsi in zone sicure della complessa rete di tunnel. Aveva provato a versare dell'acqua, ma questa defluiva per poi essere assorbita nel terreno in profondità. Nemmeno appiccare il fuoco in prossimità delle buche era servito.
Stavolta, però, disponeva di un nuovo strumento. “Se grazie a questo bastone, quell'umano ha stanato e messo allo spiedo il Grande Mostro della Palude, io potrei riuscire a stanare almeno qualche roditore” pensò Djeek senza troppa convinzione.
Strinse forte l'impugnatura, imitando goffamente la posizione dell'elementalista, socchiuse gli occhi e si sforzò cercando di scuotere la montagnola con il pensiero. Purtroppo, non accadde nulla. Provò altre volte sbarrando gli occhi o serrando i denti: niente, niente di niente!
Alla fine, stremato e rassegnato, si genuflesse reggendosi al bastone. Attraverso di esso, sentiva flebili e lontane le vibrazioni che si trasmettevano sul terreno: erano i ratti che si muovevano e scavano sotto la superficie. Già altre volte, poggiando l'orecchio a terra, aveva potuto sentirli: così vicini eppure, così irraggiungibili. Gli sembrò quasi di vederli lì sotto, immaginò di poter penetrare nel cunicolo e seguirli nei loro nascondigli. Sentì i loro passi furtivi quasi come se gli passassero sul ventre e, come in un sogno, immaginò di schiacciarseli addosso con le braccia: avvertì il loro sgomento nel vedere le loro tane tremare e crollargli addosso. Sentì il calore del loro sangue scorrergli sul petto e l'inebriante odore dell'adrenalina che trasudava dalla loro pelle.
Come risvegliandosi da una visione, Djeek aprì gli occhi e vide una valanga di ratti evacuare terrorizzati dalla montagnola semi-crollata. Si lanciò alla caccia e, nel giro di un minuto, aveva già riempito il sacco.
Era salvo: ciò lo rendeva felice e, per la prima volta, fiero di sé. Poco dopo, un altro pensiero, ancora più divertente, gli stampò sul volto butterato un ghigno ferino, cioè l'equivalente goblin del sorriso. «Non vedo l'ora di vedere la faccia di Kitzo: il sacco è più pieno di prima!» pensò ad alta voce.
Raggiunse il luogo del nascondiglio e, mentre con fare reverenziale riponeva nella fessura il bastone, pensò di conferirgli un nome. «Lo chiamerò Grande Verme.» Cioè il modo gergale usato per riferirsi all'emissario di Corrupto. Come il Verme Primordiale aveva stanato gli elfi grigi dalla caverna, così il suo aveva stanato i ratti dai loro cunicoli.
Arrivò nei pressi dell'abitato a notte fonda, proprio mentre Hork stava provvedendo a reclutare nuovi piccoli. Era suo compito, al termine dello svezzamento, sottrarre i cuccioli alla madre per portarli al vivaio che, volutamente, era posto nella zona proibita alle femmine. Bisognava recidere immediatamente i legami di nascita: la famiglia era un vezzo che la società goblin non poteva permettersi. Nessuno conosceva i propri genitori e nulla escludeva che un figlio un giorno potesse inconsapevolmente uccidere il padre, oppure che potesse ingravidare la madre o una sorella. Ciò era in perfetta coerenza con il fatto che i vincenti avessero diritto di vita e di morte sui più deboli e che a loro spettasse di trasmettere il proprio seme senza limitazione alcuna: solo così il branco sarebbe diventato sempre più forte.
Hork faticò non poco per sopraffare le feroci resistenze della femmina: dopo aver ricevuto un morso sul braccio e un profondo graffio sulla guancia, era riuscito a torcerle il polso dietro alla schiena e a piantarla contro il muro esterno della capanna. Fu in quel momento che l'addestratore annusò che ella era di nuovo pronta all'accoppiamento. Così, decise di approfittarne prima che gli altri se ne accorgessero. Non fece in tempo a strapparle il vestito, che venne preso per la collottola e sbalzato indietro di diversi piedi da Ghuk, un goblin esploratore. Questi acciuffò per il peli della testa la femmina che tentava la fuga e si preparò a inseminarla. Nel frattempo, Hork si stava rialzando tramortito. Però, un altro maschio, Rok, rifilandogli con noncuranza un calcio violentissimo, lo rimandò a terra dolorante. Quest'ultimo si lanciò per interrompere Ghuk che nel frattempo si stava già accoppiando e ne scaturì una rissa brutale. La femmina ne approfittò per darsi alla fuga. Tuttavia, mentre passava vicino a Hork che giaceva a terra, questi ebbe il riflesso di afferrarle la caviglia facendola cadere. L'addestratore si alzò sulle gambe malferme per lo stordimento e stava per lanciarsi sulla goblin, quando vide arrivare Hutzo, uno dei razziatori più feroci. Si immobilizzò e balbettò qualcosa come: «Signore, stavo giusto venendo a chiamarti! Quei due indegni volevano... ouch!» Ricevette un pugno nello stomaco, che lo sollevò di tre piedi, seguito da una ginocchiata in faccia mentre ricadeva.
«Vai a prendere i cuccioli, e torna a fare la mammina al vivaio! Verme!» gli intimò il bruto. Poi, emise un ringhio che raggelò gli altri due contendenti i quali si dileguarono all'istante. Con una mano, afferrò per il collo la povera femmina facendole entrare le unghie nella pelle e la sollevò per accoppiarsi. Quando ebbe finito, la getto via come uno straccio e se ne andò.
“Questa volta, è andata in maniera piuttosto tranquilla” pensò Djeek mentre si affrettava ad allontanarsi dal luogo della scena. Spesso, gli scontri per la riproduzione erano molto più violenti, con morti e mutilati tra i pretendenti. Succedeva sempre così: la malcapitata di turno, nel marasma, si ritrovava a essere presa con la forza da molti maschi e alla fine, era impossibile conoscere esattamente il padre della figliata. Però, questo era un bene per il branco.
Mestamente, Hork raccolse i sei cuccioli che dall'inizio non avevano smesso un attimo di urlare e dimenarsi terrorizzati, lì colpì alla testa in modo da farli svenire, li caricò sulla carriola insieme allo sterco che gli serviva per riparare una falla della sua capanna e si avviò verso il vivaio. Era dolorante e ferito nell'orgoglio, ma già assaporava la sua rivalsa. Poco prima, il giovane Kitzo, seguito dai suoi scagnozzi, gli aveva spifferato che quell'idiota di Djeek aveva passato tutto il tempo a divertirsi anziché cacciare. Era chiaro che quanto riferitogli era tutto falso, sia perché quel babbeo svolgeva alla lettera tutti i compiti assegnatigli e sia perché l'alito dei furbacchioni odorava di topo a passi di distanza. Hork, però, sapeva riconoscere i talenti. Mentre era certo che il teschio dell'inetto Djeek sarebbe presto entrato a far parte della sua collezione, era altrettanto sicuro che Kitzo sarebbe presto diventato uno sciamano, un sacerdote di Corrupto da cui aveva ricevuto lautamente i doni della mutabilità e dell'astuzia. Era quindi sua intenzione entrare nelle grazie del suo prediletto, sperando che un giorno si ricordasse di lui sollevandolo dalla sua misera condizione di lavoratore. Quindi, doveva stare al gioco e malmenare il babbeo. Inoltre, la cosa lo divertiva, lo faceva sentire forte.
Djeek aveva preparato la sua vendetta: nascosto il sacco in un cassone, si era seduto lì a fianco ad attendere con fare affranto. Nel frattempo, era arrivato Kitzo che lo punzecchiava con frasi del tipo: «Cosa è successo ai tuoi ratti? Non te li avranno presi dei tipi cattivi?», «Povero Djeek, quando Hork ci si mette fa veramente male, vero?», «Che sapore hanno i vermi della latrina? Dicono che tu li abbia degustati...» e avanti così. Il giovane goblin taceva e pregustava la rivalsa.
L'addestratore arrivò e, come da copione, disse: «Fammi vedere cos'hai preso, buono a nulla! Dov'è il sacco?»
Djeek attese un po' senza rispondere per gustarsi il più possibile il momento e, quando l'adulto stava per scattare verso di lui, sollevando il coperchio del cassone, disse: «Eccolo, Signore. Spero siano abbastanza.»
Kitzo cadde nello sconcerto e già si guardava intorno per trovare eventuali vie di fuga da Hork, ma fu egli stesso ad aiutarlo. Questi, infatti, colpì violentemente l'incredulo Djeek allo stomaco con un pugno, per poi rifilargli una ginocchiata in faccia. «Chi credi di fregare! Kitzo e suoi amici mi hanno riferito che ti hanno visto mentre danneggiavi la mia capanna e hai dato loro delle prede per comprarti il silenzio!» E poi, ammiccando al giovane furbastro, rincarò: «Farai tre giorni nella latrina, verme!».
Djeek aveva di nuovo perso, tuttavia la sua permanenza nel pozzo fu, sì, dura, però, non così terribile. Questo, perché poteva anche essere un debole, ma ora possedeva il Grande Verme e ciò lo rendeva pieno di orgoglio e di speranze.
Registri di Dharta Misathon (undicesimo giorno del mese quarto nell'anno 11522).
Il Santuario di Corrupto.
Quando ebbe finito di scontare la punizione, Djeek tornò alle sue mansioni. Nei giorni successivi, con l'aiuto del bastone, la caccia era diventata una passeggiata. Così, ebbe più tempo per esercitarsi a usarlo.
Aveva capito che per attivarlo, bisognava acuire i sensi, ma allo stesso lasciarsi andare quasi come per addormentarsi. Era importante, però, tenere a mente cosa si volesse ottenere: un po' come cercare di prendere sonno con lo scopo di sognare qualcosa o qualcuno di preciso. Poi, per qualche istante, aveva come l'impressione di essere il suolo stesso e, a quel punto, avveniva il controllo su di esso. Questa era la parte più difficile, si rendeva conto di poter modificare il terreno come se fosse il suo corpo, tuttavia si sentiva come un neonato che deve ancora prendere confidenza con le proprie membra e con i movimenti. Il risultato era che riuscisse a far accadere qualcosa, ma non era mai esattamente ciò che voleva ottenere. Una volta, volendo imitare l'umano, provò a evocare uno spuntone con lo scopo di infilzare una grossa tartaruga di palude. Ci riuscì parzialmente. Infatti, lo spuntone, che per fortuna non era né troppo grande né troppo duro e affilato, emerse, ma tra le sue gambe, lasciandolo senza respiro per diversi minuti.
Quello che, invece, proprio non riusciva a fare, era scagliare le pietre come se fossero proiettili: aveva persino plasmato dei sassi fino a farli assomigliare ai dardi della sua cerbottana, ma rimanevano lì, ancorati al terreno.
In quei giorni, venne nuovamente importunato da Kitzo e i suoi, ma vista l'esperienza precedente, attendeva sempre gli ultimi minuti per andare a caccia, in modo che lo trovassero sempre senza alcun ratto da sottrargli.
Girk e Gork, non ottenendo nulla da mangiare, persero presto interesse per quel passatempo e Kitzo si guardò dall'affrontarlo da solo: così, per qualche tempo, Djeek fu lasciato in pace.
Il bastone si era rivelato un ottimo strumento, non solo per far uscire i ratti allo scoperto, ma anche per scovarli: infatti, entrando in simbiosi con il suolo circostante, poteva sentire i loro passi come se si muovessero su di lui. Un giorno, proprio mentre si stava concentrando in tale operazione, avvertì dei movimenti striscianti, ma molto più pesanti. Ciò lo fece sobbalzare sul più bello e il terreno circostante si scosse insieme a lui provocando il crollo di un piccolo sperone di argilla. Nel fracasso delle zolle che impattavano l'acqua, si udì un urlo soffocato seguito da un tonfo. Che guaio! Forse, aveva inconsapevolmente fatto del male a qualcuno. Corse nella direzione del crollo. Era chino per sondare con le mani nell'acquitrino, quando sentì un dolore acuto al polpaccio che lo fece accasciare. Un istante dopo, Kitzo, emergendo dalla palude, era su di lui pronto a finirlo con un pugnale ottenuto affilando una pietra di selce. Djeek ruotò su se stesso e, mentre con la mano destra teneva ben saldo il bastone, con l'altra fece appena in tempo ad afferrare il braccio dell'avversario che stava per piantargli la rudimentale lama nella gola. Nella convulsione della lotta, guardò con repulsione quel pezzo di selce che gli aveva lacerato le carni del polpaccio e che ora era prossimo a recidergli la giugulare. Lo rigettò da sé come se fosse un boccone inappetibile. Fu in quel momento che questo schizzò frantumandosi verso il goblin che lo brandiva ferendogli la mano e colpendolo all'occhio.
«Che tu sia dannato!» urlò Kitzo portandosi la mano al volto ormai sfigurato. Djeek si rialzò tremante e, ponendo dinanzi a sé il bastone, si preparò a fronteggiare un nuovo attacco, ma l'altro si dileguò maledicendolo: «Che tu possa marcire per sempre nel ventre del Grande Verme!».
Il giovane goblin rimase immobile e ansimante per alcuni istanti. Ma poi, una volta assorbita l'adrenalina, il dolore al polpaccio si ripresentò insopportabile. Tirò fuori dall'acqua la gamba e constatò che il coltello lo aveva lacerato in profondità, vide colare un rivolo copioso di denso liquido nero e capì che si stava dissanguando. Raggiunse zoppicando un grosso albero marcescente, si aggrappò a una delle liane che pendevano dai suoi rami e tirò con tutta la forza finché, con un crack il legno fradicio cedette, piombandogli in testa. Imprecando contro la sua imbranataggine, prese a legarsi la gamba con il laccio rimediato, ma l'emorragia non si arrestò. “Morirò prima di raggiungere il villaggio” pensò accasciandosi a terra esausto. Chiuse gli occhi e, ponendosi in posizione fetale, strinse il bastone attendendo la fine. Sentì la terra abbracciarlo e stringerlo a sé come una madre affettuosa, avvertiva defluire il suo sangue come l'acqua che scorre nei ruscelli; sognò di arginarne il corso costruendo una piccola diga di sassi, tronchi e argilla.
Si svegliò un paio d'ore più tardi, esaminò la ferita e vide che i suoi lembi, seppur ancora aperti, si erano induriti fino a sembrare fatti di creta essiccata; aveva problemi a deambulare, ma almeno non perdeva più sangue e il dolore si era assopito. Visto che non era nelle condizioni di digiunare, si sbrigò a completare la caccia con l'aiuto del bastone che, poi, ripose nel solito nascondiglio.
Prima di presentarsi da Hork con il sacco, ne tirò fuori tre ratti particolarmente appetitosi e li nascose sotto un rovo che confinava con un punto remoto del cortile del vivaio: era rischioso, ma ne andava della sua sopravvivenza.
Per una volta, il sotterfugio era andato a buon fine e Hork non si curò neanche del fatto che zoppicasse: sarebbe stata una premura inaspettata, se si fosse interessato di un suo infortunio.
Ottenne il suo meritato boccone, ma non andò a riposare come faceva di solito: doveva completare il pasto per rimettersi in forze e doveva farlo... in compagnia.
Il bastone gli aveva salvato la vita nell'immediato, ma non poteva lasciare la ferita in quello stato: ci voleva qualcuno che gli scrostasse la superficie pietrificata e che ricucisse lo squarcio. Nel vivaio c'era una giovane femmina di nome Griz che, viste le sue attitudini, svolgeva la mansione di aiuto fattucchiera e si prendeva cura dei feriti. Doveva quindi convincerla a uscire dalla capanna e proporgli uno scambio. A differenza dei maschi, almeno prima di divenire fertili, le femmine creavano un gruppo solidale che permetteva a molte di loro di sopravvivere alla feroce selezione nonostante la minore forza. Esse non si aggiravano mai da sole e se qualcuno faceva del male a una di loro, avrebbe, poi, dovuto fronteggiarne l'intero gruppo inferocito. Per Djeek, sarebbe stato difficile avvicinarla e ancora di più, convincerla a seguirlo, anche perché le femmine provavano ribrezzo per i più deboli, cioè per quelli che, come lui, non avevano il posto al coperto. “Mi aggirerò intorno alla baracca e, fiutando tra le fessure, individuerò il suo odore; poi, parlandole sottovoce, proverò a corromperla offrendole un bel banchetto” pensò cercando di convincersi che il suo fallace piano potesse funzionare. I dubbi, però, emersero gettandolo nell'angoscia: “Si fiderà di me? Come farò a comunicare con lei, senza farmi sentire da chi le sta vicino?”. Mentre si arrovellava il cervello in questi pensieri, vide un goblin con una benda sul lato destro della testa sbucare fuori da un cespuglio e, con fare furtivo, rientrare nella capanna: era Kitzo. Poco dopo, un'altra sagoma esile uscì silenziosa dallo stesso anfratto portando con sé una piccola sacca di cuoio. «Griz!» la chiamò sottovoce. Questa trasalì, come se l'avessero scoperta con le mani nel sacco. «Griz, sono Djeek! Stai tranquilla, voglio farti una proposta.» Ma ella, fulminea, gli balzo vicino puntandogli un rasoio affilato. «Oltre ad essere un verme, sei pure uno spione: ora, tu sparisci e dimentichi di avermi vista! Chiaro!» sibilò perentoria mostrando le zanne.
«Ho bisogno del tuo aiuto: sono ferito!» disse il goblin con voce tremula, cercando di non guardare la lama che lo minacciava.
«Se sei ferito? Crepa! Perché dovrei aiutarti?» gli replicò caustica.
«Vieni con me, ho dei topi appetitosi da offrirti.»
Due cose aiutarono Djeek: il fatto che tutti nel vivaio soffrissero la fame come condizione necessaria per crescere bramosi, e la sua reputazione di debole e innocuo smidollato. Griz decise di accettare l'invito a cena e di seguirlo: non lo temeva, era convinta di poterlo sopraffare facilmente, se le cose avessero preso una brutta piega.
I due si infilarono in un cespuglio vicino alla recinzione. Da lì, allungando un braccio in una fessura della palizzata, il goblin estrasse tre bei roditori. Griz si lanciò ad afferrarli, ma Djeek, mandandola a vuoto, disse con fermezza: «Uno è mio. Gli altri due sono per te: prendi questo intanto, l'altro te lo darò a lavoro finito. Non ti conviene cercare di sottrarmeli: se ci azzuffassimo, ci scoprirebbero.» L'altra stava già divorando avidamente il topo. Finì il pasto, ruttò in segno di gradimento e prese a esaminargli la ferita.
«È un brutto taglio. Ma cosa ci hai messo? La carne sembra argilla: bisogna asportare la parte morta prima di ricucire.» Estrasse dei lacci di cuoio dal suo sacchetto e disse: «Ti devo legare, prima.»
«E sia!» acconsentì Djeek. «Ma se provi a fare scherzi: mi metto a gridare.»
Gli legò mani e piedi, poi, gli infilò un pezzo di legno marcio in bocca. «Mordilo se senti dolore» lo istruì e prese ad asportargli il primo strato di carne: per tagliarla, usava il rasoio con l'indifferenza con cui si scuoia un animale morto. Il dolore superava di gran lunga quello provato nel momento in cui si era procurato la ferita e Djeek lottò per rimanere vigile: se fosse svenuto, sicuramente l'avrebbe lasciato lì, portandosi via il suo pasto.
Poi, mentre la curatrice iniziava a cucire insieme i lembi con un ago d'osso e uno spago, gli disse con l'indifferenza dissimulata di chi vuole ottenere informazioni: «Prima di te, ho medicato Kitzo che ha riportato una brutta ferita all'occhio: ho accettato di aiutarlo, perché non conviene mettersi contro di lui. Dice che è stato beccato nel sonno da uno straziatore, dice di averlo catturato e divorato: mi ha mostrato una sua penna che terrà per ricordo.»
Gli straziatori erano grossi corvi, grandi come rapaci. Erano chiamati così, perché tornavano utili quando bisognava torturare i condannati. Quest’ultimi venivano inchiodati a un palo e, prima che potessero morire di stenti, venivano divorati vivi da quei grossi uccellacci che prediligevano le parti molli come gli occhi, le interiora e i genitali.
“Maledetto! Inventerebbe qualsiasi cosa pur di non ammettere la sconfitta!” pensò Djeek e stava per rivendicare con fierezza: “Sono stato io a ferirlo all'occhio”. Tuttavia, si fermò giusto in tempo, perché in primo luogo, non gli avrebbe creduto e poi, come avrebbe risposto alle altre domande? Doveva tenere segreta l'esistenza del bastone. Kitzo era l'unico ad averlo visto ed era già di troppo. Esordì, quindi, con la prima scusa che gli venne in mente. «Una tartaruga carnivora» disse. «Ehm... mi ha preso di sorpresa.»
Griz rise di gusto. «Solo un babbeo può farsi cogliere di sorpresa da una tartaruga. Scommetto che era troppo veloce per te!» lo schernì, mentre annodava lo spago per evitare che i punti si scucissero.
“Idiota! Tra tutte le terribili bestie della palude, proprio la più ridicola, dovevi scegliere per onorare la tua ferita di battaglia!” si rimproverò affranto.
«Ho finito, mi prendo l'altro ratto» disse la giovane slegandolo. «Morirai comunque: appena rimetterai piede nella melma, la piaga s'infetterà e non ti darà scampo. L'unica cosa che potrebbe salvarti è il Dono di Corrupto, ma sai bene che a noi cuccioli non è permesso usufruirne.»
Emessa la sentenza, se ne andò lasciandolo senza parole e nello sconcerto.
Si accarezzò la lacerazione rozzamente ricucita, aveva perso dell'altro sangue e continuava a perderne ancora. Si strappò un lembo di cuoio marcio dal vestito e, con dei lacci lasciati distrattamente dall'aiuto-guaritrice, se lo legò intorno al polpaccio con la vana speranza di proteggerla. I suoi dardi erano intinti nel Dono, ma se li avesse ripuliti tutti, non ne avrebbe ricavato che una goccia, mentre a lui gliene serviva molto di più. Mangiò silenziosamente il suo ratto e, sfinito, piombò nel sonno poco prima dell'alba.
All'approssimarsi del tramonto, come suo solito si svegliò, si alzò imprecando per il dolore e si avviò verso la palude. Passando il più possibile sui lembi di terraferma, giunse al nascondiglio; nonostante i suoi sforzi, però, la ferita si era comunque sporcata di fango. Infilò la mano nella fessura, ma del bastone non v'era più traccia: se pensava di aver già raggiunto l'apice della disperazione, in quel momento ne conobbe nuovi drammatici limiti.
«Kitzo!» urlò stringendosi la testa tra le mani. Era stato di nuovo un idiota: il suo rivale lo aveva spiato e quindi l'aveva visto anche estrarre il bastone. Quando aveva fatto crollare lo sperone, infatti, era lì, acquattato a osservarlo.
«Come ho potuto nasconderlo nello stesso posto dopo aver scoperto di essere stato seguito?» si rimproverò.
Quel maledetto era già micidiale senza godere di grande forza o poteri, ma con quel bastone non avrebbe conosciuto limiti: presto li avrebbe dominati tutti, ma ancora prima, avrebbe ucciso lui.
Comunque, doveva completare la caccia, e nel farlo, ricordò quanto fosse difficoltosa senza il suo Grande Verme. Ovviamente, fu necessario ignorare tutto quanto si era prefissato riguardo al non infettare la ferita. Tornò all'accampamento con la piaga che gli pulsava e si sentiva già un po' febbricitante.
Hork che si era abituato agli ottimi risultati degli ultimi tempi, non apprezzò il misero bottino rimediato e gli rifilò un gran ceffone lasciandolo a digiuno.
Djeek si era seduto in un angolo dell'accampamento e, rassegnato, si guardava il polpaccio: aveva smesso di sanguinare, ma in compenso ne fuoriusciva un poco rassicurante pus marrone dall'odore fetido. Aveva la febbre e sentiva brividi raggelanti scorrergli sulla schiena. In quel momento, si sentì chiamare da Kitzo: la sua sola voce gli fece ribollire il sangue quasi quanto la visione degli elfi. Scattò in piedi ignorando il dolore e si voltò a fronteggiarlo. «Ridammi il bastone!» intimò.
L'altro lo sorprese anche in quel frangente: imprevedibilmente, con l'unico occhio non bendato, gli rivolse uno sguardo complice e gli disse con fare ammiccante: «Caro amico, come va la gamba? Spero meglio. Ieri mi hai davvero impressionato: diventiamo soci, insieme saremo invincibili!» Mai nessuno gli si era rivolto con un tale rispetto e se ne sentì profondamente lusingato. Al punto, quasi, da dimenticare tutto ciò che aveva subito.
«Ho io il bastone, è vero, ma sono pronto a restituirtelo, se mi prometti che ogni tanto me lo presterai. Sai, l'ho usato e ho visto come funziona: basta che lo punti su un oggetto lo scuoti un po' e quello si frantuma. Sarà bello condividere con te quello che ho appreso, ovviamente, tu dovrai fare lo stesso con me» continuò Kit.
«Strano, per me usarlo non è così facile: io ho bisogno di concentrarmi e di entrare in sintonia con il mondo circostante; inoltre fatico a localizzare bene il punto da colpire» constatò Djeek ingenuamente.
Kitzo, in realtà, aveva provato a usare il bastone in tutti i modi, senza ottenere assolutamente niente e sperava di carpire qualche segreto. Continuò la messa in scena rispondendo con ostentata sicurezza: «Ah sì, all'inizio era così, ehm... come hai detto, ma poi ho affinato la mia tecnica e ora mi basta puntarlo per attivarlo. Se poi mi fai vedere come lo usi, osserverò i tuoi errori e ti aiuterò a migliorare. Te l'ho detto: siamo una squadra!» Poi, guardandogli il polpaccio, aggiunse: «Ora, però, dobbiamo preoccuparci di curare al meglio le nostre ferite, altrimenti marciranno. Poco fa, approfittando del mio lavoro di assistente di Hork, gli ho sottratto le chiavi del recinto. Tienile e prendi anche quest'otre. A mezzogiorno, approfittando del fatto che quasi tutti dormono, dovrai sgattaiolare fuori e arrivare al Santuario di Corrupto per attingere il Dono dalla Fonte. Ieri, molti degli incursori sono partiti per compiere una razzia e non torneranno prima del tramonto, quindi per te sarà più facile. Ho già parlato con Griz per medicarci: dovrà preparare un impasto.»
Djeek, un po' interdetto, obiettò: «Perché devo andarci io e non tu?»
«Accidenti!» esclamò l'altro mostrandosi deluso. «Ti facevo più coraggioso. E poi, devo stare qui per coprirti la fuga: sai? ho una certa influenza su Hork. Comunque, se preferisci così, rendimi chiave e otre, farò tutto da solo. A quanto pare, non vuoi essere mio complice.»
«No, no!» si affrettò a ritrattare Djeek. «Ci penso io, ma ti darò il Dono, solo se mi renderai il bastone.»
«D'accordo. Lo avrei fatto comunque: non ti fidi del tuo socio? Dovremo effettuare lo scambio nell'orario di uscita. Facciamo nella palude, nel luogo in cui lo tenevi nascosto. Quando torni al vivaio ricordati, però, di lasciare la chiave nell'incavo di quell'albero, io provvederò a rimetterla al suo posto.»
Djeek attese diligentemente che il sole fosse alto e sgattaiolò fuori dal recinto. Le strade del villaggio di Bocca del Verme erano semi-deserte, e arrivare nei pressi della Fonte inosservato non fu particolarmente difficile. Si accucciò dietro una pila di sacchi contenenti paglia di alghe essiccate, per osservare la situazione: il Santuario non era recintato, ma c'erano cinque goblin a tenere la guardia e sarebbe bastato un loro allarme per farne accorrere molti altri dalla prospiciente caserma. Era la prima volta che poteva vederlo così da vicino. Si trattava di un'area circolare di oltre cinquanta passi di diametro: ai suoi lati, si ergevano quattro enormi spuntoni ricurvi, mentre al centro era stato costruito un pozzo sovrastato da un totem con curiose incisioni. Secondo la leggenda, il Santuario non era altro che la bocca del Verme Primordiale. Essa, da quando il gigantesco essere si assopì, si era riempita nel corso dei millenni di terra e polvere. La Fonte era, in realtà, un pozzo posto al centro del piazzale da cui era possibile attingere gli enzimi dalle profondità remote del ventre dell'Emissario di Corrupto. Djeek stimò che se la sua bocca era così larga, stando alla sua forma allungata, doveva avere un corpo che scendeva in profondità per ben oltre mille passi: forse aveva esagerato a chiamare il suo piccolo bastone con il nome di Grande Verme. Mentre era immerso in quei pensieri, si appoggiò distrattamente a un sacco che cadde a terra. Una guardia se ne accorse e ordinò a un sottoposto: «Vai a controllare, fannullone!»
La fortuna volle che quest'ultimo avesse scelto proprio quel pretesto per provare a sovvertire la gerarchia. «Fattelo tu!» gli ribatté con tono di sfida.
Il capitano rispose con un fendente dall'alto verso il basso che gli tagliò via buona parte dell'orecchio appuntito. L'altro, che aveva parzialmente schivato il colpo, non demorse ed estrasse la sua rudimentale lama. Scoppiò una rissa che attirò l'attenzione divertita delle altre guardie.
Djeek raccolse il coraggio e ne approfittò per arrivare alla Fonte. Riempì l'otre del denso liquido di colore verde acceso e corse via zoppicando fino al recinto del vivaio. Depose la chiave nell'incavo e cercò riparo dal sole sotto un cespuglio di rovi. Poco dopo, vide Kitzo prelevare la chiave e recarsi verso la capanna di Hork: “Missione compiuta, tutto è andato per il meglio!” pensò soddisfatto di sé. Si versò qualche goccia del Dono sulla ferita, gli procurò un forte dolore, ma subito dopo la senti pulsare meno: non trattato in un impasto, non era del tutto efficace, ma qualche beneficio lo dava comunque. Si addormentò per svegliarsi qualche ora più tardi, prima del calare del sole. Era ancora febbricitante, ma sarebbe sicuramente sopravvissuto fino a mezzanotte per farsi medicare.
Raggiunse il posto dell'appuntamento dove trovò Kitzo che, non avendolo visto arrivare, stava battendo con foga feroce il bastone contro una roccia. «Stupida asta! Perché non funzioni!» imprecava. Solo a quel punto Djeek capì, ma decise di stare al gioco: doveva prima riavere il suo Grande Verme, far finta di insegnargliene l'uso fino a mezzanotte e dopo essere stato curato da Griz, voltargli le spalle. Quindi, attese che il socio si ricomponesse, prima di venire allo scoperto.
L'altro lo accolse con calore e chiese: «Allora, amico?»
«Tutto secondo i piani. Ecco l'otre, dammi il bastone che ti faccio vedere come lo uso io, tu però dovrai aiutarmi a migliorare».
Stavano per effettuare lo scambio, quando Kitzo notò che in lontananza, da dietro al compagno, stava arrivando Hork: doveva essersi insospettito e lo aveva seguito. Agì in un attimo, colpì l'incredulo Djeek con il bastone e gridò: «Maledetto! Cosa pensavi di fare, come hai potuto rubare il Dono dal Santuario, aspetta che lo racconti a Hork!» Quest'ultimo arrivò un istante dopo e, prima che Djeek si riavesse dalla bastonata, lo aveva già preso per il collo e sollevato da terra.
«Signore!» intervenne Kitzo. «Questo ladruncolo...»
«...ha rubato il Dono: ho sentito tutto!» lo interruppe l'addestratore. «E tu? Dove hai preso quel bastone?»
«Ah, questo! Ho visto Djeek che lo estraeva da quella fessura, ho avuto una colluttazione con lui e glielo ho sottratto.» Poi, un po' riluttante, glielo porse dicendo: «Stavo giusto per consegnartelo, Signore!»
«Ora, devo portare questa nullità al cospetto dello Sciamano. Spero che lo condanni a marcire per sempre nel ventre del Grande Verme. Poi, dovremo finire il nostro discorso» aggiunse rivolgendosi minaccioso a Kitzo. Nel frattempo Djeek, ormai cianotico, si dimenava nel tentativo di respirare.
Registri di Dharta Misathon (undicesimo giorno del mese quarto nell'anno 11522).
Senilità.
«Ora, grazie a te, mi ingrazierò lo sciamano!» Hork si trascinava dietro il povero Djeek che, lungo il tragitto, aveva subito percosse di ogni genere.
«Spero che questo bastone abbia qualche valore» continuò mentre per diletto glielo piantava su un piede. Djeek fece per urlare, ma ricevette un altro colpo sul torace che gli troncò il respiro.
Passarono nei pressi del vivaio, dove alcuni compagni seguivano la scena con interesse e ilarità; raggiunsero, infine, il Santuario di Corrupto nei cui pressi era stato inchiodato a un palo un goblin con un orecchio mozzato. Questi usava le ultime forze rimastegli per bestemmiare e inveire contro gli straziatori che, già, avevano iniziato ad assaporare le sue carni.
Le guardie, nel frattempo, avevano trovato un altro passatempo: giocavano passandosi a suon di calci e lanci un cucciolo di lupo dal pelo nero. Ogni tanto, al poveretto veniva concesso un attimo di pausa, giusto per prolungargli l'agonia: questo si rialzava malfermo e provava a mostrare i denti, ma il suo tentativo di ringhio veniva subito trasformato in un nuovo guaito, poiché il pestaggio riprendeva tra risate e urla selvagge. Per i goblin, non esisteva nulla di più appagante che torturare creature indifese. Preferivano i neonati umani, ma, di qualsiasi specie esso fosse, un piccolo da seviziare era comunque una tentazione irresistibile. I lupi erano troppo importanti per poter essere uccisi, quindi non era concesso maltrattarne troppo i cuccioli, a meno che questi non facessero parte dello scarto della nidiata. Evidentemente, quel malcapitato lo era: esso sembrava avere ancora gli occhi semichiusi come i nati prematuri; dalla fisionomia doveva essere addirittura un groppalupo, ma le dimensioni erano più simili a quelle di un cucciolo di lupo. Era nato perdente ed era destinato a morire per il diletto dei più forti. Djeek sentì una morsa gelida nel cuore nel vedersi prossimo a subire un destino analogo e, quasi rassegnato, si lasciò sbattere con la faccia a terra.
Hork, tenendolo inchiodato al suolo con il bastone, richiamò l'attenzione delle guardie: «Miei padroni, perdonatemi l'interruzione, ma ho un fatto importantissimo da riferire allo sciamano.»
Il loro capo, Ioro, si fermò di colpo, gli altri lo imitarono in silenzio. Poi, si avvicinò lentamente all'addestratore squadrandolo: continuava a portarsi dietro il cucciolo tenendolo appeso per una zampa posteriore. I goblin non sudano, ma Hork sembrava quasi farlo, tanto era pietrificato dal terrore.
Quando la guardia del Tempio gli arrivò vicino, lo percosse ripetutamente in faccia servendosi del lupacchiotto, quindi avvicinò le loro teste dicendo: «Dai, adesso, fate pace: datevi un bel bacetto!»
La bestiolina, ritrovandosi con il muso schiacciato sul viso del goblin, tentò di morderlo e l'altro fece lo stesso. Poi, Ioro lanciò il cucciolo a un compagno e cominciò a ridere: gli altri lo imitarono.
«Allora, misero lavoratore! Cosa hai da riferire di così importante da interrompere le nostre attività e da invocare, addirittura, l'intervento dello sciamano? Spero che sia come dici tu, altrimenti dovrò prenderti a calci!» Come esempio di ciò che gli avrebbe fatto, tirò una pedata sul fianco di Djeek. Il malcapitato sentì come se tutte le interiora volessero scappargli fuori dalla bocca. Le percosse di Hork, al confronto, erano carezze amorevoli.
«Mio Signore. Ho riportato indietro questo otre che il vermiciattolo qui a terra ha riempito trafugando il Dono.» L'addestratore pesò attentamente le parole nel timore di irritarlo ulteriormente. Stava per fare riferimento al bastone, ma l'altro lo interruppe urlando: «Insolente! Vorresti asserire che noi ci saremmo fatti fregare sotto il naso da un lattante!»
«Fammi vedere!» aggiunse adirato strappandogli di mano l'otre con irruenza.
«Non volevo offendere, ma controlla: lì c'è il Veleno» balbettò.
«È vero!» constatò. Ioro fece per andarsene, ma proprio mentre Hork stava per tirare un sospiro di sollievo, la guardia roteò improvvisamente su se stessa, tagliandogli di netto il collo con la sua lama. «Questo è perché non hai sorvegliato a dovere i tuoi marmocchi!»
La testa rotolò a terra e Djeek che, ancora stentava a respirare per il colpo subito, si ritrovò faccia a faccia con il capo mozzato di Hork.
«Non ti sembra di aver esagerato Ioro! Ora dove lo troviamo un altro addestratore? In fondo, aveva ragione: non hai vigilato bene!» intervenne una raschiante voce familiare, la voce che soleva intonare il Rituale della Nascita.
Lo Sciamano Anziano Guro o, meglio, il Sommo Sacerdote di Corrupto era uscito dalla sua capanna piena di bizzarre decorazioni e trofei composti di ossa di varia origine. Indossava una pesante veste realizzata con pellicce di diversi colori, che quasi sommergeva la sua minuta corporatura. Come copricapo, usava la testa imbalsamata di un grosso groppalupo e, sulla spalla, poltriva un velenosissimo varano di palude. I radi e lunghi peli bianchi, oltre che la pelle secca e rugosa, ne dimostravano l'età avanzata: era, forse, l'unico vecchio del villaggio. Camminava poggiandosi a un bastone di legno marcio e aggrovigliato, sulla cui testa era appollaiato uno straziatore: il corvide era completamente spennato e la pelle nuda era stata decorata con arcani tatuaggi.
La guardia si voltò e prese a giustificarsi con lo sciamano accaldandosi. Djeek approfittò dell'attimo per strisciare fino al bastone e afferrarlo. Entrò subito in trance, avvertì le profondità della terra, provò quanto il suolo soffrisse della presenza del Verme Primordiale: si sentì come se qualcuno gli avesse infilzato una clava giù per la gola fino alle viscere. Aveva bisogno di vomitare, di espellere quel grosso corpo estraneo che lo straziava.
Nel contempo, lo sciamano chiudeva la discussione sentenziando: «Vista la tua inettitudine, Ioro, sarai tu il nuovo addestratore, ma prima, uccidi quel ladruncolo e portami il bastone che ha in mano: voglio esaminarlo.»
L'ormai ex capo delle guardie rivolse allo sciamano uno sguardo furibondo e si diresse verso Djeek per sfogare su di lui tutta la frustrazione: lo avrebbe ucciso nella maniera più dolorosa possibile. Quello, però, era il suo giorno sfortunato: vide il piccolo goblin contrarsi a terra come in preda a uno spasmo e, contemporaneamente, ci fu un tremito del terreno dovuto al formarsi di un piccolo crepaccio che si spalancò e si propagò passando tra le sue gambe fino a danneggiare il pozzo. Perse l'equilibrio e, cadendo male, si infortunò a un ginocchio. Lo sciamano, vedendo il totem appendersi da un lato pericolosamente, emise un grido stridulo: «Sacrilegio! salvate il Monumento!»
Quando le guardie, barcollando per l'improvviso sisma, si lanciarono a sorreggerlo, Djeek raccolse tutte le forze e si diede alla fuga.
Mentre si allontanava, correndo al massimo che la gamba ferita gli consentisse, sentì la voce dello Sciamano recitare una strana nenia rivolta a Corrupto. Di essa, colse solo le parole: carni, disgrazia e corrompi.
Si lanciò verso la palude, dove le acque marce lo avrebbero aiutato a nascondere le impronte e le tracce odorose. Però, sentì, immediatamente dietro di sé, un rumore di passi e un ansimare: evidentemente, le guardie si erano lanciate all'inseguimento prima di quanto l'incidente al totem gli aveva fatto sperare. Senza arrestarsi, si voltò e, con la coda dell'occhio, constatò che, in realtà, gli inseguitori erano ancora lontani: ciò che aveva sentito era il correre un po' goffo del lupacchiotto ammaccato. Raggiunse la palude e si diresse verso le acque un po' più profonde, finché non sentì un guaire dietro di lui: il cucciolo, non toccando più il fondo con le zampette, era costretto a nuotare, ma così non riusciva a tenere il passo di Djeek. Il goblin, non seppe mai perché lo fece: per empatia, perché lo sentiva affine a sé, forse. Prese in braccio il piccolo lupo e proseguì la fuga con lui.
Man mano che procedeva, si sentiva sempre peggio, come se la forza vitale lo abbandonasse, ma non gli diede troppo peso: quel malore, però, lo rallentava progressivamente e sentiva le voci delle pattuglie via via più vicine. Si fermò per un attimo, poiché, in maniera sin troppo prematura per un goblin, aveva bisogno assoluto di riprendere fiato. Quell'attimo fu sufficiente per scorgere nella sua figura riflessa sul velo d'acqua, qualcosa che non andava: aveva molti peli bianchi. Si guardò le mani e, con orrore, vide che la pelle era secca e rugosa: stava invecchiando!
Si avvide di essere vicino alla Grantana e decise di raggiungerla: questa, ormai, era crollata in più punti a causa delle ripetute scosse che gli aveva procurato con il bastone durante la caccia. Djeek ricordava di aver portato allo scoperto l'accesso a un alveo abbastanza grande da ospitarlo. Sfinito e ansimante, arrivò al nascondiglio e vi si infilò insieme al compagno di fuga: era ben nascosto sottoterra, ma l'accesso era scoperto e, annusando, lo avrebbero scovato immediatamente. Grazie al bastone, però, riuscì a increspare il terreno circostante in modo da camuffare le impronte e, quindi, a far crollare l'accesso al cunicolo. Si era tombato vivo e la sua età biologica aumentava in maniera ben percepibile, eppure era determinato a sopravvivere in qualche modo.
Poco dopo, avvertì le vibrazioni dei passi degli inseguitori seguite a breve dalle loro voci.
«Qui si sente di nuovo il suo odore: deve essere uscito dall'acqua in questo punto.»
«Guarda! Ci sono dei cunicoli: forse è acquattato in uno di quelli.»
«Bel topastro vieni fuori, vieni da paparino.»
Dopo alcuni minuti di calpestio frenetico tutt'intorno, si sentì imprecare: «Per Corrupto! Ma dove si è cacciato quel verme, non riesco a seguire una pista!»
«Boh? Sarà andato sottoterra a fare compagnia ai suoi simili.»
Djeek sentì raggelarsi il sangue, ma tirò subito un sospiro di sollievo, quando li sentì ridere a quella che, in realtà, era solo una battuta.
«Nei cunicoli, non c'è: forse voleva celarvisi, ma vedendo che non erano un buon nascondiglio è tornato a fuggire in acqua.»
«Probabilmente, ora è acquattato in qualche canneto come un ratto bagnato.»
«Comunque, non andrà lontano. Ho già sentito una volta lo sciamano proferire quelle parole: il vigoroso Doko lo Sgozzaelfi che aveva osato chiamarlo “cornacchia decrepita” è morto di vecchiaia poco tempo dopo.»
Se ne andarono ridendo di gusto per la malasorte di colui che un tempo avevano acclamato come loro campione. Doko, infatti, era stato l'unico goblin di quei tempi che aveva avuto l'onore di uccidere un elfo silvano. Gli altri venti goblin che erano con lui perirono tutti nell'impresa.
Djeek aspettò per diversi minuti e, quando stabilì che, ormai, fossero distanti, impugnò il bastone e si concentrò per aprire una via d'uscita. Le cose non andarono esattamente come voleva: infatti, si fece crollare addosso il soffitto. Solo quando stava per soffocare, in un ultimo disperato tentativo, fu espulso violentemente dal terreno per piombare, insieme al lupacchiotto, direttamente nella palude.
Per il goblin, lo schianto fu parecchio più doloroso del previsto e fu anche molto difficile rimettersi in marcia: la posizione rannicchiata, unita all'età che avanzava, lo avevano rattrappito.
Sapeva che sarebbe morto di vecchiaia entro poche ore, ma non si arrese, voleva e doveva al più presto raggiungere i confini di Grande Palude per fuggire dal pericolo più imminente degli inseguitori e poi... al poi era meglio non pensarci.
Doveva scegliere la direzione verso la quale fuggire. Sapeva che a Nord vi erano le montagne dei troll, un tempo, ma solo un tempo, dimora dei goblin: comunque, quella direzione non era percorribile senza passare troppo vicino al villaggio. Verso Sud, avrebbe trovato montagne, montagne e poi ancora montagne, fino al regno dei nani. Verso Ovest, invece, sarebbe arrivato al Pontificato, ma stando ai racconti, era meglio che vi stesse alla larga: non ci teneva a finire bruciato sul rogo. Era a Est che doveva fuggire, verso le terre di confine dell'Impero di Arsantis: lì, c'era il Regno di Faunna i cui villaggi erano la meta prediletta dei razziatori della sua tribù. Camminò seguito dal cucciolo, ma, man mano che procedeva, sentiva le forze mancargli e anche la sua andatura ne risentiva: infatti, mentre prima il lupo faceva fatica a tenergli il passo, dopo un'ora lo stesso doveva fermarsi ad aspettarlo. Aveva dolori dappertutto, sentiva l'umidità dell'acqua penetrargli nelle giunture con fitte acute. Stabilì che il destino della maggior parte dei goblin, cioè quello di avere una morte violenta, ma il più delle volte rapida e in età giovanile, fosse una vera benedizione.
Continuò a spingersi avanti, non sapeva bene neanche lui verso cosa. Sentiva l'alito fetido della morte attanagliarlo o, forse, era il suo stesso respiro che puzzava di putrefazione. Aveva il fiato corto e i passi si facevano sempre più lenti e brevi. Dall'alto, il gracchiare degli straziatori sembrava deriderlo o festeggiare in attesa del banchetto che li attendeva. Esausto, si fermò e, con la vista annebbiata, focalizzò a fatica la sua immagine riflessa sull'acqua: vide un essere più simile a una statua di creta grezza che a un goblin. Aveva lunghi peli bianchi e radi che gli spuntavano a chiazze sparse casualmente un po' dappertutto e le dita sembravano ramoscelli secchi e putrescenti: quando aveva visto lo sciamano, gli era sembrato molto anziano, ma solo in quel frangente potette contemplare cosa significasse essere veramente vecchi. Fece per riprendere a muoversi, ma le ginocchia non lo assecondarono e, con un tonfo, cadde nella sua stessa immagine riflessa, mentre perdeva i sensi.
Registri di Dharta Misathon (trentesimo giorno del mese quinto nell'anno 11522).
La capanna della strega.
Sognò di essere il Verme Primordiale. Gli bastava un solo piccolo sforzo per muoversi di centinaia di passi: attraversava la dura roccia come un pesce farebbe con l'acqua. Sentiva tutto il mondo appartenergli. Era forte e inarrestabile, ma, a un tratto, udì la voce dello sciamano e si sentì rattrappire: ogni movimento diventava sempre più faticoso e doloroso. Si mosse nella terra come un serpente d'acqua nuota nella palude ed emerse sotto la volta celeste. Avvertì il battere d'ali dei corvi e i suoni di una furiosa battaglia aerea tra questi e un maestoso cigno bianco. Quest'ultimo, puntando dritto in picchiata, sbaragliò la difesa dello stormo nero per andare a infilarglisi diritto nella gola. Nell'ingurgitarlo, avvertì nelle interiora una fitta fortissima che portò Djeek a dissociarsi dall'Emissario e tornare a essere se stesso, anche se molto vecchio. Si ritrovò intrappolato nello stomaco del Grande Verme insieme al suo amico lupo. Sulle pareti molli e putrescenti, erano trattenute da una melma collosa le figure urlanti di elfi sfigurati i quali presero a insultarlo tra gorgoglii soffocati.
All'improvviso, irruppe nello stomaco anche il cigno. Esso si avventò contro di lui: i due si cinsero in un abbraccio mortale. Caddero a terra ruzzolando tra piume bianche e schizzi di sangue nero. Alla fine Djeek riuscì a mordere il collo del suo avversario uccidendolo, ma sentì il suo sangue colargli nella gola come acido. Rimase a terra in preda convulsioni dolorose, mentre il lupacchiotto cercava di leccargli via il sangue del cigno dalla faccia, perché la stava corrodendo...
Si svegliò di soprassalto su di un giaciglio di legno marcio. Il suo piccolo amico gli leccava la faccia. Il sogno era svanito, lasciando indietro qualcosa, però: il dolore che gli attanagliava gola, stomaco e ventre era ancora lì, più intenso che mai. Urlò e si rotolò tenendosi il ventre; nel dimenarsi cadde giù dalla branda, nel frattempo il lupacchiotto guaiva girandogli intorno allarmato.
«Cos'è questo baccano!» sbraitò una voce gracchiante. «È ancora presto per svegliarti. Bevi questo!»
Djeek si sentì prendere per i peli della testa da una mano ossuta e, con lo sguardo appannato, vide una sagoma sinistra cacciargli in gola un qualche intruglio che lo fece sprofondare di nuovo nel sonno, questa volta senza sogni.
Quando si risvegliò, vide che il cucciolo dormiva ai suoi piedi. Era molto cresciuto. Infatti, la sua stazza era più che triplicata: per quanto tempo aveva dormito? Si sentiva ancora distrutto, ma il dolore allo stomaco era meno straziante. Così, ebbe la lucidità di guardarsi attorno. Si trovava all'interno di una capanna. Strutturalmente non era così diversa da quelle dei goblin: era composta di rami, tavole di legno e fronde per coprire le fessure più evidenti. Al suo interno, era accatastata una miriade di ossa, ampolle, contenitori, calderoni, strane verdure appese insieme a organi e pezzi di animali irriconoscibili. L'aria era talmente pregna di odori che, nel miasma, non riusciva neanche a distinguere quello del lupo che gli dormiva vicino. Continuando a guardarsi intorno, scorse la cosa più strana tra quelle appese: c'era un neonato di umano. Era stato fissato a una parete e aveva una canula infilata in un braccio: da essa gocciolava, molto lentamente, del sangue che andava finire in un'ampolla. Inoltre, aveva un tubo ficcato in gola attraverso il quale gli veniva somministrato del liquido bianco, probabilmente del latte. Il piccolo era ancora vivo, poiché cercava di urlare incessantemente senza produrre alcun suono a eccezione di qualche gorgoglio: aveva una piccola incisione sul collo a testimonianza di un intervento alle corde vocali.
«Ti sei svegliato!» sentì gracchiare dietro di sé e trasalì.
«Il mio siero è, ormai, talmente perfezionato che riesce ad annullare completamente anche una delle più potenti maledizioni che un sacerdote di Corrupto possa proferire» disse passandogli una mano rinsecchita e scura sulla guancia.
Solo in quel momento, Djeek si ricordò della sua vecchiaia e si accorse di essere ringiovanito. Stava per ringraziare la sua salvatrice, quando questa gli fece entrare le unghie nella faccia e con tono stizzito sibilò: «Ti invidio! Bravo! Sei stato una buona cavia. Ora, non mi servi più e quindi è meglio che ti uccida, infima creatura di Corrupto!» Quindi, ponendoglisi dinanzi con una piccola canna cava e aguzza, aggiunse: «Ma prima, ho bisogno di un po' del tuo sangue: sarà utile per le mie ricerche sull'antidoto.»
Djeek era troppo debole per reagire e non poté fare altro che osservare inerme la strana creatura mentre, con noncuranza, gli infilava il rozzo ago in una vena del polso.
Era davvero alta, ma la corporatura era magra e ricurva. La pelle rugosa era tesa tra le ossa sporgenti. Indossava uno cencio strappato e lordo di strati e strati di macchie di origine svariata. Le sue fattezze erano simili a quelle umane, ma dava anche l'impressione di essere una gallina spennata, tant'è vero che in alcuni punti, soprattutto sulle braccia, le spuntavano penne per lo più di colore nero; in effetti, aveva anche qualche rara piuma bianca.
Sul collo lungo e incurvato, faceva capolino un piccolo volto rugoso nel quale risaltava un naso adunco e ossuto, simile a un becco. Gli occhi erano fissi e senza palpebre, come quelli di un uccello: essa, infatti, per guardarsi intorno, muoveva la testa con piccoli e rapidi movimenti che facevano dondolare come un bargiglio la pelle molle sotto il mento.
Prese una fiala, la pose sotto la canula e vi raccolse un po' di sangue nero del goblin. Si voltò, raggiunse quello che doveva essere una specie di tavolo alchemico, con tanto di alambicco fumante. Ricavò un piccolo piano di appoggio scansando un cumulo disordinato di contenitori e ingredienti. Poi, pose la fiala con il sangue di Djeek sotto un tubicino collegato all'attrezzatura. Si recò verso l'altro angolo della stanza ove era appeso il piccolo di umano; prese l'ampolla piena e la sostituì con una vuota in modo da evitare che il sangue venisse sprecato. Tornò, quindi, al banco per versarlo nell'alambicco, azionò alcune manopole e, tra sbuffi di vapori maleodoranti, uno strano siero risalì una serpentina vitrea per poi gocciolare nel sangue nero del goblin.
La bizzarra creatura prese la fiala con delicatezza, la scosse lentamente per mescolarne il contenuto divenuto di colore rosso cupo, si voltò verso una piccola finestra e guardandola controluce, esultò: «Perfetto! Ora, vediamo se funziona.»
Prese un grosso contenitore di vetro, si praticò un taglio sul polso e vi fece colare un copioso rivolo del suo sangue. Esso si presentava nero, ma risultava stranamente costellato da piccole gocce brillanti, come le stelle nel cielo notturno. Quando ne ebbe raccolto la quantità che riteneva opportuna, immerse, con una smorfia di dolore, il braccio leso in un calderone fumante e lo tirò fuori con la ferita cicatrizzata. Versò, quindi, una goccia del siero contenuto nella fiala in quella che conteneva il suo sangue, mescolò con una bacchetta di vetro, si sedette e attese. Dopo un po', le gocce luccicanti sembrarono moltiplicarsi. Djeek vide drizzarsi le penne sulla schiena della creatura che nel frattempo, incitava: «Dai! Forza! Ancora un po' ed è fatta!» Poco dopo, però, la parte nera risucchiò lentamente le piccole zone brillanti. «No! Maledetto Corrupto!» La fattucchiera emise un urlo acuto e straziante. Con una manata violenta, mandò il contenitore a frantumarsi contro la parete.
Calò il silenzio e la creatura, mantenendosi la testa tra le mani piumate, si accasciò a terra disperata. Djeek ripiombò nel sonno poco dopo.
Fu svegliato da una voce umana tonante che intimava: «Vieni fuori di lì abominio, perché possa mondare con il fuoco la tua oscena esistenza!» Subito dopo, si senti il sibilo di una carica di frecce incendiarie. Una di esse entrò dalla finestra e andò a infilzarsi sulla parete di legno che, però, non prese fuoco.
«Sono Gavino, cacciatore di Streghe Scelto, al servizio di Sua Eccellenza Mansueto III Arcivescovo di Artenium e Grande Inquisitore. Vengo dal Pontificato in nome dell'unico Dio Katriel. Ho attraversato la Grande Palude insieme cinque delle migliori guardie della Curia per metterti al rogo. Non hai scampo, lurida creatura del Diavolo! Ti avverto, più tempo mi farai attendere, più lunga sarà la tua agonia tra le fiamme» continuò.
«Bla, bla, bla...» lo schernì tra sé e sé la fattucchiera. «Ma questi fanatici idioti del Pontificato non hanno niente di meglio da fare che venire a scocciarmi nei momenti meno opportuni?»
Un'altra carica di frecce si abbatté sulla capanna senza che l'incendiò appiccasse. Una freccia, però, entrando dalla finestra andò a trafiggere il piccolo umano appeso alla parete facendo trasalire la strega. «Ora, mi hanno davvero fatto arrabbiare! Quel piccolo era ancora nuovo, l'avrei potuto utilizzare per almeno altre dieci settimane! Maledetti!»
In quello stesso istante, il cucciolo di groppalupo, vedendo minacciato anche il suo amico, si fiondò fuori dalla finestra con coraggiosa audacia. Djeek, nel tentativo di trattenerlo, scese barcollante dalla branda giusto in tempo per vederlo stramazzare a terra colpito da uno strale.
Nel frattempo, la strega imprecava per aver perso la sua preziosa fonte di sangue puro. «Ora, tocca a me sparare!» sentenziò.
Regolò alcune leve e manopole fissate a una parete e poi, con un secco fendente di una piccola lama, recise una corda tesa tra il soffitto e un anello metallico posto sul pavimento. In quello stesso istante, dal tetto della capanna, una catapulta scaraventò addosso agli assedianti una pioggia di ampolle che infrangendosi sulle loro splendenti armature prese a scioglierle e, con esse, le loro carni. Quella che si prospettò a Djeek fu una scena agghiacciante persino per un goblin. Tra urla di strazio disperate, gli uomini correvano e si rotolavano a terra cercando di togliersi di dosso le vesti con le mani ridotte a moncherini fumanti. Per loro non ci fu scampo: morirono, tra spasmi di dolore, divorati dall'acido.
«Ecco fatto: tecnologia gnomica con un tocco di arte alchemica» mormorò la creatura piumata. «Spero che l'acido non li abbia rovinati troppo, potrei ricavare qualche ingrediente dai loro corpi a parziale risarcimento del danno che mi hanno arrecato.»
Djeek si lanciò verso la finestra per raggiungere il suo piccolo amico agonizzante, ma un improvviso strattone al collo lo fece ricadere all'indietro: non si era accorto di essere stato legato a una trave con un guinzaglio. Con tranquillità ritrovata, la strega disse: «Penso io al tuo cucciolo. In fondo, potrebbe tornarmi utile: è stato il primo ad accorgersi dei visitatori.»
Rientrò poco dopo, poggiò il lupo sulla branda dove era stato Djeek, estrasse la freccia, gli riempì la ferita con una mistura di erbe, poi vi versò del liquido preso dal calderone in cui aveva curato il suo braccio. «È prossimo alla morte, tuttavia tra qualche giorno si riprenderà.» diagnosticò.
Dopo qualche gorgoglio e alcuni tentativi andati a vuoto, Djeek, finalmente riuscì ad articolare la lingua per farfugliare la domanda: «Ma tu, chi sei?»
La strega, quasi sorpresa, rispose: «Che strano. Un goblin dotato di curiosità e che, per giunta, porta con sé un bastone catalizzatore. Invece di usare le tue misere energie per cercare di colpirmi alle spalle o fuggire, le utilizzi per fare domande. Veramente insolito...»
Continuò: «Bene, piccoletto: io non so cosa sono ora. So che prima ero un cignano e so che se fallirò nelle mie ricerche, sarò un'arpia come tutti gli altri della mia razza... in quest'epoca e in questi luoghi, sono conosciuta come la Signora della Palude… o la Strega se preferisci.»
«Cignano? Arpia?» ripeté Djeek interdetto.
«Veramente insolito. Direi, quasi, che il tuo assomigli a interesse scientifico. Va bene, non so neanche perché perda del tempo con un goblin a raccontare la mia storia, ma penso che mi farà bene conversare con qualcuno. Sorprendentemente, ti stai rivelando un buon animaletto da compagnia: vuol dire che ti sopprimerò dopo.»
La bizzarra creatura si mise comoda e cominciò a raccontare: «Molti, in Xantis, pensano che gli elfi di cristallo siano figli di Limpa, Dea della Purezza: si sbagliano! Essi non sono altro che creature originarie di questo mondo anche se, come dire, leggermente ritoccate dalla Dea per servirla meglio. I cignani sono la vera prole di Limpa: noi siamo stati direttamente generati dal suo Emissario, il Cigno di Cristallo.»
«Il Cigno di Cristallo, solcò i cieli con una scia di polvere splendente
Tutti gli elfi da essa investiti provarono sollievo e gioia: il loro aspetto mutò
Crebbero in statura e in purezza, i capelli divennero rilucenti come i diamanti» citò Djeek, ricordando il Rito della Nascita.
«Notevole...veramente notevole, mi chiedo se tu sia realmente un goblin. Il Cigno di Cristallo non è altro che un abitante di Càndore, il Mondo di Limpa. Esso è stato inviato in questa dimensione per permettere alla Grande Dea di contrastare Corrupto. Quello che questo canto non dice è che, prima dell'annichilimento, l'Emissario depose sette uova di diamante tra i ghiacci eterni dell'estremo nord: da esse, nacquero i primi cignani. Noi eravamo in tutto e per tutto suoi figli e quindi creature di Càndore, ma concepite per vivere in questo nuovo mondo. Un tempo, ero molto diversa da come mi vedi: come ora, avevo fattezze umanoidi, ma ero splendida e maestosa come un cigno. Il mio piumaggio era bianco, gli occhi splendevano come gioielli e le mie braccia, come ali candide attraverso le quali librarmi in volo. In quella remota epoca, il mio nome era Aliah.
La nostra natura era limpida e inalterabile, nessuna malattia poteva deturparci, nulla poteva scalfire la nostra purezza, neanche il tempo poteva influire sulla nostra eterna giovinezza. Eravamo una stirpe forte e dotata di profonde conoscenze scientifiche e alchemiche grazie alle quali iniziammo un'opera di purificazione: le paludi divennero splendidi laghi; le foreste oscure, allegri boschetti; i corvi, meravigliosi uccelli; rendemmo innocui gran parte dei serpenti velenosi. Eravamo una società potente e destinata a espandersi lentamente, ma inesorabilmente. Corrupto pose il suo occhio malevolo su di noi e, purtroppo, egli conosceva il nostro punto debole: eravamo puri in tutto, anche nel nostro pensare e agire. Non eravamo avvezzi ai sotterfugi e proprio l'assenza di malizia fu la nostra condanna.
Non sappiamo come avvenne, ma in qualche modo Corrupto o un suo servo in grado di farlo, riuscì a entrare nei sogni della Grande Sacerdotessa Violette, una dei Sette figli diretti del Grande Cigno. Spacciandosi per la Dea le dettò la formula che avrebbe permesso alla nostra specie di sopperire alla scarsa prolificità dovuta al fatto che eravamo semi-alieni in questo mondo. Io ero una sua giovane assistente. Con grandi aspettative preparammo l'intruglio e, come era nostra prassi, lo provammo prima su noi stesse e sui nostri compagni: funzionava! Ci sentivamo più energici e sentimmo avvampare il desiderio di accoppiarci. Dalle analisi, le nostre uova risultarono subito fecondate. Tutti i componenti dello stormo ne bevvero e tutte le femmine deposero uova fertili. Festeggiammo per giorni sognando una grande progenie in grado di purificare in breve tempo tutta Xantis... La progenie effettivamente fu numerosa, tuttavia le cose non andarono esattamente come avevamo immaginato.» Aliah proferì quest'ultima frase con una malcelata vena di sarcastica amarezza. Si alzò, guardò il suo corpo deturpato e, ridendo istericamente, si strappò alcune piume nere da una spalla e le lanciò via con ribrezzo. Dopo qualche istante, riprese: «La Gran Sacerdotessa e noi apprendiste fummo le prime a utilizzare la pozione, l'Inganno di Corrupto, e le nostre uova furono le prime a schiudersi. Ricordo ancora perfettamente la gioia che provai quando vidi le fratture increspare la superficie delle mie tre: per me, sarebbe stata la prima nidiata e rimembro altrettanto bene l'orrore che provai quando vidi gli abomini che ne vennero fuori. I miei figli, i miei unici figli erano neri e deformi con becchi adunchi, artigli d'aquila e voci di corvo. Corsi dalla Sacerdotessa per chiedere aiuto, o forse solo conforto. La trovai immobile con lo sguardo perso nel vuoto: sotto di lei, sette esserini informi, simili ai miei. Nel giro di poche ore, anche le altre consorelle accorsero e tutte si straziavano per lo stesso motivo. Piangemmo, ci disperammo e, insolitamente per la nostra razza, avemmo spunti di aggressione reciproca, ma alla fine, trovammo la forza di reagire. La Sacerdotessa ordinò ad alcune consorelle di volare tra i nidi della nostra comunità e avvertire tutti dell'accaduto, mentre io rimasi con lei per assisterla nella ricerca per la produzione di un antidoto. Passammo diverse notti insonni per trovare una soluzione alchemica, ma come mai era sino ad allora avvenuto, persino l'infallibile Violette faticava a trovarne una veramente efficace. La somministrazione non aveva alcun effetto evidente sui piccoli abomini, tuttavia su di noi, effettivamente, sembrava lenire quello strano senso di inquietudine violenta che si era manifestata. Fu proprio la somministrazione su noi stesse che ci fece compiere un altro errore di valutazione: non ci fece capire quello che stava avvenendo fuori. Erano passati dieci giorni quando, da una finestra, piombò nel laboratorio un mostruoso essere con piume quasi tutte nere. Alzò lo sguardo e, a stento, riconoscemmo in lei Laviah, una consorella. Questa, con un immane sforzo di autocontrollo, ci raccontò che tutti avevano cominciato a trasformarsi nel corpo e nello spirito e che ora regnavano solo morte e caos. Ci disse di fuggire e poi, si tolse la vita recidendosi la gola: lo fece per non uccidere noi. La Sacerdotessa raccolse in una sacca gli ingredienti più importanti, un paio di libri e gli appunti di quanto fino ad allora scoperto. Insieme, spiccammo il volo per fuggire. Mi voltai e vidi per l'ultima volta la Torre di Cristallo, alta fin sopra le nuvole, maestosa e splendente con le sue grandi guglie e i fieri archi che rifrangevano la luce nei colori dell'arcobaleno. Dopo poco tempo, fummo intercettate da uno stormo di centinaia di creature simili a Laviah: non più cignani, ma arpie. Violette capì che non era più possibile fuggire e l'unico modo per dare una speranza alla nostra specie era quello di affidarmi i suoi appunti e coprire la mia fuga. Certo, sarebbe stato meglio il contrario, visto che io non ero ancora una vera alchimista; d'altra parte, però, solo lei era in grado di fronteggiare tanti avversari. La Sacerdotessa si fermò in volo per affrontarli e, nell'allontanarmi, udii il suo canto come un lamento rivolto alla Dea. Poco dopo piovve, piovve l'acqua purificatrice di Limpa e quando, ormai lontana, mi voltai, vidi un'enorme spirale nera fatta di arpie convergere verso un unico punto luminoso nel cielo e tante creature abominevoli precipitare intorno ad esso in preda agli spasmi provocati da quella pioggia che per loro era letale. Ero ormai lontana diverse miglia, quando il punto bianco smise di brillare nel cielo.
Da allora, mi prodigo in una vita da esule e sempre da allora, conduco incessantemente le mie ricerche per ottenere un antidoto efficace. Forse Violette avrebbe trovato una soluzione nel giro di alcune settimane, mentre io, in millenni, sono solo riuscita solo a rallentare la trasformazione, ma come puoi vedere dal mio aspetto, non ad arrestarla né, tanto meno, a farla regredire. Eppure, la mia pozione è molto potente, visto che è risultata efficace sulla tua maledizione. Temo che, finché non avrò superato la maestria con la quale Violette ha miscelato l'Inganno di Corrupto, il mio antidoto non sarà abbastanza efficace. Ma come potrò io superare una dei sette diretti figli del Cigno di Cristallo? E poi, se mai dovessi riuscire nella mia impresa, come farò a somministrarlo alle arpie?» Su quegli interrogativi, quasi dimenticando ciò di cui stava parlando, cominciò a camminare avanti e indietro nella capanna mormorando frasi incomprensibili che esprimevano frammenti di ragionamenti complessi. «Ehm... se il sangue di un puro miscelato con estratto di loto quando la Luna di Cristallo è in congiuntura con la Nebulosa Marcia venisse fatto bollire usando come catalizzatore una piuma di cignano... no, non può funzionare perché l'ossigeno reagirebbe con i residui ferrosi… altrimenti facendo vaporizzare sangue di goblin corrotto e ripristinato....no, no, no!»
Continuò così per alcuni minuti, finché Djeek non decise di intervenire per darle un po' di conforto. «Ehm... Signora. Non prendertela. Mi hai detto che prima assomigliavate a cigni e ora a corvi. Una volta, ho visto un cigno e, se può confortarti, non mi è sembrato un granché, anzi direi proprio che sono meglio i corvi. Secondo me il Grande Corrupto vi ha fatto un favore: ora siete più prolifici e da quel che so, le arpie sono un po' dappertutto e, inoltre, siete diventati anche meno ingenui.» Convinto di averla risollevata, concluse con candida soddisfazione: «Non devi prendertela per qualche piuma nera, in realtà esse ti donano.»
Aliah arrestò immediatamente i suoi ragionamenti e rimase immobile per qualche istante: stentava a credere a quello che aveva appena udito. Poi, scattò di colpo prendendo il goblin per il collo e, facendogli entrare le dita artigliate nella carne, gli urlò in faccia: «Stupida e miserrima creatura di Corrupto! Come puoi prenderti gioco così della madre delle disgrazie, della caduta di un'intera grandiosa stirpe? E io, come potuto confidarmi con un simile abominio?»
Stava quasi per strangolarlo quando, in un lampo di lucidità, si interruppe perché si accorse di qualcosa di anomalo. Lo lasciò e cominciò a riflettere ad alta voce. «I suoi occhi sembravano sinceri quando ha parlato: possibile che non volesse intenzionalmente offendermi? Strano... Vediamo: se io fossi un goblin alla mercé di qualcuno, sicuramente farei di tutto per non provocarlo, striscerei come un verme attendendo con astio il momento giusto per fuggire o vendicarmi. Che razza di goblin sei?»
Djeek fece per risponderle, ma fu subito interrotto: «Taci! Chi ti ha detto che puoi parlare! ...uno scherzo della natura, un goblin ingenuo quanto un cignano, un goblin... puro.» Prese a ridere istericamente. «Sei un vero insulto per Corrupto stesso: un figlio reietto. Penso proprio di lasciarti in vita: sono convinta che la tua esistenza leda l'orgoglio del tuo Dio, almeno quanto la mia misera condizione addolori il cuore di Limpa» concluse.
Per quanto sollevato dalla decisione presa dalla strega, Djeek rimase affranto a causa delle parole da lei pronunciate. Esse, evidentemente, avevano colto nel segno descrivendolo con cruda sintesi proprio per quello che, interiormente, era convinto di essere: una creatura malriuscita di Corrupto e come tale, sentiva di aver meritato tutti i maltrattamenti e gli scherni a cui i suoi simili lo avevano sottoposto. Eppure, il Dono lo aveva comunque aiutato a lenire il dolore della sua piaga: quindi, il suo Dio non lo aveva rinnegato del tutto. Fu in quel momento che si rese conto che anche la ferita al polpaccio era perfettamente guarita e con sorpresa esclamò: «La mia gamba! È come nuova!»
«Ah, sì! Per me è stato facile curarla» continuò la fattucchiera. «Strana ferita quella: in alcuni punti sembrava indurita come dall'incantesimo di pelle di pietra e, nonostante fosse lercia di fango, era incredibilmente quasi priva di infezioni. Se non fosse che tu sei solo un giovane goblin, avrei quasi pensato che fosse stata trattata con il Veleno di Corrupto. So bene, però, che il suo utilizzo è consentito solo alla classe dominante del branco e, quindi, ho subito scartato quest'ipotesi assur...» Si interruppe perché scorse nello sguardo di Djeek che l'ipotesi, così assurda, non era.
«Ho rubato il Dono dal Santuario per salvarmi la vita» confessò il goblin ritenendo che una tale colpa fosse universale e imperdonabile in ogni angolo di Xantis. Poi, nel tentativo di pulirsi la coscienza, continuò: «L'ho danneggiato... Ho danneggiato il Monumento per coprirmi la fuga. Merito di essere punito.»
L'altra sbottò a ridere e, con voce di cornacchia, constatò intenerita: «A quanto pare, non sei solo un reietto del tuo Dio, tuo malgrado sei anche un suo flagello, stolto imbranato! Ad ogni modo, ora torna tutto: ecco perché uno sciamano ha invocato una maledizione così potente contro un insignificante cucciolo. Ecco perché eri inseguito con tanto fervore...» Poi, con un lampo di dolore, aggiunse lentamente: «Ecco perché il mio esperimento non ha funzionato: ero sicura che miscelando il sangue di una creatura innocente come il neonato, con il sangue di una creatura guarita da una maledizione di Corrupto, avrei ottenuto una formula infallibile, ma il tuo sangue era stato contaminato dal siero del Grande Verme e quest'ultimo ha avuto il sopravvento. Che tu sia dannato! Quando ti ho trovato, ho ringraziato Limpa: finalmente avevo l'ingrediente mancante, ma quella stupida ferita e ciò che hai usato per curarla hanno rovinato tutto! Dove lo trovo più, un goblin affetto da una maledizione di senilità?»
Djeek se ne sentì quasi in colpa ed espresse le sue scuse più sincere, scuse che suscitarono l'ilarità della strega. Ridendo di gusto osservò: «Se esiste un goblin che si scusa perché l'essersi salvato la vita abbia inficiato l'esperimento di una persona che appena conosce, vuol dire che nella vita ci si può imbattere nelle cose più bizzarre e, forse, in futuro anche nella soluzione al mio millenario problema. Comunque, almeno ho capito perché non ha funzionato.» Smise di ridere e con una nuova luce nello sguardo, bisbigliò: «Esistono ancora delle speranze.»
Registri di Dharta Misathon (nono giorno del mese sesto nell'anno 11522).
Forte di Legno.
Djeek si svegliò infastidito dalle prime luci dell'alba che filtravano attraverso le fessure della baracca: i raggi del sole, quella mattina, erano eccezionalmente intensi a testimonianza di una giornata che, purtroppo, si preannunciava inusualmente tersa e priva di nebbia. Aveva dormito pochissimo, un po' perché impegnato a mettere ordine tra tutte le cose che gli erano accadute, un po' perché la strega Aliah aveva preparato intrugli per tutta la notte borbottando frasi disgiunte e incomprensibili nel loro insieme.
Si voltò verso il tavolo su cui era stato deposto il piccolo groppalupo e tirò un sospiro di sollievo nel vederlo respirare flebilmente.
«Non preoccuparti per la bestiola: vivrà. A proposito come si chiama?»
La domanda lo colse di sorpresa: non sapeva che si potessero dare dei nomi anche agli animali. Poi, pensò alla natura fisica particolarmente fragile rispetto ai suoi simili e contemporaneamente ricordò il coraggio con cui si ribellava alle torture infertegli dai goblin e all'audacia con cui si era scagliato contro quegli umani fanatici per difenderlo... «Zadza. Zadza è il suo nome» stabilì.
«La mia domanda era una provocazione: so bene che i goblin non danno nomi agli animali. Eppure, tu hai rotto i rigidi schemi che ti hanno inculcato e in pochi attimi, hai trovato un nome per il tuo cucciolo» rispose l'altra interdetta.
«L'ho chiamato Zadza che significa ape nel mio dialetto, perché è piccoletto, tuttavia pieno di coraggio. L'ape, infatti, quando punge per difendere l'alveare, lo fa pur sapendo che ciò la porterà alla morte certa» spiegò Djeek pensoso.
«So che l'ape è un simbolo sacro per voi goblin: essa ricorda che se Corrupto elargisce un dono, vuole sempre qualcosa in cambio» aggiunse Aliah.
«... E Corrupto donò all'ape una goccia del suo sangue, ma perché ne usufruisse pretese in cambio la vita» citò Djeek attingendo alla memoria tra i canti sacri che segretamente udiva provenire dai rituali che si svolgevano nel Santuario.
La strega interruppe bruscamente la conversazione e avvicinandogli la faccia gli disse con tono fermo e minaccioso: «Bene, ora ti libero e, siccome ho salvato la vita sia a te che alla tua bestiola, voglio anch'io qualcosa in cambio: dovrai svolgere un piccolo servizio per me. Però, non mi fido ancora di te, quindi, terrò con me Zadza e il tuo scadente bastone catalizzatore. Sappi che saranno entrambi spezzati in due se le cose non andranno come ti chiederò!»
Djeek, visibilmente intimorito, non poté fare altro che annuire in obbediente silenzio.
«Allora! Muoviti!» ordinò la strega. «Comincia a trasportare questi barili sul carretto qui fuori e bada che non cadano, nel frattempo ti darò le istruzioni che dovrai eseguire con diligenza.»
Djeek, mestamente, prese a trasportare i barilotti facendoli rotolare fino a una piccola portantina a due ruote e, con un notevole sforzo, li issava sul piano di appoggio.
Nel contempo, Aliah, nell'osservarlo lavorare, cominciò a spiegare: «Per poter condurre i miei esperimenti, ma anche per rallentare l'avanzare della mia mutazione, ho bisogno di un ingrediente fondamentale: il sangue di un innocente attinto da un neonato che, grazie all'alchimia, riesco a tenere in vita anche per diversi mesi prima di sostituirlo. Come hai potuto constatare di persona, quegli stupidi fanatici mi hanno ucciso il poppante e ora ho bisogno di uno nuovo. Ciò che stai caricando è il prezzo che pago per avere in cambio un altro lattante ed è maggiore di quello che elargisco di solito: sia perché la richiesta è improvvisa e urgente, sia perché non posso usufruire dello sconto che ho, quando sono fortunata e riesco a dare indietro quello vecchio ancora vivo.»
Djeek si fermò per riflettere e fece per dire la sua, ma fu subito spronato a riprendere il lavoro. La strega continuò: «Quello che stai caricando è un concentrato di una mia ricetta alchemica segreta, l'Essenza di Roccia. Essa, mischiata in piccole dosi alla mistura che gli umani usano per impermeabilizzare il legno, fa in modo che questo fossilizzi in superficie e diventi più robusto e soprattutto, inattaccabile dalle fiamme. Ora, visto che qui, nel Regno di Faunna, c'è la più estesa e rigogliosa foresta dell'Impero, il legno abbonda e da sempre viene utilizzato per costruire le città ed erigere le mura.»
«Ecco perché la freccia incendiaria che ha colpito la capanna non ha funzionato!» la interruppe Djeek che ansimava, poiché provato sia dalla convalescenza sia dall'eccessiva intensità della luce e del calore di quella brutta giornata di sole.
«Taci e continua a lavorare!» ribatté con rabbia Aliah irritata dall'essere stata interrotta. «Dovrai recarti a Est, nella vicina città di Forte di Legno il cui reggente è il Marchese Melton V Hemminger. Dirai che ti manda la Signora della Palude e dovrai chiedere del Maestro Aaron Mansil, l'alchimista, si fa per dire, di corte. In cambio, sai cosa voglio. Sicuramente, come al solito, non faranno storie per procurarmi un trovatello o un figlio indesiderato per i miei scopi: in fondo se il Marchese ora è più ricco del Re stesso, lo deve proprio alla resina miracolosa che fa produrre nei suoi grandi laboratori utilizzando come ingrediente segreto la mia pozione trasmutante. Tu dovrai riportarmi il pargolo vivo e non farti prendere dalla tentazione di divorarlo, ché da voi goblin ci si può aspettare di tutto.»
«Se mi ammazzano e prendono comunque le merci?» chiese Djeek, niente affatto desideroso di recarsi in una città di umani, se non per compiere una razzia come nei suoi sogni epici di giovane goblin.
«Non ti preoccupare per questo, non lo faranno, ciò che porti, opportunamente diluito, sarà sufficiente per preparare circa diecimila barili di resina che soddisferanno i bisogni costruttivi del Regno al massimo per un semestre. Poi, avranno ancora bisogno di me e, come spesso avviene, saranno loro a venire con un carro per prelevare la merce. A ogni modo, non interrompermi più e continua ad ascoltare! Dovrai seguire una strada del bosco che ho contrassegnato con delle incisioni a forma di teschio sugli alberi. Nei decenni che ho trascorso qui, ho fatto accadere terribili incidenti di origine inspiegabile lungo quel sentiero. Così, ora, tutti nel Marchesato lo considerano maledetto e vi si tengono alla larga: lì, non rischierai di essere aggredito e derubato dai briganti. Ricordati che ogni qualvolta troverai il segnale, dovrai percorrere trenta passi costeggiando il sentiero a sinistra, poi trenta costeggiandolo a destra e poi dovrai tornare nel sentiero fino al segnale successivo. Attieniti scrupolosamente alle mie indicazioni, se non vuoi che capitino anche a te i suddetti incidenti: quindi, occhio ai segnali!»
Djeek finì di caricare il carretto e, sollevandolo per le due lunghe aste apposite, prese a trasportarlo verso Est inoltrandosi nella foresta lungo il sentiero indicatogli. Andava in missione, ma non ricevette alcun saluto se non la minaccia: «Ricordati del tuo bastone e della tua bestiola!»
Effettivamente, Aliah aveva individuato bene le leve giuste per costringerlo a fare ciò che voleva: entrambi erano entrati a far parte della sua vita da poco, ma era come se fossero stati generati con lui. Li sentiva parte di sé, una larga fetta della propria persona. Senza di essi, tornava a essere Djeek, l'insignificante verme. Il bastone gli aveva donato poteri eccezionali che lo rendevano in qualche modo speciale fornendogli una formidabile cura alla sua carenza cronica di autostima. Zadza... Zadza gli era affine nel destino, ma era molto più impavido e, inoltre, aveva dimostrato di essere pronto a dare la vita per lui, quando, fino a quel momento, l'unica cosa che gli altri erano disposti a elargirgli erano solo insulti, umiliazioni e percosse.
«Il Bastone è la mia forza e Zadza il mio coraggio» pensò Djeek ad alta voce. «Sono doti che non ho in me, ma noi tre, insieme, siamo un grande goblin.» Nel calarsi in quei pensieri, aveva completamente dimenticato di concentrarsi sui segnali e quindi, passatone uno senza seguire le indicazioni della Strega, fu bruscamente riportato alla realtà da un'esplosione di fiamme verdi che carbonizzarono all'istante un malcapitato scoiattolo, pochi passi davanti a lui. La lezione gli servì e, per il resto del tragitto, si concentrò sui segni a forma di teschio e fu molto meticoloso nel contare i passi. Il percorso era scosceso, ma le grandi ruote del carretto rivestite di un materiale mai visto, morbido e di colore nero, rendevano agevole il suo trasporto. Così, giunse nei pressi della meta prima del tramonto: era stanco, ma non stremato, anche perché lungo il percorso, aveva razziato diversi nidi di uccelli mangiando uova o piccoli pennuti non ancora pronti per il volo.
Quando fu in vista della città, scorgendone le alte mura di legno, ne rimase impressionato e in un qualche senso intimorito. In quel momento, comprese appieno perché i razziatori si limitassero a saccheggiare solo i piccoli e poveri villaggi, evitando le più ricche e prospere città. Assediare e conquistare una città fortificata non era impresa da poco e, sapendo che le sue mura erano di legno trasmutato e ignifugo, l'impresa appariva pressoché impossibile.
Eppure, c'erano stati tempi in cui le orde dei goblin erano in grado di conquistare e radere al suolo fortezze ben più maestose di quella che gli si prospettava davanti:
«Nessuna fortezza resisteva alle schiere di Corrupto a milioni giungevano e come uno sciame di termiti scalavano mura, attraversavano fossati e aprivano brecce. Cadde Roccathon con le mura alte cinquanta passi; cadde Velatia circondata dalle acque mortali; cadde Aquiladria arroccata sulle alte vette; cadde Artanthia dalle dieci cinte...» recitava Djeek mentre, uscito dal folto della vegetazione, si avvicinava a Forte di Legno.
Quando si approssimò ulteriormente, vide che la grande porta occidentale era aperta: evidentemente, la situazione era abbastanza tranquilla e le scorribande dei pochi goblin rimasti a Grande Palude, da tempo, non interessavano più le città. Sulle mura, garrivano tre grandi bandiere: una con il simbolo di un umano nudo a gambe e braccia spalancate su sfondo bianco, l'altra con un arco e freccia su sfondo verde e quella centrale con un'ampolla sempre su sfondo verde. L'ampolla doveva essere il vessillo del Marchese, visto che, come aveva appreso da Aliah, fondava la sua fortuna sulla produzione della resina per il legno; l'arco e la freccia erano il simbolo del Regno di Faunna, dato che le foreste erano il territorio di caccia prediletto da tutti i nobili del continente, mentre per esclusione, l'umano nudo rappresentava l'Impero, anche se non ne comprendeva bene il significato. A guardia della porta, erano appostate due sentinelle, mentre altre due erano posizionate sulle torrette poste ai due lati dell'accesso. Fu proprio una di queste che scoccò una freccia: essa si andò a conficcare sul legno del carretto in segno di monito.
«Altolà, goblin! Come osi avvicinarti così spavaldamente alla nostra città?»
Djeek, era terrorizzato, gli umani che era uso vedere erano quelli schiavizzati che i razziatori riportavano nudi, incatenati e disarmati. Questi, invece, indossavano una cotta di maglia che copriva anche la testa e su di essa era posta una corazza verde di cuoio indurito recante il simbolo dell'ampolla. Oltre che dell'arco, disponevano di una spada mantenuta tramite un fodero alla cintura e di un coltello da caccia inserito in un'apposita fibbia sul corsetto.
Il goblin, disorientato e un po' inibito, esitò troppo nel dare una risposta e ciò gli costò che un'altra freccia gli passasse sibilando accanto all'orecchio.
«S-so... sono stato inviato dalla Signora della Palude, devo vedere il Maestro Aaron Mansil. Non tirate vi prego!»
«Ah! Quella vecchia strega mostruosa. Sei in anticipo» osservò quello che doveva essere il capitano. «Arnold, va a controllare la merce!» ordinò poi.
«Signor sì. Capitano Marbel!» Una delle guardie al cancello, un tipo magro dall'aspetto astuto, si avvicinò a Djeek con passo al tempo stesso rapido e circospetto. Puntandogli coltello da caccia, gli ordinò: «Apri quel barile in basso a destra!» e, fatti un paio di passi indietro, rimase a guardare arrotolandosi tra le dita uno dei suoi baffetti all'insù.
Djeek, non disponendo di alcun attrezzo per aprire il barile, provo in tutti i modi; tuttavia il coperchio non voleva saperne di venire fuori dall'incastro. Stava per desistere, ma quando vide un'altra freccia conficcarsi nel terreno nei pressi di un suo piede ce la mise tutta: strinse il barile tra le gambe, infilò le dita tra le fessure e tirò con tutta la forza di cui disponeva, sentì anche un unghia spezzarsi, ma continuò. Il coperchio saltò fuori di colpo facendolo ruzzolare a terra e parte del contenuto polveroso gli si versò addosso pietrificando all'istante gran parte della sua veste e anche alcune zone della sua pelle. Provò a rialzarsi, ma il vestito, ormai rigido, gli impediva ogni movimento. Si ritrovò a dimenarsi inerme con la schiena a terra come una tartaruga rovesciata sul dorso.
Le guardie persero ogni freno inibitorio di serietà impostogli dal ruolo e sbottarono a ridere di gusto; ciò almeno, finché il capitano, ricomponendosi, ordinò: «Jerome porta la biga dall'alchimista e, visto che ti ci trovi, caricaci sopra quel goblin testuggine» e trattenendo a stento le risate, aggiunse: «Puoi anche non legarlo, quel cretino l'ha fatto da solo. Arnold va con loro, sarà Sir Mansil a darti nuove istruzioni.»
Jerome, una guardia corpulenta dallo sguardo ottuso, raccolse senza sforzo il barile, lo chiuse e lo issò sul carretto, poi tirò su l'inerme goblin usando la sua cintola come fosse un manico rigido e lo depositò sul carico. Entrarono, quindi, nell’abitato. Arnold, con occhi vigili, si occupava di scortarli impedendo ai curiosi di avvicinarsi troppo.
Djeek osservò con grande curiosità l'interno della città. Vide umani indaffarati per le strade e bambini correre e giocare per le vie: alcuni lo indicavano e lo guardavano con interesse, altri ridevano divertiti, altri ancora correvano allarmati dai genitori, piangendo. Poi, passò in un mercato e, tra tutte le cose che osservò, fu colpito da una grande gabbia di conigli: doveva essere un sogno, tanti roditori inermi pronti a essere presi e divorati con il cuore ancora pulsante. Desiderò di poter entrare in quella gabbia e dare sfogo a tutti i suoi istinti famelici assaggiando un po' qua e un po' là tutto quel tesoro culinario. Vide anche altri animali morti e appesi, ma non avevano la succulenza delle prede vive: che spreco ucciderle prima di assaggiarne il sangue ancora caldo. Ciò che non capiva era, come di fronte a tutto quel ben di Corrupto, gli umani non si azzuffassero per impadronirsi del bottino migliore.
Le abitazioni, seppur di legno, avevano un aspetto solido e rifinito ed erano prive di falle. Le porte e le finestre potevano essere sprangate. La cosa che più lo colpì era che le case avessero più piani e che stessero comunque in piedi. Per quanto urbanisticamente caotica, per Djeek, quella città aveva un aspetto talmente ordinato e lindo da inquietarlo.
A un certo punto, Jerome portò il carretto ai margini della via, si fermò e, insieme a l'altra guardia, si immobilizzò in una strana posa rigida ed eretta con una mano sulla fronte come per ripararsi dal sole: tutto per permettere il passaggio di una carovana formata da un grosso carro corazzato. Esso era trainato da ben sei palafreni con a seguito una dozzina di cavalieri umani vestiti con armature metalliche sfavillanti e sontuosi mantelli recanti il simbolo dell'Impero.
Quando il convoglio fu passato, Arnold riprese a muoversi dicendo: «Finalmente, questi presuntuosi degli Imperiali lasciano la città.»
«Ben detto! Erano qui da meno di tre giorni e già non ne potevo più della loro supponenza e del loro atteggiarsi: ci trattano come insignificanti guardie provinciali, eppure siamo noi che vigiliamo sui loro confini occidentali e, ogni giorno, teniamo lontane le insidie che vengono dalla Palude.»
«Non ti sarai offeso perché ieri uno di loro ti ha chiamato stupido gorilla?»
«Io offeso! Come ti permetti! E a te, allora, che hanno detto che pesi meno della tua armatura?»
«Su non fare il permaloso! In fondo, se adesso questa città prospera lo dobbiamo soprattutto all'oro che le casse imperiali ci forniscono in cambio della resina miracolosa. E poi, ringrazia che non sia venuto anche l'Imperatore per una battuta di caccia!»
«E già! Mi ricordo tre anni fa! Sono rimasti per ben quattro settimane e le guardie d'elite erano ancora più spocchiose e presuntuose di queste.»
Superato il mercato, Jerome condusse la biga attraverso un'altra porta sorvegliata che, attraversando una cinta muraria, conduceva nella parte più interna della città. Lì le case, seppur lignee, erano molto più grandi e meglio rifinite. Un aspetto in particolare lasciò Djeek interdetto: mentre nelle piccole abitazioni della periferia erano ammassate molte persone, i grandi palazzi di quel quartiere erano abitati da pochi umani. Questi ultimi erano vestiti in modo bizzarro con abiti lindi, pieni di fronzoli e ricami la cui utilità gli risultava oscura. Stranezze degli uomini...
La cosa che più lo infastidiva era l'odore nauseabondo, dolciastro e stomachevole dei fiori che infestavano davanzali e balconi con i loro colori vistosi e così diversi dalla bellezza grigiastra dei muschi e delle muffe che crescevano nella sua Grande Palude. Si rese conto di odiare quel quartiere perché era algido e privo di vitalità; non vi era traccia dell'inebriante caos che regnava nella sua terra d'origine... il mercato era senz'altro il posto migliore di Forte di Legno e, all'interno del mercato, il recinto dei conigli.
Arrivarono davanti a un imponente e sontuoso palazzo a ridosso della cinta muraria interna: dal secondo piano dello stesso, partiva un lungo ponte coperto che scavalcava le mura conducendo ad un grosso edificio dai cui comignoli fuoriusciva del vapore. L'odore ricordava quello dei barili di Aliah: doveva essere lo stabilimento per la produzione della vernice ignifuga.
Arnold attraversò il piccolo cortile, salì alcuni gradini e bussò con un bizzarro anello metallico all'enorme porta intarsiata. Poco dopo, venne fuori un umano dentro strani abiti neri e bianchi che lo tenevano imbrigliato in posizione eretta e rigida quasi quanto la sua veste pietrificata facesse con lui. I due si parlarono sottovoce e poi l'uomo dicendo: «Con permesso» rientrò in casa. La guardia attese fuori dalla porta, finché l'altro non uscì di nuovo annunciando: «Signori, il Maestro Aaron Mansil, Alchimista Reale». Venne fuori un uomo magro che portava le braccia dietro la schiena. Egli indossava una ridicola calzamaglia a strisce e un sontuoso corpetto decorato da diversi gioielli. Aveva dei lunghi baffetti le cui punte lambivano guance rossicce e una parrucca bianca con dei grandi boccoli ai lati. «Dov'è?» ringhiò con un ghigno feroce. «Dov'è l'assistente di quella strega millantatrice?»
«Jerome, portagli il goblin» disse Arnold.
La guardia sollevò con un braccio Djeek e lo pose in piedi dinanzi all'alchimista.
«Un goblin?»
«Un goblin.»
«L'altra volta era un ladruncolo cavian, ora ha fatto addirittura di peggio!» Poi, mettendo in mostra il pezzo di trave bruciata che aveva in mano, chiese: «Sai cos'è questo, fetido goblin?»
Djeek, paralizzato dalla paura, fece per balbettare una risposta, ma non aveva ancora aperto bocca quando Mansil gli sferrò una legnata sul naso che mandò in frantumi la piccola spranga. «Non mi interrompere, lurida bestia! È del legno bruciato… sì, bruciato nonostante il preparato della tua padrona! L'altro ieri, abbiamo subito un attacco da parte di un gruppo di briganti provenienti dal Buccaner e, alle prime frecce incendiarie, la sezione Sud-Ovest delle mura ha preso fuoco!» Quindi, tirando con furia assassina l'orecchio appuntito dell'inerme Djeek, urlò: «Hanno preso fuoco! Capisci stupido goblin! Se non trovo una soluzione sono rovinato! Ah, no! Stavolta quella strega non otterrà ciò che vuole... a meno che, non si presenti di persona e risolva la questione. Non si accettano più bizzarri assistenti e, soprattutto, non si accettano piccoli sgorbi puzzolenti!» Rifilò un calcio a Djeek mandandolo a rotolare per le scale come un barile, intrappolato com'era nella sua veste pietrificata. L'ultima cosa che sentì mentre perdeva i sensi fu: «Sbattetelo nelle segrete!»
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