Spirito, Anima, Persona Dall′Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo

Spirito, Anima, Persona Dall'Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo
Guido Pagliarino


Immagine di copertina: Particolare del dipinto di Mark Chagall La passeggiata, olio su tela, cm. 170X163,2, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo
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Guido Pagliarino
Spirito, Anima, Persona dall'antichità greca ed ebraica al mondo cristiano contemporaneo - Saggio
2a Edizione
Distribuzione Tektime
© Guido Pagliarino
INDICE

Breve introduzione dell'autore (#ulink_5d62ae7e-1546-5042-91eb-3dea7097e13e)
Prima parte: (#ulink_b27ad8da-3a10-54f9-bcbc-2142fb4d3808)SU CORPO E ANIMA NELLA FILOSOFIA GRECA (#ulink_b27ad8da-3a10-54f9-bcbc-2142fb4d3808)
L’anima nella Grecia più antica: cenni (#ulink_6726c047-4f3e-50a2-a000-55a002ca8589)
L’anima e Socrate (#ulink_3b82d975-bf87-5437-9dab-a62bf7487691)
L’anima secondo Platone (#ulink_23b13951-19af-5ce7-89c8-22bc1d852243)
L’anima secondo Aristotele (#litres_trial_promo)
L’anima per lo Stoicismo (#litres_trial_promo)
L’anima secondo Plotino (#litres_trial_promo)
In sintesi: spirito, corpo e anima, dualità greca e gnostica (#litres_trial_promo)
Tavola fuori testo - Schema minimo degl’influssi filosofici sulla teologia cristiana antica e medievale (#litres_trial_promo)
Seconda parte: (#litres_trial_promo)SU CORPO E ANIMA NEL GIUDAISMO E NEL CRISTIANESIMO (#litres_trial_promo)
Corpo e anima: unitarietà ebraica e cristiana – personalismo – (#litres_trial_promo)
Giudaismo, Cristianesimo e Logos (#litres_trial_promo)
Sull’anima nel Cristianesimo dal II secolo (#litres_trial_promo)
Agostino cerniera fra Platonismo e Cristianesimo (#litres_trial_promo)
Cenni al platonismo cristiano dopo Agostino (#litres_trial_promo)
Tommaso d’Aquino fra Rivelazione, Aristotelismo e Platonismo (#litres_trial_promo)
Su corpo e anima oggi (#litres_trial_promo)
Breve introduzione dell'autore (#ulink_2cdecdce-6e02-58e3-8642-ae6164b7c6a5)

Le parole anima e animo non hanno, sempre e comunque, lo stesso significato e nemmeno riguardano, in ogni caso, le medesime sfere – umana e divina. Questo saggio è un excursus divulgativo sui concetti di anima, animo e persona presso il Giudaismo antico, la filosofia platonica, aristotelica e neoplatonica, il Cristianesimo delle origini e quello ellenizzato. Nella prima parte dell'opera sono trattate le idee di spirito-animo e di anima-psiche secondo il pensiero greco antico, in particolare quello di Platone, Aristotele e Plotino, filosfi che influirono sul sentire cristiano e, in generale, sulle dottrine occidentali. L'appello alla Grecia da parte cristiana ebbe storicamente uno scopo contingente, evangelizzare greci e romani e controbattere le eresie gnostica e manichea; però il Cristianesimo non si spogliò più di quel manto culturale, l'ellenizzazione della dottrina cristiana rimase permanente, pur non essendo il Dio neotestamentario, o non essendo soltanto, il Bene assoluto di Platone o la Migliore delle sostanze d’Aristotele o l’Uno ineffabile e superiore all’essere di Plotino, ma un Ente peculiare. D'altro canto, la filosofia greca non è del tutto estranea alla Bibbia, al di là dell'idea non biblica di anima spirituale immortale; sotto altri aspetti, l’incontro fra il pensiero ellenico e la Bibbia precedette i libri del Nuovo Testamento e di già influì sugli ultimi dell’Antico, scritti fra II e I secolo a.C.: fu in conseguenza della conquista macedone di Palestina ed Egitto, Paese questo che fu luogo di traduzione dall'ebraico al greco del Primo Testamento e della formazione di alcuni degli ultimi suoi testi – considerati peraltro apocrifi dai protestanti –, alcuni dei quali, verosimilmente, furono stesi direttamente in greco. La fusione tra pensiero ellenico e messaggio biblico non fu dunque una semplice coincidenza. Nella seconda parte dell'opera si discorre di persona, in anima e corpo, e di spirito secondo il Giudaismo farisaico e il Cristianesimo. Per la teologia cristiana i concetti di anima, corpo e animo – o spirito – coesistono in un solo Ente quali suoi attributi personali, cioè solo in Dio; non così è per l'essere umano, che è persona composta da anima e corpo, pur essendo sì presente in lei lo spirito, ma non suo personale, bensì lo Spirito di Dio stesso. A differenza che nel credo cristiano, nelle altre religioni monoteiste Dio è solo Spirito, non ha anche l'anima umana e men che mai un corpo, in altre parole egli non è, come invece il Dio cristiano nel suo stesso immutabile Essere eterno, pure uomo in corpo e anima, peraltro in forma gloriosa spirituale, non materiale, non ha cioè due coscienze, una divina e una umana: non è vero che "tutti i credi religiosi, in fondo, s’equivalgono", ma molte persone non hanno ben presenti le distinzioni predette e considerano anche il Dio del Nuovo Testamento come una figura solo divina, eterna, onnipotente, onnisciente, analoga alla divinità non trinitaria degli altri monoteismi.
Prima parte (#ulink_2cdecdce-6e02-58e3-8642-ae6164b7c6a5)
SU CORPO E ANIMA NELLA FILOSOFIA GRECA (#ulink_2cdecdce-6e02-58e3-8642-ae6164b7c6a5)
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Faccio riferimento in questo capitolo soprattutto alle seguenti opere: Nicola Abbagnano, Storia della Filosofia, UTET, 1974; Eccles, John C., Strutture e funzioni cerebrali, traduzione italiana dall’inglese di Barbara Continenza, in, di Eccles, John C. e Popper Karl R., L'io e il suo cervello, 2° di 3 volumi, Armando Armando, 1981; Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, 1975; Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, traduzione di Luca Pavolini, Longanesi & C., 1977. Inoltre ho frequentato sul tema le opere: A cura di Francesco Adorno, I sofisti e Socrate, Classici della filosofia Loescher editore; Heinrich Maier, Socrate, 2 volumi, La Nuova Italia editrice, traduzione di Giovanni Sanna, 1978; Opere complete Platone, Universale Laterza, traduttori vari (Marcello Gigante, Manara Valgimigli, Lorenzo Minio-Paluello, Attilio Zandro, Piero Pucci, Francesco Adorno, Franco Sartori, Cesare Giarratano, Antonio Maddalena, Giovanna Sillitti), 1971, da cui traggo le citazioni di Platone; Aristotele, La metafisica, introduzione, traduzione e parafrasi di Giovanni Reale, traduzione del testo aristotelico per concessione della Casa Editrice Luigi Loffredo di Napoli, Rusconi Libri S.p.A., 1978; Karl R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, traduzione di Renato Pavetto a cura di Dario Antiseri, volume I, Platone Eccles, John C., Strutture e funzioni cerebrali, traduzione italiana dall’inglese di Barbara Continenza, in, di Eccles, John C. e Popper Karl R., L'io e il suo cervello, 2° di 3 volumi, Armando Armando, 1981totalitario, Armando Armando, 1973-4. Inoltre interevngono concetti che già espressi nel mio libro cartaceo Cristianesimo e Gnosticismo: 2000 anni di sfida, Prospettiva Editrice, 2003.
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L’anima nella Grecia più antica: cenni (#ulink_2cdecdce-6e02-58e3-8642-ae6164b7c6a5)

In latino e in italiano la parola anima equivale al termine greco psyché ma deriva, secondo alcuni, da ánemos, vento o respiro, oppure, secondo altri, da anaigma, cioè esangue. Mi limito a riferirlo, non essendo io un etimologo.
In Grecia attorno al VII secolo a.C., quindi al tempo dei poemi omerici e prima dell'Orfismo e di Pitagora (VI secolo) e di Socrate e Platone (V-IV), la parola psyché è ancor usata nel senso pratico di vita in generale, un’energia naturale posseduta dagli esseri umani e dagli animali e riconoscibile nel respiro, che quando cessa a causa dell’età avanzata o per altro motivo abbandona il vivente alla morte. La vita è inoltre individuabile nel sangue che, quando fuoriesce abbondantemente per una ferita mortale, porta al decesso – è la stessa idea che ritroviamo, peraltro, presso gli Ebrei ancora al tempo di Gesù –. Secondo Omero l’essere umano possiede anche il thimos (all’incirca la coscienza), sede di sensazioni, sentimenti e pensieri.
Nel VI secolo prima di Cristo in Grecia psyché assume il significato di anima individuale viva, cosciente e raziocinante, indipendente dal corpo e immortale; per gli orfici e, in seguito, per i pitagorici e per Platone, l'anima è capace di reincarnarsi.

Il VI secolo a.C. è un periodo basilare per la storia del pensiero: in Cina vivono Lao-tse e Confucio, in India Budda, in Persia, presumibilmente, Zarathustra, nel mondo greco nasce Pitagora e si stendono a Gerusalemme i cinque libri della Legge – Pentateuco – (a proposito del processo storico di formazione del Pentateuco - libri Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio - e di altri importanti testi biblici, si può andare, volendo, al mio e-book "Il vento dell'amore").

Successivamente, Platone cerca l’etimo della parola, individuandolo nel verbo “respirare”, anapnêin, e pure in “io faccio asciugare”, ovvero “io rinfresco”, anapsycho.
Il corpo – soma – è per tutti quei pensatori la provvisoria tomba dell’anima o, con altra metafora, ne è il carcere, e dunque la psyché non può esprimersi, impedita com’è dal medesimo corpo, se non quand’esso è debole, come nel sonno e prima della morte; morire non è dunque un evento spregevole ma nobile, perché libera l’anima dal corpo. Per Pitagora di Samo però, come d’altronde per gli orfici, il corpo è sì la prigione dell’anima, ma la filosofia, insieme a certe pratiche di purificazione, può aiutare a sollevare l'anima stessa dalle cattive influenze del corpo; però (siamo nel dualismo corpo-anima e nello spiritualismo), si rende anche necessaria la metempsicosi: solo successive reincarnazioni possono consentire la liberazione definitiva della psyché dal soma nel ciclo delle nascite e delle morti. Col Pitagorismo le anime individuali vengono viste come espressioni d’una comune Anima cosmica, d'un comune Spirito – Pneyma – secondo la concezione di un’origine del mondo unitaria. Nasce così l’emanazionismo, dottrina della provenienza delle anime umane dalla divinità. Platone considera l’Anima universale come la più perfetta delle cose generate: “Dopo che secondo la mente del creatore fu compiuta tutta la creazione dell’anima, dopo questa compose dentro di essa tutta la parte corporea […] ma l’anima, che è partecipe di ragione e d’armonia, è la migliore delle cose generate dal migliore degli esseri intelligibili ed eterni” (Timeo 37, traduzione di Cesare Giarratano, in Opere complete Platone, vol. 6, Universale Laterza, 1974).

L’anima e Socrate (#ulink_2cdecdce-6e02-58e3-8642-ae6164b7c6a5)

Prima di seguitare con Platone, presento alcune considerazioni sul suo maestro Socrate.
Certe volte si legge o ascolta che il concetto greco di anima si deve a Socrate. Altri, cui m'accodo, preferiscono dire a Socrate-Platone, anzi a Platone-Socrate, ritenendo assai prevalente il contributo del primo. D’altronde, come appare negli stessi testi e manuali di storia della filosofia, la figura storica del maestro di Platone è piuttosto vaga e distinguere tra il pensiero mai scritto del Socrate storico e quello espresso nei Dialoghi di Platone, dei quali è soggetto docente la figura socratica, è notoriamente impresa ardua. È stata tentata da molti, ma il Socrate della storia rimane non ben definito, mentre la figura di quello platonico continua a essere confusa col precedente nel sentire comune; per esempio, non tutti hanno presente che il Socrate storico non ha mai parlato di metodo dialettico maieutico, cioè del levare la conoscenza dall’anima dell’interlocutore (poiché non suppongo la conoscenza della storia della filosofia in tutti i miei lettori, ritengo non inutile precisare un concetto anche quando sia piuttosto noto) così come un’ostetrica leva il neonato dalla madre, interlocutore nel quale si suppone esistere un latente patrimonio di aprioristica conoscenza; tale metodo è genuinamente platonico, non socratico, deriva dall’idea di Platone della preesistenza delle anime.

È, come scriveva lo studioso di Socrate Heinrich Maier, un “procedimento che compare per la prima volta nel Menone e […] in seguito nel Teeteto è chiamato espressamente maeiutica”, con cui “il Socrate storico non ha assolutamente che vedere” (Heinrich Maier, Socrate, cit., vol.2).
La figura del maestro di Platone non era stata ancora definita con certezza, nonostante tanti studi d’autori diversi, quando il Maier dava alle stampe nel 1913 la sua opera su Socrate, che apriva affermando che tale figura sembrava totalmente “sepolta sotto le scorie della tradizione letteraria”, vale a dire principalmente sotto le testimonianze di Platone, Senofonte e Aristotele (considerando che “il mallevadore di Aristotele […] è, lo possiamo dire con sicurezza, Senofonte”) e di altri, come d’Antistene (filosofo già allievo di Socrate) e d’Aristofane la cui testimonianza grottesca della figura socratica, nella commedia Le Nuvole, precede tutte le altre documentazioni, essendo stata rappresentata l’opera per la prima volta, nel 423 a.C., quand’era ancora vivo Socrate, defunto nel 399 in seguito alla ben nota condanna a morte: egli “vi appare”, affermava il Maier, “un almanaccante filosofo della natura, uno scrutatore di astri acchiappanuvole che delle cose più prossime di questa terra dà le spiegazioni più remote […] un maestro della nuova sapienza, che rende più forti i discorsi più deboli, fa trionfare gli ingiusti sui giusti e si mette sotto i piedi diritto e morale”: diciamo che più che una canzonatura di Socrate appare una caricatura dei sofisti, ciò ch’egli non era secondo le altre raffigurazioni di lui, in testa quella di Platone nella sua Apologia di Socrate (cfr. in proposito l’introduzione di Francesco Adorno in I sofisti e Socrate, cit.); scriveva però il Maier che “Platone, e così pure Senofonte e Antistene possono parlare per propria esperienza solo relativamente al periodo in cui stettero in relazione col Maestro”, cioè all’ingrosso nel suo ultimo decennio di vita; dunque, tornando al Socrate di Aristofane, com’è stato “ammesso più volte” il Socrate storico, prima, avrebbe potuto essere diverso e forse proprio un sofista acchiappanuvole; infatti le persone nel tempo possono mutare e effettivamente, di solito, cambiano – si spera in meglio –, ipotesi questa che comunque non tocca la figura del maestro ascoltato da Platone e dagli altri uditori assai dopo quel 423 a.C. in cui si rappresentarono Le Nuvole per la prima volta.

Nei dialoghi platonici si tratta insomma di distinguere quanto del discorso sia di Socrate, o almeno anche suo, e quanto spetti al solo Platone.

La stessa Apologia, che pur ha “fondamentale importanza”, di certo “non è un documento storico in senso stretto. Non vi si può cercare la riproduzione platonica dell’arringa difensiva di Socrate in giudizio”; ma “certamente nell’Apologia son penetrate in buon numero vere reminiscenze”. Quest’opera, secondo il Maier, assieme al dialogo Critone coglie a sufficienza, sia pur sottostando alla costruzione letteraria, la figura storica del maestro di Platone, come pure, terza e ultima, un’opera platonica più tarda, il Simposio, dove volutamente l’autore richiama l’originale figura socratica, vale a dire quella dell’Apologia e del Critone, pur esponendo di certo la propria personale filosofia; tutti gli altri dialoghi, secondo un’idea predicata ancor oggi, sarebbero espressioni di questa sola filosofia e il Socrate che vi parla sarebbe nient’altri che il portavoce di Platone.
Le testimonianze su Socrate di Senofonte e Antistene non paiono affidabili. La figura del Socrate dei Memorabili di Senofonte s’allontana assai da quella testimoniata da Platone e l’opera presenta passi addirittura “ripugnanti”, come scriveva il Maier, tanto d’aver fatto pensare che Senofonte non avesse voluto “delineare il Socrate storico” ma “propagare tra gli uomini, sotto il nome di Socrate, opinioni proprie […]. In ogni caso, […] i Memorabili non possono più passare per documento storico-biografico”; tuttavia, che “la raffigurazione socratica dei Memorabili contenga elementi socratici genuini, è inoppugnabile ed è stato da noi ripetutamente riconosciuto. Ma come isolarli? […] L’adoperabilità storica dei Memorabili non naviga in troppo buone acque […]; anche più grave è che la concezione di Socrate svolta in queste conversazioni non solo non supera per fedeltà storica quella di Platone o magari di Antistene, ma anzi in vari punti importanti dipende da esse e, in quanto può dirsi indipendente, non si fonda affatto su una forte impressione complessiva personale, e quindi anche per valore storico mediato è assai inferiore alla sola rappresentazione platonica, che in ogni caso è espressione d’un’interpretazione dell’azione socratica nata da intimissima famigliarità col maestro […]. Dagli scritti socratici di Senofonte non potremo pertanto trarre molto giovamento”. Andando ad Antistene, si può dire semplicemente che nel suo procedere “Platone scorge addirittura una falsificazione di tutta l’opera di Socrate”, avendo il Cinico presentato la sua scuola, dovuta a lui solo, come “la socratica” per eccellenza, “facendo il tentativo di trasformare la libera comunità socratica nella forma organizzata d’una comunità scolastica, alla testa della quale potesse continuare l’opera di Socrate come suo successore in titolo. Questo […] suscitava ripugnanza”. Insomma, non il vero Socrate era predicato da Antistene.

Attesta Socrate anche Aristotele, testimonianza che potrebbe supporsi di primo livello dato che lo Stagirita, essendo stato allievo di Platone, aveva certamente conosciuto le attestazioni su Socrate correnti in quella scuola, ed essendo noto che mai ripudiò nei propri scritti la figura socratica dell’Apologia platonica, benché a un certo punto avesse respinto la guida filosofica del proprio maestro. Non pare tuttavia che dell’attestazione aristotelica ci si possa fidare molto, essendo noto ch’essa dipende in notevole parte dalla testimonianza opinabile e da diversi studiosi respinta di Senofonte.

Scriveva il Maier che per Aristotele “la questione principale era di stabilire qual parte avesse avuto, […] nella teoria delle idee”, Platone; tra le “affermazioni di Aristotele in persona” nell’Etica Nicomachea, “una sola si riferisce con qualche verosimiglianza al Socrate storico: vale a dire la constatazione affatto generica che Socrate tenne tutte le virtù in conto di scienze”; ma “le notizie aristoteliche sulle intuizioni etiche di Socrate non hanno valore di fonte indipendente […] esse sono prese senz’altro dal Protagora platonico. […] Tuttavia si può ben parlare di una concezione aristotelica di Socrate […], secondo questa raffigurazione, Socrate è il fondatore della filosofia concettuale, lo scopritore dell’universale. […] Come mai Aristotele giunse a questa concezione della ‘filosofia socratica’? È evidente ch’essa è un membro della sua confutazione della teoria delle idee; ma donde la prese? […] Ora per Aristotele la questione principale era di stabilire qual parte avesse avuto Socrate nella teoria delle idee. Era dogma accademico che Socrate medesimo avesse aperto la strada percorsa poi dalla speculazione platonica sulle idee […]. D’altra parte dopo la sua rottura con Platone era più che propenso a rendere responsabile esclusivamente quest’ultimo di quanto v’era di falso nella teoria delle idee, e a far risalire a Socrate il nucleo sano, cioè quel ch’egli teneva per tale, della teoria medesima”; e qui il Maier aggiunge in nota: “Molto chiaramente risalta questo motivo” dove “Socrate appare fondatore di quella dottrina dei concetti che ha fornito ad Aristotele il principio per la sua spiegazione della natura”.

Un Socrate strumentale alla filosofia aristotelica? In particolare utile all’intento d’Aristotele, su cui torneremo, d’abbattere la teoria delle idee? Forse da questo filosofo, o almeno anche da lui, sarebbe derivata l’opinione, ancor oggi corrente, della creazione del concetto di anima da parte del Socrate storico?
La questione resta aperta, e prendiamo con prudenza anche le asserzioni del Maier, perché egli stesso nei suoi due densi volumi su Socrate mantiene un atteggiamento cauto, e non perché le sue affermazioni son ormai vecchie d’un secolo: su questo tipo d’indagini non c’è necessariamente un progresso della conoscenza col passare del tempo, può esserci chi la vede giusta prima e chi sbagliata dopo indagando sugli stessi testi, a meno, ma è altra cosa, che si trovino nuovi documenti antichi sulla figura storica su cui si sta indagando.
È certo solamente che agli scritti di Platone, siano essi debitori o no del Socrate storico, si deve il complesso sviluppo che ha riversato nel senso comune l’idea di anima spirituale, poi travasata nel Cristianesimo dalla fine del II secolo di vita del medesimo.
Non pare però affatto certo che il Socrate storico – non del tutto sicuramente storico – dell’Apologia e del Critone credesse nell’Aldilà, anche se ne prospettava l’esistenza come ipotesi; forse egli potrebbe dirsi oggi un agnostico propenso a non credere, per cui i discorsi che si sentono su "Socrate ideatore dell’anima spirituale immortale" potrebbero essere un po’ frettolosi.

In merito al credo nell’Aldilà di Socrate oppure no, andiamo al capitolo XXXII dell’Apologia platonica dov’egli afferma davanti si suoi giudici: “Vediamo la cosa anche da questo punto, per quale altra ragione io ho così grande speranza che morire sia un bene. Una di queste due cose è il morire: o è come un non esser più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è proprio come dicono alcuni - dottrina orfica e pitagorica della trasmigrazione N.d.A.-, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo. Ora, se il morire equivale a non aver più sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede più niente neppure in sogno, ha da essere una guadagno meraviglioso la morte. Perché io penso che se uno, dopo aver come trascelta nella propria memoria tal notte in cui si fosse addormentato così profondamente da non vedere neppur l’ombra di un sogno, e poi, paragonata a questa le altre notti e gli altri giorni di sua vita, dovesse dirci, bene considerando, quanti giorni e quante notti egli abbia vissuto più felicemente e più piacevolmente di quella notte; io penso che colui, fosse pure non dico un privato qualunque ma addirittura il Gran Re, troverebbe assai pochi giorni e facili a noverare codesti giorni e codeste notti in paragone degli altri giorni e delle altre notti. Se dunque tal cosa è la morte, io dico che è un guadagno; anche perché la eternità stessa della notte non apparisce affatto più lunga di un’unica notte. D’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? […]” (Traduzione di Manara Valgimigli, Opere complete Platone, cit., vol 1). Aggiunge che se esiste l’Al di là, egli potrà conversare coi grandi del passato, come Omero ed Esiodo, e con coloro che, come tra poco egli stesso, ingiustamente furono condannati a morte. Insomma, appare di meno, mi sembra, la propensione a credere alla sopravvivenza e di più quella di ritenere la morte un’entrata nel non esistere.
Diversa era l’impressione che dal testo citato ricavava Bertrand Russell, il quale scriveva nella sua Storia della filosofia occidentale, cit., traduzione di Luca Tavolini: “Nel brano finale, dove considera ciò che accade dopo la morte, è impossibile non sentire che crede fermamente nell’immortalità e che assume in proposito un tono di incertezza” - “Egli non è turbato, come i cristiani, dal timore di un eterno tormento: non dubita un istante che la sua vita nell’altro mondo sarà felice”. Sbaglierò, ma mi pare che l’affermazione d’un Socrate storico fermamente credente nell’immortalità e dell’“assunzione” d’un tono d’incertezza fosse stato inserito dal Russell più che altro per alimentare la campagna ch’egli conduceva contro il Cristianesimo, polemica ben presente in tante sue opere e in particolare nella silloge di saggi pubblicata sotto il titolo “Perché non sono cristiano” (cfr. I super pocket Longanesi & C., traduz. di Tina Buratti Cantarelli, 1972), ma ch’egli infilava pure in opere minori, addirittura nel saggio-pamphlet “Matrimonio e morale” (cfr. Edizione Club del Libro su licenza della Longanesi e C., traduzione di Gianna Tornabuoni, 1982) e che, dunque, non poteva certo mancare in un’opera importante come la sua Storia della filosofia occidentale.
Heinrich Maier da parte sua affermava l’ininfluenza per Socrate del credo nella sopravvivenza, almeno a fini etici: “Il Socrate dell’Apologia proclama solennemente: quel che importa nell’operare, non è se esso rechi vita o morte, ma soltanto se è giusto o ingiusto” – “Egli si stacca dalla morale teonoma altrettanto radicalmente quanto i Sofisti: anche per lui la vita morale è affare degli uomini, non degli Dèi […] per lui il fine normativo della vita morale è un fine dell’uomo individuale, non un fine della divinità […]”.

Secondo Socrate la vita morale e in lei la felicità sono per questa terra, “sicché tutta l’opera sua altro non è che lavoro d’illuminazione morale”, solo a tale scopo secondo lui, non per assicurarsi un paradiso, bisogna che ogni anima umana divenga buona il più possibile e senza trascurare, sempre al fine dell’essere felici, un accorto soddisfacimento dei bisogni naturali come il buon bere, il buon cibo e tutte le altre cose che, praticate con moderazione, rendono la vita più piacevole, anche se in esse sole non si trova la felicità. Se il Socrate storico dell’Apologia platonica afferma con forza che quanto conta nell’agire non è se esso porti vita o morte ma se sia giusto o no, perché è questo l’essenziale per una buona vita, quello sempre storico del Critone sottolinea che massimo bene non è vivere ma vivere nel migliore dei modi, moralmente, che non si può rispondere all’ingiustizia con l’ingiustizia; e un’eco se ne avrà nel platonico dialogo Gorgia in cui l’autore farà affermare con forza al proprio maestro ch’è meglio essere vittime d’ingiustizia che commetterla.

Per Bertrand Russell (in Storia della filosofia occidentale, cit., traduzione di Luca Tavolini) l’affermazione socratica, nel Critone, ch’è meglio soffrire ingiustizia che commetterla influenzerà il Cristianesimo. Tale principio però era già presente, assai prima, nell’etica ebraica. Socrate è stato paragonato a Cristo da molti, non solo dal Russell. Secondo alcuni critici, che sembrerebbero privi di sufficienti cognizioni giudeo-cristiane, l’ispiratore del Cristianesimo sarebbe stato proprio Socrate o, meglio, i dialoghi platonici: Gesú, prima della vita pubblica, avrebbe frequentato la filosofia greca invece della tradizione e dei testi sacri ebraici. In realtà la mentalità di Cristo risultante dai vangeli è giudaica e non socratico-platonica. Secondo il Russell inoltre, “il Fedone è importante in quanto espone non solo la morte di un martire, ma anche molte dottrine che poi furono cristiane. La teologia di San Paolo e dei Padri della Chiesa deriva largamente, in via diretta o indiretta, dal Fedone e difficilmente può essere capita se non si conosce Platone”. Ebbene, quanto a Paolo non si può essere d’accordo, anche s’egli conosceva certamente il Platonismo di mezzo oltre allo Stoicismo e se ne serviva; basti ricordare quanto scandalo avesse suscitato presso gli areopagiti, dopo ch'egli aveva richiamato aspetti della cultura greca per ingraziarseli, la sua inusitata asserzione sulla risurrezione del corpo raccontata dai neotestamentari Atti degli Aposotoli (At 17, 32). Alla risurrezione del corpo dei giusti credevano non solo i cristiani ma anche gli ebrei farisei (della cui setta lo stesso Paolo aveva fatto parte) per ragioni religiose derivanti da ragionamenti sulla giustizia di Dio. Quell'affermazione apolina niente ha a che vedere col Platonismo per il quale solo l’anima è immortale e il corpo è una prigione. Quanto ai padri della Chiesa, essi scrivono quand’ormai il Cristianesimo s’è ellenizzato per opera degli apologisti del II secolo; a suo tempo avevo scritto altrove (libro cartaceo Cristianesimo e Gnosticismo: 2000 anni di sfida, cit.) che “per gli apologisti, Bene = Buono = Verità = Giustizia = Amore secondo Platone; peraltro non dissimilmente, in sostanza, dal concetto della sapienza giudaica, che ritroviamo in Giovanni, di Dio come assoluto d’ogni bene”. Per quanto riguarda la teologia dei padri della Chiesa, dunque, l’affermazione del Russell è da tenere presente, purché si consideri l’apporto greco come meramente strumentale e non determinante, e tenendo presente che il Cristianesimo delle origini, cioè di Gesú e della prima Chiesa, non è platonico (cfr. Cristianesimo e Gnosticismo, 2000 anni di sfida, cit., in particolare il capitolo III - VERSETTI GNOSTICI NEL NUOVO TESTAMENTO? paragrafi: I Libri di Giovanni e le scuole apostoliche; Dualismo esseno e dualismo giovanneo - Il quarto vangelo… le Lettere…l’Apocalisse; La Lettera di Giacomo il minore; Altri autori anti-gnostici del Nuovo Testamento: Paolo, Pietro, Giuda, e il capitolo IV, INIZIA LA LOTTA. APOLOGISTI E PADRI DELLA CHIESA: CENNI, paragrafo Trionfa il concetto greco di anima – essenza: a) Apologisti del Cristianesimo).

L’anima secondo Platone (#ulink_2cdecdce-6e02-58e3-8642-ae6164b7c6a5)

È insomma il Socrate letterario a credere nell’immortalità, cioè è Platone stesso che s’esprime per bocca dell’incolpevole maestro che, essendo ormai defunto, non può più, eventualmente, opporsi. Platone l'aveva incontrato nel 408 a.C. e lo aveva frequentato come discepolo sino alla fine del 399 quando, com'è ben noto, il maestro era stato processato e condannato a morte, per veleno, dai giudici del governo democratico-demagogico d’Atene.
È di Platone il primo sforzo di costituire un pensiero filosofico sistematico, fondando una costruzione intellettuale che accomuni le diverse credenze, giungendo ad assunzioni accettabili da ogni persona ragionevole: un tentativo troppo ambizioso che non riesce a realizzare e che, ancor oggi, è tradotto in realtà, parzialmente, solo in quella matematica che è un fondamentale strumento della ricerca platonica e dove il suo ideale di comunione universale di sapienti si è realizzato.
Platone afferma l'esistenza di due livelli di realtà e di conoscenza, quello del mondo sensibile e quello delle forme o essenze universali. Il secondo s’usa chiamare più sovente delle idee usando tale parola in senso ontologico, cioè secondo la scienza dell’essere.

Arriva alla sua teoria delle idee per il bisogno di riformare la scienza dell’essere dei filosofi detti eleatici, ontologia che fa capo al poema filosofico Della natura di Parmenide per il quale “l’essere è, e il non-essere non è”, apparente banalità che implica qualcosa di più profondo, che il non-essere è impensabile ed è indicibile perché l’essere c’è anche nel pensare e nel dire il non-essere; ma tale pensiero porta a dichiarare meramente illusori i fenomeni, i quali contemplano anche il venir meno e dunque il passare al non-essere e pure il trascorso non-essere di fenomeni che vengono poi all’esistenza; e tale concezione nega il valore dell’esperienza che invece li attesta.

Il problema di fondo è quello d’accordare l’immutabile mondo del puro essere, inaccessibile ai sensi e dove risiedono le idee, a quello dell’esistente ch’è soggetto al divenire e, in esso, al mutamento; ma Platone non riesce a spiegare il divenire, il sorgere, crescere e perire delle cose materiali nelle quali le idee immutabili si riflettono, mentre proprio il divenire è caratteristica tipica dei fenomeni del mondo materiale.

Per questo filosofo (Repubblica, V, 478, 479d.), se è vero che il mondo sensibile non è veramente essere, cioè non è essere che davvero è, mentre tale è solo il mondo delle idee, esso tuttavia non è non-essere ma è un intermedio fra essere e non-essere: cioè proprio quanto il principio di Parmenide afferma non possibile, perché assurdo. Dunque, da Platone il problema non viene risolto. Ci riproverà Aristotele.

Platone finisce con l’accontentarsi di relegare il mondo sensibile a una condizione semi-illusoria e d’attribuire importanza fondamentale solo agli eterni e immutabili Bene assoluto (Dio stesso) e mondo delle idee che sono al di là di tempo e spazio.
Per giustificare l’esistente egli introduce una sorta di sotto-Dio, il Demiurgo: il mondo sensibile è costituito dalle cose materiali plasmate da questa figura divina diversa e inferiore a Dio. Il Demiurgo appare nel dialogo Timeo ed è una sorta d’artigiano divino: il mondo fisico deriva sia dal mondo delle idee sia dalla materia eterna e il Demiurgo funge da mediatore, contemplando le idee stesse, facendole scendere e plasmando l’universo secondo il loro modello; idee, Demiurgo e mondo esistono da sempre, come da sempre esiste il Bene assoluto. Essendo semi-illusorio, l’imperfetto mondo materiale è soggetto a disgregarsi senza posa, per cui il Demiurgo deve occuparsene in continuazione per mantenerlo e, in questo, il mondo trascorre; tale divenire è raccolto dalle impressioni dei nostri sensi.
Questo dio secondario non è dunque creatore ma solo plasmatore e non è onnipotente, a differenza del Dio giudeo-cristiano; la materia lo limita, impedendogli di fare un mondo perfetto; e le idee, cui deve attenersi, lo determinano. È la concezione che sarà raccattata secoli dopo dallo Gnosticismo cristiano (cfr. Cristianesimo e Gnosticismo: 2000 anni di sfida, cit.) che identificherà nel Demiurgo la figura di Jahvè.
Si noti che l’opinione, che s’incontra talvolta, che la figura biblica del Creatore giudeo-cristiano – non di quello gnostico – derivi dai platonici Demiurgo e Bene assoluto, una sorta di figura di mezzo tra i due, o anche solo l’affermazione che l’idea di plasmatore si ritrovi nel Dio della Genesi che plasma il fango creando Adamo, sono congetture da respingere, se non altro per ragioni cronologiche; infatti il libro della Genesi originale, in ebraico, è scritto nel VI-V secolo avanti Cristo e deriva da tradizioni di molto precedenti la vita di Platone (427 - 347 a.C.) e precisamente dalle tradizioni Jahvista, Elohista, Deuteronomista che convergono nella tradizione Sacerdotale (ne parlo a fondo nel mio e-book "Il vento dell'amore" http://www.pagliarino.com/e-book_Il_Vento_dell'Amore.htm (http://www.pagliarino.com/e-book_Il_Vento_dell'Amore.htm) ).
Forse però, all'inverso, si tratta di tradizioni note a Platone? Intendo o come narrazioni orali raccolte dal filosofo presso membri della diaspora giudaica, oppure lette nella stesura originale della Genesi in lingua ebraica, sempre che il filosofo conoscesse tale lingua? Certamente non raccolte dalla traduzione in greco detta dei Settanta, quella poi frequentata dai Padri della Chiesa, che è del II secolo a.C. cioè assai successiva a Platone. Ch’io sappia, non ci sono fonti per sostenere una dipendenza delle figure platoniche del Bene assoluto e del Demiurgo dalla Bibbia in ebraico. È comunque interessante, relativamente al nome biblico di Dio, quanto scrive il teologo Joseph Ratzinger nel saggio “Introduzione al Cristianesimo – Lezioni sul Simbolo apostolico" (traduzione dal tedesco di Gianni Francescani, con un nuovo saggio introduttivo, 2005, Editrice Queriniana) al capitolo 2, La fede in Dio nella Bibbia, precisamente a proposito del quesito se il nome di Dio in Esodo, 3, 13-15 abbia a che fare con l’essere dei greci: “Il senso del testo è manifestamente quello di motivare il nome Jahwè come decisivo nome di Dio in Israele […] attribuendogli anche un preciso significato contenutistico. Quest’ultimo scopo viene ottenuto riconducendo l’incomprensibile termine Jahwè alla radicale hãjâ = Essere. […] Questa spiegazione del nome Jahwè attraverso il verbo ‘essere’ (Io-sono) viene poi sostenuta da un secondo tentativo di chiarificazione, dicendo che Jahwè è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe […]. Innanzitutto: che significato ha il fatto che qui si ricorra all’idea dell’essere quale spiegazione di Dio? Per i Padri della Chiesa provenienti dalla filosofia greca ciò apparve subito come una inattesa e audace conferma del loro passato di pensatori; sì, perché la filosofia greca considerava come la sua scoperta più decisiva l’aver colto, dietro le colluvie di cose singole con cui l’uomo ha quotidianamente a che fare, l’idea universale dell’essere, che essa aveva ritenuto subito la più adatta a esprimere il divino. Ora anche la Bibbia sembrava dire la stessa cosa, e proprio nel suo testo centrale concernente l’immagine di Dio. […] Essi ritennero tanto perfetta l’identità fra la ricerca da parte dello spirito filosofico e la ricezione avvenuta nella fede d’Israele, da nutrire l’opinione che lo stesso Platone non avrebbe potuto di sua iniziativa giungere a tale conoscenza, ma avrebbe conosciuto l’Antico Testamento e avrebbe da esso desunto il suo pensiero. […] In effetti, il testo in greco dell’Antico Testamento che i Padri avevano in mano,” – la citata traduzione dall’ebraico al greco cosiddetta dei Settanta (traduttori), N.d.A. – “poteva far nascere l’idea di una tale identità fra Platone e Mosè, mentre logicamente la dipendenza poteva, semmai, esistere proprio in senso inverso. I traduttori della Bibbia ebraica in greco, infatti, erano influenzati dal pensiero filosofico ellenico e a partire da esso avevano letto e inteso il testo; […] essi avevano, per così dire, già gettato il ponte di collegamento fra il concetto biblico di Dio e il pensiero greco allorché avevano tradotto il v. 14, ‘Io sono colui che sono’, con l’espressione ‘Io sono colui che è’. Il nome biblico di Dio viene qui identificato col concetto filosofico di Dio. […] La versione greca dell’Antico Testamento e le deduzioni dei Padri della chiesa basate su di essa poggiano […] su un equivoco? Su tale questione non solo gli esegeti sono oggi unanimi, ma gli stessi specialisti in teologia sistematica ribadiscono energicamente, e con buoni fondamenti, che questo problema va molto al di là di tutti i problemi di esegetica spicciola. Così, per esempio, Emil Brunner ha categoricamente asserito che il segno d’uguaglianza qui posto fra il Dio della fede e il Dio dei filosofi comporta il travisamento dell’idea biblica di Dio nel suo contrario. […] Si tratta di una caduta nell’ellenismo, di una apostasia dal Dio che il Nuovo Testamento chiama Padre di Gesù Cristo? […] Che cosa dice il nome Jahwè e quale significato ha la sua spiegazione mediante il verbo ‘essere’? […] Un’unica cosa si può asserire chiaramente: una sicura attestazione del nome Jahwè in tempi anteriori a Mosè, e in ambienti estranei ad Israele, manca completamente […] la coniazione del nome completo Jahwè, per quanto oggi ci è dato di sapere, è avvenuta soltanto in Israele: essa sembra essere opera della fede di Israele, che ha qui agito non senza collegamenti, ma comunque in maniera creativa, plasmandosi il proprio nome di Dio e quindi anche la propria immagine di Dio. Oggi, anzi, molti dati della ricerca parlano di nuovo in favore del fatto che la formazione di questo nome sia stata effettivamente opera di Mosè,” – siamo nel XIII secolo a.C., N.d.A. – “la quale ha potuto con esso infondere nuova speranza ai membri del suo popolo in schiavitù. La definitiva formazione di un proprio nome di Dio, e quindi di una propria immagine di Dio, sembra abbia costituito la base di partenza per la costituzione di Israele in popolo”.
Gli scrittori ecclesiastici antichi, anzitutto il grande Ireneo di Lione, definivano Adamo il protoplasto, il primo plasmato da Dio; questo però per ragioni bibliche – “allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2, 7) – e non platoniche, sebbene quegli scrittori ecclesiastici ben conoscessero, e usassero contro gli gnostici, la filosofia greca.
Ha contribuito forse all’equivoco il fatto che il Demiurgo è un dio personale come quello della Bibbia. D’altra parte i medesimi scrittori usavano anch’essi la parola Demiurgo, anche se per indicare il benigno Dio cristiano creatore, ben diversamente dagli autori gnostici cristianeggianti (cfr. - in moltissimi punti - l’opera in due volumi di Antonio Orbe, La teologia dei secoli II e III, traduzione italiana dallo spagnolo a cura di Maria Gilli, Piemme Theologica & Editrice Pontificia Università Gregoriana, II edizione, 1996).
Torniamo a Platone.
Quattro sono le caratteristiche dell’anima umana per lui: è composta di tre parti, la razionale, sede dell’intelletto, l’irascibile, luogo dei sentimenti nobili, tra cui il coraggio, e in genere della forza emotiva buona, e la concupiscibile, sede dell’istinto, delle voglie inferiori; è un principio di vita e si muove da sé, mentre quanto è mosso dall’esterno è privo di anima; è immateriale, le è proprio il pensiero ed è grazie all’intelletto che l’anima comunica col mondo intelligibile delle idee; solo l’anima razionale non muore col corpo ed è eterna.
Le idee sono per lui veramente esistenti oltre l’universo materiale, sono realtà perenni e universali, valori cui il mondo percepibile tende come al proprio fine: l’universo ideale è ordinato dall’idea di Bene divino, che coincide sostanzialmente con Vero, Giusto, Buono, Bello e con l’Amore: le idee sono l’obiettivo dell'anima umana, ch’è immortale grazie alla sua relazione d’amore con le idee. L’amore è intuizione e desiderio del bene e del bello mancanti all’uomo. Così per Platone l’anima supera i limiti della materia e ascende arrivando a contemplare l’idea di bellezza. Si parte dalla bellezza sensibile per giungere al bello assoluto, amando un corpo bello si è solo all’inizio, il fine è amarne l’anima così come dalla bellezza deperibile delle cose in genere si deve passare ad amare la bellezza della conoscenza che porta a contemplare il bello assoluto. Per Platone ammirare le cose belle risveglia il ricordo delle idee contemplate nel mondo delle essenze inducendo l’anima a una sorta di divino delirio ch’è la più alta forma d’amore. Com’egli espone nel celebre mito della caverna contenuto nel dialogo La Repubblica, gli esseri umani afferrano naturalmente, con le sensazioni, solo le ombre delle idee, come se queste fossero proiettate, grazie a un fuoco esterno, all’interno d’una caverna in cui essi vivono senza mai sortirne né poter voltarsi all’ingresso; alcuni tuttavia costituiscono un’eccezione, riescono con l’anima a uscire e ad accorgersi così della bellezza della realtà, quella vera, quella del mondo delle idee: si tratta dei filosofi cui, grazie alla matematica e all'esercizio della dialettica che educano all’ammirazione del bello e del vero, spetta di guidare gli altri alla conoscenza delle idee; e pure di governare lo Stato.
La vita terrestre condotta con rettitudine purifica le anime che, morendo, tornano alla loro dimensione spirituale, mentre una vita viziosa porta a reincarnarsi finché l’anima non giunga a purificazione perfetta. Si noti che per Platone, a differenza dei successivi gnostici, tutti gli esseri umani, anche se in gradi diversi, hanno l’anima razionale, cioè sopravvivono alla morte, benché chi abbia agito male si reincarni in un essere inferiore, a volte di molto, come uno scarafaggio. Non appare improbabile la dipendenza di tale concezione da quella di metempsicosi dell’Induismo, anche se per intermediazione di Orfismo-Pitagorismo.
L’essere umano per Platone non è interamente tale, nel senso che è solo la sua anima immortale, la più perfetta fra le realtà generate, a costituire la sua vera identità di uomo, non il corpo. Le particelle di Spirito dette anime infondono la vita ai loro corpi materiali, cui sono preesistenti.

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Spirito  Anima  Persona Dall′Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo Guido Pagliarino
Spirito, Anima, Persona Dall′Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo

Guido Pagliarino

Тип: электронная книга

Жанр: Книги по философии

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Spirito, Anima, Persona Dall′Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo, электронная книга автора Guido Pagliarino на итальянском языке, в жанре книги по философии

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