Il Cane

Il Cane
Guido Pagliarino
Anno 1973, Torino: Il terrorismo di destra e di sinistra da anni imperversa in Italia e non farebbe di certo notizia che un uomo è stato morso da un cane, se non fosse che non soltanto ne è rimasto  orrendamente ucciso un noto eroe della Resistenza decorato con medaglia d’oro nonché uno dei più alti vertici dello strategico gruppo industriale Italiavolo: inviso ai neofascisti per la prima ragione, alle Brigate Rosse, delle quali suo figlio ventunenne fa parte, per la seconda. Come se non bastasse, la vita privata della vittima non è del tutto limpida . Infine il vice questore Vittorio D’Aiazzo troverà sì la soluzione, ma solo grazie a un’intuizione del suo amico Ranieri Velli, scrittore e giornalista di cronaca nera nel glorioso, plurisecolare foglio torinese Gazzetta del Popolo.
Anno 1973. Il fenomeno sociopolitico degenerativo del terrorismo, apparso in Italia verso la fine degli anni ‘60, è ormai entrato nella sua fase più tragica, gruppi armati di sinistra e di destra esercitano violenze in forme differenti ma tutte micidiali. Non farebbe di certo notizia, in tale atroce clima sociale, che un uomo è stato morso da un cane, se non fosse che non soltanto ne è rimasto orrendamente ucciso un noto eroe della Resistenza decorato con medaglia d’oro nonché uno dei più alti vertici dello strategico gruppo industriale Italiavolo: inviso ai neofascisti per la prima ragione, alle Brigate Rosse, delle quali suo figlio ventunenne fa parte, per la seconda. Le modalità della morte suggeriscono che quel cane sia stato addestrato appositamente per assassinarlo, per cui difficile è pensare senz’altro a una disgrazia, anche se la potentissima famiglia proprietaria dell’Italiavolo vorrebbe che così recitasse, il prima possibile, l’inchiesta del vice questore Vittorio D’Aiazzo, dirigente della sezione Omicidi della Questura torinese. Assassinio politico di fanatici di destra? Di estremisti di sinistra? Come se non bastassero le ambiguità, si scopre che la vita privata del morto non era del tutto limpida, come raccoglie e subito strombazza quella iena della stampa scandalistica: eccedendo, come fa notoriamente? Forse in questo caso no, dato che la stessa inchiesta di Polizia pare, a poco a poco, confermare l’esistenza di ombre, almeno per certi aspetti, nella vita privata dell’uomo. Alla fin fine però, nonostante le apparenze, non potrebbe essersi trattato solo e soltanto d’una deplorevole disgrazia? Vittorio D’Aiazzo troverà sì la soluzione, ma solo grazie a un’intuizione del suo amico Ranieri Velli, scrittore e giornalista di cronaca nera nel glorioso, plurisecolare foglio torinese Gazzetta del Popolo.


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GUIDO PAGLIARINO

IL CANE

ROMANZO
Guido Pagliarino
IL CANE
Romanzo
Distribuzione Tektime - Copyright © 2021 Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all’autore

Immagine di copertina: Un esemplare di cane da difesa Bandog. Fonte: Wikipedia L’enciclopedia libera
Nessuna persona realmente esistente o esistita appare in questo romanzo, a parte le figure storiche generalmente note citate e non partecipanti all’azione. I personaggi, i nomi di persona, di enti, ditte e società e di prodotti e i servizi che appaiono in questa narrazione e gli avvenimenti narrati sono del tutto immaginari. È da considerarsi assolutamente casuale e involontario ogni eventuale riferimento a persone reali e, in generale, alla realtà, presente o passata, personale, familiare, professionale o istituzionale.
Indice

Capitolo I (#ulink_100fd814-a714-515a-9348-7db18718e56c)
Capitolo II (#ulink_74e46af6-1376-568d-aee1-77ce9bd5635f)
Capitolo III (#ulink_ece085c4-4a59-53ba-957d-1af05eb861d4)
Capitolo IV (#ulink_47fb3da1-8801-5805-a0e2-4dd3b17aa087)
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
OPERE BASATE SULLE FIGURE DI VITTORIO D’AIAZZO E RANIERI VELLI
FOTOGRAFIA FUORI TESTO



Cartolina d’antan ritraente l’angolo fra via Garibaldi e corso Valdocco del palazzo in cui aveva sede la Gazzetta del Popolo. Nel basso della foto verso l’estrema sinistra di chi legge, dietro al tronco dell’albero centrale, s’intravedono la scala e il portone dell’ingresso.
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Capitolo I (#ulink_6175e46e-5e09-5b8d-bbbc-5b44c712954f)

La Gazzetta del Popolo era il più antico quotidiano torinese, nato il 16 giugno 1848 e morto senza più speranza di rinascita il 31 dicembre 1983, dopo anni in cui aveva sofferto cambi di proprietà e problemi economici finendo più d’una volta, per brevi periodi, quasi in coma. Era un foglio rivolto sin dalla fondazione alle classi di piccolo censo, portatore d’uno spirito critico sociale che aveva sempre mantenuto a parte, chiaramente, durante l’età fascista in cui tutta la stampa era stata imbavagliata. In epoca repubblicana, dopo importanti successi, aveva proseguito l’attività, sempre soffrendo avversità sin al suo decesso. La sua redazione, saldamente sindacalizzata, aveva guardato verso la sinistra democratica parlamentare cattolica e laica operando socialmente; per esempio, nel periodo della grande immigrazione a Torino dal meridione d’Italia, aveva favorito l’integrazione dei nuovi torinesi e, negli anni ‘60 e ‘70, aveva realizzato approfondite inchieste sopra gl’infortuni sul lavoro e sull’occupazione giovanile. Il quotidiano era stato l’appassionato concorrente dell’immarcescibile La Stampa, foglio questo che, dopo il conflitto mondiale, aveva sostenuto il centrismo governativo di matrice degasperiana, dal 1963 aveva diretto le proprie simpatie al bianco-rosso dei Governi di centrosinistra del forzato connubio Democrazia Cristiana – Partito Socialista e, nei primi anni ‘70 nei quali questa narrazione si svolge, imperando il clima della cosiddetta contestazione politico-sociale, La Stampa aveva guardato non sfavorevolmente agl’ideali di estrema sinistra: niente di strano, il conformarsi ai Governi in carica e al clima sociale del tempo era ed è cosa consueta per la maggioranza dei quotidiani, cosiddetti indipendenti ma appartenenti a una grande unità economica privata o pubblica
.
Sin dall’inizio degli anni ‘60 anch’io avevo collaborato alla Gazzetta, ma solo alla pagina culturale e occasionalmente, come giornalista pubblicista, a volte scrivendo l’articolo in corso Valdocco 2, sede del giornale, altre portandovelo già pronto steso a casa. Tuttavia nel gennaio 1973 l’amico direttore m’aveva invitato a collaborare a tempo pieno qual redattore professionista e io avevo accettato. Non s’era trattato della mia prima esperienza all’interno d’una redazione, nei primi mesi del 1968 avevo lavorato alla cronaca subalpina d’un quotidiano genovese del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, il quale m’aveva licenziato dopo non molto per divergenze sociopolitiche
. Alla Gazzetta ero nel mio ambiente accanto a cattolici progressisti, qualche repubblicano come me e socialdemocratici, per cui avevo accettato l’offerta ben volentieri, trovandomi oltretutto in uno di quei periodi in cui le idee per un nuovo romanzo mi scarseggiavano e un congruo stipendio fisso sarebbe stato il benvenuto, pur avendo da parte una buona somma grazie alla quale non avrei comunque sofferto la fame.
La redazione della Gazzetta era un universo di ticchettanti macchine per scrivere entro una nuvola di fumo di sigarette e di qualche pipa, in cui chiunque, come me, non fosse stato fumatore, se non fosse riuscito presto a mitridatizzarsi avrebbe potuto rimaner asfissiato. Quasi ovunque, a parte forse che nei numerosi bagni, e sempre che le rispettive porte d’ingresso e la porta del gabinetto impegnato fossero ben chiuse, formicolava negli orecchi il brusio delle voci dei giornalisti in sala redazionale o, giù in tipografia, a colloquio col proto e di lui che discuteva col compositore e del compositore che strillava per farsi udire dal proprio apprendista oppure dal tipografo, il quale strepitava con l’aiutante, immersi tutti nel frastuono delle rotative e nel rumore delle linotype: alla Gazzetta del Popolo la composizione delle pagine era ancor a caldo, non erano scomparse le linotype, sebbene già nei primi anni ‘70 in diversi quotidiani fosse subentrato il metodo della fotocomposizione e dell’impaginazione a freddo tramite computer.
L’ottimo direttore m’aveva affidato la cronaca nera affiancandomi per un paio di mesi a un’esperta tutrix, Ada, giornalista investigativa e bella bruna slanciata sulla soglia della quarantina con la quale, già una ventina di giorni dopo, avevo fatto coppia amorosa, su mia proposta e, come sempre accade, per muliebre scelta: m’avrebbe placidamente lasciato a giugno, pur mantenendomi una cordiale amicizia: “Ranieri, sei un po’ troppo individualista, lo sai?” m’avrebbe detto all’alba d’un lunedì nel trilocale che occupava da sola in via Amedeo Avogadro, non lontano dal giornale, nudi sotto le coltri del suo letto alla francese: “Tanto buon erotismo, mio caro, questo sì, ma non sai darmi l’amore.” M’aveva destinato garbo impiegando la parola individualista che riusciva ad attenuare un poco quanto, me l’ero sentita chiaramente, ell’aveva inteso: egoista. In verità proprio egoista non penso d’essere mai stato, sentimentalmente cauto semmai e, a ben vedere, nemmeno da sempre: solo da quand’ero stato scottato, durante buie vicende internazionali che m’avevano coinvolto e gravemente danneggiato nel 1969, da una sensualissima italoamericana di cui m’ero infatuato talmente da progettare d’impalmarmela, risultatami però in breve una sciupauomini sessualmente peregrinante
. Dopo un po’ di tempo, considerando che l’abbandono di Ada non aveva deteriorato l’affiatamento fra noi, mi sarei figurato, auto assolvendomi, che nemmeno la mia collega fosse stata veramente innamorata di me.
Avevo gradito il lavoro in cronaca nera, non troppo diverso da quello svolto in Polizia fin al 1967 quale investigatore. D’altro canto m’era piaciuto il fatto che anche il grande giornalista, scrittore e molt’altro Dino Buzzati, versatile figura scomparsa solo un anno prima che avevo molto ammirato, fosse stato redattore non solo di terza pagina e di cronaca varia al Corrierone
ma, con particolare passione, giornalista di cronaca nera. M’era stato evidente perché il direttore m’avesse inserito in nera, pur provenendo io dalla pagina letteraria: aveva ovviamente giocato il mio essere stato poliziotto investigativo per anni e non doveva essere stata estranea alla scelta la citata agghiacciante disavventura, universalmente nota, che avevo sofferto nel 1969, risoltasi in lieto fine, ma con gravi ammaccature fisiche e morali, solo grazie all’intervento provvidenziale del mio unico vero amico ed ex superiore Vittorio D’Aiazzo, vicequestore comandante della Sezione Omicidi e Reati contro la persona della Questura torinese: una vicenda in cui una loschissima, potente figura aveva tramato contro l’Italia e gli Stati Uniti e, nello stesso tempo, contro di me, Ranieri Velli, usandomi quale motore involontario e capro espiatorio del suo disegno criminale. La vicenda era stata raccolta e divulgata dalla cronaca internazionale e aveva causato la mia fortuna di scrittore: ne avevo avuto notorietà e frutti economici grazie a un saggio che avevo scritto in tempo reale sulla vicenda, tradottomi nelle principali lingue occidentali e pubblicato vendendo quasi un milione di copie nel mondo; poi, lasciata da parte la giovanile poesia dalla quale avevo avuto i miei primi successi, ma ovviamente non guadagni, avevo sfruttato la fama raggiunta stendendo romanzi su alcune delle passate indagini di Vittorio D’Aiazzo e mie, libri che avevano venduto bene e dai quali erano state tratte le sceneggiature di alcuni film di successo
.
Nel periodo storicoin cui si svolge questa miamemoriai cronisti di nerasi trovavano soventea scriveredi concerto conredattori e commentatori politici, chésin dalla fine del decennio precedente sanguinosi reati terroristicis’erano affiancatiai delittiprivati.
Il terrorismo italiano era stato un fenomeno sociopolitico involutivo,anche se accesosientroun processo di maturazione della visione sociale nato verso gl’inizi del decennio eriguardantenon solo il mondo aconfessionale, ma l’universo cattolico: gli anni fra l’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II nel 1962 e l’anno 1970 avevano vie più responsabilizzatobuona parte dei credenti, fra l’altro affinando il concetto evangelico che l’operaio ha diritto alla sua mercede: lo sciopero non era stato più consideratol’omissione d’un doveremaun sacrosanto diritto. I conflitti col mondo imprenditoriale avevano dunque assunto una doppia colorazione sia nelle menti dei lavoratori sianelle organizzazioni sindacali, le laiche e classiste CGIL e UIL, di cultura politica comunista, socialista e socialdemocratica, e la cattolica CISL che, nel difendere economicamente operai e impiegati, si basava sul valorecristiano della persona, incommensurabilesecondo la Chiesa per la qualeogni essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio. Le rivendicazioni e gli scioperi avevano accomunato classisti e umanisti. Anche la degenerazione terroristica del malcontento socialeaveva riguardato entrambi i mondi e aveva contemplato casi di passaggio dal cattolicesimo al marxleninismo rivoluzionario armato, com’era avvenuto per Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol fondatori, col comunistaAlberto Franceschini, della più importante organizzazione di lotta armata di estrema sinistra, le Brigate Rosse, i quali non solo provenivano dal mondo cattolico ma, essendo ormai comunisti,s’erano sposati in chiesa.
Comunque la quotidiana vita degl’italiani continuava nonostante il pandemonio terroristico ormai sfrenato e non mancavano eventi festosi come, 10 aprile 1973, l’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino. Per decenni nell’area di piazza Castello, sulla quale aveva risonato in passato, per due secoli, la gloria musicale dell’originale Teatro Regio edificato nel 1740, c’erano stati solo più i suoi ruderi, causa un incendio devastante divampato nella notte fra l’8 e il 9 febbraio 1936; ma finalmente, dopo anni di lavori, il teatro era risorto e la serata d’inaugurazione del nuovo Regio era ormai prossima. Sarebbe stata di gran gala, naturalmente, alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Leone col suo seguito romano e delle più alte personalità e i primari dirigenti cittadini e regionali. In scena, l’allestimento sontuoso del melodramma verdiano “I vespri siciliani”, con la regia dei grandissimi cantanti Maria Callas e Giuseppe Di Stefano.
Sebbene l’avvenimento fosse da alta cronaca mondana e, apparentemente, non riguardasse noi della nera, il direttore aveva voluto che Ada e io fossimo tra i cronisti invitati “perché”, ci aveva detto, “c’è sempre il pericolo che i soliti gruppi di esaltati provochino uno dei loro scompigli davanti al teatro, o peggio. Se dovesse succedere, voi due di corsa
in un bar a telefonarcelo per la finestrella di prima pagina, poi al volo qui per i vostri articoli in cronaca. Chiaro?”
Ada doveva essere in vena d’umorismo e, con voce soave, gli aveva risposto ritmicamente: “Siamo noi sempre pronti alla bisogna.”
Io, di tutt’altro umore, infastidito dalla possibilità di finirmene in mezzo alla violenza di squinternati volgar marxiani
o, peggio, esploso da una vigliacca bomba neofascista, gli avevo solo restituito un rassegnato “Chiaro”. C’erano davveropericoli di pesantissimi disordinie non nascondo che m’era stata più che bastante l’avventura nerissima del 1969 dalla quale avevo contratto, e mi rimarrà a vita, uno shock post traumatico per il quale, ancor oggi dopo tanto tempo, giunto ultrasettantenne nel terzo millennio, a volte il ricordo del dolore inflittomi mi rispunta improvviso in animo e m’invade la mente, quasi come se stessi subendo di nuovo quelle torture.
L’ottimo direttore m’aveva sorriso: “Non me la dai a bere, Ranieri, lo so che andarci ti secca e ne so pure il motivo; però è da farsi! Oh, ovviamente, tu cravatta nera e tu, Ada…”
“...sì, Giorgio, io abito lungo: nell’armadio ho il solito, che va benissimo ogni volta con buona pace degli affari degli atelier.”
“Ne soffrono di certo amaramente”, le aveva zufolato il capoin divertitaribattuta all’endecasillabo di lei.
La serata dell’inaugurazione si sarebbe svolta senz’incidenti? L’occasione era davvero ghiotta per gli eversori.

FOTOGRAFIA FUORI TESTO



Prima pagina del quotidiano Corriere della Sera del 13 dicembre 1969, giorno successivo a quello della strage di piazza Fontana a Milano. Fonte “prima La Martesana”, articolo La strage cinquant’anni dopo (1969-2019), pagina web https://primalamartesana.it/cronaca/bomba-al-cuore-sono-passati-50-anni-dalla-strage-di-piazza-fontana/ (https://primalamartesana.it/cronaca/bomba-al-cuore-sono-passati-50-anni-dalla-strage-di-piazza-fontana/)
Capitolo II (#ulink_6175e46e-5e09-5b8d-bbbc-5b44c712954f)

Come s’era potuti finire nell’agghiacciante babele degli anni che sarebbero stati definiti di piombo?
Nel 1968, dopo precedenti isolati episodi diprotesta giovanile, la scontentezza politica e in molti casi la rabbiadi tanti ragazzi s’era espressa con forzaattraversomanifestazioni di piazza, per lo più di studenti non tutti in realtà preparati politicamente,non pochi di loro semplici utopisti oppuremarxisti immaginari, come li avrebbe definiti nel 1975 chi il marxismoben conosceva
,e non tutti su posizioni di sinistra ma, in parte,pseudo nietzschiani o fascisteggianti quando non fascisti. Talidimostrazioni non erano state fisicamente violente agli inizi, ma erano stateincalzateda altreche avevano causato danneggiamenti e feriti. Poila società italiana aveva dovuto subire le canagliatestragisted’estrema destra e leazioni omicide di gruppi armatidi sinistra:L’eversioneneofascista, o nera, aveva praticato, contro la mentalità progressista,un terrorismo bombarolo, iniziando la propria criminosa attività nel 1969 con un ordigno esploso, durante l’orario di ricevimento clienti, nella filiale in piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Giammai però gli stragisti avrebbero indicato la loro identità ideologica, peraltro intuibilmente d’estrema destra anche se c’erano stati funzionari di Polizia che, agl’inizi,avevano sospettato e perseguito anarchici. Questa tipologia d’eversorilasciavaappositamente nell’incertezza il fine delle stragi,rivoltead anonimi cittadini ammazzatiin massaa caso; ma l’intento era ben intuibile, pur se a propria volta non dichiarato: terrorizzare la popolazione e indurla a richiedere un Governo forte, dittatoriale, che ponesse fine al disordine. Per apparente assurdo, era purutile a talescopo, anche se di certo nolente, l’azione allarmantedel terrorismo di sinistra. Quest’ultimo era per la maggior parte esercitato dalle Brigate Rosse, ben strutturate e militarmente armate,pur non mancando affattomolte organizzazioni minori che operavano episodicamente come, ad esempio, la Lotta Armata per il Comunismo, i Nuclei Armati Potere Operaio, il Gruppo XXII Ottobre, i GAP Gruppi d’Azione Partigiana-Esercito popolare di liberazione.Diversamente da loro, le Brigate Rosse, o B.R. come i mezzi di comunicazione sovente le chiamavano, già nei primi tempi avevano agito con frequenza e su ampia scala in Lombardia, Liguria e Piemonte. Nell’immediato, purtroppo, la pericolosità delle B.R. era stata sottovalutata dai mezzi di comunicazione. Molti media le avevano oltretutto definite sedicenti, non pochigiungendo a sostenere che si trattava di fascisti desiderosi di lordare l’immagine del comunismo: evidentemente, l’ideale degl’intellettuali democratici comunisti, di gran lunga preponderanti in quegli anni su quelli non marxisti, non poteva accettare le azioni diviolenti sovversivi d’estrema sinistra e dunque, passionalmente, respingeva con sdegno cheprovenissero da individuidella sinistra marxiana. Non era ancora chiaro che il punto di vista ideologico del movimento eversivoprincipalee dei gruppuscoli suoi analoghi era invece fermamente di sinistra: sinistrarivoluzionaria.Quei terroristi rossi ritenevano che, finita la seconda guerra mondiale, l’oppressione nazifascista fosse stata rimpiazzata da quella del mascherato, ma non meno micidiale, potere economico imperialista delle multinazionali, ragion per cui fosse indispensabile la continuazione della lotta armata partigiana, un prosieguo della Resistenza che avrebbe dovuto, in primo luogo, smontareviolentemente gliapparati istituzionali d’oppressione del proletariato,per accendere poi una rivoluzione nazionaleliberatoria.
FOTOGRAFIA FUORI TESTO



La celebre fotografia, scattata da Paolo Pedrizzetti, del terrorista comunista Giuseppe Memeo con pistola durante lo scontro del 14 maggio 1977 di via De Amicis a Milano. Era stato dapprima un militante di Autonomia Operaia poi era entrato, divenendone uno dei principali membri, nei Proletari Armati per il Comunismo. Catturato e condannato a 30 anni di reclusione per duplice omicidio e sette rapine, iniziò ad allontanarsi e quindi rifiutò i principi della lotta armata. A fine pena, si era dedicato ad un’attività sociale pacifica. Fonte dell’immagine, di pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=798951 (https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=798951)
Capitolo III (#ulink_6175e46e-5e09-5b8d-bbbc-5b44c712954f)




La serata dell’inaugurazione del nuovo Teatro Regio, contrariamente ai timori, s’era svolta tranquilla e festosa. Al termine, dopo l’esodo di tutte le autorità con le loro scorte armate, Ada e io eravamo uscitiin piazza Castello pertornarcenesveltamente al giornale, relazionare oralmente al direttoreil nulla accadutoe andarcene subito dopo a letto a casa di lei.
Eravamo montati sulla sua auto contrassegnata STAMPA-PRESS, unafuori serieFIAT 500 bluScioneri, volante, cruscotto e pomello del cambioin legno e sedili imbottitiparticolarmentecomodi
,che all’arrivoell’aveva parcheggiato in via Po non moltooltre piazza Castello, in direzione del fiume.
Svolta a U e, un cento metri dopo, curva a destra, di nuovodavanti al Regio con l’intenzione di compiere,subito dopo, mezzo giro a sinistra attorno al centrale castello Casaforte degli Acaja e al suoposteriore Palazzo Madama e imboccare quindi, a destra, la via Garibaldi. Questa, anche se sarebbe presto divenuta pedonale, nel 1973 poteva ancor percorrersiin auto in entrambi i sensi, pur non essendo molto larga e correndovi sopra doppi binari del tram quasi rasentiagli stretti marciapiedi. Per via Garibaldi saremmo giunti, tirandodritto,all’incrocio coisusseguentisi corsiPalestro-Valdocco e qui, svoltando a destra nel secondo, saremmo arrivati,poche decine di metri dopo, all’ingressodella Gazzetta.
Si dice banalmente che quando un cane morde un essere umano non fa notizia mentre sarebbe pubblicabile, anche se in un mero trafiletto sorridente, il caso d’un uomo che mordesse un cane
. Ebbene, come vedremo fra pochissimo,possono esserci eccezioni: anche un cane che morde un uomo può essere un’importante notizia, anzi molto importante: Avevamo appena iniziato ilgiroattorno al complesso architettonico castello Casaforte degli Acaja-palazzo Madamaquando, alla nostra sinistra, immobile come le imponenti statue belliche della piazza,avevamo notato unaltrettanto appariscentecaneseduto immobile innanzi al monumento a Emanuele Filiberto Duca D’Aosta antistante il Regio: si presentava come untemibile molossoide da combattimentodi colore negro, forse un Bandog
: ai massicci cani Bandog si addebitavano attacchi brutali a esseri umani e molti Paesi al mondo, non l’Italia, ne vietavano detenzione e allevamento. L’animale doveva essere alto almeno 70 centimetri al garrese e il suo peso non appariva inferiore al mezzo quintaleEra seduto pacificamente dasolo, ma l’espressione del muso era attentissima,quasi come in attesa d’un ordine d’un invisibile padrone.
Avevo pensato: Un cane smarrito?Da pochissimo però, è molto ben tenuto.
Incuriositi entrambi, Ada aveva rallentato per osservare megliol’animale; ed ecco, era bastato un solo attimo e il bestiones’era alzato, era scattato di corsa, aveva attraversato velocissimo la stradaall’altezza dei portici antistanti la Prefettura e, passandoci davanti,s’era avventato contro un uomo di media altezzamagro, sulla cinquantina inoltrata,che appiedato stava marciandonella nostra stessa direzione verso via Garibaldi, forse diretto alla propria auto. A un cinque, sei metri alle sue spallecamminava da sola una donna, anch’essa suicinquanta o poco meno, e, ancor più indietro di qualche metro, muovevaun gruppetto di sei persone, probabilmente uscite l’una e le altre dal teatro e dirette alle proprie auto o al vicino parcheggio di taxi.Pure l’uomo mirato dal cane dovevaaver presenziato all’inaugurazione del teatro, indossava lo smoking, sotto uno leggero soprabitonero tenuto aperto. Un solo altro istante e il cagnaccio l’aveva azzannato a morte alla gola. Compiuto il misfatto, la bestia se n’era andataverso via Garibaldisbavando sangue.
Avevonotato che ilsuo collareeraun’alta gorgiera bitorzoluta le cuiprotuberanze, verosimilmente metalliche, riflettevanole luci dei lampioni della piazza;e m’era balzata in mente l’idea che qualcuno, come in certi film gialli vagamente fantascientifici di moda in quegli anni, gli avesse inviato un ordinevia etere indirizzandoloa quel bernoccoluto, luccicantecollare.
Le personeche stavano camminando dietro all’uomo e altre più lontaneerano accorsealla salmaaccasciata sul selciato, attorniandola e togliendocene la vista.
Va da sé che nessuno aveva osato bloccare il canein allontanamento.
Ada m’aveva detto: “Cerca di capirese quel disgraziatosia una personalità e, insomma,di saperne il più possibile. Prima di tornartene in redazione, telefonacise hai notizie rilevanti. Io seguo il cane”
Ero sceso svelto e la sua 500 era ripartita dietro alla bestiache intanto, giuntaa finepiazza davanti alla chiesa di San Lorenzo, aveva svoltatoa destra entrandonell’ampia cortepedonale antistante l’ex Palazzo Reale dei Savoia,divisa dalla piazza da una cancellata, con un passaggio al centro volutamentenon largo abbastanza perconsentireil passaggio d’un’auto.
Ada,non avendo potuto entrare motorizzata nel patio, avevaseguitola bestia cogli occhi. M’avrebbe informato che, al fondo della corte,l’animaleaveva girato a sinistra ed era sparitonelpasso che la unisceallapiazza San Giovanni antistante l’omonimo duomo.
Una notizia adesso c’era.
Avevo visto che l’auto della collega aveva ripreso la marciaverso via Garibaldi. Chiaramente Adaintendevabuttar giù subitoqualche rigo per la finestrina di prima pagina,in attesa del mio arrivo con sperabili novità.
Dopo avermostrato il mio tesserino stampa, avevo chiesto al novero che attorniava la povera vittima se qualcuno dei presenti l’avesse conosciuta: nessuno; o nessuno che volesse esporsi.
Era intervenuta una squadradiPubblica Sicurezza
, forza pubblica che non aveva ancor abbandonatola piazza sebbene le autorità se ne fossero andate e l’area stesse ormai del tutto sfollandosi. Mostrato il mio tesserino-stampa anche al comandante degli agenti, un maresciallo, gli avevo chiesto se la vittima fosse stata persona nota, ma ne avevo ricevuto un secco, quasi infastidito, “Non sappiamo.” Un’ambulanza era sopraggiunta, forse chiamata poco prima da quegli stessi poliziotti, forse da civili che avevano assistito alla tragedia. Aveva medico a bordo e ilsanitario non aveva potuto che constatare la morte di quel poveruomo.
Nulla avendo raccolto, m’ero mosso per raggiungere la più vicina fermata dei tram chescorrevano allora lungo via Garibaldie rientrarecosì al giornale; ma avevo percorso una trentina di passi quando una voce profonda,lanciatami da dietro, m’aveva bloccato: “Signor Velli!”

FOTOGRAFIA FUORI TESTO












La sala del Teatro Regio di Torino.Fonte Di Foto Ramella&Giannese - https://i.wikipedia.org/w/index.php?curid=2802036 (https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2802036)


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Il Cane Guido Pagliarino

Guido Pagliarino

Тип: электронная книга

Жанр: Современная зарубежная литература

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Anno 1973, Torino: Il terrorismo di destra e di sinistra da anni imperversa in Italia e non farebbe di certo notizia che un uomo è stato morso da un cane, se non fosse che non soltanto ne è rimasto orrendamente ucciso un noto eroe della Resistenza decorato con medaglia d’oro nonché uno dei più alti vertici dello strategico gruppo industriale Italiavolo: inviso ai neofascisti per la prima ragione, alle Brigate Rosse, delle quali suo figlio ventunenne fa parte, per la seconda. Come se non bastasse, la vita privata della vittima non è del tutto limpida . Infine il vice questore Vittorio D’Aiazzo troverà sì la soluzione, ma solo grazie a un’intuizione del suo amico Ranieri Velli, scrittore e giornalista di cronaca nera nel glorioso, plurisecolare foglio torinese Gazzetta del Popolo.

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