Il Giudice E Le Streghe

Il Giudice E Le Streghe
Guido Pagliarino


Guido Pagliarino
Il Giudice e Le Streghe
Romanzo

Copyright © 2017 Guido Pagliarino
All rights reserved
E-book published by Tektime
Tektime S.r.l.s. - Via Armando Fioretti, 17 - 05030 Montefranco (TR)
ISBN 9788873043249

Immagine di copertina: “Le streghe si recano al Sabba”, olio,1878, di Luis Ricardo Falero
Guido Pagliarino
Il Giudice e Le Streghe
Romanzo
4a Edizione, distribuita da Tektime nei formati E-book e Libro
Copyright © 2017 Guido Pagliarino
ISBN E-book 9788873043249

Stesura del manoscritto: dall'anno 1990 all'anno 1992
Opera riveduta e variata dall'autore nell'anno 2016
Edizioni del romanzo:
1a Edizione, solo in libro fisico, sotto il titolo “Un’indagine del ‘500", Copyright © 2002-2006 Prospettiva editrice sas
2a Edizione, solo in libro fisico, sotto il titolo “Il giudice e le streghe”, Copyright © 2006-nov.2011 Prospettiva editrice sas - Da dicembre 2011 Copyright © Guido Pagliarino
3a Edizione, riveduta e variata e munita di postfazione dell’autore, pubblicata sotto il titolo “Il giudice e le streghe (Un’indagine del ‘500)”, in ebook Smashwords e in libro cartaceo Create Space, Copyright © 2016 Guido Pagliarino
4a Edizione, conforme alla 3a, distribuita da Tektime Copyright © 2017 Guido Pagliarino

Indice

Prefazione dell'autore alle due precedenti edizioni cartacee (#ulink_910bb753-2740-57b0-8e72-5e3a50c4e933)
Guido Pagliarino, (#ulink_4cc0fd2c-d9c6-5d3a-8179-771a225dff16)Il giudice e le streghe, romanzo (#ulink_4cc0fd2c-d9c6-5d3a-8179-771a225dff16):
Capitolo I (#ulink_bea79ac7-0626-51aa-8e16-a33fd4f4fd36)
Capitolo II (#ulink_f3655a20-54d5-5c99-9e51-956e72bee3a5)
Capitolo III (#ulink_a68d0d44-029e-5f0b-be57-f9f6bd8352db)
Capitolo IV (#ulink_b927877b-6f63-565d-87aa-fe1a46d6b152)
Capitolo V (#ulink_6f12413b-8ea0-55a0-9a69-068b02b87048)
Capitolo VI (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)VII (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)VIII (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)IX (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)X (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XI (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XII (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XIII (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XIV (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XV (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XVI (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XVII (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XVIII (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XIX (#litres_trial_promo)
Capitolo (#litres_trial_promo)XX (#litres_trial_promo)
Capitolo XXI (#litres_trial_promo)
Capitolo XXII (#litres_trial_promo)
Capitol (#litres_trial_promo)o XXIII (#litres_trial_promo)
Postfazione dell’autore a (#litres_trial_promo)lla (#litres_trial_promo)terza (#litres_trial_promo)edizione (#litres_trial_promo) (#litres_trial_promo)e a questa quarta (#litres_trial_promo)edizione (#litres_trial_promo)
PREFAZIONE DELL’AUTORE ALLE PRECEDENTI DUE EDIZIONI CARTACEE (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

È questo un romanzo ambientato in un’epoca di isterie religiose, di caccia alle streghe e della donna considerata come una cosa, nonostante lo sbandierato precetto cristiano di amare il prossimo e l’affermazione neotestamentaria che “non c’è più uomo, non c’è più donna, ma tutti sono eguali davanti a Cristo”.
Anche se si tratta di un’opera di narrativa, ho tentato d’immergermi nella mentalità del ‘500. Come gli storici sanno, nel guardare al passato bisogna eliminare, il più possibile, il sentire contemporaneo, ché altrimenti si rischierebbero giudizi astorici. Ad esempio la pena capitale, oggi, è normalmente giudicata cosa atroce, nel ‘500 era considerata ovvia punizione e si pensava che l’assassino pentito scontasse con la morte tutti i suoi peccati, salendo così al Paradiso. Come vedremo, già c’era invece chi si batteva contro la tortura, ben prima del Beccaria.
Intervengono nella narrazione personaggi di fantasia e altri realmente vissuti. Il protagonista stesso è figura storica, il cui nome è rimasto per un suo trattato contro la stregoneria. Si sa che era avvocato. Non risulta che fosse giudice pontificio come io immagino. L’ho dipinto uomo privo di auto ironia. Ho cercato d’infilare io ironia e – nero – umorismo involontari, in certi suoi atteggiamenti e in certe sue descrizioni e considerazioni. L’avvocato Ponzinibio e il tremendo domenicano Spina sono anch’essi realmente esistiti, oltre che, naturalmente, le grandi figure storiche che richiamo nell’opera. Pure l’indemoniato Balestrini è veramente vissuto, solo che risiedeva in Piemonte e non nel Lazio: un caso che oggi si potrebbe dire di mitomania e schizofrenia con istinto suicida. Il giovane vescovo Micheli è invece personaggio fantastico, anche se è immagine di alcuni alti prelati che furono accusati di eresia perché predicavano la carità evangelica, i cardinali Pole, Sadoleto e Morone. Pure sono di fantasia, oltre a figure minori, Mora, il cavalier Rinaldi, il principe di Biancacroce. Quest’ultimo ho mantenuto sempre sullo sfondo, incombente.
L’idea del romanzo m’era sorta dopo una ricerca sulla caccia alle streghe per capire, almeno, le ragioni storico – sociali di tanta barbarie al culmine dell’epoca rinascimentale. Quanto avevo trovato è sintetizzato nelle considerazioni dell’avvocato Ponzinibio, del vescovo Micheli, del cavalier Rinaldi e, da un certo punto dell’opera, del protagonista.
Nel XVI secolo persisteva la forma allocutiva voi, ma ormai accanto al lei che, anzi, la stava soppiantando: ho preferito questa perché naturale tanto per me quanto per la maggioranza dei lettori, dato che il voi sopravvive solo in alcune zone del meridione d’Italia. Ho tentato, a volte con l’intento di far sorridere, una lingua che, pur essendo di gran norma moderna, richiamasse in qualche luogo quella del XVI secolo.

Guido Pagliarino
Guido Pagliarino (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Il Giudice e Le Streghe (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Romanzo (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)
Capitolo I (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Nell’anno del Signore 1517, giovane di ventisei anni, io, Paolo Grillandi giurisperito, fui nominato giudice a latere nel Tribunale di Roma, dove cominciai ad apprendere, dal Giudice Generale Astolfo Rinaldi, la pratica dei procedimenti contro i criminali tutti e, primariamente, contro le servitrici del male dette strigi.
Da molto prima del mio ingresso in magistratura, da quando Innocenzo VIII, nel 1484, aveva promulgato la bolla Summis Desiderantes sancendo ufficialmente la guerra a maligni e maligne e precisando i criteri per distinguerli, innumeri processi per stregoneria, quanti mai prima, erano stati celebrati. Sua Santità aveva compreso che di molto era aumentato il numero di persone, maschi e soprattutto femmine, dedite a pratiche di magia e aveva perciò dichiarato "assolutamente necessario non essere pietosi e indulgenti verso di loro". Felice ne era stato l'esito, con gran condanne di assatanati, resi inoffensivi con l'imprigionamento o con il rogo.
D'insostituibile aiuto era stato, e rimaneva per noi, Il Martello delle Streghe, che i dotti domenicani Sprenger e Kramer avevano scritto nel 1486, su incarico di Innocenzo VIII, dove ogni caso era previsto e che dava le direttive per la scoperta e la punizione dei maligni. Purtroppo, nonostante i successi, maggiormente il diavolo s'era impegnato e in numero più grande ancora aveva suscitato streghe e stregoni: essi parevano tanto più aumentare quanto maggiormente numerosi divenivano i processi. Così, almeno, io credevo. Infatti la maggioranza degl'inquisiti confessava senza bisogno di tortura; e addirittura un’imputata, quell’Elvira che mai io potrò obliare, aveva ceduto innanzi a me senza nemmeno riceverne minaccia. Ci era stata consegnata con la solita formale richiesta di grazia. Noi sapevamo bene che non s'aveva da tenerne conto perché, altrimenti, noi stessi saremmo stati sottoposti a giudizio: si trattava soltanto, una volta avuta la confessione, di scegliere la pena. La donna era stata denunciata per una fattura su tal Remo Brunacci, come lei villano in Grottaferrata. Preziosa era stata la testimonianza del curato piovano, tanto che, a parte la vittima, non era stato necessario interrogare altri paesani: il Brunacci aveva avuto il membro virile sottratto con magia dalla strega e se n'era confidato con l’arciprete. Questi gli aveva allora chiesto di abbassarsi le brache e aveva personalmente verificato: effettivamente, come aveva poi testimoniato, il membro non c'era. Aveva allora invitato il fedele a fare penitenza: digiunare e bere acqua benedetta, pregando il Cielo per riottenere il maltolto. Perché meglio potesse concentrarsi nella preghiera, aveva chiuso il penitente, fornendolo d'un secchio di quell’acqua, in una stanzetta vuota della canonica e ve l'aveva tenuto per un giorno e una notte. Quando finalmente gli aveva riaperto, il piovano aveva eseguito su di lui un nuovo controllo ed era apparso a entrambi il virile membro, con gran gioia e meraviglia di Remo che, appena congedato, aveva raccontato la storia a tutto il borgo. Era dunque arrivata una lettera anonima all'Inquisizione, cui era seguita quella ufficiale dell’arciprete.
In quel tempo assumevo tali denunzie con partecipata indignazione. Anche la mia famiglia, infatti, aveva dovuto subire mali estremi da una strige. Avevo nove anni e, dopo aver appreso a leggere, scrivere e fare di conto, ero ormai a bottega da mio padre, mastro spadaio, quando mia madre, colma di salute per tutta la vita, era stata improvvisamente presa da febbre maligna ed era morta. Ero figlio unigenito, nonostante i miei avessero desiato numerosa prole da avviare all’arte di famiglia. Tante volte la mamma, lacrimando, aveva ripetuto a mio padre che doveva essere stata la levatrice che m’aveva tratto al mondo a impedirlo: era venuta a diverbio con lei, qualche mese dopo la mia nascita, per una questione di panni sgocciolanti, e quella donna doveva averle fatto fattura: è di pubblico dominio che guaritrici e levatrici son streghe sospette per il solo fatto dell'arte loro; lo stesso Martello delle Streghe indica quelle donne come potenziali maligne. Temendo vendetta pure su di me, i miei genitori ne avevano parlato sempre e solo fra di loro. Purtroppo una sera, essendo come sempre a tavola con noi, qual parte del loro salario, i due garzoni di bottega, il mio genitore aveva bevuto piuttosto ed era caduto preda di gravissima tristezza. La lingua gli si era sciolta e aveva svelato il segreto. Se non entrambi, uno dei due doveva averlo raccontato in giro. Così mia madre, due giorni dopo, era stata affrontata sull’uscio di casa dalla levatrice che, viperina, le aveva soffiato che a una come lei, che andava a spargere voci, stavano bene disgrazie. Un mese dopo, colpita da sortilegio di quella lurida strega, la mamma era defunta. Mio padre, perso il lume per il lutto e il rimorso d’aver provocato la ritorsione della maliarda, aveva per prima cosa picchiato i garzoni, nemmeno che questo avesse potuto cambiare la sorte dell’amatissima moglie e non fosse stato il suo bere la prima causa dell’accaduto. Gonfio di odio, perduto ogni timore, al funerale aveva denunziato pubblicamente la levatrice; d’altronde, il fatto stesso ch’ella non fosse stata là presente, a pregare per la morta, era d’accusa. Il curato aveva avvisato l’Inquisizione; tuttavia la strige, avvertita da qualcuno, s’era supposto dal diavolo stesso, s’era eclissata per sempre e non aveva avuto punizione. Sino a quel punto, io avevo solo alternato pianto a silenzio. Conosciuta la fuga dell’assassina, ero esploso: “La troverò io!” avevo gridato a mio padre: “Punirò col rogo lei e tutte quelle come lei!” Non avevo demorso, e tanto avevo detto per giorni e settimane che il genitore, anche lui bramoso di giustizia, aveva chiesto consiglio al curato. Così ero stato avviato agli studi da giurisperito. Avevo però continuato a lavorare nella bottega Grillandi ogni volta ch’era stato possibile. Per questo, a forza di battere spade, il mio braccio destro era divenuto muscoloso, col tempo, quasi il doppio del mancino. Dopo un paio di anni, mio padre s’era risposato con una vedova senza figli. Dopo solo alcuni mesi, la consorte era stata colta da violentissimi dolori al ventre e, di lì a pochi giorni, era morta. Il mio genitore s’era sposato una terza volta, con una cugina. Con lei aveva concepito una bambina, ma nel venire alla luce questa aveva rivelato l’orrore di due teste e, durante l’atroce parto, tanto madre che figlia erano decedute, la prima insanabilmente squarciata dal doppio capo della nascente, la seconda per non aver preso a respirare. La strega, di lontano, aveva continuato a lanciare maleficio su tutte le femmine della famiglia. Il nostro odio per lei era, se possibile, aumentato. Quand’ero giunto al dottorato, come nell’uso mio padre aveva comprato, coi buoni uffici del prete e gran somma da distribuire fra potenti, la mia carica di giudice. Pure il curato aveva avuto donazione. Al mio genitore non erano rimasti né pecunia, né argenteria, né armi, così che, per acquistare le materie con cui fabbricare nuove spade, aveva dovuto chiedere prestito a un banco. Avrei però, negli anni, compensato il suo sacrificio, lasciandogli un decimo di ogni mio stipendio.
Mai l’assassina di mia madre e delle mie matrigne era stata trovata, ma ad ogni arresto di strega il mio cuore aveva esultato. Ricordo che, la volta che ci avevano portato Elvira, avevo esclamato innanzi ad Astolfo Rinaldi: "Cavare augello a un galantuomo! Ah! Ma sarà fatta giustizia." Al principale era sfuggito un breve sorriso, che io avevo inteso come: "Sì, adesso ci pensiamo noi"; e aveva detto: "Boccaccio". Sapevo ch'egli era grande estimatore del Decamerone, testo che allora, prima che nel 1559 Paolo IV introducesse l'Indice dei Libri Proibiti, era di libera lettura; ma non conoscevo ancora quell'opera e non avevo capito quanto il giudice aveva sottinteso; né avevo osato chiedere lume, per non apparire incolto. Per me, amavo opere severe e, soprattutto, l'Inferno di Dante che mi pareva quasi un simbolo dell'eroica opera mia contro il maligno e chi s’era intricato ne la sua “selva oscura”.
Elvira era stata catturata e imprigionata secondo la prassi. Il capo dei gendarmi, con due guardie armate e un domenicano inquisitore, aveva bussato alla sua porta. Non appena aperto, senza neppure darle il tempo di parlare l'avevano imbavagliata, legata, condotta a Roma e qui segregata a pane e acqua in una cella dell’Inquisizione, in attesa del procedimento. Dopo la condanna religiosa, ci era stata consegnata per il processo secolare, cui erano stati presenti, oltre a me e al Rinaldi, l'inquisitore e i due testimoni, il Brunacci e il piovano, già da noi interrogati. Tutti eravamo celati all'imputata, ma in modo di poterla vedere e parlare con lei per apposite aperture. La strega aveva innanzi solo gli aguzzini. Subito, su ordine del Rinaldi, avevo puntato alla prova suprema, la confessione. L'inquisita era già stata legata, ignuda, in posizione tale da poter raggiungere con tormenti qualsiasi parte del suo corpo. Non appena udita la mia voce e prima ancora ch'io avessi minacciato tortura, Elvira aveva tutto confessato. Non me n’ero stupito: sapevamo che pure presso l’Inquisizione, s’era comportata così. Mi aveva detto d'essere strega da ormai quattordici anni e, rispondendo a mie precise domande secondo la casistica del Martello delle Streghe, aveva ammesso d'aver ucciso e danneggiato bestiame e coltivazioni; d'essere assassina di uomini e infanti maschi; che s'ungeva la vergogna con magico grasso, quivi infilzava il manico d’una ramazza e, grazie a quegli artifici, volava al sabba dei diavoli, cui il principe nero in persona partecipava e vi era adorato da lei e da altre scellerate; e che il maligno, dopo che l’assistente al deretano gli aveva alzato la coda e ogni presente gli aveva debitamente reso omaggio baciandogli la putente cloaca, con ciascuna delle streghe si congiungeva, secondo e insieme contro natura tramite il suo biforcuto organo maschile; e ch'ella maliarda teneva in una gabbia, invisibili a ognuno fuor che a lei e al demonio, i membri virili di tutti gli uomini che aveva stregato, oltre venti, i quali si muovevano come uccelli vivi e mangiavano avena e grano; e che il diavolo veniva ogni tanto da lei a rimirarli per divertimento. Le avevo infine domandato se lucifero le si fosse manifestato nella famigerata forma del “bel Lodovico”, cioè “uomo in tutte le membra, eccetto ne’ piedi, li quali sempre parevano piedi di oca, rivoltati a dietro e riversati per cotal modo che era rivolto a dietro quel lo suole esser davanti”. Aveva risposto di sì. Rea confessa di peccati e, insieme, di reati d'ogni sorta, primi l'omicidio e la mutilazione di cristiani, come si sarebbe potuto non abbruciarla? D'altronde, avend’ella subitamente confessato, le s’era concessa la grande misericordia d'essere strangolata prima dell'accensione del fuoco. Ciò nonostante, una volta al palo, appena prima d’essere strozzata dal boia con la corda che le cingeva la gola, aveva maledetto tutti noi. Io allora non me n'ero dato pena, sapevo che la confessione era prova suprema; ed ero stato, come sempre, orgoglioso del buon servizio reso a Dio e, in lui, alla memoria di mia madre.
Talmente ero rimasto sicuro del gravissimo pericolo della stregoneria che, tempo dopo, nel 1525, avevo pubblicato un Tractatus de Sortilegis quale documentazione e ammonimento. Quest’opera aveva accresciuto, ahimè! la mia buona fama presso l'Inquisizione papale monastica.
Una cosa però devo aggiungere, in nome della verità: non ho inteso, manifestando doglianza, che sempre i fenomeni diabolici fossero e siano mera apparenza. Anzi, io in persona, agghiacciato, assistetti una volta a un fatto di possessione indubitabile, che più avanti narrerò; e di sicuro un processo, di cui pure dirò, vide imputati dei verissimi servi di satana. Sono ormai certo tuttavia che, per la maggiore parte, streghe e stregoni non furono tali e, dunque, che errai quasi ogni volta.
Capitolo II (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Il dubbio cominciò a nascere cinque anni dopo la pubblicazione del mio tomo.
Era il secondo pomeriggio d'una tepida giornata di fine inverno, ormai quasi al tramonto. Tornando a casa, al mio solito a piedi, m'ero soffermato nel gran mercato di alimenti e tessuti che occupa tutta la piazza del tribunale. Era quella l'ora in cui le bancarelle smobilitano e si può trovare cibo a minor prezzo. Comprata una bella pollastrina viva, che m’ero fatta uccidere, me la conducevo verso casa pendula innanzi, tenendola per le zampe nel pugno destro, mentre nel sinistro stringevo, come sempre quando incedevo, l'elsa della mia spada. Intendevo apparire, come ogni volta, fiero e potente nonostante l'imbarazzo di quel pennuto; e debitamente ognuno m'aveva fatto ala e tanto di cappello, sia sulla piazza sia nel resto della via; salvo... Ebbene, un infante sconosciuto, ero ormai quasi a la porta della mia dimora, non s'era scansato! Anzi, m’aveva urtato ed era corso via senza chiedere venia nonostante un mio offeso: “Poffarre!”; di più, quand’era ormai di molte braccia lontano confuso nella folla, avevo dovuto subire l’onta vile d’una certissima pernacchia. Solo poi avrei compreso ch'era stato quello un segno del Cielo contro la mia superbia e, fors'anche, della visita che, di lì a poco, avrei ricevuto; ma al momento, m’ero illividito.
Una volta a casa, un appartamento nei pressi del tribunale dove abitavo solo e con un solo servitore, dismessa l’ira col bagnarmi la testa d’acqua fredda, raccomandai al servo l'attenta cottura arrosto della pollastrina. Non era stagione, altrimenti avrei comandato di friggerla nel sugo di quel novissimo frutto che alcuni chiamano il pomo di oro
ma in realtà, quando giustamente maturo, è rosso inferno, tanto che, come mi era stato riferito mesi prima da una spia, il popolino, ben inteso quando sa di non essere udito, usa chiamare quello splendido piatto “er pollo a la dimonia”1 ma i demonologi, subito da me interpellati, assaggiato quel cibo con assoluto scrupolo, ripetutamente, avevano concluso che in quell'ottima pietanza il maligno non aveva dimora e che ogni cristiano poteva mangiarne senza peccato, purché non con gola.
M'ero appena infilato a mio comodo entro la veste da camera e, assiso sulla scranna del mio studio, attendendo il desinare m'accingevo a riprendere una tralasciata lettura de L’Orlando Furioso, quando bussarono all'uscio.
Il servitore m'annunciò la visita dell'avvocato Gianfrancesco Ponzinibio. Era questi il malfamato autore d'un trattato contro la caccia alle streghe, stampato una decina d'anni prima, che io non avevo letto ma conoscevo dai veementi attacchi del teologo Bartolomeo Spina, domenicano gran cacciatore di maligne, contenuti nella sua Quaestio de Strigibus, pubblicata un biennio dopo quell’empio tomo. Le critiche del monaco molto avevano posto a rischio lo sciocco avvocato, anche perché lo Spina era importante e ascoltato funzionario del Medici da Milano che, proprio in quel 1523, era stato eletto papa col nome di Clemente VII e che l’aveva presto levato a cardinale e, dopo non molto, a Grande Inquisitore.
Va ora detto che io non ero più un inesperto magistrato ma tutto ormai, quale Giudice Generale, mi stava sottoposto nel tribunale di Roma, poi che anch’io ero aumentato, tre anni prima, nella stima di Clemente. Infatti, durante il gran sacco dell'Urbe attivato dagli Imperiali nel 1527, m’ero adoperato, a rischio della vita, per porre a salvamento i documenti dei processi in corso e di quanto possibile dei passati. Proprio per questo mio potere nel tribunale, come avrei inteso, il Ponzinibio s'era rivolto a me. Ciò aveva osato perché, ormai, egli era forte della protezione di un altro domenicano, l'austero monsignor Gabriele Micheli, ventiseienne soltanto ma assai dotto, potente e stimatissimo nell'Urbe.
Per rispetto al vescovo, che oltretutto già allora godeva fama di santo, ricevetti il Ponzinibio.
Nel suo trattato l'avvocato aveva negato la realtà dei sabba e delle cavalcate volanti e condannato lo strumento della tortura per le confessioni. Ebbene, pare incredibile ma, non appena dopo i saluti, senz'altri convenevoli, egli esordì: "Persino lei, Signoria, confesserebbe d'essere uno stregone se le martoriassero i testicoli con tenaglie roventi!"
Me ne indignai massimamente: come osava parlarmi così, senza cortesi preamboli, senza il dovuto rispetto, senza perifrasi? Tenaglie roventi a me?! "Sappia per certo, mio dotto signore", gli risposi scuro in volto, ma non senza cortesia nella voce e senza affatto scompormi, "che molte streghe confessano non solo senza avere subito tortura, ma non avendone ancora ricevuto la minaccia." Avevo esagerato, perché solo Elvira s'era comportata in tal modo; ma rammentavo l'assoluta conferma che aveva saputo dare alla mia, peraltro già sicura, coscienza.
"Se permette, dottissimo giudice", continuò il vagheggione come se neppure avesse udito, "andrò indietro di secoli, perché meglio possa capire."
Una nuova impertinenza! Ebbi l'impulso di farlo cacciare dal mio servitore; ma pensando alla nobile figura del suo protettore, mi trattenei.
"Andiamo all'inizio del decimo secolo", proseguì, a un manoscritto del monaco Regino di Prüm, oggi a mani del saggio padre monsignor Micheli, cioè alla trascrizione del Canon Episcopi, a sua volta di molti secoli precedente."
"Il Canon Episcopi?" feci eco, cominciando a prendere interesse: "Dei primi secoli della Chiesa?"
"Sì. Potrà leggerlo presso il suo attuale possessore, del quale io sono qui messaggero; ma intanto, se permette, gliene farò accenno."
L'avevo sino ad allora tenuto in piedi, sulla porta del mio studio. Avendolo saputo ambasciatore di tanto protettore, ed essendomi ormai incuriosito, lo feci accomodare e mi accomodai.
"Magia e stregoneria", continuò non appena sedutosi, "seguono la storia dell'uomo, da ben prima del Cristianesimo. Riti stregoneschi son descritti nell'antica letteratura, come in Apuleio, or novamente oggetto di lettura e studio da parte di letterati distinti; e la scoperta inoltre e l'indagine su vecchissimi testi, quali l'Hermetica e la Cabala, da parte del Ficino, del Pico della Mirandola..."
L'interruppi, di nuovo infastidito: "Mio sapiente signore, queste cose sono vere, ahinoi! e ben note anche a poveri insipienti come questo Giudice Generale che pazientemente la sta ascoltando; ma esse di più portano, semmai, a vegliare e a difendersi. Certamente il demonio è attivo in tutta la storia! Pensa di dirmi qualcosa di nuovo? e crede non sappia, ad esempio, dell’antichissima strega di Endor, che predisse la sventura al re Saul?" aggiunsi a mostra del mio sapere, citando il primo caso che mi era venuto alla mente; e, storcendo all'ingiù la bocca, lo fissai negli occhi onde fargli abbassare lo sguardo; ma egli non l'abbassò affatto, e mi sorrise; poi chinò la testa assentendo come a scusarsi e, subito levatala, riprese: "Mi perdoni, mio giudice, ma voleva essere solo un'innocente premessa. Non dubitavo affatto del suo sapere."
Mostrai d'accettare le scuse abbassando, ma più brevemente di lui, il capo per un attimo: "Venga al Canon Episcopi", gl'intimai, "o non la tratterrò oltre"; e cominciai, per buon peso, a tamburellare sul bracciolo del mio seggiolone colle dita della man destra.
Accelerando allora fin quasi a unire tra loro le parole, il Ponzinibio seguitò: "Il Canone, chiedo venia, Signoria, afferma che esistono cattive femmine che credono di cavalcar animali di notte con la dea Diana e di coprire gran distanze in breve tempo e in luoghi segreti svolgere con spiriti incarniti cerimonie blasfeme, ma sottolinea che si tratta soltanto di allucinazioni o di sogni, provocati dal diavolo per impossessarsi della mente delle persone; e sa quali sono i rimedi stabiliti?" Non mi lasciò il tempo di parlare e proseguì: "Penitenza e preghiera. Così è detto nel Canone e così opera la Chiesa fin verso il 1000; poi, bastano pochi anni: un secolo dopo, come risulta da altri documenti presso monsignor Micheli, la gran parte del clero accetta invece, ormai, la realtà esterna di quei fatti, mentre il popolo tutto ne ha l'assoluta certezza; e la magia del diavolo, il suo apparire in persona, visibile, ad adunanze di streghe e stregoni diviene nei secoli cosa sempre più indubitabile."
"Infatti, indubitabile è; e può costare assai caro il pensare altrimenti", replicai severissimo. Stavo per aggiungere una maggior minaccia verso il Ponzinibio, quando mi risovvenni del suo potente protettore e, avendo ormai capito ch’egli pure la pensava così malamente, tacqui.
Nel mio tacere, l'avvocato replicò: "Eppure, mio giusto signore, il mite atteggiamento del Canon Episcopi indicherebbe, forse, che gli antichi nostri padri erano sprovveduti? Possibile che, mentre fino all'undicesimo secolo, sin quando la tortura fu illegale e a tutti gl’inquisiti si garantì un processo giusto", il Ponzinibio, guardandomi dritto negli occhi, calcò la voce su quel giusto, "streghe e stregoni fossero fenomeno assolutamente di secondaria importanza e invece, dopo, vie più ne sia aumentato il numero fino ad essere considerati oggi uno dei più grandi pericoli? Ciò che appare rimedio non sarà invece causa? Come dissi, chi potrebbe resistere al dolore o, anche solo, alla sua attesa certa senza dirsi colpevole? Possibile che negli ultimi secoli, che tanto mostrano di tenere in gloria la sapienza, e in questo particolarmente, si sia persa la ragione, gloria del Cristianesimo nel primo millennio?" Finalmente concluse: "Monsignor Micheli prega per lei e desidera ardentemente vederla, signor Giudice Generale. Egli l'attende giovedì nella sua casa, due ore dopo il levar del sole. Cosa devo riferirgli?"
"La mia obbedienza verso monsignore è assoluta. Gliela manifesti e gli dica che verrò."
Capitolo III (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Era la mattina successiva, martedì. Ancòra due giorni mancavano al mio appuntamento con monsignor Micheli.
Stavo eseguendo un importante còmpito, certamente d'ordine del Papa perché assegnatomi dal principe di Biancacroce in persona, suo portavoce secolare.
Speravo di poter compiere l'incarico entro il primo pomeriggio, per potermi poi recare, come le avevo promesso, da Mora, donna del volgo assai più giovane di me, ventitré anni appena compiuti, capelli neri e folti, volto e fisico da ninfa, che mantenevo segretamente e con cui fornicavo, senza mai confessarmene nel timore d'averne punizioni gravissime. Non sapevo infatti di chi fidarmi, e in quel tempo non era stato ancora istituito il confessionale, arredo che, dopo il Concilio di Trento, avrebbe garantito un qualche anonimato al penitente.
Ero assai dubbioso, tuttavia, di poter esaurire il mio dovere in tempo per ritrovarmi dalla mia Mora, sia pure con ritardo.
Provavo un'imprecisata inquietudine.
Erano con me, a piedi tutti perché nel pieno intrico di un’alta, oscura selva, uno dei miei giudici a latere, Veniero Salati, sei gendarmi di scorta e, innanzi ad aprire la via con la sua spada fra rame e bronchi, il tenente comandante la Guardia del tribunale Angelo Rissoni.
Sapevamo tutti che i problemi della Chiesa avrebbero avuto finalmente soluzione, se solo fossimo riusciti nell'impresa: l'eresia protestante si sarebbe estinta e splendida evangelica strada sarebbe stata riaperta alla cristiana popolazione, finalmente riunita.
Una gran gioia era dunque nell'animo mio e, sicuramente, di ciascuno, come avevo compreso dalle parole pronunciate dalle guardie e dal mio aiutante. Quella contentezza sapeva trattenere la nostra ansia: nulla noi conoscevamo della strada da seguire e si avanzava provando. Il Rissoni taceva, intento completamente al suo incarico di capofila: vicine erano le paludi e quelle bisognava evitare prima di giungere finalmente alla mèta.
Ricordo il sudore sulla mia fronte, gocciole che continuamente dovevo tergere colla manica sinistra, mentre stringevo come ogni altro nel pugno destro la spada sguainata: si sapeva infatti che c'erano lupe e lonze in agguato.
Ci attendeva lungo la via il mio antico superiore cavalier Rinaldi, ora maggiordomo nobile di sua Santità, che ci avrebbe fornito le ultime istruzioni; ma nessuno di noi sapeva dove l'avremmo incontrato: ci era stato detto ch'egli stesso ci avrebbe, al momento opportuno, rintracciati. L'operazione era talmente segreta che neppure noi potevamo conoscerne con precisione tutte le fasi.
Dopo molto marciare, ancora non s'era usciti da quell’aspra selva. Il sole era ormai a picco, come avevo intravisto alzando lo sguardo a uno spiraglio tra le foltissime foglie. Certo, per quel giorno non avrei più potuto visitare la mia Mora.
Fu su questo pensiero che vidi il tenente comandante sprofondare e sparire in un sol amen entro il terreno: sabbie mobili! Invano io e due gendarmi tentammo di raggiungerlo, prima immergendo le braccia nella melma, proni sulla frontiera del terreno solido, e poi rimestando l'infero delle sabbie con un lungo ramo colà raccolto: l'ufficiale era finito troppo nel profondo.
"La porta dell'inferno!" urlò, non più rattenendosi, il servente ufficiale vice comandante del drappello: "Egli è in mano al diavo..."
Lo zittii con uno sguardo glaciale e di sèguito gl’intimai: "Assuma il comando della scorta! A capofila, presto, e cerchi per noi un'altra via."
Assai di cattiva voglia, come denunciarono l'espressione del viso e il passo impastoiato, ubbidì.
Soggiunsi per tutti: "Forza e speranza!" e a ciascuno indirizzai il mio sguardo sicuro e altero.
“Superbia!” sentii allora sonarmi nella mente. Mi guardai attorno, per comprendere se pure gli altri avessero udito; ma nessuno lo mostrò; e provai timore: chi aveva parlato?
Seguendo la nuova direzione, dopo un altro gran tempo, ormai quasi al tramonto incontrammo, in una piccola radura, il cavalier Rinaldi, completamente solo. "Di là", disse, facendoci segno col dito di voltare alla nostra sinistra, verso un sentiero che s'apriva, a poche braccia da noi, tra alti e foltissimi pruni. Indi, senz'altre parole, dopo avermi lanciato uno sguardo di odio, corse via, come se temesse di me, nella direzione opposta.
Per quella strada, dopo non molto, sbucammo finalmente innanzi al mare, su di una spiaggia di rena chiarissima, quasi bianca.
Tutti eravamo stati scelti fra i natatori perché avevamo l'ordine, là giunti, d'immergerci nel pelago e dirigerci verso il largo dove, non visibile da terra, ci attendeva la barca di Pietro.
Abbandonammo dunque le armi sulla sabbia, c'immergemmo e cominciammo a natare. Il sole iniziò a tramontare e presto l'acqua divenne color dell'arancia; e, con gran disgusto, vedemmo, solo allora, bisce e altri luridi rettili attorno a noi a pelo d’acqua e sentimmo i tocchi d'altri di loro sulle gambe e sulla schiena. Per poco, un serpentello sottilissimo a strisce gialle e verdi, non più lungo del mio dito medio, non m'entrò nella bocca. Come non fosse stato bastante, nuvole di zanzare vennero sopra di noi, molte posandosi sulle nostre fronti e sui nostri orecchi a suggerne il sangue. Pregando e incoraggiandoci l'un l'altro, continuammo; e improvvisamente, invece della barca di Pietro scorgemmo, con dolorosissima sorpresa, un'altra riva: non il Mare della Purezza che ci aveva posto a mèta il Papa, dunque, avvolgeva i nostri corpi, ma li circondava una grande laguna d'acqua salmastra.
Natammo a quella spiaggia, ormai quasi sfiniti, mentre un ancor maggiore numero di rettili andava sfiorandoci; e fummo finalmente alla riva.
Che fare adesso? Ci abbattemmo sulla rena, ansanti; ma, dopo un poco, "Proseguiamo!" ordinai imperioso, levandomi in piedi in un improvviso scatto di buon orgoglio. Ormai, era quasi buio.
Così facemmo; percorsi pochi passi tuttavia, un terremoto, stranamente silenzioso, spaccò in un momento la terra sotto di noi, aprendo una voragine che inghiottì Veniero Salati, a me vicino, e ogni altro fuori che me: infatti, in quel medesimo tempo, un braccio uscì da una nebbia lattea che, misteriosamente, s'era formata al mio fianco e la sua mano, che portava al dito l'anello episcopale, m'afferrò.
Qui mi svegliai, nella mia camera da letto: era ancora la notte fra il lunedì e il martedì.
Solo più avanti avrei compreso il senso di quell'incubo. V'erano dentro tanto il mio tempo prossimo che il futuro mio e dei miei collaboratori: anni dopo, papa Paolo IV, in gara con eguali azioni dei protestanti, avrebbe riacceso con la massima diligenza, orrende come mai prima, le cacce agli erranti. Il futuro cardinal Micheli si sarebbe adoperato contro l’omicida volontà papale, riuscendo, quanto meno, a far condannare una parte degli inquisiti alla detenzione anziché a morte: per contenere tutti i reclusi, sarebbe stato necessario ampliare la prigione dell’Inquisizione. Il massacro sarebbe stato, comunque, spaventoso; e ne sarebbero stati ammazzati anche il tenente comandante Angelo Rissoni e Veniero Salati, divenuto da un pezzo Giudice Generale al mio posto. Il cardinal Micheli, per diretto ordine di sua Santità, sarebbe stato recluso senza processo, fino alla morte di quell’eccellente papa. Solo io, entrato in convento di clausura un anno dopo quel sogno dantesco, vivendo come semplice, ignorato penitente, avrei superato indenne, fino ad oggi, ogni persecuzione.
Intanto, non intesi immediatamente il senso dell'allegoria; ma questo avvertii subito con sicurezza, che l'esclamazione udita verso la metà dell’incubo, “Superbia”, era un monito, e che m'era venuta dal Bene, non da satana.
Capitolo IV (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Il dì seguente, nel pomeriggio, mentre ero al corpo di guardia intento a discorrere col tenente comandante, un messo, sbirro comunale in Grottaferrata, giunse per me in tribunale. Mi comunicò, davanti agli armigeri, che il piovano curato del suo borgo si sentiva in fine di vita e desiderava parlarmi di gravissima cosa, prima di spirare. Mi scongiurava di non rifiutarmi.
Io avevo davvero in programma, quel giorno, di visitare Mora. Fu dunque assai di mala voglia, dopo non poca esitazione, che dissi al messo di sì; ma essendo innanzi a tanti testimoni, non avrei potuto altrimenti: come Giudice Generale dovevo dare l'esempio del senso del dovere morale e della carità. Domandai però ch'egli m'attendesse, perché non intendevo cavalcare da solo sulla strada insicura, ma neppure sottrarre guardie del tribunale al loro còmpito per ragioni non d'ufficio; e n'ebbi pure la promessa che m'avrebbe riaccompagnato a Roma.
Non potei avvertire la mia amata; ma non essendo quella la prima volta che i miei incarichi mi trattenevano, ero certo che non se ne sarebbe preoccupata. D'altronde, ella ben sapeva di dovere ogni cosa a me e mai di nulla s'era lamentata.
Nel viaggio non incontrammo alcun male e, verso sera, giungemmo al borgo.
Lo sbirro mi condusse direttamente alla canonica. Ci aprì un giovane sacerdote che ebbe un evidente sussulto quando mi qualificai. "Il piovano s'è appena confessato, ed è ancora lucido", mi disse, con debole voce, nel condurmi su per le scale verso la stanza del suo superiore: "Già gli ho somministrato l'Eucaristia e l'Unzione e pare che questa l'abbia fortificato, perché ha riacquistato più forte e definita la parola."
Il miglioramento che, di solito, precede la morte, pensai io spontaneamente; e subito mi turbai: da buon cristiano, accoglievo con fede la capacità taumaturgica dell'Olio Santo; perché, dunque, m'era venuto quel blasfemo pensiero? Non c'erano dubbi, certamente era stato il diavolo. Forse non voleva ch’io parlassi col curato? Feci il Segno di Croce e iniziai a pregare, proprio mentre stavo entrando dal morente, imitato dal giovane prete e dalla guardia, che era salita dietro di noi. Essi pensarono di certo a un'orazione per quel moribondo, ciò che, d'altronde, pure avevo posto nella mia intenzione.
La stanza, molto piccola, era miseramente arredata, una panca monacale, alcuni scaffali in legno grezzo per i libri e, a giaciglio, tre assi ricoperti di paglia posati su cavalletti. Il locale era appena illuminato da due ceri.
Il curato arciprete pareva appisolato; ma alle nostre preghiere aprì gli occhi e si volse, con espressione di sollievo, verso di me, emettendo un lamento.
"È il cilicio", sussurrò il pretino, appena terminata l'orazione, "lo porta da tanti anni e non ha voluto glielo togliessi neppure ora."
"Ci lasci soli e s'allontani", gli comandai. "Anche tu", indirizzai allo sbirro: "Per oggi, di ritornare non si parla. Riposerò qui. Vieni ad attendermi all'alba; e intanto, chiedine debita autorizzazione al borgomastro, facendo il mio nome."
Una volta soli, il piovano mi fece cenno d'avvicinare la panca al suo giaciglio.
Appena accanto, prese a parlarmi; e a mano a mano che venne dicendomi, io allargai sempre di più la bocca.
Mi narrò d'Elvira, la strega contro cui aveva testimoniato anni prima.
La donna, ancor giovane, era giunta, attraverso molti mali, da Benevento, famigerato luogo di maligne nei pressi del quale, come aveva raccontato il teologo Spina nel suo trattato, sotto di un noce esse si radunano a compiere orribili cose e a concertarne di nuove. Sua madre era stata una di loro. Io già sapevo di quella strige per averne letto nel tomo di quel dotto domenicano. Essend'ella appollaiata un giorno, come avvoltoio, su di un ramo del noce, era passato di là, solingo, un giovane mercante, gobbo ma di fattezze sublimi e di nobilissimo parlare, che al vedere la strega, donna peraltro assai bella anche se non più giovanissima, aveva preso a conversare con lei. Ella l'aveva subito desiderato secondo le più bestiali voglie, e gli aveva promesso di togliergli la gobba, per sempre, s'egli avesse accettato di soddisfarle. Così era accaduto. Di passaggio poi a Benevento, all'osteria, dopo grandi brindisi il mercante aveva, ridendo di gioia, raccontato il fatto, per poi allontanarsi verso il suo destino senza poter prima essere interrogato dall'autorità. Così non s'eran potute conoscere le fattezze della strega per arrestarla. Era però accaduto che, sparsasi sveltamente la voce, un villano dei dintorni, anch'egli gibbuto, si fosse recato sotto il noce sperando di trovarvi la maliarda e di avere lui pure quel cavamento. Ella c'era, ma l'uomo era a tal punto brutto e talmente aveva il fiato vinoso che la strega, indispettita, invece di togliergli la gobba gli aveva attaccato sopra quella dell'altro. Giunto al paese disperato, il contadino aveva raccontato la sua disavventura. Secondo alcuni di quelli che l'avevano visto e ascoltato, la sua gobba era più che raddoppiata; secondo altri di loro, era aumentata soltanto di poco; per altri ancora, che secondo lo Spina intendevano consolare la vittima, la prominenza era, quasi quasi quasi, come prima. Due guardie avevano udito e subito, perché non sfuggisse come l'altro, avevano fermato il testimone. Ottenuta la descrizione della strega, questa era stata immediatamente identificata e arrestata nella sua casa: aveva spiegato lo Spina che, avendo come tutte le sue simili la facoltà del volo, la strige era arrivata nella sua dimora ancor prima che giungesse a Benevento il povero ammaliato. Risultava pure dal trattato che la maliarda, nubile, aveva una figlia, frutto certissimo, secondo l'immediata intuizione della gente, di copula tra lei e il demonio, la quale, tuttavia, non s'era saputo catturare. Come seppi dal piovano, la ragazza, che era fuori di casa al momento dell'arresto, sul ritorno era stata vista e tirata a forza nella propria bottega dal giovane sarto del paese, un giudeo malvisto da tutti e sovente insultato che, per solidarietà fra perseguitati, e anche perché affascinato da tempo dalla bellezza della giovinetta, l'aveva nascosta. Da lì Elvira aveva dovuto subire le grida orribili della madre torturata nel vicino tribunale la quale, dopo soli due giorni, era stata condannata e, per calmare il volgo tumultuante, immediatamente arsa. Era sera e approfittando dell'assiepamento degli eccitati compaesani innanzi al rogo, la giovane era fuggita, accompagnata dal sarto che, per prudenza e nel disgusto per quel borgo, aveva preferito lui pure allontanarsi da Benevento. Di lontano, la ragazza aveva visto la madre bruciare e udito le sue nuove strazianti urla. Erano vissuti assieme come girovaghi, egli tagliando abiti di paese in paese, ella vendendo un liquore color paglierino, di gusto squisito assicurava il curato che l'aveva più volte assaggiato, di cui aveva imparato l'arte dalla madre, erborista e levatrice. Tutto ciò ella stessa aveva, in sèguito, raccontato all'arciprete, dal quale era infine giunta, incinta e dopo molte peripezie, domandandogli provvisorio asilo. Era appena fuggita da un campo di briganti dove era stata tenuta schiava per anni poi che, sulla strada, l'avevano catturata dopo averle ucciso il compagno. Il piovano, impietosito, le aveva trovato posto, come serva, nella pia famiglia d'un notaio, ov'ella aveva potuto in pace partorire una bambina, ottenendo licenza di tenerla con sé nella soffitta e di allevarla. Purtroppo, con loro abitava un fratello del capofamiglia, egli pure giurisperito ma di assai diversa indole: era un pigro che, giunto malamente al dottorato, non aveva avuto voglia d'esercitare e s'era divorato tutte le sostanze del padre in bagordi. Veniva, intanto, mantenuto e vestito dal fratello per carità, mentre si tentava di procurargli una decorosa occupazione, e di poca fatica. Non appena Elvira aveva riacquistato le sue naturali forme, quel depravato s'era acceso di lei e aveva tentato di possederla brutalmente; ma la donna, di forte complessione e ancor più fortificata dalla vita errabonda, l'aveva sopraffatto e stordito con un candelabro. Aveva assistito alle ultime fasi della lotta la padrona di casa, sopraggiunta alle urla della sua servitrice. Gli abiti di lei strappati, le tumefazioni non lasciavano dubbi sulla colpevolezza dell'uomo; ma era il fratello del notaio. Che fare? Quei buoni cristiani non volevano che la donna avesse a soffrire oltre per la malvagità altrui; ma l'altro era pur sempre un parente. Medita e tentenna, tentenna e medita, le avevano infine regalato una somma colla quale allontanarsi dalla casa e, possibilmente, dal paese. La sventurata tuttavia, ormai stanca di girovagare ed essendo la sua bambina ancora assai piccola, aveva preferito sistemarsi in un capanno ai margini del bosco. Qui aveva messo a frutto l'arte imparata da sua madre, la preparazione e vendita del suo liquore e di decotti medicamentosi e l'assistenza al parto di donne del popolo. Il mestiere scelto fu tra le cause del suo male. Né fu ininfluente che si dedicasse pure alla mercatura di uccelli di passo che sapeva catturare con reti e conservava vivi, in attesa di compratori, in una grande gabbia.
Per quattordici anni, Elvira era vissuta abbastanza tranquilla. Qualcuno, per la verità, ogni tanto le aveva detto scherzosamente strega; ma non aveva sofferto persecuzioni. Addirittura, aveva avuto alcune proposte di matrimonio. Ella però, nauseata degli uomini, le aveva tutte rifiutate.
Per due volte aveva dovuto, nei primi tempi, difendersi dal fratello del notaio che, impenitente, era andato da lei per abbracciarla, senza però riuscirci, per la solita difesa della donna. Era dunque nato in lui un astio feroce, mentre il suo desiderio era andato parimenti aumentando. Fortunatamente, i parenti gli avevano trovato, infine, un rispettato incarico a Roma e se n'era partito lasciandola in pace.
Tra i corteggiatori c'era stato pure quel Remo Brunacci che l'avrebbe rovinata, l'ubriacone del paese, ch’ella aveva sempre scacciato deridendolo. Quand'egli s'era rivolto al piovano dichiarando, in preda al vino, d'aver avuto il membro levato dalla magia di Elvira, il sacerdote aveva compreso che si trattava solo di sbornia e che il rimedio era l'astinenza. Aveva dunque finto di controllare fra le gambe dell'uomo la scomparsa del virile attributo e poi, aveva rinchiuso il Brunacci perché smaltisse i fumi, anche grazie all’assunzione di molta acqua: comune, non benedetta, diversamente da quanto gli aveva detto per rincuorarlo. Non aveva previsto le conseguenze. Il paese aveva preso a mormorare contro Elvira, poi a chiedere a gran voce che fosse catturata. Peggio, era presente in quei giorni in paese, in visita al notaio, il giudice Astolfo Rinaldi.
"Rinaldi!" feci eco nell'udire il nome del vecchio superiore, interrompendo il racconto del moribondo.
Era lui il fratello del notaio. Grazie a potenti parenti della cognata, era stato assunto al Tribunale di Roma, dove aveva prestamente fatto carriera, fino al massimo grado. Forse proprio lui, mi chiesi, aveva poi imbucato nell'apposita cassetta dell'Inquisizione a Roma la lettera anonima? Per vendetta? D'altronde pure il curato, spaventato dalla nuova situazione e in particolare da certe occhiatacce che il giudice gli aveva scoccato appena prima di ripartire, aveva a sua volta presentato, alla gendarmeria del comune, la propria ufficiale denunzia, subito trasmessa all'Urbe. Il sacerdote, vilmente, aveva temuto di perdere la propria vita, anzi l'aveva ritenuto probabilissimo, ché non sarebbe certo stato il primo prete arrestato, torturato e condannato per complicità in stregoneria. Il resto mi era noto e io stesso l'avevo portato all'estrema conseguenza. Colmo di rimorso per la sua falsa testimonianza, oltretutto giurata innanzi a Dio, dopo il processo il curato aveva preso poveramente dimora nella stanzetta dov’era stato rinchiuso il Brunacci, aveva indossato il cilicio, s'era sottoposto a umiliazioni d'ogni sorta, aveva rinunciato a qualsiasi piacere, anche il più innocente. In punto di morte, divenuti futili i timori che, sia pure nel rimorso, avevano seguitato ad avvincerlo, aveva finalmente voluto avvertirmi, perché altro ancora era successo, questa volta a Marietta, la bionda e bella figlia giovinetta di Elvira. Quando il santo drappello aveva bussato, la madre, intuendo che qualche male stava arrivando, aveva cacciato Marietta sotto il letto, dopo averle raccomandato a bassa voce di stare immobile e in silenzio, qualunque cosa fosse accaduta. Dopo che gli inquisitori se n’erano partiti con Elvira, la ragazza era uscita e, non sapendo chi avesse preso sua madre, s’era rivolta al piovano denunciando che l’avevano rapita. L’arciprete, al corrente dell’arresto, non aveva chiarito l’equivoco; anzi le aveva detto che, ormai, per Elvira non si sarebbe potuto fare nulla: ben lo si sapeva che, per queste cose, non c’erano gendarmi bastanti! e si mettesse dunque il cuore in pace. Il giorno stesso l’aveva sistemata come serva presso contadini. Dopo l’esecuzione della madre però, il Rinaldi era giunto a Grottaferrata con tre guardie del tribunale dell’Urbe, aveva catturato la giovinetta con la scusa d'un supplemento d'indagini e l’aveva portata a Roma. Forse aveva voluto vendicarsi d'Elvira colpendone anche la figlia? Il curato mi chiedeva di indagare su questo, per giustizia, e se alla luce della legge, ch'egli non conosceva, ci fosse stato reato, di punire il colpevole; e soprattutto di conoscere, se possibile, la sorte della ragazza e, qualora ancora in vita, di salvarla da eventuali altri mali. Solo così avrebbe potuto morire in pace.
Promisi al morente che avrei cercato, per quanto nelle mie forze, di fare giustizia.
Per tutto il resto della notte, ospitato nella ricca vecchia camera da letto del curato, pur tra morbidissime coltri e su un comodo materasso non chiusi occhio.
Verso mezzanotte, il moribondo spirò; sentii infatti le preghiere del giovane prete; ma non mi alzai per unirmi a lui.
Avevo dentro di me un gran senso di fiacchezza. Non avrei dovuto avere rimorsi per l'ingiusta condanna di Elvira perché avevo agito, come sempre, secondo la legge e secondo coscienza; ma provavo un'inquietudine molesta e una leggera nausea che non m'avrebbe lasciato fino al mattino.
Capitolo V (#ulink_f29a0612-449b-55d7-be13-27c9909727fb)

Al levare del sole, dopo aver pregato sulla salma del sacerdote ripartii; e ripartii solo, senza attendere la guardia. Agii d'impulso; ma riflettendoci, io penso adesso che, pur essendomi razionalmente assolto, il mio istinto desiderasse, nel maggiore pericolo di quel ritorno solitario, chiamare punizione. D'altronde io avevo, e sempre ho mantenuto nella vita, grande coraggio fisico; e maneggiavo perfettamente spada e stiletto che, come magistrato, avevo il diritto di portare. Mio padre infatti, non appena ero stato assunto, m'aveva fatto impartire lezioni da un suo cliente, il maestro d'armi Josè Fuentes Villata, uomo magro ma vigoroso e, cosa rara per un mediterraneo, altissimo, quasi un braccio più di me: già abile guardia personale di Alessandro VI, egli s'era mantenuto, dopo la morte del Borgia, con la sua scuola di scherma. Da qualche tempo, ormai non più giovane ma ancora abile spadaccino, era divenuto capo della scorta privata dell'ex giudice Rinaldi.
Non fu dunque con paura che ripartii solo.
Prudenza avevo avuto invece, sempre, verso i potenti: che rischio è mai, infatti, quello dell'attacco di un brigante da strada a petto dell'inimicizia d'uno soltanto di loro che prenda a malvolerti e ti perseguiti? Astolfo Rinaldi era divenuto potentissimo. Questi sarebbe stato il vero pericolo, se l'avessi attaccato. Egli, entrando nella cerchia di Bartolomeo Spina e quindi del suo protettore Medici da Milano, e già prima che questi divenisse papa Clemente, aveva raggiunto il grado di Giudice Generale; poi, dopo il sacco di Roma, mentr'io ero stato nominato al suo posto, egli era stato levato a cavaliere nobiluomo e promosso Maggiordomo Onorario alle Stanze di Sua Santità. Ne aveva avuto vari alti incarichi, sia diplomatici sia privati, e, si sussurrava, pure incombenze segrete. Era inoltre, fin dai tempi del suo servizio in magistratura, nella grazia del gelido e potentissimo principe di Biancacroce.
Conoscevo ormai da tempo il Rinaldi quale uomo bramoso di denaro. Egli, quand'era ancora magistrato, era riuscito ad accumulare ingenti ricchezze. Aveva fatto sontuosi regali a Clemente, quel pontefice che, dopo la morte, sarebbe stato chiamato il papa del malanno, egli pure affamato di denaro e assetato di lodi di cui il giudice gli era stato prodigo; e da tutto questo, certamente, era venuto al cavalier Rinaldi il guiderdone del suo successo.
Veramente, all'inizio della mia carriera io non avevo compreso quell'uomo e, ingenuo giovane desideroso di giustizia, l'avevo tenuto per maestro; ma, dopo un certo tempo, avendo egli inteso la mia devozione e avendola presa per timida soggezione, ritenendo di potersi fidare s'era un poco scoperto. Un giorno, nel quale era particolarmente allegro e forse aveva bevuto più del lecito, m'aveva detto senza remore: "Ci mangiano tutti sulla caccia alle streghe: io, lei... tutti! È un affare: sbirri, carcerieri, scrivani e cancellieri, aguzzini, boia; taglialegna, falegnami, fochisti; e… noi giudici." M'aveva strizzato l'occhio. "Viva quelle maledette!" aveva soggiunto, levando in alto la mano come tenendovi una coppa da brindisi: "… e il vantaggio politico? I potenti fanno quanto loro aggrada e la colpa d'ogni male è delle streghe. O, magari, degli ebrei, i ‘perfidi uccisori di Cristo’; e quanto ai bottegai? Qual vantaggio che la plebe se la prenda con loro! Quale bene che, quando un principe riduca il contenuto in metallo prezioso della moneta, quella svalutazione sia attribuita a quei poveracci i quali, dovendo in conseguenza aumentare i prezzi, appaiono la causa prima di quel male! e tocca poi a noi d'intervenire per metterli alla pubblica gogna onde sedare il volgo e, ogni tanto, magari, d'impiccarne qualcuno. Qual successo per l'ordine pubblico, caro Grillandi! Che pace per i grandi, cardinali, principi, banchieri! È tutta un'industria, caro mio, e noi siamo i fedeli servitori di quell'immenso potere. Non ne prova orgoglio?"

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Il Giudice E Le Streghe Guido Pagliarino
Il Giudice E Le Streghe

Guido Pagliarino

Тип: электронная книга

Жанр: Эзотерика, оккультизм

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Il Giudice E Le Streghe, электронная книга автора Guido Pagliarino на итальянском языке, в жанре эзотерика, оккультизм

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