Racconti Buonisti

Racconti Buonisti
Marco Fogliani


Una quindicina di racconti di vario genere, ma tutti assolutamente e rigorosamente con lieto fine garantito, anche se a volte improbabile.

L'elenco dei racconti inclusi nella raccolta è il seguente:

ALICE, QUELLA PICCOLA FIGLIA DI ...

DIAVOLI E SANTE

E' ARRIVATA LUDMILLA

IL CAMPIONE E LO STUDENTE

IL GRANDE PARRUCCHIERE

IL REATO

L'EREDITA' AUSTRALIANA

L'ONDA MALANDRINA

L’AMORE AI TEMPI DI MATUSALEMME

LA CASCINA IN MONTAGNA

LA STORIA DI JASMIN

LA VITA E' UN GIOCO, PAPA'

LO SCOOP DELL'ANNO

PER SEMPRE

TOMMASO ASPIRANTE CUOCO



Si avverte che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere presenti anche in altre raccolte tematiche dello stesso autore,











MARCO FOGLIANI


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Indice dei contenuti




IL GRANDE PARRUCCHIERE (#u5f1ef6ad-167a-52b1-8d3c-1c75e11bd6ba)

IL CAMPIONE E LO STUDENTE (#u5582883b-17ca-5f90-993b-987ebdc11feb)

TOMMASO ASPIRANTE CUOCO (#u4e745363-d846-5116-a392-b342f6dbddfc)

L'EREDITA' AUSTRALIANA (#ucd52eba9-6a4a-5484-bbf3-0c37b22ca8d4)

IL REATO (#litres_trial_promo)

LA CASCINA IN MONTAGNA (#litres_trial_promo)

ALICE, QUELLA PICCOLA FIGLIA DI ... (#litres_trial_promo)

L'ONDA MALANDRINA (#litres_trial_promo)

PER SEMPRE (#litres_trial_promo)

LO SCOOP DELL'ANNO (#litres_trial_promo)

DIAVOLI E SANTE (#litres_trial_promo)

LA STORIA DI JASMIN (#litres_trial_promo)

LA VITA E' UN GIOCO, PAPA' (#litres_trial_promo)

E' ARRIVATA LUDMILLA (#litres_trial_promo)

L'AMORE AI TEMPI DI MATUSALEMME (#litres_trial_promo)





IL GRANDE PARRUCCHIERE


A volte mi succede, per fortuna non troppo spesso, di guardarmi allo specchio e di pensare: "Basta! Questa faccia mi ha stufato."

Non è esattamente che voglia farmi una plastica, anche se ogni tanto la tentazione ci sarebbe, così come quella di cambiare lavoro, casa, marito e figli: insomma, di cambiare vita. Mi accontento di cambiare taglio e colore. E allora esco e vado da Gino, il mio parrucchiere di fiducia il quale, per avere una personalità decisamente più femminile che maschile, mi comprende pienamente.

"Vediamo che cosa mi consiglia questa volta", penso quando vado da lui. In genere mi squadra con espressione dubbiosa, mi guarda prima da vicino, poi si allontana, mi fa voltare e mi esamina da dietro. Poi torna di fronte a me e, come se gli si fosse accesa una lampadina, mi annuncia, con mia soddisfazione: "Non sei affatto male neanche così: però so io cosa ti ci vorrebbe." Prende un suo catalogo e senza esitazione mi fa vedere ciò che quel giorno ha in mente per me - ignorando completamente, come dice mio marito, il fatto che sia stato egli stesso, la volta precedente, a consigliarmi il mio look attuale.

Io non ho mai niente da obiettare. Mi fido completamente di lui e mi affido alle sue mani (o, se ha molte clienti, a quelle della sua assistente: ma l'idea è sempre sua).

Quella volta invece no. Entrai e Gino mi venne incontro con un sorriso quasi radioso. "Signora Teresa, che fortuna che sei venuta! Pensa che volevo chiamarti. Oggi, e non so fino a quando, ho il grande onore e privilegio di avere nella mia bottega Reneè Flambow: un mito, un maestro per noi parrucchieri; un vero artista. Vedrai se non ho ragione." E ciò detto mi fece entrare nel salottino di destra, dove un bizzarro signore, che dalla lingua e dall'aspetto giudicai francese, si dedicò con passione ed energia ai miei capelli.

Poco dopo, la mia testa bagnata passò dalle mani dell'artista al casco; e riecco di nuovo Gino, venuto ad accompagnare una nuova cliente alla poltrona accanto alla mia. La conoscevo, e perciò ci salutammo. Era Enrica, una delle mie vicine di casa: una studentessa universitaria che in qualche occasione aveva anche fatto da baby-sitter ai miei bambini.

Attratta dalla foto in copertina della Silvestrini, giovane e avvenente ballerina ormai lanciata con successo nel mondo del cinema, presi dal portariviste l'ultimo numero della mia rivista di gossip preferita, e cominciai a sfogliarlo.

"Ecco, prima o poi dovrei farmi i capelli come lei" ragionai tra me, probabilmente ad alta voce. "Mi piace moltissimo. E' proprio una donna affascinante, dolce. Certo non sono solo i capelli che fanno la differenza: anche parecchi anni di meno". Mi girai verso Enrica, per mostrarle le foto e condividere con lei le mie riflessioni, ma ella in quel momento - opera d'arte vivente nelle mani del grande artista - non poteva darmi ascolto.

Feci in tempo a leggere da " Lo Specchio Magico" tutto quanto c'era da leggere sulla Silvestrini prima che il maestro, infilata la testa bagnata di Enrica sotto il casco, tornasse a dedicarsi a me.

"Et voilat, madame", mi disse poco dopo scoprendo il mio nuovo look come fosse un capolavoro. E forse lo era davvero. Mi lasciò senza parole. Era come se quell'uomo - o forse quel casco - mi avesse letto nel pensiero. Ero diventata uguale alla Silvestrini. Più mi fissavo allo specchio e più trovavo impressionante la mia somiglianza con lei: stessa tinta, stesso taglio. Non fosse stato per gli occhiali, anche gli occhi e l'espressione del viso mi sembrava che adesso somigliassero ai suoi. Mi sentivo un'altra, ringiovanita; e, difficile a crederci, più felice dentro, quasi fossi cambiata anche all'interno.

"Ma hai visto?", dissi rivolta ad Enrica, continuando a fissare ora il mio volto allo specchio, ora la rivista nelle mie mani. "Mi ha fatto tale e quale alla Silvestrini. E' impressionante!"

Enrica, liberata anch'essa dal casco appena dopo di me, mi guardò anch'essa con grande stupore. Ma lo stupore, mio e suo, fu ancora più grande nel vedere che lei adesso somigliava come una goccia d'acqua a me; a me com'ero qualche giorno prima, voglio dire. Eccetto per un piccolo dettaglio.

"Prova un attimo a metterti questi", le dissi porgendole i miei occhiali. Lei li infilò e li tolse subito. "Mi danno fastidio alla vista", disse, "e poi mi invecchiano ancora di più".

"Davvero trovi che questi occhiali mi invecchino?", le chiesi d'istinto, interessata. Lei ebbe una brutta reazione, quasi isterica: "Ho detto che invecchiano me, non che invecchiano te", mi rispose, alzando la voce e come se stesse per scoppiare in lacrime. Non lo fece forse solo perché in quel momento entrò di nuovo Gino, contento e gioviale come suo solito.

"E allora, che ve ne pare del grande maestro?"

Reneè nel frattempo era uscito, senza quasi che ce ne accorgessimo. "A te ha cambiato completamente aspetto", disse rivolgendosi a me, quasi estasiato. "Invece con te, Teresa, non ha osato troppo … o forse non ha ancora finito! Comunque dimenticavo di darvi questa speciale lacca, di sua invenzione. In omaggio, naturalmente. Va applicata tutte le mattine altrimenti, tempo qualche giorno, un po' alla volta i vostri capelli torneranno come prima. E sarebbe un vero peccato!"

Dopo aver pagato, io ed Enrica uscimmo insieme dal negozio.

"Stai tornando a casa? Ti va se facciamo la strada insieme?", le proposi, vedendola chiaramente triste e demoralizzata. Lei annuì.

Ripensandoci, avrei fatto meglio a consigliarle di chiedere un nuovo intervento "riparatore" ai suoi capelli, anziché cercare di consolarla e di risollevarla.

"Guarda che la pettinatura che ti ha fatto non è niente male", le dissi invece. "Pratica, piacevole, forse la migliore che mi abbia proposto Gino. Comunque, se non ti ci trovassi a tuo agio, basta non usare la lacca e vedrai che tra qualche giorno te la sarai dimenticata, sarai tornata quella di sempre." Cercavo di sollevarle il morale (il mio era molto alto, forse perché inconsciamente pensavo che lei avesse voluto prendermi a modello), senza rendermi conto che di lì a poco avrei rischiato io di avere il morale a terra.

Arrivati al nostro pianerottolo, infatti, suonai alla porta e mio marito, che mi venne ad aprire, non mi riconobbe. Ovviamente scambiò Enrica per me.

"Cos'è, uno scherzo?", disse rivolto a lei che si era avvicinata all'appartamento di fianco. "Guarda che casa tua è questa. … e forse lei ha i tuoi occhiali", continuò indicando me.

Afferrai io per prima l'equivoco. Mi tolsi gli occhiali, esibii a mio marito uno sciocco risolino adatto alla circostanza e cominciai:

"Tua moglie è proprio una gran mattacchiona, ed io sono molto contenta di essere sua amica. Vieni, Teresa, riprenditi pure i tuoi occhiali: lo dicevo io che non ci sarebbe cascato." Feci un altro risolino da ochetta. "Teresa. Teresa, dico a te!"

Enrica cadde dalle nuvole.

"Eh? Ah, si. Casa mia è quella e quelli sono i miei occhiali. E lei è la mia amica … Silvana. Non so se vi siete mai conosciuti."

Con mia sorpresa, sembrava che anche lei avesse capito e stesse al gioco.

"Oh, no, non credo proprio. Uno così me lo sarei ricordato!" risposi proseguendo nella mia parte da svampita. Non c'è che dire, pensai: recitare mi veniva piuttosto naturale.

"Anch'io me la ricorderei", rispose mio marito, fissandomi e squadrandomi come forse non aveva mai fatto. "Dimmi, cara: la tua amica si ferma a cena da noi?"

"Mah, non saprei. Certo, se vuole …"

"Siete molto gentili, io vi ringrazio molto … ma proprio stasera non mi posso fermare. Sapete, ho già preso un impegno …"

Non so dirvi esattamente cosa mi avesse spinto a declinare un invito a cena a casa mia da parte di mio marito; e tuttora non me lo riesco a spiegare completamente. Non il modo strano e interessato in cui mi guardava Piero, pensando in realtà di guardare un'estranea; e neppure l'idea che ai suoi occhi, di fianco ad una donna col fisico da attrice ballerina e con la mia testa, lui potesse credere che sua moglie non fosse all'altezza. Del resto, ero sicura che Enrica non sarebbe stata alla mia altezza, povera ragazza; e forse per questo non avevo timore a lasciarla a casa da sola con mio marito. Non erano neanche esattamente da soli, poi: c'erano anche i bambini. Ma la verità era un'altra: e cioè che quella sera avevo una strana ed incontenibile voglia di uscire e di andare a ballare e divertirmi per locali, come mai prima di allora. Certo, avrei dovuto cambiarmi d'abito. Mi serviva almeno un punto d'appoggio. Mi venne subito in mente che per il momento ad Enrica la sua casa - o meglio la sua camera, dato che abitava insieme ad un'altra ragazza - non le serviva di certo.

"Vi ringrazio tanto, ma devo proprio andare. E' stato un piacere fare la vostra conoscenza. A proposito: e i vostri bambini? Teresa me ne ha parlato tanto! Mi piacerebbe conoscerli."

Non sapevo quanto mi sarei assentata, e i miei bambini già mi mancavano: volevo salutarli, anche se sapevo che non mi avrebbero riconosciuta.

"Naturalmente! Li vado a chiamare", mi rispose Piero.

Approfittai della sua assenza per tirar fuori dalla mia borsa le chiavi di casa e, ragionandoci su, anche il telefonino: li diedi ad Enrica, che mi sembrava ancora nel pallone, chiedendone ed avendone in cambio i suoi. La liberai anche dei miei occhiali, che forse ci invecchiavano ma che mi mettevano molto a mio agio.

"Che tesorini meravigliosi!" Abbracciai e baciai con sincero affetto quelle pesti dei miei figli, che non capivano chi fossi.

"Beh, adesso devo proprio andare", dissi infine.

"Ma sei proprio sicura di non volerti fermare?", mi chiese ancora Enrica con espressione quasi supplichevole.

"Sì", le risposi. "Ma stai tranquilla: qualunque cosa ti servisse da me, ricordati che hai il mio numero di telefonino nella rubrica del tuo cellulare, e che comunque sai dove abito, giusto?"

"Giusto", mi rispose lei, ancora poco convinta. "Ma tu controlla di avere la batteria del telefono carica."

Ci baciammo come due amiche, una delle quali stava affidando all'altra la propria famiglia per non si sa bene quanto né per quale motivo, e augurai loro buona serata.

Quando chiusero la porta di casa, mi trovai sul pianerottolo da sola con la mia nuova vita.

Per prima cosa pensai che Enrica poteva avere nel suo guardaroba un vestito da sera più adatto, rispetto al mio, alla gran voglia di ballare che mi sentivo in corpo. Ma mentre infilavo la chiave nella serratura di casa sua, ebbi un'illuminazione: prima avevo qualche altra faccenda da sbrigare.

I negozi avrebbero chiuso di lì a poco, e forse ero ancora in tempo a trovare l'edicola aperta. Per organizzarmi la serata mi sarebbe stato utile l'ultimo numero di "Lo Specchio magico", quello per intenderci che avevo letto poco prima dal parrucchiere (se non lo avessi trovato lo avrei chiesto a Gino); nonché almeno una guida ai locali notturni della città. Già che c'ero chiesi al giornalaio se avesse altre riviste che parlavano della Silvestrini. Lui mi trovò poca roba, ma soprattutto, guardandomi a lungo, si convinse che io fossi proprio la Silvestrini: mi chiese un autografo, non mi fece pagare niente e mi diede anche altre riviste in omaggio. Niente male come inizio, pensai.

Ritornato a casa di Enrica la trovai vuota. Misi in carica il suo cellulare e mandai una serie di messaggini al mio numero (e quindi a lei) per ricordarle gli impegni dell'indomani: l'ora della sveglia; cosa mangiano i bambini per colazione; che i bambini dovevano essere accompagnati a scuola pur essendo sabato, spiegandole dove e per che ora, e quando andassero ripresi; ed altre amenità del genere.

Poi mi studiai le riviste che parlavano della Silvestrini: che locali e che persone frequentava, e i suoi gusti. Aiutato dalle foto mi scelsi il vestito più adatto tra quelli di Enrica. Trovai nel suo guardaroba (anzi, a pensarci bene, poteva essere l'armadio della sua amica) anche una specie di pelliccia sintetica nera che mi piacque molto e che insieme ai miei nuovi capelli biondi ed ai miei occhiali da sole, che per fortuna avevo nella borsetta, mi conferivano un aspetto intrigante e misterioso.

Così vestita mi recai, in metropolitana, in centro, al ristorante chic in cui "Lo Specchio Magico" aveva pizzicato la mia sosia qualche sera prima. Mi attendeva, ne ero convinta, una serata speciale, indimenticabile.

"Vorrei un tavolino tranquillo, ma non troppo in disparte: tipo quello che di solito riservate alla signorina Silvestrini, per intenderci."

E dopo aver detto ciò, sorridendo scherzosamente, mi tolsi gli occhiali da sole per farmi riconoscere.

"Oh, mi scusi: è lei! Non l'avevo riconosciuta. Sa, di regola viene da noi sempre il martedì … e così, senza averci avvertiti, ci ha preso un po' alla sprovvista. Ma siamo ben contenti che ci abbia fatto questa improvvisata. Purtroppo temo che il suo solito tavolo sia già occupato. Ne sono davvero dispiaciuto …"

"Oh, non si preoccupi: anche un altro va bene lo stesso."

"Ecco: si accomodi qui. Apparecchio per due, come di consueto?"

"No grazie, stasera sono da sola."

Secondo le riviste avevo già confidato ad alcune mie amiche l'intenzione di sposarmi con … ma lasciamo perdere, pensai, stasera voglio godermi la serata da single, visto che dopo tanto tempo torna ad offrirmisi questa opportunità.

Gli antipasti arrivarono senza che li avessi ordinati. Bello, pensai; ma poi, aprendo il menù per scegliere il seguito, mi impressionai un poco. Valutai che quella sera avrei speso decisamente parecchio. Respinsi subito con fermezza l'idea, balenatami in mente, di tentare di far mettere in conto la mia cena alla Silvestrini: anch'io, come lei, ero una donna autonoma, indipendente e soprattutto onesta, e per fortuna avevo con me la mia carta di credito. In fondo la bella serata meritava un piccolo sacrificio.

Così ragionavo mentre assaggiavo i vari stuzzichini, quando il cameriere venne portando sul mio tavolo un mazzo di rose non indifferente.

"Queste ve li manda quel signore là in fondo con la cravatta rossa."

Perbacco: pensavo che cose del genere accadessero solo nei film! Ma proprio perché sapevo come si sviluppano nei film certe situazioni fui molto brava nel contenere tutto il mio entusiasmo e la mia curiosità, simulando assai bene una certa indifferenza. Il signore dalla cravatta rossa, elegante e maturo, mi fece un cenno per farsi notare, ma io lo degnai soltanto di uno sguardo con la coda dell'occhio, continuando a mangiare con apparente tranquillità. Vincendo il mio istinto, rinunciai ad avvicinarmi all'omaggio floreale per annusarlo intensamente nonché per cercare e leggere il bigliettino che sicuramente l'accompagnava. Se non fosse accaduto nulla nel frattempo avrei fatto sicuramente tutto questo alla fine della cena: tanto quei fiori ormai erano miei, e nessuno me li avrebbe portati via.

Ed infatti non passò molto che il signore in cravatta rossa si presentò al mio tavolo:

“Spero che siano di suo gradimento …”

“Oh, sì sì. Tutto molto buono. Può fare i complimenti al cuoco da parte mia!”, risposi con entusiasmo burlandomi di lui.

“Intendevo le rose, naturalmente.”

“Si, belle anche loro, davvero”, ripresi proseguendo a mangiare. “Ma credo che sia impossibile che una donna non gradisca un bel mazzo di fiori, a meno che non ne sia allergica. Tuttavia non vorrei incoraggiarla o illuderla in qualunque modo: anche perché, incidentalmente, credo di non aver mai avuto il piacere di fare la sua conoscenza.”

“Non è la prima volta che mi dice qualcosa del genere. Potrei credere che lei si sia dimenticata di me, della mia faccia; ma non certo di quella famosa festa sul mio yacht, a Ischia, … diciamo perlomeno un po’ movimentata.”

Uno yacht? Accidenti, questo deve avere una barca di soldi, pensai. Chissà se ci avevo combinato qualcosa, voglio dire la Silvestrini. Comunque era chiaro che lo avevo in pugno. Dovevo solo fare la difficile e stuzzicarlo un altro po’, e sicuramente mi sarei aggiudicata, oltre al mazzo di fiori, la cena e forse anche qualcosa di più.

“Si vede proprio che non mi conosce bene. Altrimenti saprebbe che, vivendo molto intensamente il presente e proiettata nel futuro, tendo a dimenticarmi molto facilmente del passato, soprattutto di chi si crede un mio vecchio amico e delle persone che pensano che io debba loro eterna riconoscenza.”

“Se vive molto intensamente il presente ed il futuro, allora dimenticherò anch’io il passato per progettare un presente ed una serata effervescente insieme a lei, sul genere di quella sul mio yacht di cui ahimè si è dimenticata. Se non la conosco male, qualcosa del genere potrebbe piacerle.”

“Se lei davvero mi conoscesse, saprebbe che sono già impegnata. C’è scritto anche sullo Specchio Magico”.

“Mi dispiace ma non sono solito leggere riviste di pettegolezzi. E comunque mi permetta di dubitarne, dal momento che, così bella e attraente, la vedo andare in giro di sera sola soletta: perciò il suo uomo o non la merita o non esiste. E se anche esistesse, vista la sua assenza, questo non mi sembra un valido impedimento per desiderare la sua compagnia.”

Nonostante la sua eleganza, era evidentemente uno di quei molesti e appiccicosi importuni di cui una bella ragazza riesce a disfarsi con molta difficoltà; e tenete presente che io non avevo l'esperienza in questo campo che una ragazza affascinante si costruisce nel corso degli anni. Decisi per il momento di continuare a mangiare di gusto e lasciarlo parlare senza intervenire. E lui parlava come un torrente in piena.

Lavorava nel mondo del cinema. Si dava arie di essere un produttore cinematografico, ma doveva esserlo di assai basso livello, dal momento che non avevo mai sentito nominare nessuno dei suoi film e relativi attori. O forse non era affatto un produttore e ambiva a diventarlo. Chiaramente voleva il lustro di un nome più famoso nel cast di un film di cui si occupava, ed io sarei stata perfetta nella parte. Aveva già una copia del contratto pronta da firmare: me l'aveva poggiata lì, di fianco alla scaloppina ai funghi. Fui tentata di firmarla, ma col mio vero nome; oppure di prenderla e portarmela a casa per ricordo. Mi trattenni, per evitare futuri guai a me e alla Silvestrini, e mi limitai a rispondergli:

"Vedremo. Anche perché adesso per certe decisioni devo consultare la mia metà."

Terminato il dessert, lui stava ancora parlando.

"Il conto, per favore", chiesi al cameriere. Ma quello mi rispose cordialmente, accennando al signore al mio fianco, che qualcuno aveva già provveduto a pagarmi la cena.

“Dal momento che si ostina a non mollarmi e a migliorarmi la vita, perché allora non si rende utile e mi accompagna alla Mela Avvelenata? Stasera avevo in programma di ballare.”

Era un locale famoso perché frequentato per lo più da ragazzine, ed io proprio la ragazzina volevo fare quella sera. Speravo che un signore di mezza età in cravatta rossa si sarebbe trovato poco a suo agio in quell’ambiente.

"Ogni suo desiderio è un ordine per me", mi rispose lui cordiale e senza obiezioni. Con galanteria mi aiutò ad alzarmi e a rivestirmi. Prima di andarsene lasciò una lauta mancia sul tavolo, riprese il mio - anzi il suo - contratto e me lo porse: "Si sta dimenticando questo."

Io in quel momento stavo osservando con un certo dispiacere quel bel mazzo di rose che, ahi me, così bello ma ingombrante, non mi sarei potuto portare via neanche volendo fare la sfacciata. Ma almeno un fiore per ricordo ero decisa a prendermelo. "Hai ragione, e mi stavo dimenticando anche questi." Scelsi con cura alcune delle rose più belle, anche se in realtà sembravano proprio tutte uguali. A quel punto: "Purtroppo ho le mani impegnate. Sarebbe tanto gentile da …?"

Il contratto lo riprese lui. Mi fece strada alla sua macchina, una di quelle grosse e scure che hanno i personaggi ricchi e importanti; ma non fu lui bensì il suo autista, che poco prima avevo notato mangiare da solo nel nostro ristorante, ad aprirmi la portiera posteriore. Il mio cavaliere venne poi a sedersi al mio fianco.

"Alla Mela Avvelenata, Alfredo".

Mentre l'autista armeggiava con certi aggeggi elettronici, evidentemente per capire la strada da fare, il mio accompagnatore, come avevo previsto, propose una meta alternativa.

"Certo non è che sia un locale proprio adatto ad una persona di classe come te. C'è di molto meglio. L'Assassino. Il passero solitario. A mente te ne potrei elencare almeno una decina di locali migliori. Ti assicuro che persino a casa mia troveresti una musica ed un'atmosfera più accogliente."

Immaginavo che sarebbe arrivato a propormi di andare a casa sua, e non fosse stato per l'autista avrei anche temuto che mi ci portasse contro la mia volontà.

"Ho detto Mela Avvelenata, Alfredo: altrimenti sarò costretta a prendere un taxi".

Alla Mela Avvelenata mi scatenai come una pazza. Mi divertii in quella bolgia di ragazzini a farmi vedere più scalmanata ed esplosiva di loro. Ballai tutta la notte sul cubo quasi senza interruzioni, se non ogni tanto per dissetarmi un po'. Chissà - con tutto quello che si dice sulle droghe che girano in discoteca - forse proprio quelle bevande energetiche mi dettero una carica particolare. Fatto sta che, dopo non so quante ore che ballavo, mi resi conto che nella discoteca cominciava ad esserci sempre meno gente. Non c'era più neanche il mio accompagnatore dalla cravatta rossa, che pure era rimasto con pazienza ad aspettarmi tanto tempo: non sapevo neanche io se esserne contenta oppure delusa. Alla fine rimanemmo praticamente soli io ed il DJ.

"Scusami, bella: sei stata davvero grande, la più brava di tutte. Io però adesso devo andare. La serata può dirsi ormai finita da un pezzo: tra neanche un'ora sorge il sole. Io ho un impegno importante più tardi, e prima mi devo riposare un poco. Ma se vuoi ci rivediamo qui stasera."

In effetti erano quasi le sette. Vado un po' a casa a riposarmi, pensai, anche se non mi sentivo affatto stanca. Avevo voglia di fare ancora mille altre cose emozionanti e divertenti, non certo di dormire. Prima però mi ci voleva una bella doccia.

Con questa intenzione tornai a casa con la metropolitana, che aveva già ripreso servizio.

Ero quasi arrivata, praticamente sotto casa mia, quando vidi uscire dal portone i miei due figlioli con la loro madre … che dico, sono io la loro madre: con la loro baby sitter che proprio sembrava me.

Mi meravigliai perché era più presto del solito, e li seguii. Già: mi venne in mente che Enrica non aveva la patente (e neppure possedeva un'automobile), e quindi quel giorno li avrebbe accompagnati a piedi. Si rivelò scrupolosa e previdente, perché alla fine riuscì comunque a farli arrivare a scuola per l'ora prefissata.

Li seguii da lontano fino a scuola, ed attesi che Enrica ne riuscisse da sola per parlarle.

"Allora, Enrica, tutto a posto? Come ti stai trovando nel ruolo di mamma?". La presi di sorpresa: sicuramente non mi avrebbe riconosciuto se non le avessi parlato.

"Non male, direi. Ho promesso loro che, se fossero stati buoni, nel pomeriggio li avrei portati al Luna Park, perché so che gli piacerebbe tanto e che non ci sono mai stati. Anche tuo marito è d'accordo. E così sono stati due angioletti."

"Ottima idea", condivisi. "E se ti servisse l'aiuto di una baby sitter, non esitare a chiamarmi." Accostai alla mia guancia il mio pugno come un immaginario telefono.

"Già, una baby sitter. Magari per stasera, se ho voglia di passare qualche oretta da sola con il mio maritino. Caso mai ti chiamo. Ora vado, che ho un po' di sfizietti da levarmi con questa mia nuova faccia, e … ah, mi raccomando, tieni nota dei miei straordinari!"

Andava davvero di fretta e non feci in tempo a risponderle. Ma poi risponderle cosa? Le sue parole mi lasciarono dapprima interdetta ma, soprattutto, preoccupata e stizzita. Lei non era sposata, e quindi, a meno di un suo fidanzato a me ignoto, il maritino di cui parlava era in realtà il mio maritino. E cosa voleva farci sola soletta per qualche ora? E che sfizietti voleva levarsi con la mia faccia? Forse qualcuno se l'era già tolto con mio marito. Quanto ai suoi straordinari, forse non aveva poi tutti i torti, anche se molte di quelle ore da mamma le aveva trascorse dormendo. Magari, pensai, se e quando tutta questa strana storia finirà discuteremo insieme di tutto ciò.

Ora però avevo anch'io alcuni sfizietti da togliermi con la mia nuova faccia. Tornai a casa, mi feci una bella doccia, mi cambiai e mi preparai per nuove emozioni.

Il guardaroba di Enrica era, a mio parere, veramente spropositato per una ragazza della sua età. Nondimeno ne fui molto contenta: passai almeno un quarto d'ora a provarmi ed a guardarmi addosso i suoi vestiti, come se fossi in un negozio. Alla fine uscii di casa che ero davvero molto simile alla Silvestrini come compariva a pagina 24 dell'ultimo numero dello Specchio Magico.

Già sulla metropolitana più d'uno mi guardò in modo strano, e due ragazze mi si fecero incontro per chiedermi se ero la Silvestrini. Io negai, quasi istintivamente, ma in realtà un attimo dopo mi ero quasi pentita di averlo fatto. Così, quando arrivai a Cinecittà ed alcuni ragazzi - che aspettavano là fuori chissà cosa o chissà chi - mi chiesero un autografo, non mi tirai indietro. Però … che firma fare? Alla fine tirai fuori uno sgorbio tale, che sfido chiunque a capire cosa ci fosse scritto.

Di autografi ne firmai forse dieci o venti, prima di riuscire ad arrivare alla guardiola della portineria facendomi largo tra quella folla di giovani in attesa.

"Venga, venga, signorina. Ma la prossima volta farebbe meglio ad entrare dall'altro ingresso. E magari arrivare un po' prima: lei sa com'è, quando ci sono i provini."

"Mi scusi, dovrei andare nello studio dove stanno registrando quella fiction … non mi ricordo come si chiama: quella con la Silvestrini".

"Oh, ma che mi sta prendendo in giro? Ma non è lei la signorina Silvestrini?"

"Beh, … veramente …"

"Ah, ho capito. Tu devi essere la controfigura, quella che stavano cercando da tanto tempo. Beh, in effetti ci somigli parecchio: credo che saranno molto contenti di vederti. Lo studio è il numero 3, in fondo a sinistra." Lo ringraziai, e mi incamminai nella direzione che mi aveva indicato.

Quando mi affacciai timidamente nel capannone all'apparenza vuoto e addormentato dello studio 3, il mio arrivo portò una certa agitazione nell'unica persona là presente, un certo Alvaro.

"Signorina Silvestrini, è arrivata! Pensavamo che non sarebbe venuta, che fosse ancora ammalata. Chiamo subito il regista, ne sarà contento."

"Non sono la signorina Silvestini", mi affrettai a precisare, "ma ho sentito dire che cercavate una controfigura per lei."

"Benissimo. Mi sembri perfetta. Li avviso subito."

Per telefono Alvaro non riuscì a contattare il regista, ma parlò con qualcun altro che gli disse di non farmi andare via, e che dopo pochi minuti si presentò lì.

"Ci sono ancora da fare tutte le scene su moto e motorini", mi disse. "Purtroppo la Silvestrini ha una gran paura delle moto, e sembra che non ci sia proprio verso di fargliela passare. Le prende proprio il panico. Ma quelle scene bisognerebbe comunque girarle. A proposito, lei sa guidare una moto?"

"Io veramente …". Mi sentivo imbarazzata. Sì, occasionalmente da giovane ero salita in sella dietro a qualche ragazzo, anche su moto potenti. Ma guidarle proprio non mi pareva di averlo mai fatto.

"Non si preoccupi, signorina. Non è che serva fare chissà cosa. In teoria potrebbe anche non avere la patente, se ci arrangiamo a girare in qualche zona privata. Adesso sentiamo il regista. Io direi di iniziare da quelle in cui lei sta dietro e guida Alfonso, se riusciamo a trovarlo in tempi decenti. Intanto vedo se riesco a procurarmi una di quelle moto elettriche che volendo saprebbe guidare anche un bambino. Sempre che sappia andare almeno in bicicletta."

"Si, si, quello si."

Alfonso prima delle undici non poteva arrivare. Così ebbi parecchio tempo per fare pratica con la moto elettrica. Davvero non proprio come una bicicletta: un vero stress, devo dire. Però tutti i presenti si mostrarono davvero molto pazienti e disponibili ad insegnarmi e ad aiutarmi.

Alla fine con la moto elettrica me la cavavo bene, e ci fu il tempo per farmi provare anche un motorino normale.

Quando finalmente arrivò Alfonso Cardinale (una faccia nota, protagonista di una serie di spot pubblicitari molto conosciuti su un dentifricio), mi fecero cambiare vestiti e mi diedero una sistemata secondo le esigenze del copione. Per le riprese uscimmo in moto per le strade della città, col casco, Alfonso alla guida ed io seduta dietro a lui; ci seguivano un furgoncino e un'altra moto con la troupe e gli operatori.

"Sorridi e tieniti stretta a lui con fiducia. Pensa che ne sei innamorata", mi raccomandarono prima delle riprese che durarono parecchi minuti ma, come dissero forse solo per tranquillizzarmi, sarebbero risultati solo pochi secondi nel prodotto finale.

"Più rilassata. Stai tranquilla, e cerca di sentirti più a tuo agio. Non sei mica sotto la minaccia di una pistola", mi sentii dire diverse volte, con leggere varianti, durante i numerosi ciak delle scene con Alfonso.

Poi invece la scena in cui partivo da sola col motorino andò molto meglio, anche perché da copione dovevo essere nervosa e preoccupata. Ma di queste riprese non ricordo gran che, se non alla fine l'aiuto regista che mi disse:

"Bene, abbiamo finito. Lascia ad Alvaro il tuo nominativo, se non l'hai già fatto, e con il foglio che ti darà presentati all'amministrazione per il compenso non prima di una settimana. Ora riprendi pure le tue cose. Mi raccomando, lasciaci tutti i vestiti e gli accessori di scena. Se non vuoi tornare a Cinecittà, puoi cambiarti sul furgone."

Seguii alla lettera le sue istruzioni. Quando alla fine uscii dal furgone mi accorsi che tutti stavano aspettando me, come una diva … ma solo per potersene andare. O almeno, tutti tranne Alfonso, che mi porse nuovamente il casco.

"Posso avere il piacere di accompagnarti a casa?", mi chiese. "Tanto la mia moto e la mia guida le conosci, sai che ti puoi fidare".

Io ero sfinita, accaldata e per giunta affamata. Sicuramente tornare a casa in moto sarebbe stato più veloce e piacevole che non coi mezzi pubblici.

"Con piacere", gli risposi, "basta che non vai troppo forte."

"D'accordo", mi rispose lui. E partimmo.

Ero convinta che di solito un uomo, portando dietro di sé una donna in moto, cerchi sempre inconsciamente di spaventarla con la velocità, in modo da far si che lei si stringa a lui e lo abbracci forte. Un contatto fisico ed un senso di potenza e protezione che, pensavo, fanno sempre piacere anche a lei, ma soprattutto a lui. Ebbene quel giorno dubitai di questa mia convinzione.

"Più rilassata. Stai tranquilla. Cerca di sentirti più a tuo agio", mi disse in un paio di occasioni, scimmiottando i precedenti consigli dell'aiuto regista. Non pensai ad una sua burla perché certamente, così senza pensarci, lo stavo stringendo troppo: ebbi persino il dubbio di fargli male. Fatto sta che allentai la presa. Lui andò veramente piano ed io mi sentii davvero piacevolmente a mio agio. Tanto mi stavo rilassando che avrei rischiato di addormentarmi in quella posizione, pensai lungo il tragitto. Notai che non stava facendo la strada più breve, ma una specie di giro panoramico della città. Però non dissi niente: anzi, mi piacque molto, e quando mi resi conto che stavamo arrivando a casa ne ero quasi dispiaciuta.

Una volta arrivati, scesi dalla moto, mi tolsi il casco e lo ringraziai.

"Posso darti un bacio?", mi chiese lui a bruciapelo.

"Si", risposi io a bruciapelo, "ma sulla guancia, oppure sulla fronte, se preferisci." Non mi sentivo più coraggiosa come una ventenne, come la Silvestrini, tanto da cominciare una nuova avventura sentimentale, e per giunta proprio sotto il portone di casa mia.

Alfonso mi diede un bacio sulla guancia, ed uno sulla fronte; e ciò bastò per farmi avvampare. "Si capisce subito che non sei un'attrice, e che non potresti neanche mai diventarlo", mi disse sorridendo prima di ripartire in moto.

Probabilmente aveva ragione, e non mi dispiaceva affatto. Attori e attrici divorziano spesso, creando e distruggendo fragili famiglie, riflettei pensando con nostalgia alla mia cara famigliola. Mi toccai la fede sul mio dito, tanto per verificare che fosse ancora lì: fu allora che mi venne in mente che non l'avevo tolta durante le riprese, e nessuno se l'era ricordato. Chissà, magari avevo rovinato tutta la scena.

Tra questi pensieri salii a casa di Enrica, misi qualcosa sotto i denti ed esausta mi buttai sul primo letto che trovai, e mi addormentai.

Mi risvegliai con la suoneria di un cellulare. Che strano sogno ho fatto, pensavo mentre cercavo prima di localizzare la fonte di quel suono e poi, una volta cessato, di orientarmi per capire dove mi trovassi.

Poi suonò il campanello, ed io, realizzato dove mi trovavo e perché, andai ad aprire. Era Enrica, tornata quella di sempre.

"Bene, vedo che anche tu non hai usato la lacca e sei tornata in te. Per fortuna, altrimenti i tuoi figli sarebbero rimasti qualche ora senza mamma."

Mi guardai allo specchio e constatai, con un certo sollievo, che quello che diceva era vero.

"Io sono uscita che loro dormivano. Se ti chiedessero perché … per buttare la spazzatura. E adesso vai, se no potrebbero preoccuparsi o insospettirsi."

Ci scambiammo nuovamente le chiavi e il telefonino. Io presi anche la spazzatura, e uscii di casa a buttarla.

Era domenica mattina presto e, nonostante avessi dormito per un sacco di tempo, mi sentivo ancora assonnata. Rientrai a casa, stavolta la mia, e senza far rumore mi svestii, mi infilai nel mio letto e mi rimisi a dormire.




IL CAMPIONE E LO STUDENTE


“Ha capito la domanda? Giovanotto: mi sta a sentire si o no?”

Riccardo sembrava assente, del tutto indifferente a quanto gli stava dicendo il professore al cui cospetto si trovava seduto per affrontare un esame universitario.

“Ehi, ragazzo: dico a te.”

Il tono di voce stava salendo, segno che il docente stava perdendo la pazienza; ma la giovane assistente intervenne in difesa dello studente.

“La prego, non alzi troppo la voce, professore. Una volta ho avuto a che fare con una ragazza che soffriva di una forma leggera di epilessia. Anche lei aveva dei momenti in cui la mente era come assente. Dicono che in questi casi la cosa migliore sia aspettare che tornino in loro. Gli lasci cinque minuti per riprendersi. Lo conosco bene, ha frequentato tutte le esercitazioni e mi pare un ragazzo molto preparato: non può non conoscere questo argomento basilare.”

“Va bene. Se ha qualche problema di salute, veniamogli incontro; ma non la passerà liscia se scopro che si prende gioco di me. Comunque non abbiamo tempo da perdere. Gli esaminandi sono tanti. Passo ad un altro ragazzo, poi quando ho finito vediamo come si sente.”

L’assistente rimase seduta vicino a Riccardo chiamandolo dolcemente per cognome, e poi anche per nome, e poco dopo riuscì ad avere la sua attenzione.

“Ci sei? Ti senti bene adesso?”

“Si, direi di si. Perché? Cosa è successo?”

“Sembravi altrove. Il professore parlava e tu non gli davi retta.”

“Ho avuto l’impressione … come di essere in volo. Mi sentivo leggero e strano.”

“Hai qualche problema di salute? Che so io, ti è già capitato di avere qualche piccola amnesia temporanea?”

“No, non che mi ricordi. Anche se ultimamente ho fatto un sogno strano. Sognavo che …”

“Allora, giovanotto: si sente meglio adesso?”, intervenne il professore che, vedendolo parlare, si era avvicinato.

“Si, mi sento meglio.”

“Se la sente di iniziare l’esame? Dei suoi sogni, se vuole, ne parla dopo con qualcun altro.”

“Si professore, sono pronto.”

L’interrogazione andò molto bene.

“Le metto trenta, se però mi promette di tenere d’occhio la sua salute”, gli propose l'esaminatore.

Riccardo annuì.

Il professore si era già allontanato, mentre l’assistente procedeva alla verbalizzazione.

“Se può esserti utile, posso darti il nome di un mio amico, docente a medicina e specialista in problemi neurologici. E’ molto bravo, ed opera sia in strutture pubbliche che private.” Riccardo fece nuovamente cenno di si con il capo.

“Non sottovalutare questo problema: potrebbe avere brutte conseguenze anche sul tuo iter scolastico. Hai un’ottima media, e sono convinto che, se non fosse stata per la tua falsa partenza, avresti avuto la lode anche oggi. Sei molto brillante, hai le carte in regola per ambire a qualcosa in campo universitario: borse di studio, dottorato, specializzazioni. A proposito, se vuoi già cominciare ad approfondire questa materia in ottica tesi, vieni pure a trovarmi quando vuoi: in questo dipartimento si lavora bene, e sappiamo apprezzare chi lavora bene.”

Riccardo archiviò anche quell’esame con soddisfazione, preparandosi come sua abitudine a qualche giorno di riposo e spensieratezza; tuttavia le parole dell’assistente lo fecero pensare.

Rifletté non tanto sulla necessità di farsi visitare (“ magari se mi succede ancora; ma un professore di grosso calibro chissà quanto vuole”, pensò), quanto sull’opportunità di iniziare già a interessarsi alla tesi e ad un futuro nell’università. Ma soprattutto doveva informarsi sulle possibilità di borse di studio: sapeva che per papà era un vero sacrificio farlo studiare.

La domenica successiva era già pianificato che sarebbe andato allo stadio in compagnia. Non ci andava mai perché gli sembrava che costasse troppo e perché non era poi così tifoso della squadra cittadina come i suoi amici; ma stavolta la sua comitiva disponeva di un biglietto in più. L’avevano avuto a poco prezzo – gli avevano detto - da un ragazzo che non poteva venire. Se avesse approfondito l’argomento, Riccardo avrebbe scoperto che era un modo carino per festeggiarlo senza ferire il suo orgoglio (perché difficilmente avrebbe accettato di venire senza pagare), e al tempo stesso realizzare il suo desiderio di vedere dal vivo Raul Francisco, astro nascente del calcio brasiliano.

“Peccato che Raul Francisco non giochi nella nostra squadra, ma contro. Guai a te se fai il tifo per la squadra sbagliata”, gli dicevano i suoi amici prendendolo in giro.

Ma perché - vi starete chiedendo - tanta curiosità di vedere all’opera quel giocatore? Semplice: perché tutti dicevano che Riccardo gli somigliava tantissimo. Gli era persino capitato che qualcuno lo fermasse per strada e gli chiedesse un autografo, o che gli dicesse: “Bravo, sei forte!”.

Erano addirittura nati nello stesso anno, anche se in continenti diversi.

“E’ come avrei potuto diventare io, con un po’ di fortuna”, pensava alle volte Riccardo. Forse avrebbe anche potuto odiarlo; e invece, vai a capire la mente umana, divenne il suo idolo. Da quando l’aveva scoperto raccoglieva tutte le sue foto, tutte le notizie che trovava su di lui.

Andando allo stadio sapeva in cuor suo che avrebbe tifato per dodici dei giocatori in campo, e per uno più degli altri; e anche i suoi amici lo sapevano.

La notte prima della partita fece un altro strano sogno. Ne ricordò qualcosa, ma non lo raccontò a nessuno: “Mi prenderebbero in giro”, pensò; “sarà solo l’interiorizzazione dell’emozione di vedere il grande Raul”.

Si ricordava di essere stato in aereo, con la sua borsa sportiva e la tuta gialla e blu come quella di tutti gli altri passeggeri. Poi si era visto sulla spiaggia impegnato in una interminabile partita di pallone, bella ma stancante, durante la quale più di una volta aveva anche segnato ed aveva ricevuto complimenti sia dai compagni che dagli avversari. Ma quello che ricordava di più era la stanchezza; tanto che quando si svegliò al mattino gli pareva di sentire ancora i polpacci e le cosce dolenti.

E dire che Riccardo non giocava quasi mai a pallone, decisamente non ne era molto capace.

La domenica pomeriggio si ritrovò in curva coi suoi amici e altri tifosi che facevano un fracasso continuo ed inimmaginabile. Dopo un quarto d'ora di gioco il risultato non era cambiato. Era chiaro però che il migliore, a metà campo, era proprio Raul Francisco. Riccardo avrebbe voluto incitarlo e gioire per le sue prodezze, ma trovandosi circondato da tifosi biancorossocrociati, ossia della squadra di casa, si doveva trattenere. In più, per prendersi gioco di lui, i suoi amici inveivano regolarmente contro il campione brasiliano ogni qual volta toccava palla, ed incitavano i difensori a commettere interventi cattivi contro Raul.

Ad un tratto ce ne fu uno più violento degli altri nei confronti della caviglia di Francisco. "Bene, bene così. Più deciso la prossima volta", gridò uno dei suoi amici sperando che il campione dovesse lasciare il campo.

Il brasiliano rimase a terra dolorante. Sebbene l'autore del fallo fosse stato ammonito, la reazione della curva a quell'intervento fu di unanime esultanza. Ci fu qualcuno che cominciò a far scoppiare dei petardi, in una specie di scarica. Alla fine ce ne fu uno, isolato, che a Riccardo sembrò molto più forte ma in realtà era solo più vicino. Ne rimase stordito; dopo un attimo di sordità completa gli si annebbiò la vista, tanto che sentì il bisogno di chiudere gli occhi e di coprirseli con le mani.

Li riaprì quasi subito, riprendendo pieno possesso di tutti i suoi sensi. Incredulo, si rese conto di provare una fitta di dolore terribile alla caviglia. Il dolore si attenuava mentre un signore in tuta gialla e blu gliela fasciava stretta stretta.

"Adesso ti passa tutto. Puoi riprendere a giocare, non è niente", gli disse mentre Riccardo, stupito, constatava di indossare calzoncini corti e scarpini da calcio, e di essere seduto in mezzo al campo di gioco, percependo distintamente l'umidità del prato ed il solletico dei fili d'erba sulla pelle delle gambe.

"Dai, su: prova ad alzarti", e mentre si rimetteva in piedi scoprendo che effettivamente il dolore si era trasformato in un minimo fastidio, sentì la folla dello stadio fischiare e gridare a gran voce: "Ra-ul, Ra-ul"

Guardò in alto, e vide centinaia, forse migliaia di persone che acclamavano a lui, anzi a Raul, o forse era la stessa cosa.

"Sì", pensò, "magari poi ci andrò dallo specialista: ma adesso proprio non posso deluderli".

Cominciò a muoversi e a correre. "Forse è un sogno come stanotte", pensò. Ricevette subito un passaggio, ma perse palla malamente. Qualcuno fischiò. No, non era esattamente come nel sogno della notte prima. Ricevette un'altra palla e non riuscì neanche a controllarla; stavolta i fischi furono molto sonori. Gli altri sì che sapevano giocare, pensò. Si rese conto che non poteva rimanere in mezzo al campo. Fu preso da un tale sconforto, una tale disperazione, che il dolore alla caviglia gli parve riacutizzarsi. Si lasciò cadere per terra, pensando: "Se è un brutto sogno, forse mi sveglierò". Ed invece non si svegliò. Rimase per terra, con le mani a coprirsi gli occhi, più per la vergogna che per il dolore, finché alla prima pausa di gioco non tornò il signore di prima in tuta gialla e blu.

"Che hai, che ti ha preso?", gli chiese quello.

"No, non posso continuare a giocare. Mi deve far sostituire, assolutamente. E' l'unica cosa da fare."

Poi, fingendo di zoppicare e sorretto da quello che evidentemente era il medico della squadra, si portò oltre la linea laterale del campo, a ridosso della panchina. Nonostante il disappunto dell'allenatore, con gran sollievo di Riccardo entrò poco dopo il suo sostituto; e Riccardo (Raul per tutto il resto del mondo), dopo qualche ulteriore controllo da parte del medico, prese posto in panchina.

Era divertente guardare la partita così da vicino, anche se lo spettacolo era molto calato per l'assenza di quello che fin lì era stato decisamente il migliore in campo. Ma chi era poi costui, pensò Riccardo: sono davvero io? Si sforzò di guardare verso la curva, da dove gli risultava che un gruppetto di tifosi tra cui egli stesso Riccardo stessero seguendo l'incontro. Sperava di riuscire a vedersi laggiù, ma la distanza era troppa.

Cosa avrebbe dovuto fare? Adeguarsi a questa improvvisa ed assurda svolta che aveva preso il corso della sua vita; oppure contrastarla, cercando di riportare la sua esistenza sui binari della normalità? All'inizio, decidendo di non decidere, si rispose che per il momento preferiva godersi la partita, poi ci avrebbe pensato.

"Riccardo! Raul, Raul. Sono Riccardo." A un tratto, nella confusione e nel frastuono di voci dello stadio gremito, gli parve di distinguere queste parole. "Raul, sono Riccardo Boccadoro. Ti prego, vorrei parlarti."

Stavolta era sicuro di quello che aveva sentito: era stato pronunciato il suo nome, qualcuno si indirizzava a lui. Riccardo si alzò, cercando di individuare alle sue spalle chi lo stesse chiamando; ma dietro a sé il campo visivo era quasi completamente ostruito dalla panchina.

"Ci vediamo fra cinque minuti allo spogliatoio: ti prego, Raul, non mancare."

“Lo conosci davvero questo ragazzo?”, gli chiese un compagno di squadra seduto lì di fianco.

“Sì, lo conosco.” Per un attimo fu tentato di chiedergli come arrivare agli spogliatoi; ma poi si disse che li avrebbe trovati da solo, senza destare inutili sospetti.

Zoppicando si infilò giù per delle scale in un corridoio che sembrava vuoto, a parte una guardia della sicurezza.

“Raul, due parole al volo per Radio Campione?”, gli chiese un giovane trafelato, ben vestito ed armato di cuffie e microfono, sorprendendolo alle spalle.

“Vi prego, adesso no, lasciatemi andare a cambiare. E’ di qua il mio spogliatoio, vero?”

“Sì. Ma come ti senti? La caviglia ti fa male?”

“Sì, molto. Ma ora lasciatemi in pace.”

Aprì la porta di quello che gli sembrava essere uno degli spogliatoi. Non vedendo nessuno stava per richiuderla, ma si sentì chiamare:

“Riccardo. Sono qui.”

Rimase a bocca aperta. Di fronte a lui c’era un altro se stesso che indossava un cappotto e un paio di pantaloni che ben conosceva: gli mancava solo la sua sciarpetta biancorossa.

“Ma è incredibile: sei uguale spiccicato a me!”

Rimasero un po’ a fissarsi, increduli; poi l’altro, che da adesso in poi per comodità chiameremo Raul, lo portò con sé davanti ad uno specchio.

“Qualche differenza c’è. Io ero un po’ più alto, con una massa muscolare più sviluppata e senza questo brutto neo sotto la mascella. Insomma, ero un pochino più bello, ora sono un po’ più bruttino.”

“Già. In compenso io ho una caviglia che prima stava bene e che adesso mi fa male.”

“Senti: non so che cosa tu abbia combinato, ma sembra che almeno mi siano rimasti l’accento portoghese e l’abilità nel giocare a pallone. Che ne diresti se ci scambiassimo i vestiti, prima di combinare qualche altro pasticcio irreparabile?”

“Sì, scambiamoci i vestiti: mi sentirò più a mio agio. Comunque ti assicuro che io non ho fatto niente. Mi sono solo trovato lì, al tuo posto.”

“Spero solo di non perdere la maglia da titolare, dopo quanto hai combinato.”

Raul si spogliò e si fece una rapida doccia. Anche Riccardo decise di fare lo stesso. “Puoi usare il mio shampoo e la mia roba, se vuoi”, gli disse Raul.

Si rivestirono tornando ognuno nei propri abiti civili. Quelli di Raul erano notevolmente più eleganti.

“Ti lascio il mio numero di cellulare per qualunque evenienza”, gli disse Raul estraendo dal suo portafoglio un biglietto da visita. “Non lo dare a nessuno, è il mio numero super privato. E soprattutto mi raccomando: non fare parola di quanto è successo, soprattutto con la stampa. Altrimenti potresti rovinarmi la carriera.” Tirò fuori anche due banconote di grosso taglio: “Queste sono per il disturbo, e per la visita medica. Buona fortuna.” Raul gli strinse la mano per salutarlo, e se ne stava andando.

“Aspetta: chi ci assicura che non succederà di nuovo?” obiettò Riccardo.

Raul si fermò a riflettere. “Hai ragione. Potrebbe succedere ancora. Forse è meglio che restiamo insieme per un po’. Però cerchiamo di non farci notare.”

Col bavero alzato per nascondersi il più possibile, Raul fece strada a Riccardo, imbacuccato nella sua sciarpa biancorossa ritrovata arrotolata nella tasca del cappotto, e sgattaiolarono fuori dallo stadio evitando qualunque possibile incontro. Una volta al sicuro da tifosi e giornalisti, Raul chiamò un taxi col cellulare.

“Andiamo in centro: è meglio rimanere lontano da qui per almeno un paio d’ore. Anzi, ho un’idea migliore.”

Chiamò qualcuno della squadra, forse l’allenatore. Con un accento portoghese più marcato - che evidentemente faceva parte della sua immagine pubblica, ma che volendo poteva attenuare – riferì qualcosa di un suo cugino che era venuto a Roma, e avvertì che sarebbe tornato in sede con mezzi propri.

“Davvero ti è venuto a trovare un tuo parente?”, chiese Riccardo al termine della telefonata.

“Sì: sei tu il mio cugino di cui parlavo. Sei molto credibile in questo ruolo, non è vero? Scherzi a parte, tutti i miei parenti sono in Brasile. E’ più di un anno che vivo da solo in Italia; ma questo paese mi piace molto.”

“E ti mancano il tuo papà e la tua mamma?”

“Sì, abbastanza; e anche i miei fratelli e le mie sorelle, cinque in tutto. Ma non mi dimentico di loro. Ogni mese gli mando un po’ di soldi. Qui io guadagno bene, ed in Brasile si sopravvive con poco. Ecco un taxi, deve essere il nostro.”

Si sbracciarono per farsi vedere.

“C’è un bell’albergo in cui mi fermo sempre quando vengo qui. Potremmo andarci, se vuoi”, propose Raul.

“Ti va invece il cinema? Ho da poco dato un esame, e questo fine settimana volevo distrarmi un po’. E’ per questo che sono venuto allo stadio, anche se a dire il vero non mi sono tanto rilassato.”

Risero tutti e due.

“Va bene. Scegli pure tu il film ed il cinema, meglio se un po’ lontano da qui. E’ un’ottima idea, così staremo al buio e non daremo nell’occhio.”

Salirono sul taxi, che nel frattempo era arrivato, e Riccardo diede indicazione al conducente.

Uscirono dal cinema che era buio. Il film era stato bello.

“Hai detto che hai appena passato un esame?”, chiese Raul.

Riccardo assentì.

“E’ curioso. Proprio l’altra notte ho sognato che davo un esame. E’ stato quasi un incubo per me che ho fatto solo qualche anno di elementari. Quando mi sono svegliato avevo la testa che mi scoppiava.”

Riccardo ripensò al suo strano sogno di qualche giorno prima, quando si era svegliato con le gambe doloranti.

“Ma è stato un incubo peggiore”, proseguì Raul, “ritrovarmi in curva tra tifosi che lanciavano accidenti e maledizioni di ogni genere contro di te; anzi, contro di me. E’ stato proprio avvilente. Spero che quelli non fossero tuoi amici, e che tu non sia come loro.”

“Alcuni li conosco un po’. Ma stai tranquillo: io non sono come loro. Anzi, sono un tuo grande ammiratore. Chissà, forse è per questo che è successo quello che è successo. A proposito: ho un’idea. Vieni un attimo a casa mia: ti faccio vedere alcune cose interessanti.”

L’abitazione di Riccardo era lì vicino. Suo padre era in casa e quando li vide chiese sbigottito: "Chi di voi due è mio figlio?"

"Sono io, papà", rispose Riccardo. "Oggi allo stadio c'era un concorso per il miglior sosia di Raul Francisco. E' per questo che i miei amici mi ci hanno portato. Io e lui siamo risultati vincitori a pari merito, con un premio di duecento euro ciascuno", aggiunse Riccardo quasi meravigliandosi di come gli riusciva bene inventare frottole, pur non avendolo mai fatto.

"Bene, bene. Fanno sempre comodo. Con quello che costano i tuoi libri!"; quindi, rivolgendosi a Raul: "Sei dei nostri per la cena?"

"Volentieri", gli rispose col suo miglior accento portoghese.

Riccardo fece entrare Raul in camera sua. Tirò fuori da un cassetto alcuni fogli piegati, e cominciò ad aprirli adagiandoli sul suo letto.

“Questo sei tu”, gli disse mano a mano che dispiegava i suoi poster, “e anche questo, e pure quest’altro. Ti riconosci?”

“E come hai fatto a procurarteli? Neanche mia mamma a casa sua possiede così tante foto di me.”

“Me li hanno dati per lo più i miei amici - alcuni li hai visti oggi allo stadio - per farmi vedere quanto ci somigliamo. E poi ho tutti questi articoli di giornali e riviste che parlano di te. Ma per lo più dicono sciocchezze, secondo me; cose poco importanti e forse neanche vere.”

Raul incuriosito ne lesse qualcuno in silenzio, ogni tanto emettendo qualche breve ed espressivo commento. Ma a un tratto smise di leggere e poggiò tutto.

"Alla tua collezione penso che dovresti aggiungere un altro pezzo importante." Aprì il suo borsone e ne tirò fuori la maglietta da gioco biancoverde, ancora puzzolente di sudore. "L'hai portata un po' anche tu, quindi te la meriti in pieno. E potrai dire che è originale, non una copia come tante."

Riccardo fu d'accordo. Cominciò a frugare tra i suoi cassetti. "Devo avere un pennarello indelebile da qualche parte. Così mi ci puoi fare l'autografo e magari anche una dedica, se non ti dispiace."

"Va bene", rispose Raul. Prese una penna dal caos della scrivania e iniziò a firmare i poster. "Però, se vuoi il mio parere, questa maglietta devi lavarla e cominciare a usarla un po' più spesso. Per giocarci a pallone, naturalmente: ho visto che hai davvero molto da imparare. E se il mio autografo si scolorisce me lo fai sapere: la prossima volta che passo di qua te lo rifaccio."

"Mi piacerebbe che fossi tu a insegnarmi a giocare", rispose Riccardo.

"Temo che non sia possibile. I miei impegni sono molto lontani da qui. Già domani pomeriggio devo essere con la squadra per la visita medica e gli allenamenti."

Terminato con gli autografi, Raul cominciò affascinato a curiosare nella stanza tra i tanti e disordinati libri di Riccardo.

"Sono tutti tuoi questi libri?"

"Si, naturalmente."

"E li hai letti tutti?"

"Tutti. Qualcuno più che letto l'ho studiato. Qualcuno a dire il vero lo devo ancora studiare."

"Deve essere bello come passatempo. A casa mia di libri non ce n'erano. Solo quelli per imparare a leggere e scrivere, che ci siamo passati l'uno all'altro." Mentre parlava, evidentemente a suo agio, riaffiorava leggermente il suo simpatico accento portoghese. "Ora i più piccoli possono studiare di più, anche grazie alla mia fortuna. Ma la mia fortuna è dovuta anche a questo: a casa non c'era quasi posto neanche per noi, ed erano tutti contenti che noi andassimo a giocare fuori. E io giocavo a pallone tutto il giorno, ovunque: tornavo a casa solo per dormire e mangiare. Mi divertivo, ed ero anche bravo, come puoi immaginare."

"Hai detto che hai fatto solo le elementari?"

"Neanche tutte. Forse due o tre anni. Mi piacerebbe mandare un po' di soldi anche alla mia vecchia scuola. Adesso sto studiando l'italiano, e mi riesce abbastanza bene. Ma le altre materie no, non sono portato. Mi ero iscritto a una di quelle scuole per gli adulti, e ho mollato subito."

"Io ho sempre avuto bisogno di leggere. Di storie nuove, di fantasia, più che altro. Forse perché da piccolo mi leggevano sempre le favole prima di dormire."

"Anche a me mi raccontavano le favole. Mia mamma, o anche le mie sorelle. Ma le sapevano tutte a memoria, o forse le inventavano. D'altronde mia mamma tuttora non sa leggere. Ma qui in Italia vado spesso al cinema. E' bello, mi piace."



"Come hai detto che ti chiami?"

"Tutti gli amici mi chiamano Raul. Potete chiamarmi così anche voi, se volete", rispose l'ospite ai genitori di Riccardo.

La cena era andata via tranquilla, con Raul di poche parole, ma cortese ed educato. Quando gli fu chiesto da dove venisse, si ricordò di una serata di beneficenza in un quartiere periferico e popolare di Palermo e disse di venire da lì. Sembrava quasi che parlasse della povertà del suo Brasile.

"E stasera dove dormi? Vuoi dormire da noi? C'è posto, se vuoi."

"No grazie. Ho dei conoscenti qui a Roma." Poi, terminato l'ultimo boccone del dessert: "Complimenti, signora: è tutto davvero molto buono."

"Oh, non esagerare. Proprio niente di particolare. Se avessi saputo prima che ti fermavi a mangiare ti avrei fatto trovare qualcosa di meglio."

"Riccardo, vuoi venire anche tu con me in discoteca questa sera? Conosco un locale davvero carino." Riccardo esitò alla proposta del suo amico. Le discoteche in genere non erano davvero la sua passione; però gli dispiaceva che quella giornata così straordinaria finisse in maniera banale, ed era tentato di seguire il suo idolo per quanto possibile.

"Visto l'esito dell'esame te lo meriti davvero di concederti una serata di svago", commentò suo padre.

"Va bene, mi avete convinto: stasera vado a ballare. Datemi solo il tempo di vestirmi in maniera un po' più adatta."

"A casa tua sono stato tuo ospite, qui tu sei ospite mio", insistette Raul che per tutta la serata non gli lasciò mettere mano al portafoglio. Lo portò in un posticino davvero molto bello. Musica, tanta gente danzante e consumazioni a volontà. Ma dopo neanche mezz'ora Riccardo si era già stufato di ballare. Si mise seduto, su una specie di poltrona in un angolino, ad osservare quello che succedeva nell'ampio locale illuminato a intermittenza da luci colorate e roteanti. Raul ballava senza sosta; quando si fermava, si metteva a chiacchierare con chi gli capitava. Nessuno sembrava riconoscerlo.

"Dai, vieni a ballare anche tu!", gli disse cercando di toglierlo da quella poltrona. "No, non posso, con questa caviglia", rispose Riccardo. Ma non era per quello. Non ne aveva voglia, e forse era troppo impegnato a rimuginare su quanto accaduto quel giorno. Era stata la sua invidia a provocare quel curioso scambio di corpi o di anime? Magari c'era una predisposizione dovuta alla loro somiglianza; o era stata una stregoneria di qualche tifoso? Raul sembrava proprio un bravo ragazzo, più semplice di quanto lo dipingessero i giornali, ma davvero ricco. Però quasi analfabeta, e lontano dalla sua famiglia. Gli dispiaceva davvero, anche se involontariamente ed inspiegabilmente, avergli causato dei problemi.

"E' molto bello qui, non trovi?", gli chiese Raul in un altro suo momento di pausa. Riccardo fece con la testa un cenno che poteva essere anche interpretato come un si, ma sicuramente non lasciava trasparire nessun entusiasmo.

"Sto pensando di comprare una parte del locale, e diventarne socio; e magari quando mi ritiro dal calcio vengo qui a fare il gestore. O anche solo il barman, mi piacerebbe. Tu che ne dici?"

Riccardo non aveva certo questo tipo di aspirazioni. "Ma non hai intenzione di tornare in Brasile quando avrai finito come calciatore?"

"Non lo so. Bisogna vedere. Se sposo una ragazza italiana è probabile che mi fermo. E poi dicono che non è facile riadattarsi a tornare indietro quando ci si è abituati ad un certo tenore di vita. Ma vedrai che finirò per fare come tanti calciatori: l'allenatore o il commentatore o giornalista sportivo."

"Per scrivere degli altri calciatori come adesso scrivono di te?"

"Ti riferisci a quegli articoli che mi hai fatto leggere? No, quello è gossip, non giornalismo sportivo."

E Raul tornò a ballare lasciando Riccardo sulla sua poltrona, intorpidito e appesantito dal sonno. Più tardi Raul venne verso di lui in compagnia di due belle ragazze. Riccardo non capiva quello che si stessero dicendo: pensava che parlassero tra di loro in portoghese. Ma poi fu evidente che si stavano rivolgendo a lui, domandandogli qualcosa che lui non riusciva a capire.

"Mi dispiace, non parlo portoghese", si scusò Riccardo.

"Dai su, Riccardo, svegliati. Diciamo a te. Vuoi starci a sentire?"

Solo allora si destò e capì di essersi appisolato e di aver sognato, anche se non gli fu chiaro da quanto. "Noi stiamo per andare in un'altra discoteca che apre tra poco. Ti proporrei di venire, siamo in buona compagnia; ma vedo che sei molto stanco. Forse è meglio che ti riaccompagni a casa."

"Si, si, hai ragione", fu d'accordo Riccardo, anche se proprio in quel momento si rese conto che le due ragazze da sogno vicino a lui erano vere.

Il giorno dopo era quasi mezzogiorno quando la mamma lo venne a svegliare dicendogli che c'era una telefonata per lui. Era Raul.

"Ho preso il primo volo questa mattina, direttamente dalla discoteca, e sono già arrivato. Sono venuto subito al campo a fare due palleggi. E' tutto a posto. Voglio dire: io sono io, tu sei rimasto lì. Insomma il mondo è impazzito una volta sola, a quanto pare. Volevo ringraziarti per la compagnia, e sapere della tua caviglia."

"La mia caviglia? Ah, si. Ora che mi ci fai pensare: se non la muovo non mi da fastidio, e neanche a camminarci." La mosse un po', per sentire in che stato era. "Solo se la sforzo. Ma starò attento a non correrci e saltarci per un po'. Non è difficile, per me".

Così è terminata, o quasi, questa incredibile storia. Devo solo aggiungere che Raul fu davvero carino con Riccardo e, proprio come a ognuno dei suoi fratelli, alla fine del mese gli mandò una piccola somma di denaro. E questo regalo mensile divenne una bella consuetudine che, nonostante il trasferimento di Raul ad una grande squadra spagnola all'inizio della stagione successiva, andò avanti fino alla laurea di Riccardo.

L'allontanamento di Raul dall'Italia, pur molto positivo per la carriera del giocatore brasiliano, rese davvero complicato realizzare il loro progetto di incontrarsi nuovamente. Nonostante tutto ci riuscirono, in occasione della laurea di Riccardo che ci teneva moltissimo a che Raul fosse presente alla sua festa. Lo avvisò con molto anticipo, concordarono la data e Raul non solo prese parte alla festa, ma gliela offrì mettendogli a disposizione quel locale di cui nel frattempo era diventato socio. Fu una festa bellissima, come nessun amico o collega di Riccardo poteva immaginare, a cui parteciparono anche personaggi famosi del mondo del calcio e dello spettacolo; una di quelle feste di cui si parla nelle cronache mondane. Riccardo ne fu felicissimo. E continuarono a vivere come cugini.




TOMMASO ASPIRANTE CUOCO


Tommaso era un ragazzone come tanti. Buono d’animo, ma molto pigro e con pochi interessi. Non poteva certamente essere definito brillante né eccelleva in nulla.

L’unica attività in cui non era certamente pigro era il mangiare: un po’ per goloseria, un po’ perché si ritrovava sempre con un appetito quasi insaziabile, che poi divenne quasi un’abitudine.

La sua passione per il cibo finì per influenzare in maniera determinante la sua adolescenza: il suo aspetto fisico, dato che divenne un ragazzone grosso ed anche eccessivamente corpulento; e la scelta di cosa fare nella vita. Gli era stato consigliato di imparare a cucinare, e lui, che non aveva altri grandi interessi, lo aveva trovato un consiglio ragionevole e lo aveva seguito.

Fresco di diploma, conseguito all’alberghiero con poco più del minimo dei voti, aveva cercato un lavoro nel mondo della ristorazione, e dopo lunghe ricerche era stato assunto come inserviente in una mensa aziendale. Non era un gran lavoro, e nonostante ciò, non essendoci abituato, almeno le prime volte si stancava molto. E poi più o meno sempre le stesse cose, riempire i piatti di persone estranee che al di là del banco parlavano tra loro con interesse di cose a lui del tutto sconosciute e incomprensibili.

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Tommaso era in fila col suo vassoio davanti al bancone delle vivande. Quel giorno doveva essere un’occasione particolare, o il cuoco doveva essersi sbizzarrito, dato che c’era una varietà di cibi preparati mai vista prima. Tommaso cominciò a riempirsi il vassoio con un primo; ma poi, vedendo che c’erano anche le lasagne ed i cannelloni, aggiunse un secondo piatto.

“ Vuole anche un supplì e dei fritti misti?”, gli chiese gentilmente l’inserviente. Lo guardò, ed il suo aspetto gli sembrò familiare. Un suo sosia, avrebbe detto. Sembrava proprio lui, Tommaso. Anzi, forse era lui, dato che anche la sua voce risuonava identica.

“ Grazie, volentieri”.

Scorrendo con la fila davanti alle vivande, il vassoio si era rapidamente riempito, eppure riusciva a farci stare sempre qualcosina in più. Doveva essere un vassoio più grande del normale, a pensarci bene.

“ Queste le ho fatte con tanto amore e con tanto formaggio, come piacciono a te: prendine un piatto abbondante!”. Dall’altra parte del bancone Tommaso riconobbe diverse altre facce a lui conosciute, oltre a sua madre in camice bianco che gli stava porgendo una porzione maestosa di melanzane alla parmigiana. Ad esempio c'era Francesco, suo ex compagno di banco a scuola; il pasticcere sotto casa; ed in cucina gli parve addirittura di intravvedere, per quanto non fosse possibile, la sua cara vecchia nonna. Ecco il perché di tutta quella scelta di portate, pensò Tommaso.

Il bancone gli era sembrato più lungo del solito (ma in fondo lui era abituato a stare dall’altra parte), ma alla fine arrivò alla cassa.

“ Va bene se prendo tutta questa roba, o è troppa?”, chiese timidamente indicando al cassiere, che somigliava molto a quel signore che lo aveva assunto, i suoi due vassoi pieni.

“ No, no, prendi pure. Però dovrai pagare un piccolo supplemento.”

Batté lo scontrino e glielo porse.

Tommaso lo lesse e sbiancò. “Ma io non ho tutti questi soldi!”

“ Stai tranquillo, nessun problema. Te li possiamo trattenere dai prossimi stipendi.”

Tommaso si risvegliò tutto sudato e col cuore che gli batteva forte forte. Era domenica mattina, ed era soltanto da una settimana che aveva iniziato a lavorare!

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La seconda settimana di lavoro, Tommaso cominciò a conoscere un pochino meglio i suoi colleghi e a prenderci un poco di dimestichezza, Adesso perlomeno non confondeva più i loro nomi: il cuoco si chiamava Gianni, la cassiera Fernanda, e poi c’erano Alberto, la signora Luisa, Vittorio e Maria.

“ Gianni, ti vogliono con urgenza al telefono”. Una persona elegante era scesa apposta dal piano di sopra per far avere al cuoco questo messaggio.

“ Sono nel clou della cottura. Devono aspettare un po’.”

“ Mi hanno detto che è molto urgente. Si tratta di tua sorella. Trova qualcuno che ti sostituisca.”

Gianni, sentendo nominare la sorella, era uscito di fretta dimenticandosi di indicare espressamente un suo provvisorio sostituto.

” Ma non va nessuno al suo posto ai fornelli?”, chiese Tommaso ad Alberto. “Io certamente no, non è il mio compito”, gli rispose Alberto, “e rischierei di combinare un disastro. Se vuoi andare tu, se te la senti, ti copro io finché non apriamo e c’è poca gente”.

Tommaso, fresco di pratica scolastica ed un po’ anche desideroso di vedere e provare qualcosa di nuovo, non se lo fece ripetere. Entrò in cucina, controllò la cottura della pasta e del sugo. Ma dopo aver assaggiato il condimento pensò che ci sarebbe stato bene anche un pizzico di quella spezia orientale che andava tanto di moda, la curcuma, chissà se riusciva a trovarne. Aprì tutti gli sportelli esplorandone il contenuto. Non tante cose ma in grandi quantità, a dire il vero, ma niente curcuma. Ma un’altra spezia che poteva andarci bene la trovò, e la utilizzò. E al momento giusto fece senza problemi tutto quel che andava fatto: spegnere i fornelli, scolare, mescolare …. Poi fece suonare il campanello e la collega venne a prendere il pentolone pronto.

“ Appena in tempo: fra due minuti dobbiamo aprire. E con l’altro primo siamo indietro, immagino … ”, gli disse la collega.

Già. Su un altro fuoco c’era il riso. “Cosa è scritto sul menu? Riso fatto come?”

“ Riso ai funghi”, le rispose lei prima di uscire.

Sul riso Tommaso fece tutto da solo, e si divertì. E nel frattempo doveva controllare i contorni, appena abbozzati, e riscaldare i secondi.

Quando chiamò perché il riso era pronto, si affacciò Gianni, che era tornato a riprendere il suo posto e volle assaggiarlo.

“ Troppo buono, Tommaso, questo riso. Non abituarli troppo bene i nostri commensali, altrimenti poi rimarranno scontenti quando cucino io.”

Mi ero reso conto di aver sognato tutto ciò, un'altra domenica mattina; eppure un giorno al lavoro chissà perché me ne uscii quasi sovrappensiero chiedendo a Gianni come stesse sua sorella.

“Mia sorella? Ma io non ho sorelle, mai avute”, mi rispose lui sorpreso.

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Ero in cucina che mi cimentavo in alcune nuove ricette di mia invenzione insieme a Gianni, che mi stava dando una mano nelle cose più semplici, quando si affacciò il solito signore elegante del piano di sopra.

“ Scusatemi, lo so che per voi non cambierà nulla, ma volevo avvisarvi che oggi verranno a pranzo anche il braccio destro dell’Amministratore Delegato insieme ad un membro dell’Organo Ispettivo di controllo. E vedo che al banco manca qualcuno”.

“ Stai tranquillo, vado io”, mi anticipò Gianni dandomi una pacca sulla spalla.

Io proseguii in cucina. Il tempo sembrava non passare mai tra quegli effluvi ed il calore dei fornelli, e in grossi tegami affidavo in continuazione a Maria i cibi da me cucinati come per sfamare un esercito, quasi che i fornelli fossero magici e così pure la dispensa, in cui trovavo in sufficiente quantità tutti gli ingredienti, anche i più strani, che mi veniva in mente di utilizzare.

A un certo punto guardai in sala mensa e mi presi una piccola pausa vedendo che, pur essendoci in fila ancora un consistente numero di persone da servire,, la situazione delle vivande era tranquilla ed abbondante anche più del necessario. Là in un tavolo vidi alcuni signori che stavano chiacchierando e, vedendomi, mi parve che dicessero qualcosa su di me. Non so da cosa avessi intuito che tra di loro c’erano il braccio destro dell’Amministratore Delegato ed un membro dell’Organo Ispettivo, ma ad un tratto uno di quel gruppo si alzò da tavola e si diresse verso di me.

Fui preso dal panico. Da un lato volevo tornare in cucina per non farmi vedere inattivo; dall’altro era sempre più evidente che quell’uomo veniva da me, e sarebbe sembrato scortese allontanarmi.

“ Mi scusi, è lei il cuoco, vero?”

“ Se intende dire chi ha cucinato oggi tutto questo allora sì, sono io.”

“ Quel signore là in fondo desidererebbe parlare un attimo con lei.”

Mi pulii meglio le mani e mi sistemai il grembiule, dovendo presentarmi a gente vestita in modo davvero elegante; ma continuai a rimanere nel panico, nel timore di quello che avrebbero potuto dirmi.

Ed invece si presentarono con cordialità, alzandosi in piedi e stringendomi la mano.

“ Ci tenevamo a farle i nostri complimenti. Perché, almeno a me, in tutta la mia carriera lavorativa non mi era mai capitato di mangiare così bene in una mensa aziendale. Anzi, se proprio devo essere sincero, in vita mia ricordo di aver mangiato così squisitamente ben poche volte, da contarsi forse sulle dita di una mano, e solo in qualche ristorante di altissimo livello.”

Tommaso si risvegliò di buon umore ed un po’ eccitato, e con un certo languorino allo stomaco.

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Col passare del tempo, sebbene non fosse una persona di carattere particolarmente espansivo né portato a confidarsi con gli sconosciuti, Tommaso cominciò dapprima ad assuefarsi ai volti ed alle voci di molti dei commensali abituali, e poi anche a scambiare con alcuni di loro battute di scarso interesse e significato, ed a volte anche qualche sorriso. E imparò anche qualche metodo efficace per tenere e mosche lontano dai piatti.

Come una mosca fastidiosa, una persona con una telecamerina tra le mani si aggirava senza sosta attorno a lui, osservandone con impertinenza dettagli anche insignificanti ed a volte soffermandosi più a lungo, senza nessuna ragione apparente, su alcuni di essi.

Nel suo grembiule bianco, in compagnia del suo aiutante Gianni, Tommaso si trovava nello studio televisivo per la registrazione di una puntata di “Ricette d’Italia”. Erano la squadra della melanzana, e si apprestavano a sfidare la squadra della carota, composta da un noto chef di fama internazionale in compagnia di un’avvenente brunetta tutto pepe. Al centro, la bellissima presentatrice Donna Hally, che parlava di fronte ad una grande e strana macchina da presa posizionata al centro dell’ampio locale. Lei iniziò con la sua voce dolce e suadente:

“ Conoscete le regole: avete a disposizione esattamente gli stessi ingredienti, che stamattina ho comprato io stessa al supermercato del nostro sponsor “Superspesa”. Avete due ore di tempo a disposizione per le vostre magie. Ci rivedremo qui all’ora di pranzo con i nostri ospiti e giudici, con cui ci intratterremo in queste due ore su diversi importanti argomenti di attualità. Pranzeremo, e mi ci metto anch’io, coi piatti da voi cucinati. Ogni giudice assaggerà sei portate, tre di una squadra e tre di un’altra, ignorando completamente chi le abbia preparate e dando a ciascuna un voto. E adesso via, e che vinca il migliore!”

Tommaso, fin lì emozionato ed anche un po’ agitato per la vicinanza della bellissima presentatrice, si sentì più rilassato rimanendo in compagnia soltanto dei suoi ingredienti, delle sue padelle, dei suoi fornelli e del suo fidato Gianni. E a quel punto iniziò la parte più bella del suo sogno.

Si tirò su le maniche, si sistemò il grembiule ed il cappello da cuoco con cui era stato equipaggiato e predispose opportunamente il ripiano di lavoro. A portata di mano coltelli, cucchiai e forchette di varie fogge e dimensioni, olio aceto sale e pepe; per tutto il resto una rapida occhiata per capire dove trovarli all’evenienza. Gli sembrava ci fosse tutto, una cucina davvero da professionista.

Aprì l’ampio e ben fornito frigorifero, e ne estrasse di volta in volta, a seconda di quello che richiedevano le preparazioni, innumerevoli tesori della cucina italiana: scaglie di parmigiano, bresaola, rughetta, lardo di colonnata, pasta fatta in casa, fontina e burrata. E poi pesci di varie forme e dimensioni, gamberi, un’aragosta e pesino un’anguilla. E dalla dispensa funghi porcini, noce moscata, peperoncino in pezzi e in polvere, e tutte le verdure e le spezie occorrenti di volta in volta alla bisogna. E cominciò a preparare con fantasia, a partire dai soffritti e dagli intingoli, e ad assaggiare ora qua ed ora là come il famoso cuoco pasticcione della canzoncina, e dopo essersi leccato le dita proseguiva aggiungendo un altro ingrediente, oppure passando il tutto al fidato Gianni per impiattare.

Si sentiva beato in mezzo a quel buon cibo, tenendo d’occhio pentole borbottanti e padelle sfrigolanti, sorvegliando con occhio vigile la cottura su più fuochi, assaggiando ed annusando qua e là mentre le inebrianti esalazioni saturavano il locale e riempivano l’animo di desiderio e di voluttuoso appetito. In sottofondo scorrevano le chiacchiere degli ospiti, in cui non di rado riconosceva qualche suo amico o conoscente, e la bellissima voce di Donna Hally.

Quanto durò quella apparentemente interminabile beatitudine culinaria Tommaso non avrebbe saputo dirlo, ma evidentemente furono solo due ore, perché così asserì la bella Donna quando venne di persona a chiudere i giochi ed a spegnere i fornelli.

“ Adesso dobbiamo spegnere e lasciare tutto, è finito il tempo”.

“ Ma questi devono ultimare la cottura”, obiettò dispiaciuto ed imbarazzato Tommaso.

“ Hai fatto, come il tuo concorrente, un lavoro sicuramente egregio, perché tutte le portate hanno ricevuto ottimi voti. Adesso bisogna solo aspettare tutti insieme il verdetto del totalizzatore”, aggiunse la Hally col suo sorriso sempre radioso.

Si portarono al centro dello studio, proprio davanti alla grande telecamera, e dandosi le mani formarono una specie di piccola catena umana, come i pugili e l’arbitro al centro del ring in attesa del verdetto. Tommaso stringeva la mano di Gianni da una parte, e della Hally dall’altra.

“ E il vincitore è … Tommaso!”

Tommaso fu inondato di luce, mentre la Hally gli sollevava il braccio.

“ E bravo il nostro Tommaso, cuoco fatto da solo e venuto dal nulla. Pensate che lavora in una mensa aziendale. Complimenti!”

Gli diede due baci sulle guance, e poi … anche uno sulla bocca!

E Tommaso, per la grande emozione, si svegliò.

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Insomma, Tommaso col nuovo lavoro cominciava ad ambientarsi e non si trovava poi così male. Però sentiva una insoddisfazione di fondo, perché pensava che stare ai fornelli gli sarebbe piaciuto di più, e meditò che appena possibile si sarebbe messo di nuovo alla ricerca di un altro posto di lavoro, stavolta come cuoco.

“Buonasera a tutti, signore e signori. Sono Donna Hally e stasera sono qui con voi in compagnia di Tommaso, il vincitore dell'ultima edizione di “Ricette d'Italia”. Competizione di cui, per inciso, Tommaso è stato anche il più giovane concorrente. Come ti senti, dopo questa vittoria?”

“Sono contento, molto contento”, rispose lui un po' impacciato anche per una luce calda ed accecante che gli venne sparata sul viso, ed a cui a poco a poco riuscì ad adattarsi.

“Ma dimmi, come mai hai scelto di fare della cucina l'amore della tua vita?”

Tommaso non voleva rispondere con la banale verità: me lo hanno consigliato, mi piace mangiare bene, mio padre sosteneva che non avrei saputo far bene niente altro nella mia vita. Allora gli tornarono in mente alcune frasi che aveva studiato a scuola e che gli erano rimaste impresse, e cominciò a sciorinarle come se fossero idee sue


(#ulink_cec7560a-07ba-562f-9fca-19fdd0ea1452) :

“Perché il piacere di mangiare è il solo che, se non si esagera, non stanca mai, a nessuna età, in ogni tempo e condizione. E tante volte riesce a consolarci della mancanza di tanti altri piaceri. E poi tutti abbiamo la fortuna di provare questa piacevole necessità anche più volte al giorno per tutta la vita. Quale altra attività potrebbe eguagliarla?”

“Bene, bravo. Bellissime parole”, rispose lei. E Tommaso provò la stessa orgogliosa soddisfazione di quell'unica volta in cui a scuola aveva preso un bel voto all'interrogazione.

“E pensate che questo ragazzo non fa neanche il cuoco di professione, ma lavora come inserviente in una mensa aziendale. E adesso ci farà vedere di cosa è capace, e ci svelerà alcuni dei suoi trucchi e segreti, giusto? Fra un attimo, dopo la pubblicità.”

Le luci si attenuarono, lei gli si accostò e con tutt'altro tono aggiunse, mentre con infinita dolcezza gli regalava il sorriso e gli occhi più belli e teneri del mondo: “Vero che lo farai? Lo farai per me, solo per me, biscottino mio?”

E a suggello della richiesta gli diede anche un bacio sulla bocca, facendolo arrossire e innamorare perdutamente di lei più di quanto egli già non fosse.

Il bacio durò moltissimo; ma siccome nei sogni non è possibile misurare il tempo, non potrei dirvi minimamente quanto. So solo che a un certo punto finì, le luci si ravvivarono e lei tornò più seria e distaccata. I due, a cui senza che Tommaso se ne fosse accorto avevano posto addosso un grembiule da cucina e cambiato la scenografia circostante, si trovavano ora davanti al piano cottura di una cucina professionale.

“E adesso la scena è tutta tua”, le disse la bella presentatrice.

Tommaso ebbe solo un attimo di panico. Ma poi cominciò a prendere e a mescolare alcuni ingredienti quasi a caso, tagliuzzandoli ora a striscioline, ora a pezzettoni, versandoli e disponendoli con gesti sapienti, mescolandoli, aggiungendovi spezie ed aromi e condimenti scelti come capitava, ma disponendo sempre ogni cosa nei piatti e nei recipienti con ordine e gusto estetico.

"La scoperta d'un nuovo cibo è più vantaggiosa alla felicità del genere umano della scoperta d'una stella, come disse una volta il grande Napoleone", si giustificò Tommaso a cui era tornata in mente questa bella citazione in associazione, chissà perché, al grande generale francese


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“E tu come Napoleone mi stai conquistando.” Vicino a lui la bella Hally andava continuamente assaggiando, intingendo il dito e poi leccandolo voluttuosamente, ed approvando con gemiti di piacere.

Tommaso, intanto, dei suoi fantasiosi miscugli alcuni li cuoceva in padella ed altri in tegami, quali a fuoco vivo e quali a fuoco lento; e una volta impegnati tutti i fornelli ricorse anche al forno per una teglia maestosa e dall'aspetto appetitoso. Anche lui come la sua amica, che continuava senza ritegno a spizzicare con mugolii di approvazione e frasi di encomio, assaggiava in abbondanza. E là dove il fuoco non permetteva l'uso delle mani, si avventuravano cauti ma decisi con forchette e mestolini.

“Non posso che capitolare di fronte a tanta delizia e bontà. Mi stai letteralmente prendendo il cuore e l'anima, insieme al palato”, gli disse lei.

“Questo lo dobbiamo spegnere”, fece lui assaggiando da una padella. E sentendo una specie di trillo del forno:

“Anche quello che è nel forno dovrebbe essere pronto. Ti dispiace farmi da aiutante e pensarci tu, carissima?”

“Volentieri. Così intanto assaggio e sento come è venuto. Magari te ne lascio un pochino, se vuoi.”

Un altro suono, e Tommaso istintivamente assaggiò il contenuto di un altro pentolino.

“Per questo manca ancora un poco. Amore mio, cosa abbiamo nel forno?”, chiese Tommaso sentendo di nuovo il suono del timer.

“Niente, mio caro. Il forno è vuoto.”

“Ma l'hai spento? Perché se non lo spegni, anche se è vuoto, il timer continua a suonare.”

“Certo. Guarda tu stesso.”

Tommaso analizzò bene il forno, che era dello stesso modello di casa sua. “Hai ragione, è proprio spento. Ma deve essere rotto, perché continua a suonare.”

“Io ho paura invece che ci stiano chiamando dalla regìa perché dobbiamo interrompere la trasmissione. Anche perché questo mi sembra tanto il suono della tua sveglia, o sbaglio?”

“La mia sveglia? No, non può essere. E cosa c'entra con il forno?”

Tommaso si concentrò un attimo. Sì, quello era proprio il suono della sua sveglia. La trasmissione di cui era stato ospite d'onore stava per finire, e lui doveva alzarsi per prepararsi ad affrontare una nuova, anonima giornata di lavoro.



[1] (#ulink_97f80c0f-7220-5526-81c7-68cf5014051d) “Fisiologia del gusto”, di Brillat-Savarin

[2] (#ulink_683953aa-a522-5ebd-a8f3-51db44edf022) “Fisiologia del gusto”, di Brillat-Savarin




L'EREDITA' AUSTRALIANA


"Signora Willingstone. Signora Willingstone" chiamò a gran voce il signor Tobias. Facendogli cenno di spegnere il motore diede un'altra moneta al ragazzo che aveva acconsentito a dargli un passaggio con il trattore.

"Signora Willingstone", ripeté dopo essersi allisciato i suoi baffi bianco lucenti. Stavolta, senza quel frastuono di fondo, la signora Willingstone si affacciò alla porta della villa.

"Ah, sei tu, signor Tobias. Vieni, vieni, caro notaio, che ci prendiamo un tè insieme."

"Un tè a casa tua? Questa è proprio bella".

Il trattore aveva ripreso il suo fastidioso rumore mentre si allontanava per la stradina melmosa. Il signor Tobias, cercando di non sporcarsi, fece quegli ultimi passi fino alla veranda sulla punta dei piedi, come un trampoliere. "Dovresti far sistemare questa stradina: è tutto un pantano."

"Meglio. Così tiene lontano le persone indesiderate. Gli amici come te, invece, in qualche modo riescono sempre a raggiungermi. Qual buon vento ti porta? Immagino che sia in vacanza: come ogni anno, puntuale di questa stagione, giorno più giorno meno. Oserei dire che ti stavo aspettando. Entra pure."

"Eh, ormai direi che questa potrebbe essere la mia ultima vacanza."

"L'ultima vacanza? Cosa vuoi dire con ciò? Ti ha preso qualche malanno? O, peggio, non verrai più a trovarmi?"

"Oh, no, tutt'altro. Anzi, forse ci vedremo più spesso. E' che mi ritiro dall'attività. Vado in pensione. Da adesso comincia per me una lunga, unica vacanza."

"Allora abbiamo un motivo in più per festeggiare. Su, siediti che guardo se ho un po' di tè."

Le sedie del salone di casa Willingstone, di legno rustico e senza la minima traccia di imbottitura, erano quanto di più scomodo si potesse immaginare per sedersi, parola di notaio.

"Lascia stare il tè, tanto so che non ce l'hai. Tira fuori direttamente i bicchierini da liquore, e fammi sentire qualche specialità fatta in casa con le tue mani."

"Bravo. Sono d'accordo. Perché io sono un po' bisbetica ma molto ospitale, non è vero?"

A dire il vero un bicchierino ed una bottiglia mezza vuota erano già sul tavolo. La signora Willingstone portò un altro bicchierino ed un campionario di altre bottiglie di vario genere, che sistemò su un vassoio.

"Questa, però", disse vuotandosi un altro bicchiere da una senza etichetta "è la mia preferita. Oserei dire che è unica al mondo: un distillato di noci e ghiande. E la trovi solo qui. Ma dimmi un po', cos'è questa storia della pensione?"

Di fronte ad un bicchierino i modi di fare della signora Willingstone cambiavano sensibilmente, e questo il notaio lo sapeva benissimo. Già normalmente intrattabile ed ostile con l'universo intero, diventava ancora più acuta e pungente nella sua cattiveria; ma al tempo stesso, solo con chi beveva insieme a lei, benevola ed estremamente confidenziale.

Forse questo cambiamento, di personalità più che di umore, era ciò che aveva reso possibile il nascere tra loro di quella strana amicizia, ancora solida a distanza di tanto tempo. Dopo la prima casuale bevuta insieme - tanti anni prima nell'unico pub di quello stesso paesino - a torto o a ragione il compìto notaio, da poco rimasto vedovo, aveva creduto di riconoscere, dietro la grande franchezza e confidenza di lei, i segni inconfondibili dell'amicizia; un'amicizia che, già appena nata, sembrava di lunga data.

"Ormai ho una certa età, che poi è all'incirca la stessa tua, se non sbaglio. Ho deciso: lascio la mia attività, lo studio e tutto il resto a mio figlio. Continuerò a dargli una mano saltuariamente, così per passatempo, se e quando mi pare."

"Tutto sommato, se credi, fai bene a farlo, tu che puoi."

"Ah, si, certo. Ma potresti farlo anche tu, se volessi."

"Io? Ma stai scherzando! Come pensi che potrei mettermi a riposo? Non ho nessuno. Non ho nemmeno una pensione, tra l'altro. Chi mi manterrebbe? Chi porterebbe avanti i miei maiali?"

"Lasciami spiegare; e non dire che parlo per i miei interessi. Deformazione professionale quella si; ma tornaconto personale no di certo. Dunque. Hai una vaga idea, un domani che tu - corna facendo - lasciassi questo porco mondaccio, a chi andrebbero i tuoi beni?"

"Immagino che qui non vedano l'ora che io tiri le cuoia per prendersi la mia roba, e al tempo stesso liberarsi di una scocciatrice come me."

"E qui entra il discorso del testamento. Si, certo: ti dico che tu dovresti proprio fare testamento."

"Testamento? Ma sai benissimo che non ho nessuno. Nessun parente e nessuno che mi sopporta. Non andavo d'accordo neanche con mia madre. Figuriamoci se qualcuno poteva sposarmi, con questo mio caratteraccio. No, non c'è proprio nessuno a cui eventualmente lasciare un domani queste quattro mura e questo pezzo di terra. Se potessi li lascerei ai miei maiali. Magari ad un collegio, visto che ci ho passato qualche brutto anno della mia vita; o a qualche altro istituto del genere, tipo un orfanotrofio." Poi, con l'aria furba di chi ha capito tutto: "Non è che stai cercando di chiedermi di sposarti, per caso?"

"Che? Fossi matto. Non ci penso nemmeno! Credi di essere bella, da giustificare una simile pazzia da parte mia? No, no. E poi perché? No, io non pensavo ad un matrimonio; piuttosto ad una specie di adozione. Adesso ti spiego meglio: …"





La signora Willingstone reggeva bene in vista un cartello con su scritto il suo cognome. Era lì, lungo il corridoio "arrivo passeggeri" del piccolo aeroporto, da oltre mezz'ora, cioè all'incirca due o tre arrivi. Resisteva ormai da più tempo degli altri nell'avvicendarsi di sconosciuti che cercavano di farsi vedere dai loro cari.

Nessuno, guardandola, aveva cambiato espressione, manifestando in qualche modo interesse o curiosità verso di lei; neanche un piccolo numero di suoi compaesani che, notandola, avevano sì provato sorpresa, ma si erano ben sforzati di non darlo a vedere, ricambiando il disinteresse di lei nei loro confronti.

Finché in coda a un altro gruppetto, impacciato e sbilanciato da un bagaglio troppo voluminoso e instabile sulle rotelle, un ragazzo lesse il cartello e venne verso di lei.

"Salve. Sono io il signor Willingston. Ma senza la "e" finale."

"Bene, giovanotto. Benvenuto", e dopo una frettolosa stretta di mano: "Venga con me, giovanotto."

Nonostante l'età e le gambe ossute, il passo della signora Willingstone era rapido e deciso. Il ragazzo, col suo bagaglio, stentava a starle dietro e perse rapidamente terreno.

"Le dispiacerebbe aspettarmi?", le chiese in prossimità dell'uscita, temendo, una volta all'aperto, di poterla perdere di vista.

Lei si voltò contrariata, con l'espressione di chi ha molta fretta e non vuole sprecare tempo.

"Giovanotto: lo sa che io ho quasi tre volte la sua età? A momenti potrei essere sua nonna!"

Si era fermata, ma non aveva smesso di bofonchiare, parlando tra se a voce bassa ma in modo chiaramente udibile: "Che razza di uomini. Aveva ragione il signor Tobias; non aspettarti chissà cosa. La pasta di un uomo la si riconosce subito. Scommetto che non ha neanche fatto il militare."

"Senta", le disse il ragazzo perdendo la pazienza: "se ha avuto l'incarico di venirmi a prendere, non credo che lo stia portando avanti nel modo giusto; e non è certo un compito difficile. Ma se proprio non ci riesce, mi arrangerò da solo."

Per un attimo si pentì di quello che aveva detto: arrangiarsi da solo poteva essere troppo difficile e costoso. Smise perciò di lamentarsi, ma non certo di rimuginare tra sé sull'accaduto.

"Guarda se uno deve fare migliaia di chilometri per essere accolto da una vecchia rimbecillita arteriosclerotica. Farò le mie rimostranze a chi di dovere, al momento opportuno".

"Avanti, da questa parte" disse la signora Willingstone. E i due, ingrugniti e ciascuno imprecando tra sé, proseguirono nel parcheggio.

La macchina della signora Willingstone era molto vecchia e ancor più sporca, per cui sarebbe stato difficile dirne con precisione il colore originale. Probabilmente nocciola, o color fango, come spesso diceva scherzosamente il signor Tobias alludendo ad alcune chiazze più scure nella parte bassa della carrozzeria. Era uno di quei vecchi modelli americani, tutto metallo e smisurata.

La signora Willingstone aprì il bagagliaio. Quasi sadicamente, godendosi la scena che avrebbe dovuto confermare le sue opinioni, rimase a guardare senza muovere un dito mentre il ragazzo vi infilava faticosamente il suo borsone a rotelle.





"Guardi che sta comodo anche davanti. O forse pensa di essere troppo grasso?" Lei si irritò nuovamente, per il fatto che il ragazzo aveva preso posto sul sedile posteriore. "O crede che questo sia un taxi?"

Ma lui ignorò queste provocazioni. "Potrei sapere dove stiamo andando?"

"Ma naturalmente! Stiamo andando a casa mia, a parlare con il signor Tobias."

"A parlare col signor Tobias a casa sua?"

"Certo! Non è per questo che lei è venuto?"

"Si. Ma voglio dire: lei non sarà mica la signora Tobias?"

"No, naturalmente. Il signor Tobias è vedovo. Io sono la signora Willingstone, con la "e" finale."

"Willingstone come la signora dell'eredità? Pensavo che non avesse più parenti qui in Australia. Lei l'ha conosciuta?"

"Si, direi di si."

"E lei è parente della signora Willinstone?"

"In un certo senso si, in un certo senso no. Dal mio punto di vista, l'unica signora Willingstone di una certa importanza sono io, capisce? Ma adesso non mi faccia più domande. Le farà più tardi al signor Tobias. Lui è più bravo a parlare e a spiegarsi. Io potrei dirle qualcosa di sbagliato, o non spiegarmi a dovere. Gli avevo chiesto di venire con me all'aeroporto, ma non ha voluto saperne. Avrà avuto i suoi buoni motivi."





Arrivarono al paese dopo oltre un'ora di viaggio, durante il quale il giovane Alex Willingston, che pure aveva osservato con interesse ed attenzione il paesaggio circostante, non era riuscito a contare più di una dozzina di abitazioni in tutto.

"Una volta, quando non esisteva ancora l'aeroporto, questo era un paese molto più grande; ma resta a tutt'oggi il più importante centro della zona, perché c'è la stazione della ferrovia", spiegò lei. "Ormai siamo arrivati".

Ed infatti, di lì a poco: "Vede quella villa in fondo alla strada? Quella è casa mia. Che cosa ne dice: le piace?"

"Oh, bella è molto bella. E' il contesto che secondo me è infelice. Gli spazi sono così grandi. Qui è così fuori dal mondo, così … non so. Personalmente non credo che riuscirei a vivere in tanta solitudine. Io sono abituato a una grande città. A proposito: lei crede che in paese ci sia un posto per dormire? Un albergo o qualcosa di simile, per questa notte?"

"Per il dormire non si deve preoccupare: il signor Tobias ha detto che lei sarà mio ospite per tutto il tempo che vorrà. D'altronde a casa mia di camere ce ne sono in abbondanza: basterà sistemarne una, e magari darci una riscaldatina."





“Ah, eccovi arrivati. Come va? Avete fatto buon viaggio?”

Il signor Tobias, dalla veranda, diede loro il benvenuto mentre il giovane straniero si barcamenava, stavolta brillantemente, col suo pesante bagaglio.

“Un po’ lungo, ma non male. Sono Alex Willingston, piacere.”

“Io sono il signor Tobias.” Vigorosa stretta di mano. “Immagino che abbiate già avuto modo di conoscervi.”

“In un certo senso…”, fu la risposta di Alex, accompagnata da un’espressione poco entusiasta, sua e della signora Willingstone.

“Bene. Ora penso che sia il caso di farle visitare la villa. Vedrà, la troverà molto bella. Lasci pure qui la sua borsa.”

Iniziò una breve visita guidata attraverso le varie stanze della casa. Dopo il pianterreno, per la maggior parte caldo ed accogliente, si passò ai locali gelidi ed impolverati del primo e del secondo piano, quest’ultimo dal soffitto basso e insidioso. Il signor Tobias sembrava però non vedere né la polvere né gli altri evidenti segni di abbandono e trascuratezza, ma si soffermava a descrivere diversi dettagli dell’arredamento e dell’architettura, illustrando aneddoti, storia o curiosità legati a ciascuno di essi.

“Molto interessante”, pensava ogni volta tra sé Alex Willingston, concludendo però la sua valutazione di ogni camera con la considerazione che non avrebbe voluto passare lì la notte. Solo le stanze del pian terreno gli sembravano accettabilmente accoglienti.

“Che ne dice?", concluse il signor Tobias. "Certo una villa del genere alla periferia di Londra potrebbe valere dieci volte tanto. Comunque questa ha un valore intrinseco innegabile. E’ poi c’è l'allevamento di suini, e tutto il terreno intorno. Se vuole possiamo fare un salto a vederli anche subito."

“E’ tutto molto bello e interessante, ma non penso che mi fermerò qui più di qualche giorno. Perché invece non mi parla di qualcosa che mi riguarda di più, cioè di quella eredità per cui mi ha fatto venire?”

Il signor Tobias cambiò quasi colore e, rivolto alla signora Willingstone:

"Ma come: non gli hai spiegato niente?"

"No. Volevo che fossi tu a farlo. Sei molto più bravo. E poi ho capito subito che io e questo ragazzo non andiamo molto d'accordo."

"Oh, questo sinceramente mi dispiace. Niente da stupirsi: siamo pochissimi al mondo ad andare a genio alla vecchia Willingstone. Ma nulla è compromesso. Vediamo. Lei è volato fin qui in risposta ad una mia lettera per l'accettazione dell'eredità della signora Willingstone, non è vero?"

"Esattamente. La lettera ce l'ho qui da qualche parte, se vuole gliela mostro."

"Oh, non c'è bisogno. L'ho scritta io, la conosco benissimo. Allora, il fatto è semplice: lei ha di fronte a sé la signora Willingstone; e questa casa con tutto quanto annesso sono i suoi averi, per l'appunto l'oggetto dell'eredità."

"Ma… trattandosi di una eredità… pensavo che la signora Willingstone fosse morta!"

"No, no. Si vede che ha letto con poca attenzione. Non si parla da nessuna parte di avvenuto decesso. Solo di eredità e testamento. La signora non ha parenti prossimi in vita, e disponendo di un capitale non trascurabile mi ha commissionato la ricerca del più vicino parente disposto ad accettare le sue condizioni per diventare suo erede. Condizioni che poi si possono facilmente desumere leggendo la bozza di testamento allegata."

Il giovane Alex protestò: "No, la lettera non diceva questo. L'ho letta bene."

"Se vuole possiamo rivederla insieme. D'altronde io sono notaio, eredità e testamento sono argomenti in cui sono ferrato."

Anche la vecchia Willingstone cominciò a fare le sue rimostranze al signor Tobias: "Temevo che mi avresti trovato come erede uno straccione, uno che di mio avesse solo il nome e che sarebbe campato alle mie spalle per quanto tempo resta alla mia vita e anche oltre. Ed invece neanche quello: mi presenti un ragazzo che è talmente allocco da farsi venti ore di viaggio e andare dall'altra parte del mondo senza neanche capire perché. Il primo, dopo tanti rifiuti; e scommetto che non ce ne sarà un altro altrettanto babbeo. No, mi dispiace ma io a un tipo simile non lascio un bel niente."

"Voi mi state prendendo in giro", proseguì Alex. "Avete organizzato questo raggiro per truffarmi. Rivoglio indietro i soldi che ho speso, o vi farò causa. Vi denuncio e vi mando in galera."

"Stia calmo e sia ragionevole", ribatté il signor Tobias. "Se la mia lettera fosse chiara potremmo chiederne conferma alle altre otto persone che prima di lei hanno cortesemente declinato il mio invito. Io non ho intenzione di truffare nessuno: lei ha semplicemente frainteso quello che le ho scritto. Ma visto che ci si trova, rilegga con calma e rifletta bene. Potrebbe trovare la proposta davvero conveniente. La valutazione che ho fatto del patrimonio è sottostimata; e quanto vi si richiede per accettare l'eredità - cioè di spostare qui la vostra residenza e rimanerci finché la signora Willingstone resterà in vita - non è poi molto gravoso. Deve ritenersi fortunato ad aver ricevuto una simile proposta.”

Il giovane rimase un attimo in silenzio a riflettere, mentre la signora Willingstone continuava a borbottare: "No, io un babbeo e piantagrane simile come erede non lo voglio proprio."

“Si prenda tutto il tempo che le serve per riflettere”, proseguì il signor Tobias nonostante la contrarietà della signora. “Come scritto nella lettera, lei sarà ospite qui a nostre spese finché lo vorrà; in fondo in un certo senso fa parte della famiglia, anche se un po’ alla lontana. Ma quanto al rimborso del viaggio, se lo può togliere dalla testa."

“Forse sono stato un po’ precipitoso a venire qui", disse Alex quasi riflettendo tra sé. "Avevo sempre sognato di farmi una vacanza in Australia; ma rimanerci a vivere no, non credo che sia possibile. Anche perché tra qualche mese vorrei sposarmi, e la mia Camilla è molto attaccata alle sue radici.”

“Ci mancava solo uno smielato sentimentale”, continuò a lamentarsi la signora Willingstone, “e magari, invece che in balia di questo babbeo, tra un mese mi ritroverò nelle grinfie di una arpia sconosciuta. Lo dicevo, signor Tobias, che la cosa non poteva funzionare; almeno non in questi termini.”

Ma il signor Tobias, ignorandola, continuò. "Suvvia, Alex. Non c'è fretta. Ci rifletta bene. Chiami la sua fidanzata e glie ne parli: penso che abbia il diritto di sapere."

"E c'è un altro problema", proseguì Alex. "Io su una piccola somma in eredità ci facevo affidamento per tornare a casa. Lo davo per scontato. Così non so neanche se e come riuscirò a pagarmi il viaggio di ritorno, a meno di non rinunciare alla vacanza."

"Un motivo in più per parlare con la sua fidanzata. Vedrà che una soluzione si troverà. Anche perché qui un lavoretto stagionale lo si trova facilmente. Così si finanzierà la sua vacanza. A proposito: ottima scelta l'Australia, la tenga presente anche per il viaggio di nozze. Ha già in mente un programma, un itinerario?"

"Qualche idea ce l'avrei…"

"Perché sono in vacanza anch'io, in un certo senso. Se posso esserle d'aiuto in qualche cosa…"





Più tardi il signor Tobias riuscì a convincere Alex, che proprio non ne era entusiasta, a visitare i maiali e le terre annesse alla villa; ed il giorno seguente, nonostante la disapprovazione della signora Willingstone, lo convinse a farsi accompagnare da lui in un breve giro turistico della regione.





Il signor Tobias fece ritorno dopo quattro giorni, da solo. Riferì alla signora Willingstone di aver appurato che quel ragazzo effettivamente non faceva al caso loro, e di aver già spedito un'altra lettera al nominativo successivo della sua lista.

"Comunque questa volta è stato quasi divertente", le disse. "Almeno abbiamo visto una faccia nuova. E che faccia! Ti ricordi che espressione ha fatto quando ha capito che tu non eri morta?"

"E quando gli ho chiesto di aiutarmi a dar da mangiare ai maiali? Forse ti è sfuggita. Ma mai spassoso come quando è stato sopraffatto dall'odore di letame: mi stava quasi vomitando addosso!"

"Poveretto. In fondo è un bravo ragazzo."

"Appunto. Uno così non può essere mio parente neanche alla lontana. Se è davvero un mio parente, io sono …". Stava cercando un paragone adatto, ma fu il signor Tobias a trovarlo:

"… un'amabile, dolce vecchina".





Inaspettatamente, il giovane Alex, si rivide da quelle parti dopo oltre quattro mesi. Sembrava un altro: abbronzato, con una bella barba scura e vestito in modo casual. Arrivò a bordo di una vecchia moto da cross. con solo uno zainetto sulle spalle.

Anche nella villa sembrava che qualcosa stesse cambiando. La stradina di accesso, un tempo così fangosa, non sembrava più la stessa, e c'era un furgoncino carico di attrezzi parcheggiato davanti.

Bussò. "C'è nessuno?"

Aprì la porta una vispa morettina niente male, pensò Alex.

"In cosa posso aiutarla?"

"Cerco la signora Willingstone."

I due si guardarono con molto interesse. Lei - bassina, capelli lunghi lisci, occhi piccoli e pungenti - sembrava una di quelle persone perfettamente a loro agio in qualsiasi situazione, sempre, dovunque e con chiunque, e che emanano a chi sta intorno a loro questo armonico benessere. Anche lui, d'altronde, non era più impacciato come al suo arrivo in Australia, ed era molto cambiato in meglio non solo nell'aspetto fisico.

"E' dai suoi maiali. Se vuoi ti ci accompagno."

"Ti ringrazio. Ma non ti disturbare: so come arrivarci".

"Vieni", disse lei facendogli strada. In effetti, passando, sul retro i segni del cambiamento erano ancora più evidenti, constatò Alex. Oltre a variazioni di colori e forme dovuti alla diversa stagione, c'erano due nuovi casottini, un pergolato ed un pezzo di orto in più.




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Racconti Buonisti Marco Fogliani
Racconti Buonisti

Marco Fogliani

Тип: электронная книга

Жанр: Зарубежное фэнтези

Язык: на итальянском языке

Издательство: TEKTIME S.R.L.S. UNIPERSONALE

Дата публикации: 16.04.2024

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О книге: Una quindicina di racconti di vario genere, ma tutti assolutamente e rigorosamente con lieto fine garantito, anche se a volte improbabile.

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